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Antonio R. Daniele

In Zero assoluto

Zero assoluto – appunti di tutto e niente.

di Francesca Bellucci

In fisica lo zero assoluto è la temperatura più bassa che si possa raggiungere in un qualsiasi sistema termodinamico. La temperatura è il frutto del movimento degli atomi, pertanto, quando tutti gli atomi sono immobili l’energia termica è assente. Ecco, io sento questo tempo come uno zero assoluto, la gelida immobilità delle coscienze, l’incapacità di percepire come materico e fissile la storia di cui facciamo parte. Siamo indifferenti a ciò che succede, vi agiamo passivamente, limitandoci a credere che ciò che sappiamo basti formulare giudizi, a prendere decisioni, a schierarci concettualmente.

Di che cosa abbiamo bisogno di parlare? Dietro quali maschere narrative dobbiamo nasconderci per osservare meglio quanto ci accade? Ma soprattutto, è ancora questo il fine della letteratura? Che cosa ci dice l’arte di uguale o diverso dagli ostacoli di parole che giornalmente superiamo tra un articolo di giornale e un post spesso mal scritto? Che esseri sociali siamo? Come e cosa pensiamo?

Per questo sono appunti di tutto e niente: tutto, perché ogni evento, qualunque azione compiuta da noi o da altri, i pensieri che formuliamo, i libri che leggiamo, il modo in cui scrolliamo le nostre home page social e quali profili scegliamo che le riempiano sono la nostra vita; niente, perché in questo maremagnum di correnti che ci portano convulsamente alla deriva e fortuitamente sulla battigia, a me sembra impossibile trovare un capo, un nesso logico, il bandolo della matassa.

Oggi abbiamo bisogno di parlare di educazione sociale, di scrittori e artisti che ci aiutino a vedere la realtà con lo sguardo profetico della disfatta a cui siamo destinati seguendo, immobili, lo scorrere delle cose.

Sono i giorni dell’indignazione, del dolore, dello smascheramento dell’incoerenza politica di questo Stato, un termine che ha smesso di appartenere al nostro vocabolario, che sentiamo come estraneo. “Stato” è il participio di stare. E’ come siamo stati e stiamo in un luogo, ma è anche ciò che vogliamo ci sia. E in questo momento non c’è niente di accogliente, di amabile e rassicurante. Siamo il popolo dell’abitudine e dell’ignavia. Appunto, lo zero assoluto. Incapaci di riconoscere il problema, di lavorare per qualcuno di diverso da noi stessi. Bambini mossi da un egocentrismo radicale che avremmo dovuto abbandonare nell’infanzia e che invece è l’imperativo categorico delle nostre vite: esiste se mi è davanti agli occhi, appena sparisce non esiste più. Allora come è possibile restare ancorati nel nostro tempo?

In questa rubrica non troverete verità rivelate; non leggerete, oggi, un certo lessico così tanto utilizzato in queste settimane, non vedrete impressa in un muro di parole l’ennesima rappresentazione della punta dell’iceberg. Cercheremo di andare oltre il pelo dell’acqua, di guardare al di sotto, a quella massa informe che è la società di cui facciamo parte.

Decidiamo di restare ancorati al centro della bufera alzatasi il 18 novembre, potente come non mai perché potenti sono state le parole, la richiesta di restare vigili prima dell’ennesimo oblio morale. Abbiamo visto, per davvero, qualcosa che è sotto ai nostri occhi e che, nonostante tutti i tentavi fatti, non chiamiamo per nome. Ripercorreremo le parole degli altri, vi chiederemo di regalarcene. Questa rubrica sarà uno spazio di riflessione per chi, con noi, non ha più bisogno di false risposte ma cerca le giuste domande. Partiremo da ciò che abbiamo, la letteratura, perché se è vero che dal nulla non nasce nulla, è vero anche quanto affermato da Chiara Valerio, curatrice dell’edizione 2023 di “Più Libri Più Liberi”: «siamo certi che leggere fornisca le parole e più parole si hanno, meno mani si alzano», un concetto non così distante dalla proporzione heidggeriana tra parole e pensiero: più parole possediamo, più complesso sarà il pensiero che potremo formulare.

Ex nihilo nihil. Oggi c’è tutto, da cui (ri)creare tutto.

In Appunti di Lettura

Inquisizioni sui Karamazov – parte XII

di Demetrio Paolin

Uno dei problemi di interpretazione che pone l’epilogo dei FK è secondo me legato a una decifrazione dell’immaginario e al suo rapporto con l’ideologia, anzi la relazione tra Ideologia e/o Immaginario è focale dei FK; è importante indagare, quindi, in tale rapporto, l’ipotesi preliminare potrebbe essere riassunta così: l’immaginario è la prassi dell’ideologia, che ne rappresenta la teoria. L’immaginario è la messa in moto, in azione, in mimesi, in pagina di ciò che l’autore pensa. 

Eppure, tale definizione che potrebbe essere anche corretta non resiste alla “prova romanzo”, ovvero FK mostra tutte le diverse criticità dell’enunciato precedente. Se fosse semplicemente così, se questa equazione fosse reale – io ho una ideologia, una visione determinata del mondo, e questa produce un immaginario -, avremmo davanti un’opera chiusa, granitica, inscalfibile. Il genere che maggiormente si conforma a questa idea è, nella classicità, la tragedia; Aiace, Edipo, Medea sono eroi tragici per questo motivo: in qualche modo il loro mondo è ideologicamente definito.   Sempre osservando la classicità, anche Achille ed Ettore sono personaggi tragici, perché non solo si muovono in un mondo già rigidamente definito, ma lo riconoscono come unico e solo, e l’ideologia di questo mondo granitico è, come bene aveva messo in evidenza Weil, la forza che invera e produce l’intero immaginario del poema. Nello stesso tempo, rimanendo nell’epica, l’Odissea segna già un allontanamento della idea di tragico: nelle avventure di Ulisse non è presente una forte necessità ideologica, tanto che la domanda di senso del poema – per cosa torna Ulisse? Perché vuole tornare?  – non ha una risposta univoca, mentre ad esempio se ci chiediamo per cosa e per chi muoiono Achille ed Ettore la risposta ci sarà di certo più chiara e certa.

L’epilogo dei FK mette in scena tale tensione tra ideologia e immaginario, ma non la risolve, la aumenta. D vorrebbe fare la morale, tirare via il sugo della storia ma non ce la fa. Si pensi – ad esempio – all’incontro tra Dimitri e Katerina, Epilogo, cap II: «Tu ora ami un’altra e io amo un altro, ma io ti amerò sempre e tu amerai sempre me: lo sai, questo? Mi senti? Amami, amami sempre, tutta la vita!».

Questo ordine di Katerina sembra proprio opporsi alla conclusione del romanzo a quello che noi avevamo creduto come logica conseguenza nelle pagine precedenti, dove tutto ci pareva chiaro e definito. L’ideologia, d’altronde, ha sempre tutto chiaro, limpido, distinto. D’altronde, come si fa a fare la morale alle persone se le cose non sono chiare? La battuta di Katerina, invece, mette in discussione tutto, non solo e non tanto la parabola dei personaggi, ma proprio il loro sentire intimo.    

L’immaginario di D si ribella alla sua ideologia di autore, e così viene da chiederci dove quest’ultima sia stata resa esplicita: essa è perfettamente rappresentata dalle due lunghe requisitorie, quella dell’accusa e quella della difesa, presenti nella Parte quarta nel libro dodicesimo, dove – e non sarà casuale – sia il procuratore che l’avvocato della difesa utilizzano più volte la parola “romanzo”. Tale occorrenza, ad esempio, non è mai usata dal narratore: questa strana prima persona che possiede in sé alcuni crismi tipici della terza onnisciente che, quando parla del testo che sta redigendo, si limita a definirlo cronaca, testimonianza, storia, ma mai romanzo. 

Le due requisitorie, ognuna per la sua parte, producono abbastanza limpidamente per me l’ordine ideologico del romanzo, il modo con cui sono organizzati i fatti, il modo con cui il mondo viene rappresentato; assistiamo in quelle pagine al tentativo di chiudere tutte le possibili storie e archi narrativi. È uno sforzo incredibile, proprio per la massa di questioni che i FK aprono e lasciano al lettore. Nelle requisitorie c’è una rigidità, una logica o la ricerca di una logica che non ammette deviazioni, che invece nelle pagine precedenti sono stati il modo più classico di costruire la storia per D. 

Nell’epilogo l’autore mette in crisi la sua stessa creazione, è questa la grandezza del genio: sapere che ogni narrazione non può che fallire, non può che in qualche modo traballare, come traballa la conoscenza delle cose umane da parte nostra. Se il romanzo è una avventura, se è l’esplorazione amletica delle lande da cui nessuno fa ritorno, non è possibile che questa esplorazione si chiuda con dato logico. 

Certo D fa di tutto per cercare di costruire una serie di simboli che possano in qualche modo essere ricondotti alla sua ideologia. Osserviamo Mitja che proprio in queste pagine conferma la sua idea di fuggire in America e immagina lui e Grusenka che «zappano e faticano». È indubbio che D voglia costruire un paragone con Genesi: Mitja e Grusenka sono simili a Adamo ed Eva cacciati dall’Eden (la Russia), un Eden nel quale ritorneranno come clandestini nascosti, dopo un periodo di anni, dopo aver appreso una nuova lingua – Mitja parla di «fatica e grammatica» – e fingendosi «americani». Domandiamoci: Che tipo di prefigurazione di salvezza è?

In base a questo epilogo possiamo sostenere che si è salvi se si finge di essere ciò che non si è. Mitja può tornare in patria solo rinnegando la sua stessa patria, rinnegandone la lingua, vivendo con una donna che ama, ma sapendo che ama anche un’altra donna, e che l’amore di prima non può in nessun modo essere perdonato: sarà straniero nella terra della salvezza, e sarà straniero nella terra della perdizione. In che modo questa “scelta” di Dimitri nell’economia del romanzo possa essere legata all’ideologia di D, alla sua convinzione della centralità della sua Russia nell’economia della salvezza che Dio ha nel mondo, mi pare difficile da trovare. C’è una sostanziale tensione non risolvibile tra il romanzo e l’ideologia del suo autore, tanto che Dimitri pare suggerire a Dostoevskij come la sua idea, la Russia come nuovo Israele, sia sbagliata, perché il destino di Dimitri è sì la salvezza, ma a costo della rinuncia alla Russia. 

La scomparsa dalla scena di Ivan è altrettanto sintomatica, Ivan è il personaggio che ha posto più problemi a Dostoevskij ideologo, perché le immaginazioni su Ivan – l’inquisitore, il dialogo di Smerdjakov, il dialogo, di cui noi conosciamo sommariamente il contenuto, con Liza, il dialogo con il diavoletto borghese – producono una serie di rotture non indifferenti: il nichilista diventa lentamente religioso, infatti che cosa è più religioso e mistico che vedere il diavolo e combattere contro lui?

D è ossessionato da Ivan, che sembra sussurrare nel suo orecchio: “Tu credi in Cristo e credi in Dio. E ipotizziamo che Dio esista, perché esiste il diavoletto, ma Cristo? Se ciò che per te è Cristo non esistesse? E Se a baciare l’inquisitore non fosse Cristo come tu credevi, ma dal diavoletto che tormenta me, Alesa e Liza? Anzi se a dare quel bacio fosse stato l’Anticristo? ” 

La scelta dell’epilogo di condannare Ivan a silenzio è il trionfo dell’immaginario sulla ideologia che nulla potrebbe su quella domanda, che rimane abissale per un credente, perché si riassume nella impossibile interrogazione “Perché Dio piuttosto Gesù il Cristo?” 

Alesa, ovviamente, pare il più tetragono, il più ideologico: il discorso sulla resurrezione di Iljusa potrebbe essere letto così, se indugiamo in particolare sulle battute finali che chiudono il dialogo con Kartasov. Diversa, però, sarebbe la nostra impressione se leggessimo l’intero discorso che precede questa chiusa un po’ goffa. Noi sappiamo che Alesa come Liza e Ivan ha esperienza del demonico, del basso, del peccato, lo sappiamo già da quando lo incontriamo senza speranza dopo la morte di Zosima, perché Alesa aveva posto la sua fede in Zosima e non in Cristo. 

Alesa – lui il puro, colui che si è gettato a terra, che si è unito alla terra, che è morto come il chicco – sogna lo stesso sogno di Liza, a condividerne un’ombra enorme; quasi presagisse che la sua ricerca di santità si riducesse, così come per Liza, nel desiderio, che «non resti niente di niente. Come sarebbe bello se non restasse più niente». 

Alesa – il credente – diventa nichilista come e più di Ivan: D lo presagisce, tanto che le parole che gli fa pronunciare “davanti alla pietra” sono confuse, Alesa stesso sembra giustificarsi, «perché spesso dico cose poco chiare», e aggiunge misteriosamente: «Lo dico nel caso in cui dovessimo diventare cattivi». Un possibile cattivo, un possibile uomo che potrebbe diventare a tutti gli effetti Stavrogin, è questo personaggio a cui D affida la definizione del nucleo fondante della fede cristiana: la resurrezione e la gioia. A ben leggere questo epilogo si ha l’impressione che Alesa abbia perduto la fede, non riusciamo a comprendere quando D se ne sia accorto, o quanto lo sviluppo del suo personaggio abbia preso una piega diverso dal suo iniziale progetto, ma in lui, nell’eroe del romanzo (vd. Nota dell’autore), si nota con chiarezza la tensione tra immaginario e ideologia. 

A conferma di ciò osserviamo una breve scena dell’epilogo, nel quale Kartasov critica l’usanza di mangiare i bliny dopo il funerale: al ragazzo tutto ciò pare stonato e fuori logica rispetto all’enormità della morte innocente di un bambino e al funerale appena avvenuto. C’è in questa rabbia di Kartasov qualcosa di potente e di religioso: non si può mangiare in un momento del genere. Alesa, dopo aver ricordato il mistero della resurrezione, invita tutti, sorridendo, a mangiare i bliny, perché è una usanza. Questo riferimento alla usanza, alla fede sempliciotta, ci porta nuovamente al diavolo di Ivan e al suo desiderio di viver una vita semplice, andando in chiesa e accendendo di tanto in tanto una candela votiva come la vecchietta, è simile al sogno di Liza che mangia la composta d’ananas mentre il bambino è crocifisso; la fede che Alesa propugna è paradossalmente una non-fede, una credenza, un insieme di riti. Il mistico dell’inizio del romanzo è scomparso; nulla di ciò che lo caratterizzava a inizio romanzo è presente in lui, Zosima lo manda nel mondo perché sa che Alesa deve perdersi, deve smarrire se stesso ma, smarrendosi l’eroe del romanzo, il principio ideologico della visione di D si arrende alla vastità dell’immaginario, alla impossibilità, per fortuna nostra, di scrivere romanzi a tesi, e ci riconcilia con la possibilità/tentativo di guardare questa “cosa” multiforme che è la vita e darne una immagine.

In Appunti di Lettura

Inquisizioni sui Karamazov – parte XI

di Demetrio Paolin

Durante la stesura di queste inquisizioni ho letto l’ultima fatica di McCarthy Il passeggero (Einaudi, trad. M. Balmelli), e sono rimasto colpito da alcuni dati che possono avvicinare il romanzo ai FK e in particolare la parte quarta, libro undicesimo, capitolo IX, Il diavolo, L’incubo di Ivan Fedorovic. A colpirmi nei due romanzi è appunto il colloquio tra i protagonisti – da una parte Alicia e dell’altra Ivan – e le due essenze demoniche. Scrivo demoniche e non demoniache, perché nel leggerli ho avuto l’impressione che appunto tali personaggi, non si nutrano di un immaginario legato alla dannazione, inferno, peccato e colpa, ma rappresentino il daimon, il destino, la necessità di essere ciò che si è. 
The Kid, il diavolo che visita Alicia, e il diavoletto in grisaglia di Ivan hanno in comune l’ironia, una certa propensione al gioco di parole, una volontà precisa e netta di voler essere riconosciuti come presenze reali, reclamano per loro un attivo senso di partecipazione alla vita dei loro interlocutori, si credono e – in un certo senso – sono decisivi per il destino, per le scelte dei personaggi nel corso libro: la loro azione è tale che essi diventano fondamentali per descrivere e comprendere i futuri dei loro fratelli (Il passeggero come i FK è un romanzo di fratelli). 
Come ho sostenuto nelle pagine precedenti, durante la lettura dei FK, si ha l’impressione che i protagonisti siano posseduti dai sentimenti, dalle emozioni, le quali sono esterne, dissociate, staccate e lontane dai personaggi. Questa descrizione corrisponde all’immagine dei personaggi del romanzo come narrativamente degli schizofrenici: cercavo in qualche modo di trovare una spiegazione a questo fenomeno e l’ho trovata in Operatori e cose. Confessioni di una schizofrenica di Barbara O’Brein (Adelphi, trad. M.Baiocchi). Questo sentirsi posseduti da qualcosa che è estraneo eppure verissimo, concreto, presente, reale e visibile è tipico dello schizofrenico, che vive una realtà  altra, nuova, diversa e paranoica in quanto essa è misura e idea di ciò che la sua mente crede sia la verità. 
Alicia ne Il passeggero, dopo un’iniziale titubanza, non mette mai in dubbio l’esistenza di The Kid, anzi diventa un medium di guardare il mondo ed i loro dialoghi diventano veri e proprie ricapitolazioni sul mondo e sul possibile tentativo di spiegarlo. Qualcosa di simile avviene nel dialogo tra Ivan e il suo operatore; a livello narrativo, ciò che avviene tra Ivan e il suo diavoletto domestico è sintomatico di tutti i personaggi dei FK, quasi che il mondo in cui vivono fosse un ampio delirio paranoico. 
Nel saggio Paranoia (Bollati&Boringhieri) Zoia scrive: «Il paranoico è spesso convincente, addirittura carismatico. In lui il delirio non è direttamente riconoscibile. Incapace di sguardo interiore, parte dalla certezza granitica che ogni male vada attribuito agli altri. La sua logica nascosta procede invertendo le cause, senza smarrire però l’apparenza della ragione». Nei personaggi dei FK tale movimento è visibile in diverse pagine, anche se in D esiste una sfumatura particolare rispetto all’idea di alterità: nei romanzi di D, e in particolare in FK, l’altro è assunto come capro espiatorio, è la possibilità di dare la colpa, sgravandosi della propria. Nel delirio paranoico di Ivan l’altro diventa il demonio, che diventa Smerdjakov. I personaggi dei FK vogliono trovare (e li inventano se non ci sono) degli operatori: la loro stessa malattia (il dubbio? la mancanza di fede?, la ‘russità’?, la vastità della vita e la piccolezza dell’uomo?) produce in loro questa spasmodica ricerca dell’altro come l’elemento paranoico, sia esso Dio, il diavoletto, il nichilismo, per cercare una spiegazione diversa al mondo così come è. Il più immune a questa paranoia è ancora una volta Dimitri: egli è il balordo, ma è quello più deciso pronto ad accettare la vita per ciò che è e non per ciò che gli “operatori” dicono sia. 
I FK, come ogni classico che si rispetti (non è necessario neppure far riferimento alle tesi di Calvino), continuano a parlarci; certo, come ci ha ricordato Nabokov D non è un profeta, ma di certo ha intravisto qualcosa di questo nostro mondo, ovvero ciò che è diventato il reale nucleo narrativo della attuale modernità: la paranoia – il tentativo costante e continuo di produrre immaginazioni, narrazioni, costruzioni di senso che giustifichino le nostre sconfitte, le nostre brutalità, le nostre cattiverie.

In Sesto Potere

Doctor Who 60th: il viaggio transmediale di una serie senza tempo

di Giovanni Morese

“The first question! The question that must never be answered, hidden in plain sight. The question you’ve been running from all your life: doctor who? Doctor who? Doc… tor… WHO?”

Nell’infinito cosmico e multiforme dello storytelling contemporaneo, Doctor Who emerge come se fosse una colonna sonora senza tempo, una sinfonia di riscritture che per sessant’anni ha intrecciato passato, presente e futuro in un viaggio perenne attraverso il tempo e lo spazio. Questa odissea epica, così incerta nella sua genesi e nelle sue multiformi strutture si è così ampliata in una danza di rigenerazioni narrative che hanno ridefinito il concetto stesso di serialità televisiva.

Il Dottore, cantore e cuore pulsante di questa epopea, incarna la filosofia del rewriting in modi che hanno sempre sfidato il convenzionale. È un architetto del tempo, un’entità che plasma il proprio racconto attraverso le ere offrendo agli spettatori un’ossimorica emozione, tra l’incertezza di ciò che verrà e la confortevole consapevolezza che ritroveremo, in fin dei conti, lo stesso enigmatico personaggio di sempre.

Tuttavia, la magia della riscrittura non si limita al protagonista solitario. Companions, avversari, addirittura il logo della serie sono tutti parte di questa sinfonia narrativa in cui nulla è statico. Ogni personaggio, ogni elemento visivo, ogni storyline è un tassello mobile in un mosaico narrativo che si adatta e si reinventa; che fa giri pindarici e poi, magari, ritorna. È un franchise che ti consente di rincontrare Ian Chesterton dopo cinquantasette anni di assenza dalla serie poiché “this story is ending, but the story never ends”. È un Whoniverse in cui il temibile Toymaker lancia – nella black & white television targata BBC di un 1966 costellato di serial low budget che hanno posto le basi dell’attuale panorama multimediale – una sfida al Dottore che verrà ripresa solo nel 2023 in simulcast con la piattaforma Disney Plus in tutto il resto del mondo.

La lore del Signore del Tempo è una intricata tela di miti e leggende, una saga che si riscrive assieme a noi. Il comic diventa audiodrama, che a sua volta si trasforma in un memorabile episodio televisivo da cui verrà tratto un avvincente romanzo. La soundtrack, di generazione in generazione, si adatta ai tempi, sottolineando e amplificando le emozioni dell’esperienza di visione sia dei neofiti che dei seguaci del secolo scorso. In questo vortice temporale, Doctor Who ci insegna che la serialità non è semplicemente una forma d’arte; è un viaggio, una costante trasformazione che abbraccia ciò che è stato, ridefinisce l’odierno e getta uno sguardo audace verso mondi ancora inesplorati.

Il Sessantesimo Anniversario è, pertanto, un invito ad immergersi nel turbine di queste riscritture. È un percorso attraverso le ere, un omaggio alla maestria con cui il tempo è stato sfruttato come elemento narrativo, fino a divenire un personaggio a tutto tondo. Per questo gli imminenti speciali The Star Beast, Wild Blue Yonder e The Giggle si inseriscono all’interno del Whoniverse come un ponte tra il vecchio e il nuovo, un confortevole ed elegiaco ritorno che fungerà, forse ancora più del solito, anche da nuovo preludio. Un tuffo nel contesto sociale contemporaneo che ha l’intenzione di ridefinire gli stessi elementi iconografici che rendono questo prodotto la costante companion di decenni di Storia e di rappresentazione mediale. Una trilogia-evento in cui David Tennant, attore della Golden Age delle annate 2005-2010, torna – assieme al suo dream team – nei nostalgici panni del Dottore con lo scopo di aprirci a scenari inediti, ad un trip of a lifetime che rappresenti al meglio lo spirito eterno di queste narrazioni avvolte da un inconfondibile mistero. Da una domanda a cui non bisogna mai rispondere, nascosta in piena vista. Quella che inseguiremo per tutta la vita aspettando il suono della TARDIS, a prescindere da chi la stia guidando. Una blue box della polizia britannica con la quale cercare – attraverso gli occhi meravigliati dell’ennesimo essere umano che incrocerà la strada di quell’alieno che fuggì dal suo pianeta per scoprire se stesso – di mettere luce sul nostro fugace e nebuloso presente.

In Appunti di Lettura

Inquisizioni sui Karamazov – parte X

di Demetrio Paolin

Mi pare, ora, maggiormente chiaro cosa io intenda per economia romanzesca ovvero il modo con cui i personaggi si relazionano tra di loro, e su come il loro relazionarsi in qualche modo operi “cambiamenti” nel mondo narrato dal romanzo. Intendo, quindi, la parola economia con una sfumatura teologico religiosa, in particolare quando si discute di economia della salvezza o di economia trinitaria come descrizione possibile del rapporto tra il Dio, Cristo e lo Spirito Santo. Le cose che riprendo qui, in parte e di certo piegate alle mie esigenze di lettura, sono spunti che Agamben sviluppa ne Il regno e la gloria (Bollati&Boringhieri), e che in parte trovano eco nel saggio di Kristeva Il demone di Dostoevskij (Donzelli), dove la critica afferma come sia centrale nella narrativa di D l’idea dell’economia dell’icona (sicuramente partendo da Florenskij) in cui essa può essere vista come il tentativo di contenere, di dare un ordine, di mettere in chiaro la possibilità di percepire l’immagine di Dio. 
L’economia, quindi, può suggerire sia l’idea di azione (l’idea del progetto), che l’idea di relazione (la messa in pratica del progetto). Quando parlo dei FK come romanzo economico, descrivo tale rapporto come una irrisolta tensione che provo a chiarire analizzando i rapporti tra i fratelli: Ivan, Alesa e Dimitri. La tensione tra di loro si polarizza, secondo me, in due termini: da una parte la terra e dall’altra il mondo. 

Ivan/Alesa = terra

In FK, parte terza, libro settimo, cap IV, abbiamo lasciato Alesa disteso per terra, mentre «non si spiegava quella voglia irrefrenabile di baciarla e di baciarla tutta quanta»: è questo il “miracolo” delle Nozze di Cana (da cui il titolo del capitolo), è il miracolo, la comprensione profonda della morte, della puzza di Zosima: Alesa, come nella parabola del vangelo di Giovanni, capisce cosa vuol dire essere chicco di grano, morire e portare frutto, decide fisicamente di diventare tutt’uno con la terra, di essere seme, per poi essere frutto. Questo stupore terrestre, questa scelta di essere tutt’uno con la terra, rimanda al racconto di Zosima davanti al fiume alla natura priva di peccato e anche al discorso di Ivan sulla sofferenza dei bambini che è introdotto a partire dell’immagine delle foglioline. Ivan e Alesa, mediati dallo Starets, condividono la terra, e ciò che essa rappresenta: una sorta di luogo senza peccato, un’entità a cui tornare; la terra da cui viene fabbricato il nuovo Adamo, tramite la morte di Cristo. È vero, Ivan e Alesa sono agli antipodi come “fede”, ma entrambi condividono questo “amore” per la terra.

Dimitri = mondo

A prima vista, mettere in relazione Dimitri con il mondo parrebbe erroneo perché – ad esempio – etimologicamente Dimitri contiene in sé la terra, la contiene nel suo nome, eppure durante la lettura del romanzo il suo rapporto con la terra è diverso, non ha nulla della assoluta purezza o dell’assoluto desiderio di purezza che anima i discorsi di Ivan e Alesa: la terra di Alesa e Ivan è   redenta, mentre Dimitri tiene in sé il mito di Demetra ovvero la sterilità e la fecondità, il ritornare ciclico delle stagioni: Dimitri è l’idea del tempo che ritorna, con costante avvicendarsi, mentre Ivan e Alesa, in modi diversi ipotizzano, un tempo lineare che arriverà a una fine, che mostrerà una salvezza che produrrà qualcosa di nuovo.
Questa ipotesi trova una serie di conferme in alcuni capitoli della parte terza, libro ottavo, in cui a campeggiare è il personaggio di Mitja. Nel capitolo III parlando della gelosia di Dimitri e mettendola in rapporto con l’Otello di Shakespeare leggiamo «il suo modo di guardare il mondo s’è spento». Possiamo notare che non dice “la natura”, o “la terra”, ma è proprio il modo di guardare il mondo (ecco il riferimento all’economia dell’icona/economia dello sguardo che ritorna) che è spento, modificato, offuscato. Nel libro ottavo, cap. VI, quando è chiaro il suo progetto suicida, progetto più immaginato che mai realmente preso in considerazione, Mitja esclama: «Concedimi di amare fino in fondo… di amare qui e adesso, fino in fondo, cinque ore prima dei tuoi raggi». A colpire è il qui e adesso: in Dimitri non è presente alcuna idea di futuro, non c’è nessuna speranza di futuro, nel dialogo tra Alesa e Ivan la scelta stessa di restituire il biglietto significa che esiste un viaggio con una precisa destinazione e tale destinazione viene ripudiata, ma il fatto di ripudiarla non significa in alcun modo che non esista, anzi ne certifica l’esistenza. Ivan e Alesa parlano la stessa lingua, parlano la lingua di Dio, della teologia, della salvezza e del perdono. 
In Dimitri questo linguaggio non è presente; in libro ottavo, cap. VIII, leggiamo, a parlare è Grusenka, ma tali parole sono benissimo rapportabili a Mitja: «Siamo tutti buoni a questo mondo, dal primo all’ultimo. Si sta bene, a questo mondo. Noi saremo anche cattivi, ma al mondo si sta bene». Il mondo è il luogo in cui anche se cattivi si sta, si vive, è questo nostro mondo, in cui balordi, cattivi, buoni, gentili, assassini, ladri vivono insieme e, diversamente da Ivan e Alesa, né Dimitri e né Grusenka vogliono cambiarlo, ma tenerlo così come è, nel hic et nunc. 
Solo guardando al mondo in questa accettazione, ovvero di un mondo irredento, si comprende l’esclamazione di Dimitri: «ti amerò anche in Siberia». Il luogo della prigionia, della colpa e della espiazione diventa per Dimitri il luogo in cui si può ancora vivere, e amare, in cui può essere ciò che è; non c’è nel suo amore nulla di redentivo, non vuol redimersi e non vuole salvare nessuno, non c’è in Dimitri la tensione alla palingenesi finale che è invece tipica dei suoi due fratelli. 
Il mondo per Dimitri rappresenta il così com’è la terra, per Ivan e Alesa il così come sarà.

In Appunti di Lettura

Inquisizioni sui Karamazov – parte IX

di Demetrio Paolin

Una delle domande più ricorrenti nella analisi della critica letteraria è legata al chiedersi che cosa sia lo stile? In realtà è difficile definire lo stile di uno scrittore; anche il chiedersi in cosa esso consista produce una continua sequela di domande che nascono le une dalle altre. Cosa è lo stile di un autore? Per alcuni potrebbe essere individuato nella qualità della sua scrittura; ma cosa significa dire che uno scrittore scrive bene? Cosa significa scrivere bene, cosa distingue lo scrivere bene dallo scrivere male? D scriveva bene o male? Come facciamo a giudicarlo noi che non conosciamo la sua lingua? Lo stile, secondo altri, potrebbe essere legato alla capacità di creare trame? DFW ci ricorda, ad esempio, come tale qualità possa non bastare. Lo stile, che è lo stigma della grandezza di uno scrittore, potrebbe stare nella creazione di personaggi che sono vividi nella nostra mente oppure, o anche, nella abilità di produrre un discorso metaletterario. Nessuna di queste evidenze presa da sola produce una definizione appropriata di stile, tanto che potremmo immaginare come una relazione tra questi elementi: il romanzo non è tale perché è scritto bene, perché ha una trama avvincente, perché ci permette di riflettere su noi stessi, perché ci mostra personaggi che sembrano reali, ma per l’intima relazione di queste sfere tra di loro: un’unione che potremmo definire economica, una relazione e un rapporto per uno scopo: la produzione della esperienza romanzesca. 
Ho provato a fare un breve esperimento: ho scelto un episodio dei FK e ho provato a analizzarlo, rendendo evidenti quelle che, secondo me, possono essere le relazioni di “economia romanzesca” che producono il romanzo: mi sono soffermato sul libro quarto, della seconda parte, in particolare i capitoli che vanno dal III al VII.  Il centro degli episodi è Alesa alle prese con diversi protagonisti, tra cui Iljusa. Questi capitoli mi sono sembrati tra i più fertili del romanzo, mi si potrebbe obiettare che giunto a questo punto della mia riflessione, avrei potuto utilizzare altri momenti, invece di fare un passo indietro. Ciò può essere vero, ma io credo che una delle questioni centrali dei FK sia l’interpretazione del finale, che non a caso vede nuovamente protagonisti Iliusa (seppur morto) e Alesa con il suo continuo ricordare, rimuginare, riflettere sugli accadimenti raccontati nella prima parte del libro: insomma in quelle pagine, che ho provato ad analizzare, si gioca buona parte della comprensione dell’epilogo. Ho pensato, quindi, per rendere abbastanza chiara la mia riflessione, di scomporre il mio discorso in forma di vettori, limitando i miei interventi ad azioni di raccordo. Ecco il risultato. 

FK, parte seconda, libro quarto, cap. III
La sassaiola avviene all’aperto →    FUORI.
I protagonisti sono tre: a) il gruppetto; b) Alesa e c) Iljusa .
A dividere la scena è un ponte →    SOGLIA. Da una parte a e b, mentre c è da solo.
Iljusa sembra essere il perfetto capro espiatorio, ma è lui ad iniziare la sassaiola →   perché i ragazzi dicono ad Alesa che Iljusa lo riconosce. Iljusa lo colpisce. Ciò produce una sorta di passaggio delle colpe. Quindi è Alesa che domanda quale sia la sua colpa →    perché Iljusa lo morde: come se gli comunicasse il motivo, ma il motivo di questa colpa non può essere descritto a parole, è non dicibile, pregrammaticale → QUALE è la COLPA NON DICIBILE?
FK, idem, cap. IV
L’incontro è nel salotto → DENTRO
Centralità della ferita →    viene curata →    QUALE è QUESTA COLPA NON DICIBILE
Come nella scena precedente, Alesa è al centro di una sassaiola verbale tra Ivan e Katerina. Così come nella scena precedente Alesa interviene credendo di aver capito, invece sbaglia e la colpa cade su di lui.
Le due scene sono assolutamente rovesciate, ma simili. Avvengono una dentro e l’altra fuori, pare che ci sia un colpevole, un capro espiatorio, ma infine a prendere su di sé le colpe è Alesa.
Alesa prende la colpa, ma quale è la sua colpa? →    essere un Karamazov, infatti i bambini dicono che Iljusa lo riconosce, quindi lo riconosce in quanto Karamazov.    Nella scena del salotto si prende la colpa di Ivan, così possiamo intuire che forse la scena precedente la colpa poteva essere di Dimitri o del padre?
FK, idem, cap. VI
avviene nella casa →    CHIUSO
La scena ha tre protagonisti. a) la famiglia del capitano& il capitano b) Alesa e c) Iljusa.
La scena è divisa da una soglia →    la tenda
Il capitolo si conclude con il riconoscimento di Iljusa →    AGNIZIONE
FK, idem, cap. VII
Dialogo con il capitano    avviene fuori →   APERTO
Risponde alla domanda →   QUALE è LA MIA COLPA
Alesa accoglie la confessione, comprende la colpa del fratello e la fa propria →    la dichiarazione di aggiungere anche altri soldi a quelli dati da Katerina → SOLDI, TRADIMENTO – GIUDA? →    se accetto i soldi divento come Giuda, tradisco ciò che sono, divento qualcosa che non voglio essere. 
Rimane da comprendere cosa è Iljusa per Alesa? 
→ MORSO→    CARNE → PECCATO 
oppure 
→   MORSO →    LA FERITA/STIMMATE →    SALVEZZA
Ambiguità del tema dell’innocenza dei bimbi, prepara il ragionamento di Ivan sulla sofferenza dei bambini, e problema della libertà →    tema del Grande Inquisitore.
Come si legano la riflessione di Ivan sul biglietto (SOFFERENZA) e del Grande Inquisitore (LIBERTÀ)? Per comprenderlo forse bisogna notare come l’episodio della sassaiola → SOFFERENZA si concluda, alla fine del libro, con l’immagine dell’aquilone → LIBERTÀ.

Infine, vediamo alcuni nessi ricorrenti
la struttura a chiasmo    → APERTO/CHIUSO e CHIUSO/APERTO
La struttura dei personaggi →    3 contendenti nella sassaiola e 3 dialoganti nel salotto
la definizione non verbale di colpa e vergogna → colpa = morso e vergogna = abbraccio

La capacità organizzativa del racconto in D è il suo stile e lo stile può essere visto come una caratteristica economica ovvero di gestione del disegno, della trama e dei fili, ma il termine economico è ambiguo appunto non si riferisce solo “teologicamente” al disegno di Dio nel mondo, ma anche alla sua attuazione teleologica, ovvero di fine e di scopo: l’economia è un termine polisemico in cui noi possiamo vedere è il progetto nella sua interezza e il realizzarsi dello stesso.  Quando parliamo dello stile come di “economia del romanzesco” descriviamo appunto questa duplicità: leggendo le pagine dei FK riusciamo a vedere il progetto ampio del romanzo, dell’idea di romanzo che D ha ed il suo realizzarsi  continuo.

In Tu con Zero - Le interviste

Un’età à la recherche – Lettera Zero intervista Rosa Elenia Stravato sul suo “Il profilo del tempo”

di Valentina di Corcia

Una storia raccontata con un registro pop, ricco di citazioni cinematografiche e richiami alla musica, che ben si presta a descrivere gli anni della vita universitaria. Quel primo abbozzo di vita adulta che ci concede il privilegio di rimescolare le carte e iniziare a prendere le distanze da ciò che siamo stati. Una terra di mezzo, in cui abbiamo provato a diventare ciò che avremmo voluto, e spesso ci siamo riusciti.

L’ ultimo sprazzo di compiaciuta incoscienza che ci è concesso, il periodo al quale ripenseremo con tenerezza e la giusta dose di nostalgia. Protagonista è Sara, studentessa fuori sede che, insieme al suo gruppo di amici si muove dentro una città cangiante, da millenni scena e spettatore di imprese incredibili e quotidianità disarmante: Roma.Al centro della storia, il tempo. Lo ritroviamo già nel titolo e ripetuto o invocato lungo la trama , fino alla sua rappresentazione plastica, la fontanella di villa Borghese. Il romanzo che vogliamo presentarvi oggi  è Il profilo del Tempo, edito dai tipi di Les Flaneurs. A raccontarcelo è la sua autrice, Rosa Elenia Stravato.

1 Come nasce Sara e da dove nasce il desiderio di raccontare proprio quel preciso periodo della vita?

Scrivere per me significa essere al mondo. È uno spazio che dedico a me stessa e mi rappresenta, guida le mie scelte ed orienta i miei progetti. Il desiderio di raccontare la vita universitaria mi affascinava per varie ragioni che andavano dalla passione per lo studio, dall’amore incondizionato per Roma, dal desiderio di lasciare un messaggio positivo ma sopratutto per connettere i lettori. Del resto la parola “desiderio” contiene la motivazione di questo romanzo: “sentimento di ricerca appassionata” di una verità possibile, di una strada sconnessa ma avvincente e capace di raccontare altro da sé. Scrivere per creare connessioni tra i lettori. Ognuno con le proprie storie e vissuti, pronti a specchiarsi con il mondo chiuso tra queste pagine. Avvertivo, lavorando in quel periodo in una scuola superiore, l’esigenza di invogliare le giovani generazioni di studenti a imbattersi nelle sfide che spesso definiamo “sogni”, lasciando da parte quella fredda razionalità che, sovente, racconta che esistono “piani di studio di serie A” e di “serie B”. Volevo, altresì, raccontare una Roma meno onirica e più verace, capace di essere tangibile, visibile e riconoscibile nelle vite di ognuno di noi. Inconsciamente, forse anche non troppo, immaginavo di dovere un “grazie” autentico a quella Roma lì. E così è nata Sara; dall’osservazione dei passanti, dal respiro dei commenti sussurrati nelle metro affollate e anche dagli inganni che la vita ci sgancia. Sara è una ragazza dalla quale prendo nettamente le distanze, lungi dall’essere il mio alter ego, ma riesco a vedere in lei la bellezza delle contraddizioni, l’eccessiva premura di appartenere a un mondo ed anche la capacità di frantumarlo per uno sguardo. Penso sia affascinante il suo modo di vivere la storia, devo ammettere che mi sono interrogata spesso sul perché io le stessi propinando quella strada da percorrere ma è stata lei a guidare i suoi passi. Le ho dato spazio e tempo. Tanto tempo. Ho lasciato questo manoscritto per anni nel cassetto, aggiungendo e togliendo parti. Poi, ad un certo punto, ho scelto di presentarlo alla casa editrice Les Flaneurs. È stato un lavoro minuzioso che mi ha permesso di vivere la scrittura in maniera differente e dal quale ho tratto tanti insegnamenti. Forse non lo si dice abbastanza, no? Scrivere è un’arte che ha bisogno di studio e di professionisti per poter brillare. Quindi, accanto alla voglia di raccontare questo pezzo di vita umana, più o meno universale, c’era l’esigenza di mettermi alla prova come scrittrice e di maturare.

Sara è una ma, accogliendo taluni feedback dei lettori, è stata capace di essere molte ragazze; è entrata a gamba tesa nella vita di alcune persone sia spronandole in maniera costruttiva che

invogliandole a fare qualche errore. Sara è un essere umano nato con le proprie debolezze ma che mi ha permesso di investigare quel limbo di incertezze che caratterizza molte vite umane.

2 La necessità di scrivere di questa età dell’oro, nasce da una malinconia di echi mnemonici, rimpianto di un tempo che non tornerà?

Tutti viviamo nella danza oscillatoria della malinconia che ci permette, tuttavia, di assaporare gli attimi di felicità. Che ci restituisce alla bellezza imprevista quella che, malgrado le parole taciute, i treni persi, ci permette di dire sempre “ne vale la pena”. Sono del parere che bisogna fare in modo di non avere rimpianti anche se questo può sembrare una lotta contro i mulini a vento, vi giuro, che non è così. Pensateci bene. Quante volte ci siamo detti una bugia per poi cascarci dentro e accorgerci che sarebbe stato più semplice vivere quell’impresa? La vita, a mio avviso, va vissuta ingordamente. È una, preziosa e non torna. Perciò bisogna viverla con tutti i suoi colori.

Hermann Hesse sosteneva che “I dolori, le delusioni e la malinconia non sono fatti per renderci scontenti e toglierci valore e dignità, ma per maturarci” ed io sposo la sua visione. Scrivere per me è lasciare traccia, passare il testimone, dare un messaggio che possa essere letto a più livelli. Ognuno, a mio avviso, vede qualsiasi cosa nelle parole. Il bisogno di scrivere di questa età dell’oro, dunque, si palesa quale strumento per leggere la società e le sue trasformazioni, lavorare con le analogie, con le divergenze. È stato un processo naturale, quasi dovuto: probabilmente ha inciso, nella mia scrittura, quel senso di responsabilità verso i miei studenti e i miei lettori. Volevo tratteggiare gli anfratti più reconditi della vita con l’incanto fresco della scoperta, evidenziandone il peso ed anche i pericoli che si possono vivere. E volevo, anche, raccontare l’autenticità in un mondo che urla alla pluralità l’esigenza di restare in contatto ma lo fa nella maniera più becera. In fondo, quante volte restare connessi significa un pò snaturarsi per essere accolti dalla platea web? Questo testo, in fondo, racconta la bellezza di essere ciò che si è.

Io ho avuto la fortuna di vivere un’esperienza illuminante, ricca di stimoli e positiva all’interno dell’Università ma mi sono sempre guardata attorno. Le mie occasioni, spesso, sono state veicolate dal senso di giustizia, meritocrazia e dignità e non tutti ragioniamo in questo modo. Credo che questa pluralità di punti di vista sia ben chiara all’interno del testo laddove ogni personaggio porta avanti i propri demoni come i propri sogni e si presenta nudo e crudo, nel bene e nel male.

3 Sara e Roma, un rapporto simbiotico. Un filo invisibile le lega e le ricongiunge a distanza di anni, riportando la storia esattamente dove tutto è cominciato, offrendo la possibilità di un finale diverso. Una storia da “film”, un’architettura composta di immagini e parole che si incastrano alla perfezione. Le piacerebbe se diventasse, appunto, un film?

Sfondate una porta aperta, così! Il mondo del cinema mi affascina, di qui l’esigenza di renderlo co- protagonista del romanzo. È come se avessi dato al cinema le chiavi di casa e del cuore dei due protagonisti. Ammetto che di biografico c’è questa profonda ammirazione per il mondo del cinema: è la mia autentica liaison con il lettore. Magari, leggendo il romanzo, vede quei film e si innamora perdutamente di questa splendida arte. Ho studiato cinema e teatro e ne ho sposato la loro grandezza, custodendone le suggestioni e vivendo intensamente quei saperi. La costruzione del romanzo è cominciata, ad esempio, ripercorrendo alcune lezioni di scrittura scenica e rileggendo Eduardo De Filippo che sosteneva di cominciare a scrivere le commedie partendo dalla fine. Non un’impresa agevole, lo ammetto. Partire dal finale mi ha obbligato a chiarire ogni singolo passo dei miei personaggi, mi ha abituato a non dare nulla per scontato, a farmi domande ed è stata una bella

avventura. Il cinema è un racconto per immagini e la sceneggiatura rappresenta un’arte immensa, ancora oggi sottovalutata da taluni cultori della carta stampata. Sarebbe un sogno vedere al cinema questa storia e partecipare, magari, alla stesura della sceneggiatura. Sono ben consapevole della distanza tecnica tra un testo in prosa e una sceneggiatura ma è un passo che, prima o poi, spero di poter compiere. Mi piacerebbe diventare le parole dei personaggi diretti da i fratelli d’Innocenzo, da Ferzan Özpetek, Emma Dante e potrei continuare in loop. Ricordo di aver letto in “Incubi e deliri” di King che “coloro che scrivono sceneggiature possono sentirsi come fratelli di loggia…” ed è, se ci pensiamo, un privilegio assoluto. Dunque, poter restituire al cinema questa storia? Perché no? Se qualche regista ci dovesse leggere, io sono disponibile!

4 La nostra quotidianità è diventata quasi un calco di certe narrazioni cinematografiche e televisive che hanno influenzato il costume delle generazioni che si sono avvicendate nel corso degli ultimi trent’anni anni e, stratificando, hanno fornito nuovi modelli a cui ispirarsi per ricreare la propria sceneggiatura. I social network hanno modificato i codici della comunicazione e, di conseguenza, della vita di relazione. Come si racconteranno, secondo lei, le generazioni future?

Le generazioni future si racconteranno. Ne siamo certi? O affideranno le loro vite a qualcuno che possa traslarle nel miglior modo possibile per ottenere la fama sui social?
Chiaramente la mia vuole essere una sollecitazione quasi antropologica. Una provocazione. Ho tanta fiducia nei giovani, amo profondamente quel loro senso di audacia e di irresponsabilità che, in taluni contesti, rappresenta la bellezza di essere autentici. Quel “disobbedite” di Michela Murgia è l’imperativo categorico da mostrare ai nostri ragazzi. Passo molto tempo con i giovani e mi restituiscono un senso di responsabilità avvolgente, disarmante. Abbiamo dato ai nostri giovani un mondo imperfetto che gioca a raccontarsi come il migliore dei mondi possibili, bello e patinato. Abbiamo raccontato favole cercando di demolirne la loro primordiale autenticità nel nome dell’inclusione, della parità di genere, del consenso eppure c’è un mondo disincantato dietro le nostre cortine. Un mondo che ancora mette distanza tra i salari, tra i colori, tra le idee. questo, a mio avviso, è un dato oggettivo ma singolare. Le nuove generazioni hanno bisogno di riprendersi gli spazi, farlo nel modo più libero e diretto: toccandosi, annusandosi, provando il peso delle vittorie come quello delle sconfitte. Si racconteranno con coraggio e naturalezza solo se noi adulti daremo loro le chiavi dell’autonomia che non è l’uscita in più, la stretta sull’orario, la privazione. No. Noi adulti dobbiamo ricordarci di essere la funzione che ricopriamo nelle loro vite: docenti, psicologi, autori, madri, padri. Basta essere amici e complici quando bisogna invogliare i ragazzi a vivere il presente con dignità, responsabilità, entusiasmo, costruendo legami e tornando a parlare di sé oltre lo specchio. Dobbiamo smetterla di puntare il dito e allungare la mano. Se i nostri giovani non si sentono sicuri, liberi di parlare o vivono il presente come un macigno è colpa nostra. Nostra, si! Da quando noi adulti abbiamo smesso di sperare, di lottare per le idee e vivere attraverso l’esercizio della libertà; ha vinto il disincanto, il qualunquismo, la testa china. E questo è il prodotto di una società non sana. Una società, se vogliamo, disumanizzata. Laddove la notizia si è spogliata della sua autorità perché deve fare “audience” e non importa se una ragazzina di quattordici anni si è tolta la vita, no. Si passa oltre perché c’è un altro disastro a cui dare un rilievo illusorio. Capite, dunque, che le nuove generazioni hanno il diritto e il dovere di riprendersi le proprie debolezze, paure, bisogni e affrontarle. Hanno il dovere di riprendersi la vita così com’è.

Demonizzare i nuovi mezzi di comunicazione, perché? Occorre presentare loro la possibilità di scelta, che c’è e ci sarà ancora. Racconteranno, solo se noi ci metteremo in posizione di ascolto. Altrimenti troveranno nella lingua dell’indifferenza e della codardia il porto sicuro in cui deporre le scialuppe colme d’ira, tormenti, paure, lacrime. Le nuove generazioni si racconteranno con l’arte e le sue forme più impreviste ci ricorderanno la bellezza perché noi daremo valore a quello che avranno da dirci. E dovremo ascoltarlo non passivamente ma costruendo una comunicazione assertiva. Dunque, ritorno alla mia piccola provocazione: Le generazioni future si racconteranno. Ne siamo certi? O affideranno le loro vite a qualcuno che possa traslarle nel miglior modo possibile per ottenere la fama sui social? Questo dipende da noi, anche da noi.

Rosa Elenia Stravato è nata a Martina Franca nel 1991.

Nel 2016 si laurea con il massimo dei voti alla Magistrale in Spettacolo teatrale, cinematografico, digitale: teorie e tecniche presso l’Università La Sapienza di Roma con una tesi su “La Tempesta e i maestri del 900”. Nel 2016 frequenta la Scuola di scrittura creativa RaiEri presso la sede Rai di Via Teulada in Roma.  Docente e operatrice culturale, collabora con molte realtà culturali tra cui la Fondazione Paolo Grassi di Martina Franca, dal lontano 2010, il Festival della Valle d’Itria, Agis Scuola, Anec Lazio e con i Laboratori di Equo e Non Solo di Fasano (Luoghi comuni di Puglia).

Ha pubblicato Agenda Book Pusher 2024 e Cartoline Romane a cura di Giulio Perrone Editore con cui, nel 2020, ha collaborato per i “Quaderni di cinema”.

In Appunti di Lettura

Inquisizioni sui Karamazov – Parte VIII

di Demetrio Paolin

Mi rendo conto che le due riflessioni precedenti abbiano a che fare con un tema che ancora non ho affrontato nella sua intera complessità e che non ho neppure nominato ovvero quello della libertà. In base a ciò che abbiamo fino ad ora letto e compreso esiste forse una libertà tragica e una libertà romanzesca. Non tutte le tragedie mettono in campo una libertà tragica (vd Amleto) non tutti i romanzi metto in campo una libertà romanzesca (vd Il processo). In particolare, i FK mettono in relazione la libertà con la felicità e la loro compatibilità. Potremmo porci il quesito nel seguente modo: Può un uomo essere libero e, contemporaneamente, felice? 
Mi pare, a livello profondo nei FK e nell’opera di D, che si inveri la dicotomia tra libertà e felicità. La libertà è incompatibile con la felicità, l’uomo può avere o una o l’altra; i personaggi dei FK sono tutti molto liberi, ma sono tutti nella loro più intima rappresentazione infelici; i personaggi di D sono entusiasti, ma non felici, vivono alcune sensazioni in modo parossistico (pensiamo all’episodio di Alesa davanti alla bara del monaco); la caratteristica dei personaggi di D è appunto l’entusiasmo, da intendere come stato di possessione di Dio o di un dio (che può essere la vergogna, la gioia, la disperazione, la lussuria). In questo senso la descrizione psicologica nei romanzo di D è pre-psicanalitica, egli vede i sentimenti non come qualcosa di interno all’uomo, ma di esterno che penetra all’interno. Nessun personaggio dei FK è felice su questa terra: lo stesso Zosima che puzza dopo la sua morte sancisce l’impossibilità di essere santi, di essere buoni a questo mondo; Zosima non può essere felice perché è libero così come Ivan, neppure l’Inquisitore è felice, perché è libero e ha scelto di rendere felici gli altri privandoli dalla libertà; la privazione della libertà è la possibilità della felicità. 
Qui si adombra la possibile filiazione della libertà romanzesca non tanto dal tragico cristiano, ma dal comico cristiano. Il cristianesimo, se lo guardiamo dal punto di vista della narrazione, non è tragico, ma comico, non sublime ma umile (cfr. Auerbach), il fulcro della fede e della narrazione cristiana sta nel Golgota, ma esso dal punto di vista squisitamente narrativo è “comico”: siamo nel momento di crisi che possiede ogni commedia, prima dello scioglimento finale. I vangeli sono un’opera comica, perché possiedono in sé il presupposto romanzesco: essi sono una sorta di cammino in cui ciò che è affermato all’inizio – Cristo è il figlio di Dio – viene prima messo in crisi da una serie di azioni, fatti, etc etc per poi essere confermato. I vangeli possiedono una struttura narrativa, che possiamo riassumere così: inizio ovvero Cristo=figlio di Dio, azioni che confermano tale identità (miracoli, professione di fede), crisi (azioni che mettono in dubbio tale identità), momento di negazione di quanto affermato a inizio vangelo (la morte di Cristo in croce), la resurrezione ovvero la ricapitolazione della identità iniziale. Il tragico – o meglio, l’occasione di esso – è data all’inizio dell’esperienza religiosa in Genesi, nel momento in cui viene data all’uomo la possibilità di essere perfettamente felice ma di obbedire ciecamente alla legge imposta da Dio o scegliere, quindi essere libero, e decidere di essere perduto/perso, fatto entrare nel flusso del tempo e del mondo. 
Se il romanzo è lo stato/racconto dell’uomo nel tempo (ancora una volta il Vangelo è romanzesco, perché indica l’entrata del Figlio nell’uomo nella temporalità storica), non ci può essere romanzo senza la caduta, la caduta presuppone la produzione del tempo (in un certo senso anche la kenosi è una caduta che modifica il senso del tempo, e lo rinnova); il romanzo non è tragico, perché il destino non è deciso, non è predefinito nel personaggio (Edipo non può non uccidere il padre e sposare la madre, Abramo deve uccidere Isacco, che questo è il volere di Dio [come necessità], ma infine lo risparmia). La libertà è l’opposto della tragedia, perché i personaggi romanzeschi hanno sempre scelta, hanno sempre la possibilità di essere altro da quello che sono; nei FK questo è sempre presente, ogni personaggio è sé stesso, ma potrebbe diventare altro da sé: pensiamo a Alesa nel salotto di Grusenka dopo la morte di Zosima, lì non assistiamo solo a una scena di seduzione, ma una possibile e nuova vita del personaggio: non è tanto importante che Alesa scelga questa ipotesi, ma che ci sia perfettamente credibile a noi come lettori. Nessuno si illude che Medea sia diversa o agisca diversamente da ciò che è, ogni lettura della tragedia è esperienza di questo identico necessario, ma ciò non accade rileggendo un romanzo. 
Torniamo, quindi, alla domanda romanzesca che è contenuta nella sua forma, per me più originale, nel Chisciotte, chi potrebbe affermare/dubitare, entrando in una stanza, che noi siamo noi? In tutti i personaggi dei FK tale identità è in bilico, anzi, il romanzo di Dostoevskij è proprio il tentativo di raccontare questo io traballante, indeciso, inquieto. 

In Balloon

«Nessuno può mettere i miti in un angolo»: o di come Orfeo ed Euridice resistono al tempo – Parte II

di Carmen Rampino

La catabasi di Orfeo ha ovviamente continuato a ispirare altre molteplici opere, talvolta pure di nuovo a fumetti. Lo stesso Andrea Pazienza, il più alternativo, radicale e anticonformista tra i fumettisti di tutti i tempi, con Gli ultimi giorni di Pompeo in fondo non ha fatto altro che rielaborare originalmente questo descensus ad inferos. A ben pensarci, anche Pompeo fa un viaggio verso gli inferni, gli inferni della droga, e ne ottiene uno scacco. Proprio come Orfeo, ha violato ciò che non bisognava violare, in questo caso «ha violato l’interdetto più tremendo del nostro secolo, LA DROGA, ha guardato ciò che non doveva vedere e ora non è più la sua Euridice che cerca disperatamente e non potrà mai avere, ma qualcosa di diverso e ugualmente terribile» (Formento 1997, p. 5). 
Inferni, droga, mito di Orfeo ed Euridice… tanti temi diversi che possono incontrarsi e rivivere nel presente, in una modalità particolarmente interessante. Oggi scopriamo infatti che il mito può acquistare nuova linfa persino su Netflix, anche in maniera pop e di fronte a milioni e milioni di spettatori di tutto il mondo. Questo accade proprio al mito di Orfeo o, meglio, di Euridice, nell’ultimo recente successo di Zerocalcare, Questo mondo non mi renderà cattivo. Essendo una serie di animazione, il mito trova ancora una nuova forma, oltre che nuove chiavi di lettura alternative. La serie non certo parla del mitico cantore della Tracia. Infatti si tratta di una storia tutta contemporanea, una storia politica, civile, in cui la vicenda privata di un amico che torna in quartiere dopo tanti anni di assenza si incrocia con quella collettiva di un centro di accoglienza, del “pacco” contenente 35 persone rigettato da tutti. È la storia di come spesso la rabbia, il rancore, la frustrazione di un capitalismo sempre più sfrenato finisca per porci gli uni contro gli altri, creando una guerra orizzontale tra poveri che dovrebbero stare dalla stessa parte e mettere in discussione, come fanno i “dinosauri”, lo stato delle cose. I tre amici Zero, Secco e Sarah in questa avventura si trovano in commissariato e attraverso un flashback, che percorre tutti gli episodi, si capirà cosa è successo. La serie, di grande attualità, mantiene un ritmo intenso, che però richiede almeno una doppia visione. Cosa c’entra, però, il mito in una narrazione come questa? Il primo episodio, che termina con l’arrivo di Cesare dopo 20 anni, si chiude con queste parole: 

E non sapevo bene che domande fargli. Perché, c’hai presente Orfeo e Euridice? Ecco, è come se quel cojone non se girava, riusciva a portà a Euridice fuori dall’inferno e poi je chiedeva… che se fa là il fine settimana? Te sei imparata a giocà a padel? Ma ce sta un bar che proietta la serie A? Boh… e quella giustamente non je vuole risponde, perché chissà che cazzo ha passato. Me pare pure legittimo. Per questo è così difficile pure fa le chiacchiere stupide. Perché io non lo so che se chiede a uno che è appena tornato dall’inferno 

Ritornano, dunque, Euridice e il suo inferno, però in questo caso Cesare è appena tornato da una comunità di riabilitazione per tossicodipendenti. È questo l’inferno a cui si allude. La metafora, poi, viene ripresa anche alla fine del secondo episodio:

È che non ce sta Orfeo dentro a sta storia. Ce sta solo Euridice che va all’inferno, e nessuno che la va a cercà. E dopo vent’anni riesce a tornà da sola quando ormai nessuno se la ricordava più e tu te stupisci pure se non è più la stessa

A queste parole si sovrappone l’alternarsi di immagini di Euridice in tunica che torna a casa e chiede prosaicamente un passaggio in macchina a quelle di Cesare che a sua volta torna a casa. Sembra che i due si vadano in contro sulla stessa strada, fino a sovrapporsi del tutto. Ad essere persa negli inferi, dunque, non è Euridice o, meglio, non solo lei, ma un ragazzone alto e grosso di nome Cesare. Con il suo volto corrucciato e inquieto, lo stesso Cesare diventa Euridice. Come sottofondo di questo momento così intenso si ascolta Bits of Kids degli Stiff Little Fingers. È questa la novità di tale riscrittura: non si tratta solo di parole, ma di un intreccio di parole, disegni in movimento, musica, espressioni indelebili dei volti. La metafora, in questo modo, è vivida e si aggrappa agli spettatori, senza abbandonarli mai. Sebbene nella serie non verrà ripresa più apertamente, anche alla fine ritornerà alla mente quell’immagine di Euridice. Perché in fondo il senso è tutto racchiuso qui dentro, in queste note mitiche, malinconiche e agrodolci, come malinconico e agrodolce sarà il finale della serie. In questa circostanza il mito, che compare in una piccola parte, e che ha alle sue spalle secoli di storia, diventa una chiave di accesso, addirittura un pertugio per introdursi in una storia tutta contemporanea. E non è l’unica volta in cui nella serie il materiale mitico viene sfruttato. Infatti, interessante è poi scoprire che ancora prima di questo mito, sempre nel primo episodio, ne compare un altro. Zero, sicuro di non essere arrestato perché ormai ha fatto una serie per Netflix e può fare quello che vuole, viene rimproverato dalla mamma Lady Cocca che gli dice al telefono: 

vabbè sei troppo securo de te. Ricordate sempre il figlio de Dedalo, coso, come se chiama, Icaro, che stava in fissa de volà sempre più in alto senza mai mette ‘na sciarpetta per riparasse la gola che fine ha fatto. 

Contemporaneamente scorrono le immagini di Zero vestito da Icaro con la tunica greca bianca, ma con il riconoscibilissimo teschio sul petto, e le ali e infine si legge l’epitaffio: Icaro portato via da una brutta bronchite. Questa divertente commistione alto-basso oltre a suscitare il riso, ci permette di riflettere ancora su quanto terribilmente popolari possano essere i miti. Molte volte il fumetto, didascalicamente, è stato usato per trasmettere in modo accessibile dei miti o i grandi classici della letteratura, altre volte, però, può accadere il contrario: il mito è talmente popolare da poter facilitare la comprensione di una storia. 

TESI CITATI.
Brian Michael Bendis – Mark Bagley, 2004, L’uomo ragno. Identità segreta, in “I classici del fumetto di Repubblica. Serie oro”, Modena, Panini.
Dino Buzzati, 2017 (1° ed. 1969), Poema a fumetti, Milano, Oscar ink.
Giovanni Formento, 1997, Il mito in Buzzati e Pazienza, un parallelo impossibile o una staffetta riuscita?, in «Bolle», n. 27, dicembre.