In Appunti di Lettura

Trilogia di Beckett: “Malone muore” #2 pp.707-846

di Demetrio Paolin

[le pagine citate nel testo si riferiscono al meridiano Mondadori, Samuel Beckett Romanzi, teatro e televisione a cura di G. Frasca]

Partiamo dall’inizio ovvero dalla fine. La prima cosa che colpisce di Malone muore è il titolo, che nasconde in sé alcune particolarità proviamo a vederle. Un certo tipo di ermeneutica, penso a Gadamer o Heidegger, vede nell’enunciazione del linguaggio una sorta di risposta a una domanda il più delle volte implicita. Cioè quando diciamo: “Il cielo è azzurro”, in realtà non stiamo enunciando un fatto, ma rispondendo a una domanda: “Di che colore è il cielo?”. Ho l’impressione che qualcosa di simile succeda con questo titolo, che si carica quindi una certa dose di ambiguità. Il titolo, Malone muore, sembra la riposta al quesito Ma alla fine del libro cosa succede? Insomma siamo dalle parti in gioco metalinguistico che riduce la storia, ciò che accade al personaggio – cosa è la storia di un romanzo se non i fatti che via via accadano al personaggio/ ai personaggi principali? – al semplice titolo. Beckett in questo modo risolve, se vogliamo, la trama, la svuota: la trama, l’intreccio, la fabula, il capriccioso intrecciarsi di queste linee narrative logiche e cronologiche è risolto da Beckett con il titolo. Lettore, sembra dire lo scrittore irlandese, sappi che il protagonista alla fine morirà. Il tema del romanzo, la sua parabola narrativa sono già conclusi nel giro delle due parole del titolo. C’è da pensare, leggendolo, che Beckett abbia voluto giocare con un altro stereotipo, abbiamo visto in Molloy una delle strutture portanti della narrazione sia la narrativa di genere. Molloy è costruito come noir, come un giallo, soprattutto quando entra in scena Moran, che possiede in parte le caratteristiche dell’investigatore privato. Siamo, quindi, in Molloy nell’ambito del giallo che però  ha una conclusione aperta: Moran non arriva a trovare Molloy e torna in casa e inizia forse a scrivere la storia di Molloy per giustificare il suo comportamento. In questo caso SB ci fornisce al soluzione della storia subito: Malone muore.

Morire o finire. Aggiriamoci ancora intorno al titolo e alle prime pagine del romanzo, uno dei termini che viene più spesso detto dall’io narrante, che solo molto più av,anti nel racconto saperemo chiamarsi Malone, ma noi sempre complice il titolo, indubitabilmente chiamiamo così, sappiamo anzi che questo è il suo nome; comunque Malone/Io narrante usa più volte la parola “finire”. Ora morire e finire pur avendo un dato connotativo vicino, non sono la stessa cosa. È tipico dell’uomo il morire, è tipico delle cose finire: un uomo muore e un libro finisce. L’esempio non è, in questo caso neutro, ma è pensato con raziocinio, perché Malone parla di finire, cosa è che finisce? In che modo Malone finisce? Finiscono forse le sue parole, le sue azioni, finisce la sua vita, ma in questo caso Malone muore. Che rapporto intercorre tra queste due realtà? L’uomo si è trasformato in oggetto e l’oggetto finisce. Eppure questa ipotesi non mi convince, leggendo il libro non mi pare mai che Malone si reifichi, si faccia cosa, potrebbe esserci una diversa tensione, una più complessa relazione tra finire e morire. Per capire meglio proviamo a guardare a fondo la struttura narrativa della storia.

Lo spazio bianco.  Guardiamo le pagine che compongono la trilogia nel suo insieme: l’impressione è quella di trovarci davanti a un muro di parole, con il passaggio da Molloy, a Malone muore e da quest’ultimo a L’innominabile questa impressione aumenta. Quando guardo queste pagine mi viene in mente la poesia: la poesia lavora sugli spazi bianchi, gli a capo, la strutturazione dei versi, una vera e propria composizione, alcune volte architettonica, la poesia, certa poesia secondo novecentesca, è l’esatto opposto di queste pagine di Beckett. Cosa significa lo spazio bianco e cosa significa negare lo spazio bianco? Leggendo Beckett ho pensato più volte a Celan, e mi sono chiesto se mai negli anni i due si siano mai incrociati, visti, parlati, scritti e/o letti, non ho fatto nessuna ricerca in merito, perché non volevo che la oggettiva e fredda realtà dei fatti si sostituisse alla mia immaginazione; perché penso a Celan, mentre leggo Beckett?

La riposta stra nel rapporto tra la parola e lo spazio nella pagina, tra il nero della parola e il bianco della pagina. Nero e bianco sono in Celan da sempre una coppia distintiva del suo pensiero, pensiamo solo a Fuga di morte e al “nero latte”. Celan costruisce le sue parole intorno al bianco della pagina, il nero della parola detta si fa spazio nel bianco silenzio; Beckett lavora su qualcosa di simile, ma riempie l’intero bianco, lo satura con le parole. A proposito di questo, si veda la nota di Frasca al Meridiano, dove riferendosi alla composizione di Malone muore, ragiona sulla scelta di Beckett di considerare concluso il romanzo, nel momento in cui avesse riempito l’ultima pagina del quaderno su cui andava componendo la prima stesura. La scrittura, quindi, occupa uno spazio fisico, deve completare la pagina per esistere. Celan e Beckett mostrano ai nostri occhi, nel senso di tipograficamente, due modi di lottare con lo spazio bianco, con lo spazio del silenzio.

Silenzio di cosa?. Verrebbe da chiedere cosa è questo silenzio? A chi appartiene questo silenzio, cosa significa? I personaggi di Beckett, tutti, compreso il clownesco duo di Aspettando Godot, sono spesso vittime di violenza, di soprusi, di incarcerazioni. Abbiamo visto come l’uomo che Beckett racconta è principalmente l’uomo seviziato, l’essere umano, che esce vivo dal disastro della lunga guerra mondiale, è l’uomo entrato in trincea nel 1914 e uscito scheletrico da Auschwitz, dissolto nell’atmosfera a Hiroshima o liquefatto a Dresda (tra il 1942 e il 1945). È quello l’uomo che Beckett racconta nei suoi romanzi e nelle sue opere: l’assurdo della vita è il fatto che la vita in qualche modo continui dopo che tutto ciò è stato. Qualcosa di simile accade a Celan, lascio da parte, perché ci poterebbe lontano, il discorso sulla scrittura in una lingua altra, l’uomo di Celan è come l’uomo di Beckett, sopravvissuto a qualcosa di così enorme e gigante, che butta via ogni cosa, che rimette in gioco la sintassi, il significato, il suono stesso delle parole, le parole in Celan pare proprio che prendano spinta, che sbuchino dalla pagina bianca, che vengano strappate a un silenzio che pare essere il vero destino delle parole.

Sharazade. Cosa è questo silenzio? Che cosa è questo bianco che Celan cerca di puntellare con le parole e che Beckett riempie di lemmi, frasi, paragrafi e capitoli? Io penso che che sia il silenzio dei persecutori. Prendo questo spunto da un bellissimo libro di Escobar, edito alcuni anni fa da Il Mulino, Il silenzio dei persecutori ovvero Il coraggio di Sharazade. I persecutori non hanno bisogno di parole, hanno potere sul corpo di coloro che torturano, la tortura non può essere espressa a parole, può diventare grido disarticolato, rumore, digrigno, ma non è parola, non è sintassi (ovvero armonia), i persecutori godono del silenzio, vogliono il silenzio, la vittoria dei persecutori è la bancarotta della parola, non abbiamo parole per dire ciò che è stato, o le parole per dirlo suonano strane, inoffensive. Il bianco è il colore dei persecutori, il bianco di chi non ha lasciato tracce, non è causale che gli atti più gravi e compromettenti ad esempio dell’organizzazione dello sterminio non siano disponibili o siano rintracciabili a fatica: la persecuzione funziona meglio nel bianco cristallino del silenzio, il torturatore è asettico, perché ha a che fare con il corpo, con la parte muta&animale dell’uomo: l’uomo torturato viene privato della propria parola e poi del proprio corpo. Alla fine della tortura l’uomo riavrà il proprio corpo, dolorante, arreso, perduto, sfatto, ma non riavrà mai più la parola.

Cosa si può opporre a questo? Si chiede Escobar. La risposta sta nel racconto de Le mille e una notte, dove Sharazade racconta per posticipare la morte, per ingannare il sultano, per mettere tra sé e lo spazio bianco della tortura un spazio di parole: le parole, le storie che Sharazade racconta sono il riempimento di quel silenzio. C’è sia in Molloy che in Malone Muore, questa idea del racconto dentro il racconto, di narrare per ingannare la morte che giunge che, mi pare, riprenda chiaramente il topos di Sharazade: Malone, ancor di più di Molloy, è descritto come un uomo che racconta storie, come se la possibilità di narrare la storia allontanasse da sé tutto il male possibile. In questo senso Celan e Beckett, in maniera stilisticamente diversa, ma simile nella tensione morale della scrittura, si oppongono al bianco silenzio dei persecutori: scrivono, producono parole, queste parole, il fatto stesso che siano pronunciate e scritte, differiscono la morte, spostano lo spazio della tortura a alcuni momenti dopo.

Questo ci porta a comprendere come la scelta narrativa della storia dentro la storia, di un racconto che si rifrange in mille rivoli, lungi dall’essere mera scelta narratologica o gioco combinatorio, caro e anticipatorio di un certo postmodernismo, è in primo luogo una scelta ideologica, di visione del mondo, di sguardo ultimo e disperato sull’esistere quotidiano.

[continua]