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Francesca Bellucci

In Per il giusto verso

Lettera n. 1: Patrizia Cavalli

di Francesca Bellucci

La poesia di Patrizia Cavalli si muove nelle sue raccolte seguendo un tempo tutto suo. Tutto si muove sull’asse dell’interiorità, si insinua nelle crepe della vita e si calcifica. Patrizia Cavalli è stata una donna alla finestra, ma voltata di spalle. I suoi occhi si sono posati verso l’ombra della stanza della sua vita. Il velo della semplicità mostra, di là da quello, la complessità di un mondo umano e carnale, fatto di contatto tra il corpo e se stesso e tra questo e l’esterno, il modo in cui si muove nello spazio, come è in grado di frammentarsi sottopelle, pur sapendo di restare intatto.

Poco di me ricordo

Io che a me sempre ho pensato.

Mi scompaio come l’oggetto

Troppo a lungo guardato.

Ritornerò a dire la sua luminosa scomparsa.

(da Le mie poesie non cambieranno il mondo, 1974)

Le sue parole hanno dato voce a quel moto dell’animo inesprimibile, il silenzio del dolore, dell’immobilità di un amore consumato che si crogiola nella stasi dal passato, un moto che è fuggire e restare insieme.

Essere testimoni di se stessi

Sempre in propria compagnia

Mai lasciati soli in leggerezza

Doversi ascoltare sempre

In ogni avvenimento fisico chimico

Mentale, è questa la grande prova

L’esperienza, è questo il male.

(da Essere testimoni di se stessi, in Il cielo, 1981)

È questa la condanna della poesia: sapersi nel tempo, non riuscire a zittire il cambiamento o la fissità del cuore o, ancora, del corpo che vi si adegua in un ritmo a lui proprio.

Un altro è il mio progetto, la mia ambizione

È accogliere la lingua che mi è data

E, oltre il dolore muto, oltre il loquace

Suo significato, giocare alle parole

Immaginando, senza un’identità,

una visione

(da Datura, in Datura, 2013)

Due sono le “visioni” della Cavalli: il vedere e l’immaginare. E è l’una speculare all’altra. La prima immortala lo spazio che la circonda, è il foglio caduto o il bicchiere d’acqua di Adesso che il tempo è tutto mio, l’immobilità loquace che vivifica gli oggetti restituendoli alla dimensione sentimentale; la seconda sono le notti e i giorni caduti sul viso, la poetessa-geometra che conta e divide; ancor di più le ruote – allegria e tristezza – del carretto-vita di L’io singolare proprio mio. Il sentimento qui si proietta nell’immagine, ma è una proiezione che si muove nel corpo, tutto avviene dentro e le parole non sono che lo strabordare questa interiorità caotica che trova forma e ordine nell’immaginazione.

La Cavalli è una “poeta” complessa, che porta con sé il carattere novecentesco della poesia del reale, con quella spudoratezza di chi non teme la verità delle parole.

È lo specchio ridotto in frantumi, riassemblati e conservati nel cassetto della scrivania. Il tempo mobile dell’eternità umana, fatta di sentimenti instacabilmente irriducibili:

Muoiono i vivi e pure i morti muoiono,

morti che durano e morti che scompaiono

morti dimenticati per i nuovi morti

 –   Ho la faccia di chi deve morire?

Potrei risponderti: – Ognuno ha la faccia

di chi deve morire.

(da Pigre divinità e pigra sorte, 2006)

In La Seconda Repubblica delle Lettere/ Narrazioni

Necrologio di Salvo Montalbano

di Francesca Bellucci

Riccardino è solo formalmente il capitolo conclusivo del ciclo di romanzi sulle indagini del Commissario Montalbano: di fatto il romanzo si svincola dagli effetti che il tempo ha impresso sulla scrittura dell’autore e quindi sul personaggio.

         Da Riccardino emerge il lavoro narrativo che sottace ai personaggi e alle storie che abitano: rompe la ben nota terza parete teatrale o l’altrettanto noto “cielo di carta”: unisce le fila che gli anni letterari di Salvo Montalbano, ontologicamente eterni oltre le influenze che la caducità impone ad ogni autore, hanno intessuto con i lettori e i telespettatori. È una resa dei conti, un tornare indietro nel tempo a quando papà Camilleri ha plasmato il personaggio letterario e accettato quello televisivo, costola tenace e, in virtù di ciò, padrona di un’autonomia che fa del Salvo Montalbano televisivo il baluardo del successo dei romanzi.

          Salvo Montalbano non esiste come unica entità adattata a due contesti di trasmissione narrativa tra loro eterogenei, ma è il personaggio letterario e quello televisivo, ognuno dei quali abita la sua dimensione con tratti propri. Il Montalbano letterario, più schivo e riottoso del televisivo, è tutto chiuso nel suo mondo. Una dimensione circoscritta tra un pupo e l’altro della tradizione siciliana; tra giochi delle parti e assiomi fissi di una narrativa costante e per questo familiare. Il Montalbano che per anni ha campeggiato le classifiche editoriali è nato uomo e da uomo ha combattuto il tempo che passa, le avversità della sua terra che è diventata terra di tutti, le contraddizioni e le discontinuità che hanno trovato forma tra le azioni costanti dei personaggi del suo universo. Il Montalbano televisivo domina una dimensione dai confini ben più definiti rispetto a quello letterario ma assai più impercettibili, tanto da far vedere all’interno, da permettere agli spettatori di entrarvi e diventarne parte non in ragione di una partecipazione fattiva ma di un’affezione che fa degli stereotipi camilleriani un odore familiare. Il filo rosso che unisce i due commissari e le cui nervature fanno da struttura all’ultimo romanzo pubblicato seguono però un percorso che in due momenti precisi della scrittura di Camilleri si definisce ontologicamente: Il campo del vasaio del 2008 e Il metodo Catalanotti,pubblicato dieci anni più tardi.

          L’evoluzione o l’involuzione di Salvo Montalbano esula da Riccardino e va rintracciata proprio nelle pubblicazioni del 2018 e del 2019, quando Sellerio dà alle stampe Il metodo Catalanotti e Il cuoco dell’Alcyon. A questo punto la dimensione abitata da Montalbano si frantuma sotto l’incedere di una forza temporale, quella che abita la realtà, a cui il mondo di stereotipi camilleriani risponde sgretolandosi, elevandosi dalle storie e assumendo i tratti peculiari della commedia e della farsa. Le maschere si degradano assumendo connotazioni macchiettistiche che traspongono le storie in una dimensione carnevalesca, come se uscissero da quelle dinamiche narrative per le quali un personaggio non sa di essere personaggio ma si confonde tra le voci degli uomini con lo status di “persona letteraria”.

          Con Il metodo Catalanotti vediamo un Montalbano che dismette le vesti del personaggio per percorrere la strada dell’uomo, inciampando tra una contraddizione e l’altra della vita e dell’amore. Il tradimento di Livia non funge solo da plot twist della trama, ma è fondamentale alla sua paradossale umanizzazione. Sin da La forma dell’acqua ci vengono presentati quei piccoli vizi inconfondibili di Montalbano, quei riti narrativi che la trasposizione televisiva fissa in immagini consolidate negli anni: la prodromica chiamata di Catarella, i pizzini di Fazio, Augello il femminaro o ancora Pasquano e la sua ruvidezza o la sua passione per i dolci siciliani. Tutte queste connotazioni, che si configurano come riti narrativi, delineano una dimensione sì latente per la forma di trasmissione, la scrittura e la fiction, ma assai più poderosa del genere letterario a cui i romanzi e le sceneggiature appartengono, quella del teatro dei pupi. E pupi della tradizione siciliana sono i personaggi de Il cuoco dell’Alcyon, un metateatro in fieri in cui la messa in scena si intreccia con la trama, scomponendo gli stadi narrativi, i personaggi, mettendo in discussione la pacata e rassicurante fissità dei personaggi. Il commissario degli esordi risulta essere assai più personaggio macchinoso rispetto alle vesti indossate negli ultimi anni, vesti fisse ma pregne di variabili in divenire. Le sue azioni, nei primi dieci anni di pubblicazioni, si riassumono in tre parole chiave prive di sfumature: sicilianità, curiosità e giustizia. Ognuno di questi termini si fa canone di un approccio vitale continuativo. Questa continuità è il vessillo di tutte le pubblicazioni che vanno dal 1994 al 2008 quando Sellerio dà alle stampe Il campo del vasaio: Montalbano si abbandona al suo teatro, fissa la sua storia in metafora che, iniziata con la trama a riferimento biblico, approderà infine a Il metodo Catalanotti.          Per dieci anni l’esattezza delle sue indagini si inerpica per macro-riferimenti, similitudini; la narrazione si fa teatrale fin quasi al manieristico. Le azioni dei personaggi, quelle di uso comune al tessuto narrativo, diventano elementi utili a cadenzare il tempo per far seguire picchi sempre più complessi e in lotta tra il microcosmo della narrazione e il macrocosmo della realtà che ha risucchiato Camilleri oltre il filtro dello schermo che ha accompagnato e influenzato tutta la sua vita. Camilleri e Montalbano fanno i conti con la realtà, con l’addio ai propri mondi, con il tempo. Con la morte il primo e l’eternità il secondo.