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Antonio R. Daniele

In Thema di Berio

A CHRISTMAS GIFT FOR YOU FROM PHIL SPECTOR. 60 ANNI DI RIVOLUZIONE POP – IV e ultima parte

di Alessandro Ciniero

Struttura 

“A Christmas Gift For You” è composto da 13 canzoni, delle quali 12 sono cover di brani storici (composti tra il 1818 e il 1952), più una canzone originale composta da Jeff Barry, Ellie Greenwich e Phil Spector dal titolo “Christmas (Baby Please Come Home)”. 

La tracklist è la seguente:

No.Song TitleArtist
1White ChristmasDarlene Love
2Frosty the SnowmanThe Ronettes
3The Bells of St. Mary’sBob B. Soxx & the Blue Jeans
4Santa Claus Is Coming to TownThe Crystals
5Sleigh RideThe Ronettes
6Marshmallow WorldDarlene Love
7I Saw Mommy Kissing Santa ClausThe Ronettes
8Rudolph the Red-Nosed ReindeerThe Crystals
9Winter WonderlandDarlene Love
10Parade of the Wooden SoldiersThe Crystals
11Christmas (Baby Please Come Home)Darlene Love
12Here Comes Santa ClausBob B. Soxx & the Blue Jeans
13Silent NightPhil Spector and Artists

Commento soggettivo

Immaginate di essere a casa coi parenti la vigilia di Natale. Manca un’ora al cenone. Decidete di mettere un disco natalizio, per questa volta non optate per Michael Bublé. 

“White Christmas” inizia e per la prima volta sentite un backbeat dietro che spinge i fiati a ritmo R&B mentre la voce di Darlene Love si staglia sopra. Tocchi di archi qua e là e campanelle non fanno perdere l’atmosfera natalizia. Non si ha il tempo di capire che sta succedendo quando parte “Frosty the Snowman”. Una batteria roboante, shakers e sonagli non danno tregua, contrastando la dolcezza del pizzicato dei violini e la voce suadente di Ronnie Bennett. Quattro rintocchi di campane ecclesiastiche annunciano “The Bells of St. Mary’s”, il Wall of Sound non fa comprendere cosa sta accadendo là sotto ma sviluppa pian piano la canzone fino all’incredibile climax dove la voce di Bobby Sheen si unisce a quella di Darlene Love, quei fill di batteria ti fanno pulsare l’anima. Un intro parlato di Dolores Brooks che riferisce ad un certo figliolo Jimmy di aver parlato con Babbo Natale e parte “Santa Claus Is Coming to Town” con un assolo formidabile di sassofono e giostrando tra percussioni, giocattoli, pianoforti, tutti che gioiscono con te per l’arrivo del Natale. “Sleigh Ride” usa le percussioni per ricreare il galoppo delle renne mentre i fiati e gli archi vanno in contrappunto. Dopo questo viaggio, un quartetto di archi introduce “Marshmallow World” con due assoli (sax e trombe) e la backing track che parte, si ferma, riparte e con essa il tuo cuore. Dopo aver udito un bacio proibito, “I Saw Mommy Kissing Santa Claus” segue un ritmo quasi da marcia militare mentre Ronnie non si capacita di aver visto sua madre baciare Babbo Natale. Una chitarra doppiata introduce “Rudolph the Red-Nosed Reindeer”, un’opera drammatica a suon di nacchere e timpani. I cori creano una profondità incredibile (tutto in mono). Un intro memorabile apre “Winter Wonderland” con quel basso che viene rinforzato dalle campane tubolari e il piano che risponde melodicamente. Il legato degli archi si mescola col pizzicato mentre tu sei stravaccato sul divano a mangiare l’ennesimo pezzo di torrone. Un’altra marcia militare “Parade of the Wooden Soldiers” con squilli di trombe, uno start and stop che nemmeno le auto moderne hanno, woodblock che richiamano ai soldatini di legno. Tutte queste canzoni già trascorse sono in realtà una preparazione psicologica al capolavoro dell’album. “Christmas (Baby Please Come Home)” è semplicemente incredibile, Darlene Love aspetta il ritorno messianico del suo amato la notte di Natale, un dramma che si consuma in tre minuti e ti porta in alto nel paradiso con un climax da brividi dove pure Leon Russell non si contiene più e picchia i tasti del pianoforte fino a svenire. Non sapete quante volte ho pianto dopo aver sentito questa traccia. Il miracolo si compie, nulla è più come prima. “Here Comes Santa Claus” rassicura l’ascoltatore facendolo tornare sulla Terra rinato. Infine il commiato “Silent Night” dove Phil Spector ringrazia gli ascoltatori e gli augura un buon Natale e felice anno nuovo mentre i cori angelici creano un’atmosfera religiosa e contemplativa.

Impatto ed eredità

Basta ascoltare “All I Want For Christmas Is You” di Mariah Carey per osservare quanto questo disco abbia impattato. La traccia può essere considerata come il più grande omaggio a “A Christmas Gift For You”; la produzione è un Wall of Sound aggiornato agli anni ‘90. 

Ascoltando musica natalizia registrata dopo il 1963, ho notato come gli stili di produzione sono principalmente due: uno che richiama allo swing dei crooner (Bing Crosby, Frank Sinatra, Dean Martin, Michael Bublé) e uno pop-rock nato sostanzialmente con quest’album, diventando un classico ed entrando ogni anno in classifica negli Stati Uniti (posizione no.8 della Billboard 200 nel 2022).

Un altro aspetto da notare consiste nel fatto che “A Christmas Gift For You” è un producer album, un disco non di un artista ma di un produttore che sfoggia i suoi artisti della sua etichetta. Una assoluta novità all’epoca che è diventata pratica comune nella musica contemporanea fatta di produttori-artisti come Phil Spector: alcuni esempi sono “OBE” di MACE e “Produced by Charlie Charles” di Charlie Charles.

Le canzoni più popolari sono “Sleigh Ride” e “Christmas (Baby Please Come Home)”, quest’ultima diventata uno standard a tutti gli effetti a partire dagli anni ‘80. 

Lo stesso Spector co-produsse un’altra leggendaria canzone natalizia: “Happy Xmas (War is Over)” di John Lennon nel 1971. Anche in questo caso, il successo non fu immediato ma postumo. 

Concludo con una frase di Francesco Paolo Ferrotti :”[] forse possiamo immaginare quale sarebbe stato l’impatto se ‘A Christmas Gift For You’ avesse avuto a suo tempo la promozione ed il successo che meritava. Eppure, se fosse andata diversamente, forse oggi non ne parleremmo come di un album magicamente fuori dal tempo, protagonista di uno tra i più leggendari capitoli della storia del rock.”

Conclusione

60 anni dopo la rivoluzione, Cher ha rilasciato il suo primo album natalizio dal titolo “Christmas” debuttando alla posizione 32 della classifica americana. Tra le tracce dell’album c’è “Christmas (Baby Please Come Home)” duettata con Darlene Love. Immaginate queste due ragazzine cantare insieme nel 1963 una canzone nuova, non avendo idea della portata leggendaria che le avrebbe consegnate alla storia. Ora, nel 2023, la ricantano con tutto il peso delle lore vite, in un mondo che cambia ad una velocità disarmante, dove la musica che conta le ha assegnate all’immortalità. 

Grazie a tutti quelli che hanno sopportato le mie fisse su Phil Spector e che sono arrivati fin qui. Buon Natale e felice anno nuovo!

Link utili

Ascolto dell’album su Spotify

https://open.spotify.com/intl-it/album/2kzkwgOFAtRsDsas5Hi0Qu?si=l1X8OttqQkeo4FRYhjv-gA

Ascolto delle sessions 

PHIL SPECTOR / RONETTES – FROSTY & SLEIGH RIDE strings overdub

PHIL SPECTOR  – SANTA CLAUS IS COMING TO TOWN session

Interviste sull’album natalizio

Phil Spector Interview In 1972 Talking About His Christmas Album

DARLENE LOVE remembers the 1963 Philles Christmas recording sessions at Gold Star Studios.

The Wrecking Crew: Phil Spector

In Thema di Berio

A CHRISTMAS GIFT FOR YOU FROM PHIL SPECTOR. 60 ANNI DI RIVOLUZIONE POP – III parte

di Alessandro Ciniero

Registrazione e pubblicazione
Una volta radunati tutti quanti, Phil Spector prenotò lo studio A dei Gold Star Studios a Los Angeles, i suoi studi di registrazione preferiti. La tecnologia all’epoca comprendeva una console di missaggio con 12 input e EQ, delay, un registratore a nastro a 3 tracce Ampex 350 e le celeberrime camere di riverberazione che Phil amava molto. 
Le sessioni di registrazione durarono due mesi, una follia pensando che il primo album dei Beatles, uscito quello stesso anno, fu registrato in un solo giorno. Inoltre ebbe un costo che si aggirava intorno ai 50000 $ (502730 $ nel 2023), una cifra esorbitante da investire in un album all’epoca. 
Inoltre il tutto avveniva tra Agosto e Settembre, nella piena estate californiana. Spector, amante del freddo newyorkese, teneva accesa l’aria condizionata in studio tutto il tempo. 
Leggendo e ascoltando varie interviste di chi ha partecipato alla realizzazione del disco si può notare come le sessioni siano state molto faticose, grazie anche all’estremo perfezionismo di Spector e della sua riluttanza a dare pause (per evitare che i microfoni venissero spostati). Larry Levine :” L’album natalizio è un periodo che non ricordo con piacere. Lavoravo 15-16 ore al giorno ogni giorno”.
Dolores Brooks :”Iniziavo alle 13 e finivo all’1 di notte; all’epoca avevo 16 anni, poteva essere considerato sfruttamento minorile”. Cher :”Stavamo sempre in studio. Tornavo a casa per farmi una doccia e dormire per poi ritornare. Mi chiedevo -Come fanno tutte queste persone più anziane di me a reggere?!-”. 
Darlene Love:” Nonostante eravamo stremati, il disco possiede un’energia incredibile”.
Brian Wilson, compositore e leader dei Beach Boys, tentò di partecipare alle registrazioni, suonando il pianoforte in “Santa Claus Is Coming To Town” ma la performance non venne giudicata positivamente da Spector.
“A Christmas Gift For You” venne rilasciato il 22 novembre 1963. Al primo colpo, questa data può sembrare insignificante, specialmente per gli italiani. Tuttavia, quello stesso giorno, il presidente degli Stati Uniti John F. Kennedy venne ucciso a Dallas con due colpi di fucile da Lee Harvey Oswald. L’intera nazione entrò in lutto ed i festeggiamenti natalizi furono annullati. L’album vendette pochissimo e lo stesso Phil Spector, poco dopo, lo ritirò dal mercato. 
L’insuccesso dell’album fu il primo colpo d’arresto all’incredibile ascesa di Phil Spector nell’industria discografica. Un secondo colpo più potente arrivò nel 1966 quando il singolo “River Deep-Mountain High” con Ike & Tina Turner, da lui prodotto, fu flop in America, inducendo Phil Spector a chiudere la Philles Records e a ritirarsi temporaneamente all’età di 26 anni. 
Nonostante ciò, “A Christmas Gift For You” iniziò ad essere sempre più richiesto dalle radio e acquisì un status di leggenda tale che venne ristampato dalla Apple Records nel 1972 con il titolo “Phil Spector’s Christmas Album” e ottenendo finalmente il successo che meritava.
Guida all’ascolto
“È possibile trattare dodici canzoni natalizie con la stessa emozione del materiale pop originale di oggi, cantate da quattro dei più grandi artisti pop del paese, prodotte con lo stesso sentimento e suono che si trova nei singoli di successo di questi artisti, senza perdere per un momento il sentimento del Natale e senza distruggere o invadere la sensibilità e la bellezza che circonda tutta la grande musica natalizia? Fino ad oggi, forse no!” 
(“Can twelve Christmas songs be treated with the same excitement as is the original pop material of today, sung by four of the greatest pop artists in the country, produced with the same feeling and sound that is found on the hit singles of these artists, without losing for a moment the feeling of Christmas and without destroying or invading the sensitivity and the beauty that surrounds all of the great Christmas music? Until now, perhaps not!”)
Mai tali parole, scritte da Phil Spector sul retro della copertina del disco, furono tanto azzeccate per esprimere l’obiettivo e la grandezza dell’album. 

Wall of Sound
Precedentemente, ho accennato diverse volte ad un sound distintivo di Phil Spector, parte integrante della sua innovazione, rivoluzione e successo musicale. Tale stile di produzione è stato denominato “Wall of Sound”; in questo paragrafo cercherò di spiegarlo brevemente in maniera esaustiva.
Phil Spector era amante del jazz, del rock ‘n’ roll e di Richard Wagner. Le opere di Wagner sono caratterizzate da complesse texture musicali, orchestrazione e armonie opulente volte a raggiungere un’emozione intensa secondo la sua teoria del “Gesamtkunstwerk” (opera d’arte totale). Inoltre, esse hanno una durata che si estende per diverse ore.
Spector aveva una media di tre minuti per riuscire a raggiungere quella stessa emozione nelle sue canzoni. L’obiettivo era di sfruttare le possibilità sonore e tecnologiche dello studio di registrazione (inteso fino a quel momento come un mero ambiente dove registrare una performance) per creare una inusuale densità e profondità sonora propria della musica sinfonica classica applicata al pop. 
Spector spiegò in un’intervista nel 1964 :”Stavo cercando un sound, un sound così potente che se il materiale non fosse stato il migliore, il sound avrebbe trascinato il disco. Era un caso di aggiungere, aumentare. Tutto è incastrato insieme come un puzzle” (“I was looking for a sound, a sound so strong that if the material was not the greatest, the sound would carry the record. It was a case of augmenting, augmenting. It all fits together like a jigsaw.”)
Egli stesso lo definì come “un approccio Wagneriano al rock ‘n’ roll, piccole sinfonie per adolescenti”. Per ottenere il Wall of Sound, gli arrangiamenti di Spector richiedevano grandi ensemble (compresi alcuni strumenti non generalmente utilizzati per suonare in gruppo, come le chitarre elettriche e acustiche), con strumenti multipli che raddoppiavano o triplicavano molte delle parti per creare un tono più pieno e ricco. Ad esempio, Spector spesso duplicava una parte suonata da un pianoforte acustico con un pianoforte elettrico e un clavicembalo. Mixati in un certo modo, i tre strumenti sarebbero stati indistinguibili per l’ascoltatore. 
Tra le altre caratteristiche del sound, Spector incorporò una serie di strumenti orchestrali (archi, fiati, ottoni e percussioni) non precedentemente associati alla musica pop giovanile. Il riverbero delle echo chambers viene utilizzato per incrementare la profondità dei vari layer sonori e creare consistenza. 
La complessità della tecnica non aveva precedenti nel campo della produzione sonora per la musica popolare. Secondo Brian Wilson, leader dei Beach Boys, che utilizzò ampiamente la formula: “Negli anni ’40 e ’50, gli arrangiamenti erano considerati ‘OK qui, ascolta quel corno francese’ o ‘ascolta questa sezione d’archi ora’. Era tutto un suono definito. Non c’erano combinazioni di suoni e, con l’avvento di Phil Spector, abbiamo trovato combinazioni di suoni, le quali – scientificamente parlando – sono un aspetto incredibile della produzione sonora”.
Il master finale delle canzoni era creato per avere la massima resa tramite le casse delle radio AM, dei jukebox e delle automobili, le quali possiedevano una limitata risposta in frequenza concentrata nella banda delle medie. 
Le tracce erano in mono poichè Phil Spector credeva che lo stereo avrebbe sconvolto quell’equilibrio del mix, riducendo l’impatto sonoro. La stereofonia era ancora agli albori in quegli anni. 
La portata di rinnovamento che caratterizzò il Wall of Sound non fu accettata subito nell’ambiente dei produttori e degli ingegneri del suono. Tuttora, nell’industria musicale, ha una folta schiera di detrattori, grazie anche al paradigma “less is more” che si è imposto come trend nelle produzioni musicali e nel mondo artistico in generale. 
Tuttavia, la sua influenza continua a pervadere il pop e il rock e di ciò parleremo nel capitolo successivo

In Balloon

Conversazioni sul fumetto a partire da Un bracciale di stelle di Umberto Mentana e Giuseppe Guida

di Carmen Rampino

Ci sono immagini che prendono il loro alito di vita dalle parole.

Ci sono parole che si animano grazie alle immagini.

Ci sono immagini che non solo rendono la parola più incisiva, ma la accarezzano dolcemente, diventando indispensabili per essa, affinché si possano esprimere concetti che, in altri modi, difficilmente potrebbero esprimersi.

Ci sono molte parole mute e paralizzate se non hanno il supporto delle immagini.

Il miracolo che nasce quando questi due linguaggi si incontrano è storia, precisamente una storia, quella del graphic novel. Definito da Stefano Calabrese ed Elena Zagaglia come «uno dei fenomeni più straordinari della letteratura contemporanea» (Calabrese–Zagaglia 2017, p. 7), l’emergere del graphic novel ha rappresentato una vera e propria rivoluzione. Per avvicinarci sempre più all’interno del laboratorio artistico di quest’arte senza tempo, abbiamo approfittato della recente pubblicazione (novembre 2023) per La Ruota Edizioni di Un bracciale di stelle (Mentana-Guida 2023), graphic novel scritto da Umberto Mentana e disegnato da Giuseppe Guida, per analizzare più da vicino i ferri di un mestiere che richiede una fatica e una perizia da orafo o miniaturista. In questo caso si è trattato di un lavoro durato due anni. Come ci ha spiegato il disegnatore Giuseppe Guida, l’opera è una particolare trasposizione a fumetti di un libro del 2019, Io mi dono,della giornalista foggiana Michela Magnifico, la quale collabora con l’associazione AIL (Associazione italiana contro le leucemie-linfomi e mieloma). Infatti, il fumetto pone al centro le storie vere di malati e volontari dell’associazione, narrate all’interno della cornice finzionale che vede la giovane giornalista Greta imbattersi nell’associazione AIL di Foggia, venendone travolta e cambiata per sempre attraverso le storie di dolore, forza, lotta e resistenza che verrà a conoscere. Se Io mi dono era un libro dossier contenente le storie vere dell’associazione AIL di Foggia, la trasposizione a fumetti, con un pizzico di fantasia, riesce forse in maniera ancora più calda e penetrante ad arrivare al cuore dei lettori attraverso i colori, le metafore disegnate e le immagini che stringono la gola e si attaccano alla pelle del lettore, come quella della morte, non così perfida come ci si aspetterebbe, ma una cara morte, quasi eco buzzatiano del Poema a fumetti del ’69.

L’AIL sezione di Foggia è la prima in Italia ad aver deciso di affidare al fumetto la possibilità di narrare la sua storia, proprio con il preciso scopo di arrivare a quante più persone possibili. Tale scelta è estremamente eloquente dal punto di vista del medium e del momento florido che sta vivendo. Il fumetto si configura sempre più come luogo in grado di sensibilizzare, divulgare senza essere didascalico, un vero e proprio strumento politico trasversale. In questo caso al centro ci sono i temi del volontariato, dell’altruismo, dell’associazionismo, temi che hanno un’immediata ricaduta sociale. Come ci conferma Guida, negli ultimi 10 anni il fumetto è entrato nelle scuole, in cui vengono abitualmente adottati testi sull’antimafia o il razzismo a fumetti. Da strumento considerato nocivo per le giovani generazioni, si è dunque arrivati alla convinzione che non solo con tale linguaggio si possa trattare qualunque argomento, ma anche in maniera più efficace, incisiva e toccante. Per approfondire meglio i segreti di quest’arte quasi ossimorica, quella che può fare critica sociale, però toccando le corde più profonde della nostra emotività, quella che divulga in maniera gentile, ma allo stesso tempo ribelle e disubbidiente, e per approfondire la sfida della riscrittura trasformando un libro di non fiction in un libro di fiction, abbiamo incontrato direttamente i due creatori e conversato con loro sul progetto realizzato e sulle sorti del fumetto.

Ciao, potete raccontarmi come è nato questo progetto?

G.: Il progetto nasce dall’associazione AIL di Foggia. Io sono stato contattato da Michela Magnifico, giornalista di TeleFoggia, attiva collaboratrice dell’associazione e autrice di Io mi dono del 2019, da cui è tratto il fumetto. Esattamente, l’idea di produrre un fumetto è nata ad un primo evento AIL al Teatro Giordano, in cui io disegnavo dal vivo. Ho conosciuto lì tutta l’AIL e, in particolar modo, Michela, che mi ha lanciato la proposta. Quindi, conoscendo Umberto, e intuendo poi anche la struttura che poteva e doveva avere la storia, abbiamo iniziato a collaborare.

Se si tratta di una trasposizione a fumetti del libro di Michela Magnifico Io mi dono (2019), perché realizzare un fumetto da un libro già esistente?

G.: Perché loro volevano dare continuità al messaggio dell’associazione arrivando ai giovani. Il mezzo più efficace qual è? La lettura di un fumetto.

Quale tecnica è stata utilizzata per la parte grafica?

G.: In questo lavoro io ho riposto il mio stile, il mio tratto, che non è realistico, ma collocabile tra il cartoon e il grottesco. Conoscendoci, Umberto mi ha lasciato la libertà di potermi muovere e insieme abbiamo cercato di dare continuità allo stile, alla dinamica e soprattutto alla colorazione, scelta particolare perché abbiamo optato per questo turchese/celeste, un colore di speranza soprattutto per chi ha sofferto, in contrasto con il tradizionale bianco e nero, proprio per far trasparire anche un senso di leggerezza. Questa costante attenzione per i dettagli spiega anche perché ci siano voluti più anni per portare a termine il progetto.

Effettivamente si vede che ogni piccolissimo elemento è frutto di una scelta mai casuale. Ma è stato fatto in digitale?

G.: Sì, io lavoro in digitale da un anno e mezzo più o meno.

E invece a livello linguistico che lavoro è stato fatto? E come, in un secondo momento, la sceneggiatura e la parte grafica sono state messe insieme? Come è stato mescolare parole e immagini affinché diventassero una cosa sola?

U: Tutto il discorso è partito da un libro che non era un romanzo o un libro di finzione ma un libro reportage, un libro dossier di testimonianze in cui sono riportate le varie vicissitudini sia dei malati che dei volontari, senza un vero e proprio filo narrativo. Io poi ho operato un lavoro di traduzione attraverso le immagini dando una continuità narrativa. Quindi il libro di raccolta di testimonianze della giornalista Michela Magnifico, intitolato Io mi dono, adesso ha dato vita ad un’altra cosa, che ha un’altra natura. Da lì io ho cercato di selezionare le testimonianze, quelle un po’ più “filmabili”, cioè quelle che potevano essere benissimo rese per immagini, e da quelle poi ho cercato una continuità finzionale attraverso la creazione di Greta, personaggio di mia invenzione. Greta è una giornalista che arriva un bel giorno nell’AIL di Foggia e scopre una realtà totalmente nuova, fatta di persone che lottano, ma anche di volontari che praticamente si applicano anima e corpo per trovare una soluzione e alleggerire vite. Accanto a questo, nel libro compaiono tante altre situazioni anche visivamente interessanti, come la malattia che si personifica o la morte, che pure ha una certa sensibilità per gli affari dei vivi e non è connotata in maniera negativa, anzi vi è tutta una parte che ho chiamato proprio I doni della morte, citando, in un certo senso, Harry Potter. Poi si è lavorato sulle singole immagini e sulle singole inquadrature: in fondo lo sceneggiatore funziona anche un po’ da regista nel fumetto, perché a differenza del regista cinematografico e dello sceneggiatore cinematografico che sono figure staccate, nel fumetto c’è un connubio delle due.

Quindi le redini ce le avevi tu di fatto?

U.: Sì, della parte narrativa sì. Io lavoro con un approccio molto visivo anche nella creazione dei testi. Infatti non scrivo solo la sceneggiatura con le battute, ma lavoro sulle immagini, sugli storyboard. Quindi lavoro già disegnando qualcosina abbozzato (perché sono totalmente incapace di disegnare) proprio per vedere l’impatto della tavola, il ritmo, il montaggio. Da lì faccio tutto un fumetto muto. Questo è il mio modo di lavorare, ma ci sono altri sceneggiatori che sono molto narrativi perché provengono dal romanzo. Io, provenendo dalla sceneggiatura cinematografica, dal cinema e da produzioni video, ho un approccio visivo, ma non c’è un modo giusto o sbagliato di lavorare. Però di base si parte da questo libro che non era narrativo e si è cercato di dare una continuità. Infatti si presenta come se fosse diviso un po’ in capitoli perché ci sono tante storie che si intrecciano e poi si riuniscono in un cerchio, il bracciale di stelle appunto.

E poi questo storyboard provvisorio viene dato a Giuseppe?

U: Sì, che lo lavora a seconda del suo stile, mantenendo un po’ le mie indicazioni, ma anche inserendovi del suo.

E in questa fase tu hai già scritto i testi definitivi?

U.: In questa fase dipende anche dalle richieste della casa editrice, perché dobbiamo sempre tener conto della sua revisione. Se chiedono già di inviare la sceneggiatura con i testi sì, però di base a Giuseppe potevo anche inviare a scaglioni degli storyboard provvisori.

Forse è anche più difficile svolgendo in due il lavoro?

U.: Sono lavori diversi secondo me, perché il disegnatore ha un suo approccio, che è diverso da quello del narratore. Poi, ovviamente, ci sono anche, pensiamo a Zerocalcare o Gipi, disegnatori che sono pure autori, ma loro hanno un approccio da narratori, nel senso che sì, sono anche bravissimi disegnatori, ma il loro obiettivo è soprattutto narrare la storia. Secondo me chi è realmente narratore si deve veicolare verso la parte narrativa che è anche una parte per immagini, perché lo sceneggiatore a fumetti lavora di sintesi, cioè una immagine deve già narrare qualcosa, non ci deve essere necessariamente il testo che deve spiegare. Affiancando semplicemente una immagine all’altra ci deve essere già una natura di progresso della storia.

Oggi non solo il fumetto ha molta visibilità, ma sempre più sembra quasi l’unico medium in grado di rimanere un cantuccio di sensibilità, impegno, quasi di “militanza”. Quanto è importante il fumetto per diffondere messaggi delicati come questo? La sua ibrida e doppia natura in qualche modo riesce ad essere più incisiva? Perché si sceglie proprio questo medium?

U.: Secondo me è cambiato il modo di recepire proprio la cultura. Siamo nella civiltà delle immagini, del successo della serialità televisiva, che ha un potenziale meno registico ma più da scrittori. Siamo continuamente circondati da immagini in movimento, da disegni, da foto, quindi questo è il modo non solo per avvicinare le nuove generazioni, ma in generale fa più presa perché la cultura del tempo è cambiata. Il cosiddetto Zeitgeist è cambiato perché siamo circondati da immagini.

Se non ho capito male, a voi è stato chiesto di fare questo progetto. Da ciò ci si poteva aspettare che la questione potesse essere affrontata come una sorta di sovrastruttura imposta dall’esterno quasi in modo forzato e soprattutto didascalico, eppure sembra che il tema lo abbiate fatto vostro, diventando a tutti gli effetti un bisogno personale. Dunque, quale rapporto, prima di tutto a livello umano, e poi artistico, vi lega alla causa?

U: Alla fine commissionato o non commissionato, uno è libero sempre di accettare o meno un progetto. Siamo autori, abbiamo una certa sensibilità per alcuni temi e per altri no. Questo progetto, parlo per me personalmente, era interessante, anche al di là del tema trattato, per la sfida di traduzione, traduzione da un libro che non era narrativo a una trasposizione in immagini. Era una nuova sfida che non avevo mai affrontato. Solitamente io scrivo su soggetti totalmente originali, quindi di mia invenzione, in questo caso invece si tratta di un soggetto solo parzialmente di mia invenzione, perché è tutto un gioco di puzzle, di incastri. Però mi piaceva l’idea di fare un riadattamento a fumetti.

G.: Se il progetto è nato è sicuramente perché ci ha emozionati un po’ tutti profondamente. Questo è il mio primo progetto che affronta una tematica così delicata, soprattutto poi nel come è stata interpretata nei disegni: pensiamo alla rappresentazione della morte. Spesso si leggono fumetti fantasy o horror, in cui il tema viene trattato con un’altra metodologia tecnica. In questo caso si è cercata una modalità tale che anche un bambino può avere un approccio emozionante, simpatico e non duro o forte. Aggiungo che il libro sta andando in tournée nelle scuole. Crediamo che questo linguaggio, questo modo di far leggere un fumetto sia un intervento importante e interessante. Dunque siamo orgogliosi di aver potuto realizzare il progetto.

Un’opera del genere presuppone una sorta di asimmetria tra chi deve dare voce all’altro e l’altro che, per quanto interpellato e coinvolto, non parla direttamente. Nel fare questo lavoro avete sentito il peso di una responsabilità? Cioè in un momento in cui tende a prevalere molto l’io nelle narrazioni contemporanee, non solo quelle a fumetti, voi avete scelto di scrivere una storia di tutt’altro tipo: come si fa a dare voce ad altri? In questo caso si tratta, tra l’altro, anche di persone viventi.

U.: È un lavoro complesso. Infatti è strano affrontare dal vivo i personaggi che erano su carta. Oggi, in conferenza stampa, è stata la seconda volta che ho incontrato il dottor Ferrandina (ematologo e presidente AIL Foggia divenuto uno dei protagonisti del fumetto N.d.R.) di persona, a parte una presentazione all’interno di una manifestazione dell’AIL di un paio di anni fa, quando il progetto è partito, ed è particolare vedere queste persone che sono persone reali. È una strana sensazione assistere a questo fenomeno. Ricorda un po’ una sensazione di cui, come ultimamente leggevo, ha parlato Paola Barbato, l’autrice di Dylan Dog e di romanzi thriller. Lei raccontava che adesso è partita la lavorazione per un film, Mani nude,tratto da un suo romanzo e, incontrando gli attori, diceva di provare questa strana emozione nel vederle vivere quelle creature che erano su carta. Nel nostro caso è ancora ulteriore il passaggio, perché sono ritratti di vita reali e non sono personaggi partoriti solo su carta. La responsabilità ovviamente è tanta perché si tratta anche di temi molto delicati. Per noi è stata un’esperienza totalmente immersiva da un punto di vista emotivo, perché si racconta la lotta con la malattia, l’impegno per rendere a volte meno sofferente e a volte sconfiggere questa terribile malattia. Quindi ci siamo sentiti estremamente responsabili nel dare voce a persone che hanno donato questo impegno per riuscire a diffondere le loro voci, perché comunque stiamo parlando delle loro vite, non sto inventando nulla, cioè solo parzialmente.

Negli ultimi anni sempre più persone si interrogano sul fumetto, sul suo successo ma anche sulla sua precarietà, voi che previsioni vi sentite di fare su questa nona arte?

U.: Ahia, altra responsabilità. Sicuramente il fumetto vive di buona salute, perché, sempre ritornando al discorso legato ad una civiltà totalmente dedita alle immagini – immagini in movimento, immagini disegnate e così via – io credo che, anche grazie alle potenzialità del web, il medium possa rinnovarsi e trasformarsi, ma non scomparire. Pensiamo ai web comics che tutti conosciamo: in quel caso è cambiata la loro fruizione, perché anziché sfogliare le pagine, le scrolliamo, si potrebbe dire che è un po’ un ritorno ai papiri, andando nella verticalità e non seguendo il punto di vista orizzontale del voltapagine. Dunque le possibilità sono infinite, ricordiamoci che si tratta di un medium nato alla fine dell’Ottocento, quasi in corrispondenza con il cinema, e che i primi fumetti apparvero sui quotidiani. Io credo, dunque, solo che il fumetto possa prendere nuove strade, come ha fatto anche il cinema e la televisione.

TESI CITATI.

Stefano Calabrese – Elisabetta Zagaglia, 2017, Che cos’è il graphic novel, Roma, Carocci editore.

Michela Magnifico, 2019, Io mi dono, Molfetta, la meridiana.

Umberto Mentana – Giuseppe Guida, 2023, Un bracciale di stelle, Roma, La Ruota Edizioni.

In Appunti di Lettura

Inquisizioni sui Karamazov – parte XIV

di Demetrio Paolin

Come abbiamo scritto, più volte, lungo queste riflessioni, il romanzo è una sorta di descrizione dell’uomo nel tempo, ma nei FK l’autore fa un passaggio, verrebbe da dire, ulteriore: mostra in qualche modo la fine del tempo, ovvero il limite del dire romanzesco. Il finale -con Alesa che parla della resurrezione- è appunto escatologico, e si riferisce alle cose ultime che si mostreranno quando il mondo finirà e ci sarà la parusia. 

Arrivati a questo punto delle nostre inquisizioni, forse, potremmo ragionare su quale forma di romanzo D ci lasci e su come i FK siano uno dei romanzi cardine della nostra cultura per quanto riguarda problemi filosofici, teologici e di morfologia del romanzo; in un certo senso, con questa narrazione, D modifica lo statuto del romanzo e lo fa in modo oscuro, per segni ed enigmi, tramite la Leggenda dell’inquisitore. Già in nota mi ero soffermato sull’impossibilità, perché non è compito di questo scritto, di fornire una precisa disamina di quelle pagine. Fatta questa premessa occorre a questo punto sottolineare l’erroneità di estrapolare questo capitolo e leggerlo come testo a sé, ma che – anzi – per comprenderle meglio e per capire più profondamente i FK è necessario tenerle all’interno del percorso narrativo che il lettore affronta in FK. Vediamone alcuni punti salienti dal punto di vista narratologico

a) il poema non è mai stato scritto, ciò che noi leggiamo è un “racconto” di Ivan della trama e dei temi di questo poema; 

b) l’esposizione del succo del poema avviene in maniera dialogica ovvero all’interno di un colloquio, più ampio e complesso, tra Ivan e Alesa. Quest’ultimo durante la narrazione di Ivan lo ferma, lo incalza; 

c) il poema stesso è dialogico, un esempio di sublimazione del dialogo, in cui uno (Inquisitore) parla e l’altro (Gesù, lo straniero) ascolta.

Riassumendo, abbiamo un’opera non scritta (La leggenda) che in qualche modo tocca un nodo centrale di un’opera scritta (FK) e riguarda, infine, la forma stessa del romanzo, così come sarà nel futuro. La mia impressione è che D tratteggi una nuova morfologia del romanzo, ne descriva appunto la sua possibile sopravvivenza rispetto al mondo che cambia. L’abbiamo sottolineato quando parlavamo dell’accostamento tra Amleto e Karamazov a proposito della lettura dei libri: i personaggi del romanzo e il protagonista della tragedia di Shakespeare vivono una situazione di crisi in un tempo nuovo, desiderano vivere in questa novità, ma nello stesso tempo sono prigionieri di ciò che non è più, del passato, che torna sotto forma di fantasma, di morte e di omicidio. 

Sono uomini che vivono una cesura storica fondamentale, in questo passaggio non può che essere letto come “politico”, nella categoria che Schmitt elabora: il politico è una “cosa costituita” che si oppone all’anomia, all’assenza di forma e di legge, è ciò che produce un freno alla deriva, ciò che trattiene il mondo dalla sua stessa fine. I personaggi dei Karamazov vivono questo momento, e la leggenda lo rappresenta teologicamente, ma con Schmitt abbiamo visto che ogni discussione teologica ha a che fare con il politico, e questo caso non è da meno, tanto che la Leggenda dell’Inquisitore assume in contorni del katechon. Per definire meglio ciò che esso rappresenta mi rifaccio alla puntuale e interessante riflessione in Katechon di Francesca Monateri (Bollati&Boringhieri), la quale riprende almeno nella sua ultima parte una riflessione “politica” sulle pagine dei Karamazov.  Monateri sostiene una tesi, condensata nella chiusa, che riporto e che mi pare centrale anche per queste mie riflessioni: «Al cuore delle interpretazioni novecentesche del katechon, si annida la possibilità di pensare a una morfologia politica intesa non solo come studio della forme politiche, come vera e propria proposta per una politica delle forme». Quindi, il tema in gioco non è soltanto -e non è meramente- politico ma è estetico, perché siamo di fronte a una questione di forma, di più se il katechon è una questione di relazione tra le forme, esso è quindi un problema economico (sempre nell’accezione che abbiamo usato in questo lavoro). 

In primo luogo, katechon è l’espressione utilizzata da Paolo nella seconda lettera ai Tessalonicesi che indica un potere che trattiene, un concetto che l’apostolo introduce per spiegare ai cristiani di Tessalonica perché il giorno della seconda venuta di Cristo tarda a venire. Il concetto può avere una valenza ambigua, dacché può essere visto in modo negativo, perché appunto differisce l’arrivo di Cristo e, quindi, la salvezza finale, oppure in modo positivo perché questo potere fa in modo che il tempo non finisca, che l’esistenza dell’uomo continui.

Come sostiene Monateri, la filosofia politica del 900 ha a lungo riflettuto su questo termine, il che si comprende gettando un sguardo sulla storia del secolo XX, su questo sentimento di apocalisse in differita, di giorno finale rimandato procrastinato, ma sempre presente nell’orizzonte di ogni narratore, filosofo, artista, che ha raccontato lo scandalo di questo tempo, di cui si auspica e si   teme la fine. 

Nelle pagine del Grande inquisitore D compie una operazione interessante, vediamola insieme: assumiamo che ciò che è raccontato nella leggenda sia reale. Se ciò è vero, allora noi ci troviamo già in un mondo che ha assistito alla seconda venuta di Cristo. Infatti, l’Inquisitore riconosce nello straniero Cristo e lo straniero non nega mai questa sua identità: questa agnizione, forse la più importante, nella storia dell’uomo non produce nulla. Perché, se ciò che D tramite Ivan ci racconta è vero, se Cristo è già sceso in terra, perché il tempo non è finito? Perché il mondo è ancora mondo? Perché non si è disciolto tutto e non ci sono state rivelate le cose ultime?    

Nell’accorato rincorrersi di queste domande riconosco alcuni degli interrogativi che Sergio Quinzio pone alle sacre Scritture e alle loro rivelazioni ultime (in particolare in Dalla gola del leone, La croce e il nulla), ma diventano ancora più centrali nel suo ultimo scritto, un’opera a metà strada tra riflessione teologica e narrazione, che è il Mysterium iniquitatis. Nella finzione di Quinzio il testo raccoglie le ultime due encicliche di Pietro II, che secondo la profezia di Malachia sarà l’ultimo papa. Il pontefice, dopo aver consegnato le due lettere apostoliche, la prima sul mistero della resurrezione dei morti e la seconda sul mistero dell’iniquità, ovvero la riflessione intorno alla Chiesa come baluardo di quel male che si annida proprio all’interno della stessa, salirà sulla cupola di San Pietro e si suiciderà gettandosi da quell’altezza. Le profezie si compiono in modo misterioso e questo mistero – sembra suggerirci Quinzio- è quello dell’iniquità che, stando a Paolo, gli uomini e la chiesa dovranno vivere e soffrire. 

Seguendo tale suggestione forse lo straniero del poema di Ivan non è Cristo, ma la personificazione di tale mistero dell’iniquità: è il passaggio precedente alla rivelazione all’eschaton finale. In questo modo, forse, comprendiamo perché queste pagine ci turbano, perché con inquietudine D non parla della fine dei tempi, ma parla del tempo prima della fine, del momento esatto in cui il nostro tempo sta per finire. 

Tutto questo avviene all’interno di un romanzo, in qualche modo -quindi- se La leggenda dell’Inquisitore ha a che fare con katechon, ciò significa che ha a che fare con una idea di “forma” che si oppone ad un’assenza e così, traslando il ragionamento della Monateri dal piano politico al piano letterario, la storia dell’inquisitore e di Cristo è una riflessione sulla forma del romanzo e sul romanzo come forma.

In Teoria del romanzo Lukacs sostiene che D non scrive romanzi: tale affermazione mi è parsa sempre piuttosto strana rispetto alla mia comune esperienza di lettore; è da sottolineare, però, che il dubbio di Lukacs non è tanto legato a un dato compositivo (i libri di D sono romanzi), ma a un dato storico. Provo a chiarire: per Lukacs il romanzo – come epopea borghese – non ha più nulla da dire a Dostoevskij che, infatti, scrive di cose altre. Questa notazione è di certo vera, pensate ai personaggi dei FK e alla loro ossessione su Dio, provate a immaginare qualcosa di simile in Madame Bovary o, perché no?, nei Malavoglia. D annuncia con le sue opere un mondo diverso, che mette in crisi il romanzo borghese realista (realismo → naturalismo → verismo: Malavoglia e FK sono pubblicati nello stesso anno), tale criticità ha un riverbero nella leggenda dell’Inquisitore, come se fosse una riflessione meta-testuale. 

D sente che questo è il tempo dell’iniquità, il tempo in cui tale mistero può apparire e produrre una narrazione romanzesca; infatti tutti i personaggi di FK sentono su loro stessi il trionfo della anomia, della mancanza delle regole, dell’assenza della forma; solo comprendendo questo sentire la Leggenda dell’Inquisitore, questa narrazione di una narrazione, acquista una maggiore incisività. 

L’episodio dell’inquisitore è un capitolo di un romanzo, in cui un protagonista (Ivan) racconta all’altro (Alesa) una storia (il poema), che non ha scritto. Ciò che ci viene chiesto di analizzare non è tanto legato alla religione o all’etica: D non ci domanda di decidere su chi abbia ragione, se l’inquisitore o Gesù. Anzi il nucleo è da un’altra parte, è una questione di estetica, di forma e di morfologia. Esiste qualcosa che possa costruire una nuova forma narrativa che possa resistere a questo tempo senza forma, a questo tempo di iniquità? 

Esiste una forma romanzesca adatta alla nostra modernità? Sono queste le domande che la leggenda del Grande Inquisitore pone al critico letterario, più che al teologo o al politico. L’ipotesi è che nell’economia del romanzo, in questa sequela di relazioni teleologiche dei personaggi, il capitolo del grande Inquisitore sia il katechon, sia ciò che trattiene il romanzo dal suo dissolversi, dal suo morire, dal suo finire.  Il katechon è una forza ambigua che da un lato annuncia la distruzione e dell’altro preserva l’umanità: in un certo senso D fornisce una possibilità al romanzo di esserci ancora, di continuare a generare i suoi frutti nonostante l’uomo viva il tempo dell’iniquità, dell’approssimarsi della fine, un tempo che costantemente finisce, ma che non si conclude. Ecco, nonostante questo, il romanzo continua. 

Il romanzo, infatti, ha a che fare con il tempo; anzi, è la narrazione dell’uomo nel tempo, ma se il tempo finisse? Se questo tempo che scorre finisse? Cosa ne sarebbe dell’uomo e cosa ne sarebbe del romanzo che è lo strumento per raccontare l’uomo nel tempo? Dostoevskij, rispondendo a tali questioni, riesce a darci l’immagine nuova della narrazione per salvarla. L’ affermazione di Lukacs «D non scrive romanzi», che mi pareva un poco peregrina, è in realtà centrata, perché D pensa a un romanzo che non è più romanzo, perché è il romanzo dei tempi dell‘anomia, dove non c’è una forma, non c’è legge o regola. D nei FK annuncia e racconta quel tempo prima della fine del tempo, e il romanzo, l’ultima nostra e più profonda fonte/modalità di sapere, modifica se stesso per poterci ancora raccontare.

In Thema di Berio

A CHRISTMAS GIFT FOR YOU FROM PHIL SPECTOR. 60 ANNI DI RIVOLUZIONE POP – II parte

di Alessandro Ciniero

Jack Nitzsche
Jack Nitzsche è stato un prolifico compositore, arrangiatore e produttore musicale americano, nato nel 1937 e deceduto nel 2000. È stato coinvolto in una vasta gamma di progetti musicali durante la sua carriera, spaziando dalla composizione di colonne sonore per film alla collaborazione con famosi artisti del rock.Ha lavorato per la Philles Records, arrangiando quasi tutte le produzioni di Phil Spector, contribuendo a sviluppare il suo sound. 
Tra le sue opere più note, ci sono le colonne sonore di film come “One Flew Over the Cuckoo’s Nest” (Qualcuno volò sul nido del cuculo) e “An Officer and a Gentleman” (Ufficiale e gentiluomo). Ha lavorato spesso con Neil Young e ha suonato la tastiera nei concerti e registrato con i Rolling Stones. Inoltre, ha contribuito alle registrazioni di artisti come Buffalo Springfield, The Monkees e altri.

Larry Levine
Larry Levine è stato un ingegnere del suono statunitense, nato nel 1928 e deceduto nel 2008. È diventato famoso per il suo lavoro come ingegnere del suono presso i Gold Star Studios a Los Angeles, dove ha contribuito a registrare molte delle canzoni più iconiche della musica pop e rock degli anni ’60.
Levine è particolarmente noto per il suo coinvolgimento nelle registrazioni dei brani di Phil Spector. La sua abilità nell’ottenere suoni distintivi e di alta qualità è stata cruciale per il successo di molte registrazioni dell’epoca. Levine è stato anche coinvolto in progetti con altri artisti e produttori, ma è principalmente ricordato per il suo contributo significativo al suono della musica pop degli anni ’60.
The CrystalsLe Crystals sono state il primo gruppo vocale femminile messe sotto contratto da Phil Spector per la Philles Records, per la quale hanno avuto varie hit tra cui “Uptown”, “Da Doo Ron Ron” e “Then He Kissed Me”. 
I membri nel 1963 erano Patricia Wright, Dolores Kenniebrew, Dolores Brooks e Barbara Alston.

The Ronettes
Uno dei gruppi di punta della Philles Records, le Ronettes erano composte da Veronica “Ronnie” Bennett, Estelle Bennett e Nedra Talley. 
Phil Spector era ossessionato con la voce di Ronnie e con Ronnie stessa; i due iniziarono una relazione che sfocerà nel matrimonio (infelice) nel 1968. 
Nel 1963, il gruppo raggiunse la fama con il singolo “Be My Baby”, scritto da Jeff Barry, Ellie Greenwich e Phil Spector. La canzone è diventata un classico della musica pop e ha consolidato la reputazione delle Ronettes.
Altri successi includono “Baby, I Love You”, “(The Best Part of) Breakin’ Up” e “Walking In The Rain”. Il loro stile distintivo, caratterizzato dalla voce potente di Ronnie Spector e dal sound distintivo di Phil Spector, ha contribuito a definire il suono del pop e del girl group degli anni ’60.
Darlene Love
Darlene Love, il cui vero nome è Darlene Wright, è una cantante statunitense nata nel 1941. È stata una delle voci più potenti e distintive nel panorama della musica pop e rock degli anni ’60 e successivi. La sua carriera è stata fortemente influenzata dalla collaborazione con Phil Spector.
Love è diventata famosa come membro del gruppo vocale The Blossoms che ha lavorato spesso come coro per le produzioni di Phil Spector. Ha fornito le voci principali o di supporto per molte canzoni celebri del periodo, spesso senza essere accreditata. Alcuni dei suoi contributi più noti includono le voci principali in “He’s a Rebel” delle Crystals e “Zip-a-Dee-Doo-Dah” di Bob B. Soxx & the Blue Jeans.

Bob B. Soxx & the Blue Jeans
Bob B. Soxx & the Blue Jeans è stato un gruppo vocale progettato da Phil Spector e composto da Bobby Sheen, Darlene Love e Fanita James. Il nome Bob B. Soxx era un nome d’arte per Bobby Sheen.
Il loro singolo più noto è “Zip-a-Dee-Doo-Dah”, una cover di una canzone originariamente apparsa nel film Disney “Song of the South”, prodotta da Spector.

Cher
Incredibile ma vero. Una delle artiste più leggendarie della storia della musica pop ancora in attività ha iniziato la sua carriera a 17 anni come corista per le produzioni di Phil Spector.
Egli considerava la sua voce troppo baritonale per essere inserita in primo piano; nonostante ciò ha prodotto il suo primo singolo da solista nel 1964 dal titolo “Ringo, I Love You” e diede a Cher lo pseudonimo Bonnie Jo Mason. 
Phil Spector, Darlene Love e Cher
The Wrecking Crew
Ultimo tassello ma non di importanza, la Wrecking Crew è stato un gruppo di session musicians statunitense attivo prevalentemente negli anni ’60 e ’70. Questi musicisti di studio altamente talentuosi hanno suonato in un vasto numero di registrazioni di successo, contribuendo a creare alcuni dei brani più iconici dell’epoca. 
Tra i membri più noti della Wrecking Crew c’erano il batterista Hal Blaine, la bassista Carol Kaye, il chitarrista Tommy Tedesco, il pianista Leon Russell, il chitarrista Glen Campbell e molti altri. Questi musicisti erano noti per la loro versatilità e la loro capacità di adattarsi a una vasta gamma di stili musicali. 

Ultimo tassello ma non di importanza, la Wrecking Crew è stato un gruppo di session musicians statunitense attivo prevalentemente negli anni ’60 e ’70. Questi musicisti di studio altamente talentuosi hanno suonato in un vasto numero di registrazioni di successo, contribuendo a creare alcuni dei brani più iconici dell’epoca. 

Tra i membri più noti della Wrecking Crew c’erano il batterista Hal Blaine, la bassista Carol Kaye, il chitarrista Tommy Tedesco, il pianista Leon Russell, il chitarrista Glen Campbell e molti altri. Questi musicisti erano noti per la loro versatilità e la loro capacità di adattarsi a una vasta gamma di stili musicali. 

In Schede

Rec. a “25” di Bernardo Zannoni

di Francesca Bellucci

Venticinque anni e la storia di un ragazzo imprigionato in questa età nefasta, caratterizzata dalla paura di andare avanti, di uscire dalla gabbia di decisioni che solo in questo tempo di mezzo sembrano essere irreversibili. Questa è la narrazione di Gero, il protagonista dell’ultimo romanzo di Bernardo Zannoni che racconta con grande delicatezza le rotture e le storture di un giovane ragazzo raccolto nella solitudine e di tutti coloro che gli ruotano attorno.

La storia inizia con Gerolamo che risale la strada verso casa nel cuore della notte, frastornato e inebetito. Assuefatto a una solitudine tormentata di cui scopriremo le ragioni nel corso del romanzo. E’ la storia di un ragazzo cresciuto all’ombra di una famiglia disfatta, di un padre assente, di una madre incapace di assolvere al proprio compito genitoriale, riscaldato dal calore di una zia che si porta addosso il peso di una vita non vissuta ma che riconosce in Gero un talento che ai suoi stessi occhi è inesistente. Il tutto raccontato tra le mura di una casa troppo piccola, maleodorante, ma perfetto rifugio d’amore nella sua esatta imperfezione, la casa della zia, e quella troppo grande, buia per la prima parte del romanzo, abitata solo dalla solitudine dell’abbandono, la casa padronale della famiglia del protagonista. E il bar del paese, scenario dell’apice della disfatta di Gerolamo e dei suoi coetanei.

I luoghi di questo romanzo sono l’emanazione delle storture dei personaggi, si sgretolano, sembrano tra loro distanti miglia e sempre coperti da una luce offuscata, pronta a dare la mano alla notte che puntualmente arriva, portando con sé le gambe molli dei giovani del paese, i quali si muovono come sonnambuli, fantasmi delle loro vite. Questo romanzo racconta quanto possa essere complesso avere venticinque anni, specie in una società in cui la linearità della crescita si scontra con l’impossibilità di credere che provare ad inseguire i propri desideri sia una scelta possibile.

 Il primo quarto di secolo è un limbo sempre pronto a diventare precipizio: troppo giovani per saper conoscere sé stessi, pur essendo convinti di avere la capacità e i mezzi per sapere di sé quanto è celato allo sguardo degli altri, e troppo grandi per credere di poter cambiare strada, di battere un percorso inesplorato.

Da bambino era tutto così facile: non esistevano filtri per il dolore, la paura, la gioia. Ti cadeva tutto addosso, ma faceva parte di un percorso necessario. Ora bisognava scegliere una strada, calcolare il tempo. Sbagliare aveva un costo, lasciava dei segni, ti esponeva ad altri rischi.

 La strada che vorremmo percorrere si incupisce, si restringe, diventa un filo di ferro che attana le caviglie e ti cementifica sul pavimento di un bar di paese o, nel peggiore dei casi, diventa una lama che recide i polsi. Come avviene per Tommy. Nei bagni di quello stesso bar, sotto gli occhi dei suoi amici. E Tommy è lo specchio di tutti loro. Nessuno se lo sarebbe aspettato, eppure l’ha fatto. Non è l’azione in sé a tormentarli, a lasciarli interdetti, ma il coraggio di aver preso una decisione. Questo pensa Gero, sentendosi addosso quel tormento, rivedendolo su di sé, ritrovandolo nei suoi pensieri.

Che senso ha una vita che si conduce da sola? Quanto può valere respirare se non si ha una ragione per farlo, ma ci si trascina in un giorno e poi nell’altro e nell’altro ancora, in una ciclicità che ha il sapore di una condanna infernale?

Ci si può ornare di qualsiasi titolo, professione, gloria o infamia, ma il succo resta: abbiamo vite piccole, fatte di cose piccole, e questo non si cambia.

Non si cambia. E quando si cerca di farlo ci si scontra con le vite degli altri, con i loro dolori, con le difficoltà e le loro ignominie. Gero si scontra con Martin, il vicino di casa della zia che vive con la giovane compagna incinta. Una gravidanza deformante, che sgretola la ragazza, la invecchia e che è priva della dolcezza della nascita di una nuova esistenza e invece di diventare ragione di crescita e di cambiamento, si fa mezzo di disfatta, come se tutto stesse per perire e nel grembo ci fosse un “problema” e non una vita. Qui c’è la coerenza di questo tempo: la vita stessa è un problema ed è possibile cercare di darne alla luce un’altra solo se la propria è libera dal sapore ferroso di quello stesso sangue che sporca e colora il pavimento del bagno di Barracus. Quel sapore viscido pervade Gero quando varca la soglia del mattatoio, per iniziare a lavorare su intercessione di Martin. Quel lavoro, che pare al protagonista il primo passo verso la libertà da se stesso, è in realtà una finzione, una trappola, come l’ammasso di carne che agli occhi di Gero pare umana e non animale, l’odore pungente del sangue, la crudeltà che il protagonista crede di vedere nelle azioni dei suoi colleghi di lavoro mentre riducono in poltiglia i resti animali. Il mattatoio si fa metafora della vita di Gerolamo: corpi privati della loro essenza e della loro forma, ossa da rimuovere, identità da cancellare per precipitare nel vortice dell’indefinitezza. Un giorno di supplizio interrotto dallo smascheramento di un lavoro che non è una possibilità per Gero, ma l’inganno di un giovane uomo, Martin, che scappa dall’imbocco della sua nuova vita, dalla compagna e dal figlio che sta per arrivare, per rifugiarsi nella bugia di un sonno indotto dalla droga, in un luogo sulle colline distanti dal paese, il Pillola Blu, il tutto sotto una pioggia battente che non sa lavare via la sozzura di un tempo in putrefazione.

L’acqua è l’altro elemento caratterizzante del romanzo. La pioggia che incontriamo sullo scenario dell’incipit, che impasta con la terra e sporca il procedere di Gero verso casa, ma anche l’acqua che bagna i piedi del protagonista sulla cucina della casa di famiglia. L’elemento extraumano, che esula dalla volontà del ragazzo, e la mancanza di controllo sulla sua vita, che gli impedisce di illuminare le sue scelte così come la casa in cui vive, il tutto solo per un interruttore inconsapevolmente spento. Basterebbe così poco per dare un senso, per provare ad andare oltre, eppure il pensiero dell’azione si perde con il levare del sole, per ricomparire nella lotte, per rispondere ad un bisogno che pulsa nei polsi ma non si riesce a seguire e proprio quando tutto sembra essere ormai disfatto, quando l’irreparabile sembra aver preso il controllo, che Gerolamo ritorna all’esattezza della sua età, che ne comprende la potenza del divenire, che svolta verso la strada spianata dalla zia, suo ultimo gesto d’amore, per smettere di essere un ragazzo e provare a diventare un uomo senza lasciarsi scorrere il tempo addosso, al di fuori delle sue vene.

Bernardo Zannoni,

25

Palermo, Sellerio, 2023

pp. 180, € 15,20

In Thema di Berio

A CHRISTMAS GIFT FOR YOU FROM PHIL SPECTOR. 60 ANNI DI RIVOLUZIONE POP – I parte

di Alessandro Ciniero

Introduzione
Detesto scrivere e chi mi conosce lo sa bene . I messaggi telegrafici di WhatsApp  sono facilmente riconducibili al sottoscritto e non ho mai portato a termine la sceneggiatura per il film su Phil Spector che vorrei fare. Tuttavia, ho notato un elemento contraddittorio riguardo a questo: possiedo un diario personale che scrivo saltuariamente sin dal 2011; ne deduco che c’è una parte di me dedita alla scrittura. Il problema è la costanza nel farlo, infatti, nel momento in cui mi accingo a scrivere, temendo di non portare a termine questo articolo, mi impongodi fare leva su tutta la mia determinazione per portare a termine questa che, ormai, è diventata una missione. Voglio scrivere un appropriato e intenso tributo a un album di cui in Italia si è sempre parlato poco, sebbene possiamo considerarlo un capolavoro della storia della musica occidentale, una pietra miliare del pop e della musica natalizia: A Christmas gift for you, di Phil Spector.Fino a ora mi sono limitato a dedicargli  qualche contenuto sui social network ma in occasione del sessantesimo anniversario dall’uscita dell’album ho deciso di celebrare come merita questo singolare christmas carrol
Buona lettura a tutti!

Contesto storico e personaggi 
 Il 1963, rappresenta uno spartiacque nella storia della  musica moderna. Il rock and roll arrivò impetuoso, con la sua prima ondata, tra il 1954 al 1960. Una stagione veloce ma che cambiò per sempre l’industria discografica. Per la prima volta, il mercato spostò il proprio focus sui ragazzi e sulla fascia giovanile, fino a quel momento ignorata poiché priva di potere d’acquisto. Appartengono a quel periodo Buddy Holly, Carl Perkins, Jerry Lee Lewis, Chuck Berry, Bo Diddley, Johnny Cash, Eddie Cochran, Little Richard ed Elvis Presley, artisti bianchi e neri che finivano per folleggiare in tutte le radio e le classifiche. 
Tra la fine degli anni ‘50 e l’inizio degli anni ‘60, una serie di tragiche morti, scandali e ritiri coinvolse molti di questi artisti, lasciando così un vuoto da riempire. Tuttavia, i semi della prima ondata rock erano stati piantati e da lì a breve, per la precisione nel 1964, un terremoto chiamato British Invasion (Beatles, Rolling Stones, Kinks, Animals, Who, Dusty Springfield, Donovan, Small Faces, Hollies) sarebbe arrivato a sconvolgere la scena musicale. Per comprendere la portata di questa rivoluzione è necessario fare  un passo indietro nella storia. Qualche anno prima, un produttore discografico sui generis, tremendamente ambizioso e scaltro il giusto,  prese le redini del mercato discografico giovanile dopo il declino del periodo rock and roll. Stiamo parlando di Phil Spector.

Phil Spector 
Nel 1963, Phil Spector appena ventitreenne, era già considerato un genio della scena musicale. In pochi anni aveva prodotto una serie di hit leggendarie e fondato una propria etichetta discografica, la Philles Records, diventandone capo all’età di 21 anni. Il più giovane capo nella storia delle etichette discografiche fino a quel momento. Fu il primo produttore indipendente (assieme al contemporaneo Joe Meek in UK) capace di discostarsi dal rigido sistema del music business di allora in cui il produttore doveva sottostare alle regole delle major labels e alla catena separatista  compositori-produttori-artisti-businessmen.  
 Questa sua indipendenza, gli permetteva di supervisionare l’intero processo creativo di una canzone, dalla composizione fino alla pubblicazione. Ciò gli permise di diventare il primo auteur dell’industria musicale, il primo produttore a concepirsi come artista, sviluppando un sound fuori dagli schemi e influente come non mai. Ma di questo sound parleremo più avanti.
Spector era concentrato nella produzione di singoli e considerava gli album come “due canzoni buone e 10 spazzatura”. L’album era ancora un format relativamente nuovo nel pop e il suo potenziale non era ancora pienamente sfruttato.
Tuttavia, per il Natale del 1963, pianificò il suo progetto più ambizioso, un album natalizio come non se ne erano mai realizzati prima. Un album in cui ogni  canzone avrebbe ricevuto lo stesso trattamento da potenziale singolo di successo.  Per realizzarlo, chiamò all’arrembaggio tutto il personale e gli artisti della Philles Records.
Continua…

In Appunti di Lettura

Inquisizioni sui Karamazov – parte XIII, b

di Demetrio Paolin

Il secondo personaggio minore del romanzo di cui vorrei occuparmi è Liza e in particolare vorrei soffermarmi su FK, parte quarta, libro undicesimo, cap. III, Il demonietto,  interamente dominato da questa ragazzina, che abbiamo visto, all’inizio, immobilizzata su una sedia a rotelle, poi verso metà romanzo, guarita e innamorata – come possono essere innamorati i personaggi di Dostoevskij, che non vivono mai un amore limpido, puro, ma è sempre mescolato con una dose più o meno generosa di veleno, di una dose di gelosia, di odio, di ripicca, di rivalsa, di recriminazione, di sfida, di supponenza, di sadismo – di Alesa, e che infine incontriamo in questo capitolo, dove il dialogo con Alesa pronuncia, forse, alcune delle frasi più tremende dell’intero romanzo: «Ma bene. Certe volte penso che l’ho crocefisso io quel bambino. È lì appeso e piange, e io me ne sto seduta di fronte a lui a mangiare composta d’ananas. Mi piace molto, la composta d’ananas, sa? E a lei?»
Liza narra ad Alesa una vicenda, riferita in un libro, in cui si racconta di un ebreo «che prima aveva tagliato le dita di tutte e due le mani a un bambino di quattro anni e poi lo aveva crocifisso al muro». Liza continua questo racconto sostenendo che il bambino ci ha messo poco a morire «quattro ore. Poco? Ha pianto, ha detto, ha pianto tanto, e lui stava lì a guardare e a godersi lo spettacolo. Ma bene!».
Ora l’episodio ci consentirebbe di aprire una lunga parentesi sul pensiero antisemita di Dostoevskij e di buona parte del’ 800 intellettuale, ma qui interessa capire che ruolo ha Liza nella costruzione di senso nei FK. Intanto Liza prende su di sé l’atto malvagio, assume su di sé il terribile delitto; questo movimento immaginativo mi pare interessantissimo. Se in qualche modo l’ebreo può essere considerato il reietto, il “giuda”, il “deicida”, allora Liza assume su di sé  totale alterità: Liza non è semplicemente il negativo, ma è l’Altro, qualcosa di totalmente diverso, qualcosa che parrebbe porsi fuori dai confini dell’umano: l’ebreo era inviso, odiato e temuto; era veduto come un inerme e nello stesso tempo come colui in grado di compiere l’abominio più terribile; se volete, provando a risvegliare l’antisemita latente che ognuno di noi possiede, il più perfetto prototipo dell’ebreo è Giuda: traditore per pochi soldi, baro, eppure indispensabile nell’economia della salvezza. Dio salva il mondo morendo e per morire ha bisogno di Giuda; nel vangelo di Giovanni Gesù intinge il pezzo di cibo e lo passa a Giuda: è una elezione; c’è la necessità che Giuda tradisca; si poteva immaginare una economia della salvezza diversa? Un modo diverso per salvare l’uomo e il mondo? Il vangelo ci racconta questa modalità e non un’altra. Così il racconto di Liza sembra una sorta di riscrittura malvagia della crocifissione: il bambino innocente (Cristo) che viene crocifisso e l’ebreo (Giuda) lo guarda morire, sarà accaduto che Giuda abbia visto Cristo morire? È plausibile. Cosa avrà pensato Giuda? 
Nella frase citata D ha un tocco felice e aggiunge l’immagine della «composta d’ananas», che Liza mangia: è il sigillo di grandezza dello scrittore , che spesso si annida nel particolare, nell’insignificante che non lo è. Liza si identifica con l’ebreo, che vede il bambino morire crocifisso, anzi dice che crede di essere lei stessa ad averlo crocifisso e poi lo guarda morire. A questa altezza c’è la differenza rispetto alla scena precedente: lei mangia mentre il bambino muore, lo guarda, il bambino è davanti a sé ma lei non lo vede più, vede la composta d’ananas: la composta d’ananas prende il sopravvento nella nostra immaginazione; non vediamo più il bambino, ma ci chiediamo perché la composta di frutta, perché proprio quella. Il comportamento di Liza racconta certi racconti degli aguzzini dei campi di concentramento: uomini e donne crudelissimi che, tornati a casa, diventavano uomini e donne amorevoli. Spesso ci chiediamo come ciò sia potuto accadere, e la risposta ce la fornisce D: essi «credevano nella composta di ananas»; è come se Liza cancellasse, in quel gesto legato al cibo, ciò che ha compiuto o il male che potrebbe fare: la composta di ananas diventa l’ultima immagine del nichilismo totale: «crede nella composta d’ananas», «solo che non crede a nessuno. E se non crede a nessuno, disprezza tutti». 
Il secondo dato particolare è legato alla parola «bene» che Liza pronuncia più volte. Questo bene, così come la composta, diventa una terribile giustificazione: «è un bene essere disprezzati. È un bene il bambino con le dita tagliate». Poniamo attenzione, Liza non dice che è bene – nel senso è giusto – essere disprezzato, ma che il disprezzo e il bimbo mutilato sono UN bene, come se fossero necessari, in quanto dimostrano la cattiveria dell’uomo; il male diventa bene, perché tramite il male comprendiamo il grado di perdizione dell’uomo: il male diventa necessario per la salvezza, così come Giuda è necessario per Dio nel piano della salvezza. D intravede in Liza qualche movimento dell’animo umano non ancora completamente realizzato: c’è in Liza qualcosa di profetico e di terribile, come se prefigurasse l’umanità nuova che nascerà e si formerà tra le due guerre, quella dei campi, quella di Hiroshima, quella di Dresda, un’umanità che uccide e mangia la composta d’ananas, un’umanità che si nutre di un nuovo sentimento, il disgusto di ogni cosa. «Tutto mi disgusta» dice Liza consapevole di ciò che lei è, e forse non è casuale che Liza sia uno dei pochi personaggi del racconto che infine si autodefinisce, avendo certezza del suo essere: «Le tremavano le labbra mentre bisbigliava tre sé e sé, svelta svelta: – Cattiva, cattiva, cattiva, cattiva!»

In Appunti di Lettura

Inquisizioni sui Karamazov – parte XIII-a

di Demetrio Paolin

Un sigillo della grandezza dei romanzi risiede nei personaggi minori e dal loro modo di agire (mi vengono in mente, ad esempio, le pagine di Manzoni su Tonio e Gervasio nei Promessi Sposi o, per venire a cose più vicine, Harras in Trilogia del Nord di Céline): sono personaggi meno importanti, meno centrali nella costruzione del romanzo/narrazione, ma che si impongono alla nostra attenzione. Alessandro Zaccuri, su Avvenire, ha curato una rubrica in cui ha raccontato alcuni di questi personaggi minori, e grazie ad essi illuminava il romanzo intero o metteva in evidenza qualcosa di nuovo del romanzo di cui stava parlando. Ci sono nei FK due personaggi minori, tra i tanti presenti, che vorrei analizzare: Smerdjakov e Liza (vd XIII, b) 
Quando incontriamo Smerdjakov per la prima volta, egli è descritto come colui che porta a Dimitri un messaggio, in cui si stabilisce l’ora dell’incontro con Zosima. Smerdjakov è il servo di Fyodor, ma ha un rapporto particolare con Dimitri. È rappresentato come un messaggero, ha in sé qualcosa di mercuriale; infatti, come il dio romano, anche Smerdjakov possiede in sé qualcosa del latore di notizie, ma anche del ladro; è ambiguo, non è mai comprensibile nel suo muoversi e nel suo agire. La sua nascita è avvolta nel mistero: sappiamo che è dovuta a una violenza, sappiamo che sua madre la Smerdona è una pazza di Cristo, una urlona; tutto cospira a farci pensare che il padre sia Fyodor, Smerdjakov viene adottato dai servi di casa Karamazov che hanno vissuto un lutto, avendo perduto il proprio bambino: insomma S. è frutto di violenza, abbandonato e adottato “in vece” di un neonato defunto. Oltre al nome dalla madre egli ne ha in un certo senso ereditato la follia, che in lui si mostra nei segni del grande male, dell’epilessia. 
Un altro luogo centrale in cui torna Smerdjakov è il dialogo con Ivan, quello del “tutto è lecito”, dove è presente il germe della giustificazione per l’omicidio di Fyodor. A questo fa da contraltare l’ultimo e definitivo scambio con Ivan, dove appunto Smerdjakov confessa il suo delitto, raccontando come nell’ombra e con costanza e precisione ha fatto in modo che tutta la colpa materiale ricadesse su Dimitri e quella morale ed etica su Ivan. 
Tra il primo e il secondo dialogo passano centinaia di pagine in cui Smerdjakov scompare dell’azione, viene chiamato in causa da Alesa, da Katerina, da Grusenka, da Dimitri come colui che ha commesso l’omicidio, ma solo a Ivan verrà detta la verità, che appunto lo getterà nel baratro della sua stessa allucinazione, il dialogo con il diavolo e la sua malattia, mentre Smerdjakov infine si ucciderà. 
La prima cosa che colpisce di come D costruisca questo personaggio è il suo essere sotterraneo alla narrazione: Smerdjakov muove molti dei fili della narrazione, è il centro di molte zone nevralgiche del romanzo, ma D ce lo mostra e dedica a lui molte meno pagine di quelle che ci aspetteremo. Torna quindi, prepotente anche qui, un discorso di economia, nella duplice accezione di risparmio – il numero di scene, pagine o parole che dir si voglia intorno a un personaggio – e di disegno prefissato. Con la massima economia di parole, Smerdjakov è nell’economia del romanzo colui che lo fa attuare: egli è un, o è il, motore del romanzo, in un certo senso produce il romanzo. Egli è un personaggio spregevole, un mentitore, un millantatore eppure muove i fili della vicenda, li tiene in pugno, è colui che ci mostra la vera realtà: ciò che è realmente accaduto e non ciò che i giudici e la gente pensa sia accaduto; è veramente un perfetto e ambiguo messaggero, che perverte le euclidee convinzioni di Ivan e le usa a suo uso e consumo.
Con Smerdjakov D compie un’altra scelta: in un romanzo dove ognuno produce una idea di mondo, la sua azione rimane sostanzialmente avvolta nel mistero: perché Smerdjakov agisce così, perché uccide il presunto padre? Perché rivela tutto? Perché si uccide? Dostoevskij di solito così pronto a dirci tutto di tutti, le idee sublimi e le meschinità, su Smerdjakov è reticente, anche il suo suicidio è raccontato, detto ma non mostrato, come se l’autore volesse in qualche modo non farci partecipi fino in fondo di quella esistenza. Smerdjakov rappresenta una immagine di “male per il male”, che si auto-alimenta facendo del male o facendosi del male: la sua figura ricorda molto da vicino a Iago di Otello, la stessa gratuità nel compiere il male, la stessa opacità di spiegarlo. C’è, però, un dato differente tra Iago e Smerdjakov: questa opacità sul perché delle proprie opere è razionale, pensata e voluta in Iago, mentre in Smerdjakov è frutto di una mente limitata, Iago sa perché fa il male e non ce lo dice, il servo dei Karamazov non sa perché fa il male, lo compie e basta. Smerdjakov rappresenta l’idea che il male sia idiota, che abiti fuori dai regni della comprensione razionale o della fede, cioè infine che non abbia a che fare né con il Dio né con il diavolo, che il male sia proprio un’altra cosa, un’altra entità estranea al rapporto trinitario tra Alesa, Ivan e Dimitri. 
Si potrebbe quasi ipotizzare che il male sia l’escluso, il reietto e lo scarto, sia l’escremento infine ovvero, come indica il suo stesso nome, la merda, qualcosa quindi che si produce per espulsione. 
Un ultimo dato, l’epilessia: nel romanzo L’idiota, l’epilessia è uno stigma della bontà. Il principe, grazie all’epilessia, entra in contatto con una realtà altra e diversa, nuova e più buona: vede -se vogliamo- la vita e il mondo da una diversa prospettiva, afferma che tutto è buono, che tutto è santo nonostante il male, o forse ancora con più terribilità anche il male è buono e santo. Nei Demoni Kirillov è epilettico, e si proclama profeta di una religione e si suicida per dimostrare che Dio non esiste, anzi – meglio – si uccide per liberare l’uomo dal fantasma di Dio e farsi Dio; anche Kirillov grazie all’epilessia vede una realtà nuova, la presume, la desidera anche se ne ha paura; rispetto però al principe Myskin Kirillov non ha nessun interesse per il mondo così come è, ma vuole un modo diverso, ed è disposto per questo motivo anche ad autoaccusarsi di cose tremende. 
Smerdjakov – l’ultimo grande epilettico di D – ha perduto il suo alone di santità, che in Kirillov era ancora presente, ma anzi fa dell’epilessia una scusa, una maschera, una finzione per poter agire indisturbato, lo fa così che nessun possa pensare che lui sia il colpevole, perché malato, perché debole, perché idiota. Quell’idiozia di Myskin, che era simbolo della stultitia religiosa, del folle di Dio, è marcita in lui, ha perduto ogni contatto con il divino, con dono profetico che portava con sé (si leggano le pagine dei Demoni in cui Kirillov parla del proprio stato prima di una crisi), quasi che il grande male sia diventato solo un male, questo opaco agire delle cose, questo disporsi casuale delle cose: l’epilessia è diventata uno dei tanti accidenti del mondo, misurabili, normali, il grande male è divenuto una malattia che si può fingere e può tornare utile; come se il daimon della profezia (di cui l’epilessia è figura), come se la profezia stessa fosse messa al bando dalla narrazione, ultimo baluardo della scrittura come visione, come religione, fosse presa in giro e messa alla berlina brillando, un’ultima volta, nelle parole povere e sconclusionate di un merdone.

In Thema di Berio

Filippo Leroy, chi era costui?

di Matteo Caputo

Non lo so. O, almeno, com’è avvenuto con Carneade prima di leggere I promessi sposi, non lo sapevo fino a quando non ho ascoltato la più recente fatica di Fulminacci. È vero – mi si dirà – Filippo Leroy, quarta traccia di Infinito + 1, ultimo album del cantautore romano, aveva già da qualche tempo anticipato il disco, insieme ad altri brani che con piacere abbiamo ritrovato; eppure sono costretto a fare mea culpa e a confessare di non essermi informato prima (ma soltanto per scoprirlo insieme a voi).

Fulminacci – al secolo Filippo Uttinacci, classe ’97 – è ormai autore piuttosto noto, almeno tra il pubblico giovane, figlio di Spotify e dei suoi Daily mix, e che pure ha ripreso a guardare Sanremo e ad acquistare vinili. Tutte strade attraverso le quali raggiungere il grande pubblico e che il nostro enfant prodige, come è stato più volte definito, ha percorso e continua a percorrere.

(Per i fan: potete saltare il paragrafo che segue) 🡪 Questa notorietà, tuttavia, non ci libera dal tarlo che ci suggerisce di ripercorrere la sua ancor breve e già intensa storia. È innegabile che i centri italiani considerati terreno fertile per gli artisti degli anni ’10 siano Roma e Milano, alle quali va inevitabilmente accostata, per il sottobosco di artisti che continua a far germogliare, Napoli. Il nostro Filippo, figlio artistico della Capitale, non fa eccezione: del resto l’ascendenza musicale romana da cui egli proviene vanta una scuola notevole, che – capostipiti De Gregori, Venditti e Rino Gaetano – spazia dall’ironia di Daniele Silvestri alla languidezza dei più giovani Gazzelle e Calcutta, dalla cura strumentale e alla raffinatezza dei testi di Max Gazzè alla densità poetica di Niccolò Fabi. Ma la lista è lunga e non è il caso di ripercorrerla in questa breve nota: ci basti sapere che da qui (ma non solo) giunge Fulminacci. L’esordio, un’autentica ventata di novità, è La vita veramente, del 2019. Dopo un paio di singoli, fa un passo ulteriore verso la notorietà portando al Festival di Sanremo uno dei suoi brani più conosciuti (e, lasciatemelo dire, più belli), Santa Marinella, che finisce nel nuovo album, Tante care cose, esattamente due anni dopo il debutto. Nel frattempo, esce Aglio e olio, con la quale il cantautore romano, affiancato dalla voce del rapper torinese Willie Peyote, ci conferma quali frutti possano venir fuori dai suoi featuring, portati avanti anche con artisti del calibro di Silvestri stesso e Gazzelle.  

Ho usato una parola impegnativa da sostenere e probabilmente caduta un po’ in disuso, ma, nonostante questo, adatta al caso nostro: cantautore. Forse nostalgica, forse evocatrice di un periodo perduto del nostro recente passato musicale, ma utilissima a noi che, in fondo, Fulminacci non sapremmo dove collocarlo. Sfugge, e tuttavia si fa inseguire. Promette, illude e svia. Quando siamo convinti di afferrarlo, eccolo che scarta di lato e ci costringe a cambiare direzione. Si prende in giro e, facendolo, prende in giro noi, ci smaschera. Al posto di irritarci, però, finiamo per amarlo.

Le due sentinelle poste a guardia della sua creatività, l’ironia e la dolcezza, restano salde a fare il loro lavoro, nessun dubbio. C’erano già in Borghese in borghese e Al giusto momento (da La vita veramente), le abbiamo ritrovate in Tattica e Le biciclette (da Tante care cose) e, a seguito di altri due anni d’attesa – un po’ smorzata da tante uscite intermedie –, eccole che tornano in Ragù e Simile di Infinito + 1. Tra le novità, si consolida il numero delle collaborazioni, con la partecipazione dei Pinguini Tattici Nucleari in Puoi e di Giovanni Truppi – attivo da anni, ma solo recentemente uscito dalla cerchia dei ristretti – in Occhi grigi, rispettivamente seconda e sesta traccia del disco, riuscendo così a far convivere due punti distanti della musica italiana dei nostri anni ’20. 

Fulminacci ci ha ormai abituati al suo impianto strumentale, uno dei più variegati nel panorama della musica circostante, per mezzo del quale egli soffia su tutto il ventaglio emotivo dei suoi ascoltatori: dalla classica ballata da ascoltare affacciati a finestre e finestrini rigati dalla pioggia, al pezzo più frizzante – che di solito è anche quello più ironico – da cantare a squarciagola, al brano davvero pop (scommettiamo su Baciami Baciami in radio e discoteche nei prossimi mesi?), che si connota per la propria, ineludibile funzione commerciale: “Devo scrivere una hit che non è una hit/Sì, per non fare passi indietro e neanche in avanti/E non perdere quel poco di pubblico generalista/Che mi sono conquistato negli anni”.

Allo stesso tempo, attraverso la cura dei testi, ci sta chiedendo di essere ascoltato, di prenderlo sul serio perché sul serio, anche quando sembra giocare, sta parlando. E sta parlando a una generazione che ha bisogno di sentirsi un po’ più viva e meno colpevole, meno chiusa in schemi preconfezionati e disponibili a buon mercato: “Non mi interessano/le tue ragioni, il tuo pensiero artificiale/da dove viene e dove va, /la tua esistenza/è chiusa dentro una prigione culturale:/non ti verrò a trovare”. Una generazione che deve imparare a riportare ogni cosa, soprattutto gli sbagli e le mancanze, a una dimensione più umana, anche perché tutto sommato sbagli e mancanze ci appartengono di natura e ogni sforzo fatto per evitarli è vano (“Tanto il vero nemico è ciò di cui siamo fatti”). 

Il rimedio? Lo dice Fulminacci stesso nelle sempre più numerose interviste: l’amore.

Un amore che si sforza di essere tale anche quando non possiede il pungolo degli attimi eccitanti della vita, anzi, soprattutto nelle sue sbavature, nei suoi momenti di quiete apparente, di sopportazione reciproca. Un modo di resistere e di costruire, insomma, mentre “questi tempi di carta e di fumo” si dissolvono sotto il peso della propria inconsistenza.

Anche stavolta l’attesa della release allo scoccare della mezzanotte non ha tradito le attese.

A differenza mia, che non vi ho più detto chi è Filippo Leroy, Fulminacci ha fatto quello che doveva.

Ora tocca a voi.

Infinito +1

Fulminacci

(Per ora rilasciato solo in digitale, ma presto anche la versione in CD, Vinile e Vinile Deluxe, pre-order a partire dall’11 dicembre)

Etichetta: Maciste Dischi