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Premio Strega: dalle origini oggi e dietro le quinte con Demetrio Paolin

di Ilaria Orzo

Quando si parla di letteratura, in Italia non si può non pensare al Premio Strega, tra i più importanti riconoscimenti per gli scrittori del nostro Paese.

Sono tanti e tutti importanti gli scrittori e le scrittrici che, dalla sua prima edizione ad oggi lo hanno vinto o sono stati in corsa per aggiudicarselo. Tra i vincitori, ricordiamo Alberto Moravia, Dino Buzzati, Natalia Ginzburg, Lalla Romano, Primo Levi e Umberto Eco.

Ma come è nato il Premio Strega? Proviamo a tracciarne insieme il profilo storico.

Fondato a Roma nel 1947, ad opera di Maria Bellonci e Guido Alberti, il suo nome è dovuto ad un duplice riferimento: in parte è legato al celebre liquore Strega, della cui azienda fu fondatore proprio l’Alberti, in parte è legato alle storie sulle streghe di Benevento.

Nel 2014, all’assegnazione del Premio Strega classico sono stati affiancati il Premio Strega Europeo e il Premio Strega Giovani; nel 2016 viene assegnato per la prima volta il Premio Strega Ragazzi e, infine, è stato dato il via quest’anno al Premio Strega Poesia. In questo modo, tutte le fasce d’età e tutti i generi letterari vengono presi in considerazione, tenendo conto del fatto che il panorama letterario e ormai sempre più vasto.

Negli ultimi anni, intorno al Premio Strega sono nati numerosi progetti, complici anche i social e i book blogger. I più importanti sono:

Strega OFF, realizzato dall’associazione culturale ALINEA. Si tratta di una serata che si svolge alla vigilia dello Strega nel giardino di Monk e che permette ai lettori comuni di votare il loro vincitore del Premio. Da qualche anno, il voto dello Strega OFF è tenuto in considerazione per la proclamazione ufficiale del vincitore del Premio;

Stregonerie – Premio Strega tutto l’anno, una rassegna letteraria ideata e diretta da Isabella Pedicini e Melania Petriello, che permette di mantenere vivo il Premio per tutti i mesi, con incontri mensili dedicati alla lettura dei libri che ne hanno fatto la storia e con la discussione di temi sempre caldi nel panorama culturale;

FantaStrega, un gioco letterario ideato dai book blogger Ilaria Orzo e Cristina di Corcia di “Libri che ti passa” e Nello di Coste di “Libri nello scaffale”. Il gioco, nato con l’intento di avvicinare quante più persone possibili alla lettura, è aperto a tutti gli appassionati del Premio e coinvolge numerosi tra book blogger, librai ed esperti del settore editoriale. Come funziona il gioco? Ciascun giocatore crea la sua cinquina ideale e accumula o perde punti in base ai bonus e ai malus raccolti dai FantaLettori, padrini e madrine ideali di ciascun libro candidato dell’edizione del Premio in corso.

Insomma, che l’attenzione sul e intorno al Premio sia tanta è chiaro a tutti. Ma cosa vuol dire davvero farne parte? Lo abbiamo chiesto a Demetrio Paolin – scrittore di saggi e romanzi, collaboratore del Corriere della Sera e insegnante in una scuola di Torino -, il cui libro Conforme alla Gloria è stato tra i candidati al Premio Strega per l’edizione 2016.

  1. Per un autore, sapere che il suo libro è candidato al premio letterario più importante d’Italia è motivo di orgoglio. Come hai vissuto tu l’essere nella dozzina?

Per me più che un motivo di orgoglio, che ovviamente c’è e che è innegabile che ci sia, è stato motivo di sorpresa: ero al secondo romanzo, il primo era uscito otto anni prima, con qualche buona recensione e scarso successo di pubblico, e quindi tutto mi sarei aspettato tranne che di essere candidato e di essere in dozzina. L’essere in dozzina è stato una bella avventura umana, ho stretto amicizie con alcuni degli scrittori con cui ero in gara, abbiamo viaggiato, visto posti, fatto presentazioni, incontrato persone. Ho cercato di viverlo attraverso l’ironia e l’understatement, che dna piemontese mi forniva in gran copia. Mi ricordo che, ricevuta la notizia della candidatura, commentai sui social con “Mi sono perso qualcosa?”. In realtà ero felice per me, per l’editore Voland che aveva creduto in me – e che ci crede anche adesso e asseconda i miei progetti narrativi e i miei tempi lunghissimi – ; ero contento perché Conforme alla gloria è un romanzo, complesso e lo Strega è stato un trampolino di lancio importante, che ha permesso di raggiungere molti lettori; è innegabile che un libro in dozzina venda di più, che abbia fornito al testo una visibilità enorme e che abbia portato ad altri premi, prolungando la vita del romanzo ben oltre i fatidici 3 mesi di presenza sugli scaffali. Per quanto riguarda me come scrittore, essere stato in dozzina è stato come essere invitato a un pranzo di gala, un bellissimo pranzo, con persone gentilissime e umane, con una attenzione e una cura che ho visto poche volte, con una attenzione e una cura verso i libri che ha pochi eguali.

  1. Ti va di raccontarci qualche aneddoto legato al giorno della proclamazione della dozzina?

Vorrei raccontare due aneddoti; il primo è legato alla proclamazione della dozzina e il secondo è a proposito dell’ultimo giorno in cui sono stato autore in dozzina. 

Il giorno prima che la dozzina venisse annunciata ero a Roma per una doppia presentazione di Conforme. Il giorno della proclamazione avevo l’aereo di ritorno a Torino, sul quale mi imbarcai spegnendo il cellulare, ovviamente. Tutto credevo, tranne che potessi entrare a far parte dei 12. Atterrato a Torino, dimenticai il telefono spento, distratto da altre cose; proprio in quelle ore veniva ufficializzata la dozzina e tutti – editore, ufficio stampa, editor, amici – mi scrissero, mi chiamarono e cercarono di mettersi in contatto con me. Due ore dopo l’atterraggio mi ricordai di avvertire i miei che ero arrivato a casa, e appena accesi trovati messaggi, chiamate, mail; il mio primo pensiero fu “Vuoi vedere che è successo un disastro aereo?”. La prima persona che riuscì a mettersi in contatto con me fu Francesca Fiorletta, mia cara amica e ora ufficio stampa di Feltrinelli, poi fu la volta di Daniela Di Sora, che urlava dalla felicità, e di Viola Marino, ufficio stampa di Voland, che mi disse cose bellissime, ma confuse e tutte insieme. Lentamente mi resi conto di tutto, e fu bello.

Ciò che accadde alla fine, negli ultimi giorni di dozzina, fu altrettanto divertente. Arrivato a Roma con il treno, dovevo andare in albergo e cambiarmi perché avevamo la cerimonia alla Camera, avevo con me il completo che avevo comprato per lo Strega, perché lo Strega è un po’ come quando sei invitato a una comunione, o una cresima o matrimonio, anche se di solito sei in braghe corte per l’occasione ti vesti meno peggio. Uscito da Termini, alcune persone mi scipparono, portando via il borsone con la giacca e il completo. La situazione era chiara: mi trovavo senza vestito, a poche ore dalla premiazione; così ho chiamato Viola. Un’ora dopo lei è arrivata con un nuovo e fiammante completo, che ho indossato entrando nel bagno in braghette e maglietta e uscendo pronto per una nuova avventura… Il giorno dopo fu annunciata la cinquina, e mi parve che quel furto fosse in qualche modo simbolico: la fine di una avventura…

  1. Attualmente, stai lavorando a un altro libro? Tra i libri candidati quest’anno, ce n’è uno che ti fa dire “vorrei averlo scritto io”?

Sto lavorando a un “testo lungo” da due anni, sono in alto mare, ma negli ultimi mesi mi pare di scorgere finalmente una idea chiara, non tanto di come e di cosa (quello è da un po’ che è lampante), ma sul modo in cui organizzare questa storia. Quindi, per ora, mi godo l’idea di aver forse trovato appunto la quadra tra stile-trama-montaggio e lento pede scrivo; intanto, molto probabilmente a ottobre uscirà per Tetra un racconto lungo di cui sono molto contento. Per quanto riguarda il “vorrei averlo scritto io”, è un sentimento che di solito non mi attraversa – se non per casi estremi tipo l’Ulisse di Joyce o Infinite Jest di DFW – e spero che ognuno degli autori delle dozzina sia sempre soddisfatto di ciò che scrive e scrivere. Perché se debbo dire cosa lo Strega mi ha lasciato direi così: lo Strega mi ha insegnato – ed è un insegnamento per me fondamentale – a concentrarmi sulla storia che voglio scrivere. Perché non conta il pubblico, non contano i giornalisti, non contano i premi, non conta nulla di tutto ciò: tu devi essere sicuro, licenziando il tuo romanzo, che la storia che volevi scrivere è esattamente, o il più esattamente possibile, identica a quella del tuo pensiero. Le “cose” che verranno dopo – i premi, le risate con gli altri scrittori, gli scherzi di notte, le bevute di birra post presentazione, i panini mangiati alle 3 del mattino usciti da casa Bellonci, i complimenti, le invidie, le meschinità, e le grandezze delle persone – sono futilità, perché – come diceva uno, che lo aveva capito prima e detto meglio di me – “quanto piace al mondo è breve sogno”.

In Narrature

Città involucro

di Alessia Sacchitella

Al di là delle nuvole si celava una città bellissima con palazzi e costruzioni maestose; sembrava di vivere in una fiaba.

Una grande distesa blu la circondava, quasi abbracciandola, creando un paesaggio ricco di colori e forme magiche.

Non pensavo, potesse esistere davvero una città così incantevole; rimasi del tutto rapita dalla sua vitalità, energia, dai suoi rumori e poi quei profumi così inebrianti nelle strade deserte, mentre le altre affollate, piene di gente, uomini e donne, eleganti, indossavano abiti appariscenti e costosi e correvano, senza fermarsi mai, come se stessero cercando qualcosa, senza sapere dove trovarla esattamente.

Quella frenesia mi suscitava un senso di angoscia e preoccupazione perché erano tutti così distratti e immersi in una miriade di conversazioni senza fine, a nessuno importava, guardarsi intorno e proprio questo mi preoccupava.

In ogni angolo della città, era possibile scrutarne la bellezza, però era necessario fermarsi anche solo per un istante, basta così poco per essere felici; perché non rallentare?

Per trovare qualcosa di prezioso, bisogna osservare la meraviglia che c’è intorno a noi:

“ La città è un viaggio lento

dentro la bellezza di un sentimento.

Nelle storie della gente

che avvolgono la mente

tra antiche storie e leggende.

Una canzone accompagna il mio cammino

alla scoperta del destino

e poi alzo lo sguardo

verso le stelle,

nell’attesa del risveglio

dell’anima ribelle

che fa scintille

quando tutto intorno tace,

mentre la pace sussurra

una nuova parola

che darà forma

ad un’altra aurora.”

La città è una grande scatola, piena di tesori nascosti, storie e ricordi lontani che restano nelle mani, protetti con amore e poi misteri da svelare, strade colorate percorse da una marea di sentimenti che si intrecciano, ininterrottamente, anche tra le strade desolate e silenziose, dove la quiete riscalda i cuori, un soffio di vento accarezza dolcemente il viso di un passante che spaventato, la percorre frettolosamente per arrivare alla fine e ammirare il sole che tramonta.

Ci sono racchiusi frammenti di vita vissuta; la città è una piccola finestra sul mondo, uno spazio contaminato, ricco di speranze e nuovi giorni, in cui si può sempre rinascere, perdersi nel suo cammino, partire per poi ritornare.

Che sciocchi gli adulti! Sono talmente superficiali, grigi e spenti, privi di stupore e luce negli occhi che non riescono a valicare quel muro imponente che loro stessi amano costruire, seppur inconsciamente, vivendo in un’eterna infelicità che ha il suono silenzioso dei sogni infranti e desideri irrealizzabili, immersi in una nube colma di rassegnazione.

E’ il coraggio di cambiare prospettiva, percorrendo strade che non fa nessuno, l’unica salvezza per conoscere il vero valore delle nostre città, perché sono la nostra casa.

Oggi ho visto la città più bella di tutte perché son rimasta ferma ad aspettare che si rivelasse, che mi raccontasse la sua storia e le sue verità nascoste, eterne nelle strade del suo tempo.

Non è mai tardi, non esiste il momento “perfetto” ma anche solo un attimo per vivere, sognare e credere, nel fascino del divenire.

Spesso sono le sensazioni a condurci verso gli orizzonti più inaspettati e allora non smettiamo mai di cercare, solo così troveremo quell’armonia che darà una nuova forma al mondo, tracciato da migliaia di città sfavillanti, in attesa della loro rinascita.

Il passato resta ma il domani è ancora tutto da inventare, scoprire e creare.

In Senza categoria

Di’ il mio nome

di Giulia De Vincenzo

Gridalo, cantalo! Un nome è soltanto un nome: non può fare alcun male. Le persone, invece, possono.
Anche tu. Eppure non ho mai dimenticato la tua mano, stretta attorno alle mie dita sfuggenti di
bambina ribelle, ruvida, aperta in uno schiaffo sul mio viso incredulo, mentre con la lingua leccavo il
sangue che mi colava dal naso, come fanno certi animali ingenui, sentendovi il sapore di una
maledizione. La mano che un giorno ha sbattuto la porta di casa, iniziandomi a un suono fraterno. Ne
ho conservato il ricordo per sere come questa, quando permetto alla vita di scorrere e riavvolgersi come
la musica nel mangianastri, stesa sul letto in questa stanza a forma di cubo di cui abiterò sempre il
fondo.
Eccomi. Unica superstite di plurime disgrazie. Sono la bambina con il sogno sbagliato, la puttana che ha
osato dire: No! Sono il gatto nero che ti taglia la strada, il gatto nero di me stessa, sono il fottuto
specchio frantumato. Sono quella che porta sfiga. Ho cercato la tua mano su ogni tasto sfiorato, dentro
ogni carezza ricevuta, nel silenzio di ogni stanza vuotatasi al mio passaggio. Ho portato con me l’odore
acre e nauseabondo del tuo sangue maledetto. Ho preteso che altri lo sopportassero, ma era troppo
persino per me, che sono tua figlia. Sono mille volte tua. Per troppo tempo mi sei mancato. Per troppo
tempo mi sono mancata.
Ho riso e poi ho pianto. Ho provato a capire, a lottare. Ho cantato. Ho gridato. Ma senza la tua mano
mi ero persa. E la mano spietata del mondo mi ha strappato le corde vocali e le ha intrecciate per farne
il mio cappio. Ora è lì, che pende dal soffitto. Se tendo il braccio riesco a sfiorarne le fibre, ancora calde
e sanguinolente: è quel che rimane di me. Lo afferro e lo indosso con la solennità di un paramento
sacro. Trascino la treccia infame fino al mare. Ecco, sono già lì, a farmi accarezzare i capelli dal vento
salmastro, anestetizzata dallo sciabordio delle onde. Neanche il battere legnoso delle barche sui sassi mi
infastidisce più. I suoni acuti sono lontani.
Sono finalmente Mia. E rido a squarciagola digrignando i denti. Ma tu non piangere, e non aver paura.
Anche se non ci sono più, di’ il mio nome.


per Mia Martini

In Sesto Potere

E a te, se sei rimasto con Harry fin proprio alla fine: sulla riscrittura seriale del maghetto di J.K. Rowling

di Giovanni Morese

“After all this time?”

“Always”.

L’iconico Hedwig’s Theme di John Williams risuona, le nuvole si addensano. Un castello illuminato dal tramonto settembrino si intravede dietro ad un logo scintillante, inconfondibile. È il logo del reboot seriale di casa Hbo Max – rinominata, in occasione dell’unione tra Warner Bros. Television e Discovery, semplicemente Max – di Harry Potter.

Harry è tornato. Esattamente come aveva fatto la sua nemesi, letteraria prima e cinematografica poi. Eppure, in questi dodici anni di assenza dal grande schermo, il suo nome lo abbiamo sentito pronunciare, senza timore alcuno, in ambito cinematografico, ludico, letterario, teatrale, perfino sociale. La fame di Harry Potter i fan della generation Z l’hanno trasferita a quella Alpha senza che ci fosse bisogno di reinterpretazioni, riscritture o rivisitazioni. La storia del maghetto di Hogwarts ha semplicemente continuato ad appassionare grandi e piccoli con l’ausilio di tutti i media di cui usufruisce. Tutti, è fondamentale precisarlo, figli di un franchise che ha fatto dell’iconografia cinematografica il motivo del suo successo tanto quanto, e osiamo dire ancor di più, della controparte letteraria. Non a caso il progetto di Fantastic Beasts, nato come uno spin-off e proseguito fallimentarmente trasformandosi in uno strampalato prequel, ha avuto come obiettivo quello di proseguire le storie del rinomato Wizarding World attraverso cineprese ed effetti speciali, lasciando così in disparte la carta e l’inchiostro. E questo, la Warner lo sa benissimo. Lo sa talmente bene da scegliere l’estetica dei film per presentare una storia serializzata che dovrebbe sostituirsi alla sua trasposizione precedente. Una storia, quella della Rowling, che in realtà ben si presta alla narrazione televisiva. Si potrebbe dire, addirittura, che il piccolo schermo sarebbe stato fin dall’inizio il medium più adatto a riscrivere in maniera efficace la complessa trama intessuta dalla scrittrice inglese dai primi anni Novanta a fine anni Duemila. In fondo, ricordiamo ancora lucidamente – e forse con un barlume di dolce infantilità – le ingiurie verso il regista “mestierante” delle ultime pellicole David Yates, oppure la superficialità con cui il capitolo dell’oggi pluripremiato Cuarón ha trattato la storyline incentrata sui Malandrini, per non parlare delle deludenti svolte teen di un Half-Blood Prince che tutto sembra voler fare fuorché trasporre attraverso l’audio-visivo il cuore pulsante di uno dei volumi più riusciti della saga libresca. Eppure no, questo non basta per giustificare la visione e l’intento di questo nuovo progetto decennale. Soprattutto – è importante sottolinearlo – se vincolato dal peso di un immaginario che limiterà la libertà artistica di chi dovrà occuparsi di convertire in series un fenomeno editoriale ancora nel pieno della sua fioritura e da sempre affiancato da un blockbuster capace di risollevare perfino le sorti del cinema post-covid con l’ennesima distribuzione del suo primo film targato 2001. Con tutte le modalità e i linguaggi a nostra disposizione per poter godere della magia potteriana, una struttura seriale basata sull’emulazione del passato non solo rischia di risultare povera dal punto di vista strutturale, bensì di ingannare anche chi queste vicende ha amato leggerle ed ammirarle sul grande schermo. Per quanto dare giustizia alla vera origin story di Tom Riddle possa, quindi, far sognare ad occhi aperti i fan più puristi, non possiamo dopotutto non giungere alla conclusione che tale esperimento contraddica i principi fondanti della serialità. In cosa trasformeremo le serie tv, se queste non potranno più nutrirsi di plot twist inaspettati e dell’hype crescente verso il season finale? Crediamo davvero che quella che già sembra essere diventata una nuova tendenza di chi detiene i diritti di saghe che solo fino a qualche anno fa si sono scontrate al box office sia il giusto modo di riportare in auge universi narrativi amati così incondizionatamente ancora oggi? Noi, che siamo già rimasti con Harry fin proprio alla fine, saremo pertanto disposti a farlo di nuovo? Lo scopriremo, quando miriadi di gufi giungeranno a Privet Drive, un ragazzino occhialuto incontrerà un gigante buono con una magica lettera in mano e la lotta tra the boy who lived e colui-che-non-deve-essere-nominato sarà pronta per essere raccontata, ancora una volta.

In Schede

Autobiografie in cerca d’autore: “La ricreazione è finita” di Dario Ferrari

di Matteo Caputo

Why don’t you get a job?: queste parole risuonano dalla voce dirompente di Dexter Holland, frontman di uno dei più noti gruppi punk del mondo, gli Offspring, mentre dall’alto si viaggia tra le luci di una Roma notturna, con la cinepresa che si ferma, ormai giorno, sulla “Minerva” di Arturo Martini e sul complesso di piazza Aldo Moro della Sapienza: è l’inizio di Smetto quando voglio, primo episodio di una tragicomica trilogia sull’Università italiana e sui suoi ricercatori, che quella domanda iniziale se la sentono ripetere da tempo. E, ça va sans dire, le orecchie di chi scrive non fanno eccezione.

Sarà anche per questo che La ricreazione è finita, seconda opera narrativa del viareggino Dario Ferrari, addottorato in Filosofia a Pisa e insegnante e traduttore a Roma, nonostante le sue quasi cinquecento pagine, si è fatta consumare in poche, concitatissime ore.

Marcello Gori è un trentenne che ancora non sa cosa fare della propria vita: laureato in poco più di dieci anni in Lettere con una tesi su Kafka, fidanzato senza troppo impegno con Letizia, ragazzina dell’alta borghesia di Viareggio e studentessa di medicina, vive ancora con la madre e, senza mostrare di preoccuparsene troppo, è senza un impiego. Tra un lavoretto e un altro racimola ogni mese qualcosina, intestardito a non voler rilevare il bar di famiglia, gestito dal padre settantenne. Un padre che Marcello odia perché ha lasciato la madre anni fa per un’altra donna e soprattutto perché pare non avere alcuna stima di lui. E così, per indispettirlo, tenta il concorso di Dottorato in Lettere all’Università di Pisa, vincendo inaspettatamente la borsa di studio.

Viene a quel punto affidato alle mani di uno dei più influenti docenti del Dipartimento, il Chiarissimo prof. Raffaele Sacrosanti il quale, dopo aver scartato una serie di idee che gli erano sembrate improponibili, un po’ per affidare a un dottorando non voluto una tesi poco spendibile, un po’ per motivazioni non chiare, decide di proporgli un lavoro sul recentemente scomparso terrorista viareggino Tito Sella. Di chi sia costui, il dottor Gori non ne ha la minima idea, tuttavia accetta la proposta e inizia la ricerca a partire dai parenti stretti, che di storia locale recente, almeno per averne fatto parte, qualcosa dovrebbero saperne. Le necessità, poco dopo, conducono Marcello tra i banchi della be-en-ef, la Biblioteca Nazionale Francese, che custodisce il materiale preparatorio approntato da Sella per le proprie opere narrative e, soprattutto, i suoi scritti più intimi, tra i quali potrebbe esserci la Fantasima, una sorta di autobiografia perduta del terrorista.

È l’inizio di un’avventura che oscilla tra il tempo attuale privo di azione e i ferventi anni ’70, sui quali ancora oggi è disteso un velo che è ancora troppo pesante per essere rimosso. Tito sarà l’autore che il personaggio Marcello cerca: pur nella distanza tra l’indolenza del protagonista, eccitata solamente da pochi avvenimenti, e l’energia dirompente del giovane fondatore della brigata Ravachol, dai diari di quest’ultimo viene fuori qualcosa che permette a Marcello di ricucire passato e presente, offrendogli una nuova chiave di lettura del proprio mondo e delle sue sempre più chiare circostanze.

Dario Ferrari, La ricreazione è finita

Sellerio, 2023

Euro 16,00

In Focus

Isn’t it iconic?

di Giulia De Vincenzo

Il cittadino si mette al riparo dal genio adorando le icone

Edward Dahlberg

Nell’antichità il genio era il nume al quale veniva attribuita la tutela di un luogo, di un’istituzione o di una persona, finché l’inevitabile processo di laicizzazione dei tempi moderni ha spostato il termine nell’ambito figurato, a designare l’entità astratta che si immaginava presiedesse ogni scelta compiuta dall’uomo e il suo corrispondente risultato: ingegno, indole o vocazione, stigmi individuali impressi allo spirito dei tempi. Ma nel passaggio dallo stato di natura al contratto sociale qualcosa deve essere andato storto se sulla volontà generale è tornata a prevalere quella particolare, affinando la forma d’arte forse più caratteristica della contemporaneità: la demagogia. E le icone, dalla dimostrazione sillogistica dell’esistenza di qualcosa di irraggiungibile, sono diventate gli ologrammi delle nostre misere aspettative. È l’era dei social network, baby: se non posti, non esisti. Il percorso di formazione è una strada lastricata di cattive intenzioni e pessime imitazioni e il traguardo lo raggiungi se diventi un meme. In un modo o nell’altro, molti ci riescono e ai pochi rimasti non resta che l’adorazione.

Le icone nascono come raffigurazioni di soggetti sacri su tavole in legno o bronzo. Eppure, nella cultura odierna che ha reificato qualunque cosa, sono riuscite a trascendere la propria oggettualità per farsi “persona”. Isn’t it iconic? Come siamo arrivati a questo punto, proverò a spiegarmelo ricorrendo a due guide, apparentemente lontane e inconciliabili, ma accomunate da un approccio metafisico sul cosiddetto “reale” e sull’agiografia dell’immagine a cui si è ridotta (o forse lo è sempre stata?) la storia dell’umanità. Comincerò con Pavel Florenskij, intellettuale ortodosso dalle mille sfaccettature che impartì i suoi insegnamenti all’università di Mosca sotto i soviet finché venne deportato e morì in un campo di concentramento nell’estremo nord della Russia intorno al 1943. Lui alle icone ha dedicato un saggio, fortunosamente riemerso solo in tempi recentissimi, come gli altri suoi scritti, una volta bruciate – almeno ufficialmente – tutte le scorie panslaviste. Si intitola Le porte regali e allude all’intrinseco valore di confine tra mondo visibile e mondo invisibile che le icone costituzionalmente hanno. Si pensava, addirittura, che fossero dipinte a seguito di visioni mistiche, secondo normative ben precise fissate dai Santi Padri alle quali il pittore, mero esecutore, doveva attenersi.

Guardiamo come i termini di questa definizione si sono ribaltati oggi: le icone sono un prodotto visibile, potenzialmente e transitoriamente emblematico, del mondo visibile, la cui origine non è da ricercarsi in una visione onirica ma in una strategia di marketing elaborata da loschi sobillatori, di solito molto più potenti dell’icona stessa, mero strumento (se non vittima) della popolarità alla quale tutti ambiscono. E qui introduco la mia seconda guida, che pure il mondo dei social lo aveva solo subdorato:

«LaMont, vuoi sentire un’osservazione su ciò che è vero? […] Tu hai fame di un cibo che non esiste. […] Essere invidiati, ammirati, non è un sentimento. E neanche la popolarità è un sentimento. Ci sono dei sentimenti associati alla popolarità, ma pochi di essi sono più gradevoli dei sentimenti associati all’invidia della popolarità». «Il bruciore non se ne va?» «Quale incendio si spegne se viene alimentato? Non è la popolarità che ti vogliono negare. Fidati di loro. C’è molta paura nella popolarità. Una paura terribile e pesante da portarsi dietro. Forse la vogliono solo tenere lontano da te fino a che non peserai abbastanza per tirarla verso di te». «Passerei da ingrato se dicessi che tutto questo non mi fa sentire per niente meglio?» «LaMont la verità è che il mondo è incredibilmente, incredibilmente, impossibilmente vecchio. Tu soffri per un misero desiderio causato da una delle sue bugie più vecchie. Non credere alle fotografie. La popolarità non è l’uscita dalla gabbia»[1].

LaMont e Lyle che discutono sulla popolarità in Infinite Jest, nella realtà aumentata della narrazione, sono due complementari alter ego di David Foster Wallace, lo scrittore che è morto, suo malgrado, da icona paventando i rischi della morte per canonizzazione e della ricerca della fama in tutti i suoi personaggi, summa contraddittoria di un’impareggiabile abilità in qualche campo specifico, di una straordinaria capacità oratoria e di un’inguaribile inettitudine a vivere in quel che resta del mondo reale dopo la grande glaciazione mediatica. Agli antipodi di Florenskij, ha scritto delle porte, certamente meno regali, che separano l’argento vivo dell’apparenza dalla zona morta della coscienza in ogni americano qualificabile come normale. Porte che si possono aprire ma che è impossibile varcare, a riprova di come nessuna normalità sia realmente perseguibile.

Secondo Florenskij, ogni icona evoca un archetipo, che per C. G. Jung è un modello innato e predeterminato, originato dall’inconscio collettivo, attorno al quale si tende ad organizzare la conoscenza. L’archetipo non è semplicemente un simbolo, ma accoglie i segnali multiformi e in continua evoluzione della cultura, costruendo nel tempo l’intelligenza condensata dell’umanità. Se si accetta l’idea di forma come necessaria all’interpretazione dei fenomeni della vita, non resta che risalire alla forma archetipica, all’idea eterna e sacra, diversa dalla materia vissuta e transitoria delle icone. Ma se l’icona rivendica un’eternità che non le appartiene, spezza il rapporto ontologico col sacro. L’inflazione della sacralità, che ricopre col suo mantello dell’invisibilità tanto Gesù Cristo quanto Jane Birkin, riduce il valore delle icone. Le porte regali non si aprono più, l’icona è diventata una cosa tra le altre cose e «il nesso vivente tra il celeste e il terreno, che è la religione, in questo luogo della vita si è sciolto, una macchia di lebbra mortalmente essendosi associata al luogo della vita, e allora deve sorgere l’angoscia, come se questa frattura non fosse già avvenuta»[2]. Florenskij formulava questo pensiero all’incirca cento anni fa.

La verità è che ci siamo stancati di chiederci cosa merita la nostra devozione e abbiamo cominciato a rivendicarla per noi stessi. Le vetrine dei social network, l’iconostasi digitale custodita nelle cattedrali della nostra pochezza, ci hanno insegnato che l’impressione di un momento vale quanto l’eternità, soprattutto se a suggellarla è un numero accettabile di pollici verso, cuoricini e baffi blu guadagnati alla svelta perché non abbiamo pazienza e soprattutto non abbiamo tempo. La prossima icona è già pronta a scalzarci e dobbiamo ricominciare tutto da capo, archiviando quel che è stato come sceneggiatura per un nuovo episodio di Black Mirror. Perché la morte per noi è solo temporanea, ce lo ha insegnato Cristo con la resurrezione, e sì che ci saremmo saliti anche noi sulla croce sapendo che dopo sei ore di dolore ci avrebbe attesi un’eternità di beatitudine alla destra del padre. Ma è comunque una gran rottura.

Tutto questo, David Foster Wallace non poteva immaginarlo. In un saggio su Dostoevskij[3] aveva adombrato gli effetti collaterali delle icone viventi, trasformate in astrazioni che, come tali, non sono in grado di avere una comunicazione vitale con i vivi. Aveva intuito che presentando da subito un grande autore come “classico” lo si condanna all’ingiallimento tra gli scaffali di una biblioteca, in attesa che dita indolenti si ricordino di sfogliarlo per la tesina di fine corso. Icone snaturate che innalzano barriere anziché abbatterle facendosi “porte regali”. L’utopia del precorrere i tempi fissando nella memoria qualcosa che non è ancora accaduto stava già generando mostri, primo fra tutti quello dell’incomunicabilità. Analfabeti di ritorno e anaffettivi anonimi, in effetti, non sappiamo più parlare e non vogliamo più farlo perché non ne vediamo l’utilità. Tutto ciò che ci occorre è un’immagine, quella giusta. Quella che batta tutte le altre, per ora. Il linguaggio ha perso la sua battaglia anni fa. È stato lo stesso Foster Wallace, suo malgrado, a darcene una chiara immagine. L’unica che dovremmo ricordare. La stessa che continuiamo a ignorare.


[1] David Foster Wallace, Infinite Jest, 1996

[2] Pavel Florenskij, Le porte regali, 1977

[3] Il saggio in questione è Il Dostoevskij di Joseph Frank, in Considera l’aragosta e altri saggi, 2005.

In Sesto Potere

Format “Scrivere le Serie TV”. Incontro con Cristiana Farina, headwriter di “Mare fuori”

a cura di Umberto Mentana

Come si scrive una grande storia è una scuola di scrittura creativa basata sulla solidarietà fondata dallo scrittore e sceneggiatore romano Francesco Trento che nel 2020 decide di spostare online e che offre settimanalmente lezioni gratuite in cambio di volontariato. Ad oggi gli introiti per le numerose associazioni coinvolte dalla scuola ha generato donazioni per oltre 115.000 euro (https://francescotrento.it/).

         All’interno del ricchissimo programma di seminari, a partire da Novembre 2022, viene presentato il format Scrivere le serie TV, curato da Marina Pierri (autrice, critica televisiva e direttrice artistica del FeST – Il Festival delle Serie TV di Milano) e Mary Stella Brugati, sceneggiatrice. Tra i numerosi incontri con le personalità più importanti della serialità televisiva italiana (https://francescotrento.it/blog/corso/moduli/scrivere-le-serie-tv/) venerdì 17 Marzo 2023 si è svolto tramite la piattaforma Zoom l’incontro con Cristiana Farina, headwriter e ideatrice di Mare Fuori (Rai 2020 – in produzione), lo show che soprattutto in questi ultimi mesi è diventato un vero e proprio fenomeno di massa, è sulla bocca di tutte e tutti, e non solo tra gli adolescenti. Quello che segue è il resoconto dell’incontro con Cristiana Farina, a cui ho partecipato personalmente.

Cristiana Farina Le aspettative sono state più che superate, è stato uno tsunami più che un Mare Fuori. Questa è una storia che mi porto dietro da tanti anni, dalla prima volta che sono entrata nel carcere minorile di Nisida (Napoli), sono passati vent’anni da allora ed è stato amore a prima vista.

         Io ero lì perché fui chiamata per un seminario e avevo ovviamente un immaginario molto distante da quello che poi in realtà ho scoperto; i ragazzi che erano detenuti scontavano dei reati molto gravi, anche feroci, e quindi mi aspettavo di trovare più degli uomini che dei ragazzi. In realtà poi mi sono confrontata con dei ragazzi, con degli adolescenti che ancora cercavano un’approvazione da parte degli adulti, da chi è un riferimento per loro a quell’età.

         Quindi Mare Fuori è stato un progetto fin dall’inizio pieno d’amore, perché era come se quella dimensione della detenzione fosse davvero un’occasione per aprire una finestra che non avevano mai aperto. Ed erano curiosi, erano instabili, come tutti i ragazzi a quell’età, e dunque quest’alternanza di sentimenti forti ed opposti, espressi anche in maniera così violenta è arrivata con tutta la sua forza.

         L’immagine che ho avuto entrando all’IPM (Istituti Penali per Minorenni, ndr) di Nisida per la prima volta fu durante un saggio, c’era un saggio teatrale. Quella di Nisida è una location particolarmente bella, si trova sulla cima di questa penisola, appunto Nisida, e si affaccia sul Golfo di Napoli. C’è tutta una salita, che una volta che si chiude il cancello, passa attraverso diversi edifici e io ero in cima alla salita insieme ad un pubblico perché stava avvenire quest’happening messo su da una compagnia teatrale e vedo arrivare due ragazze altissime, vestite di celeste, erano su dei trampoli. Fu una visione quasi angelica, queste due figure altissime che passeggiavano sopra le nostre teste. Erano due ragazze bellissime: una era quella che oggi è diventata nella serie Viola e l’altra era quella che è diventata Naditza, una zingara e una ragazza psicopatica, fondamentalmente. Lei aveva realmente un problema mentale.

         Uno dei problemi dell’IPM è proprio questo, molto spesso ci finiscono ragazzi minorenni con problemi psichiatrici. Ora però finalmente si parla di reati minorili, di salute mentale proprio cavalcando l’onda di Mare Fuori, anche le notizie sul Beccaria, ad esempio. Prima le evasioni sono sempre accadute nel minorile perché il minorile non è un istituto di massima sicurezza, è un istituto detentivo ma i ragazzi escono con il permesso, non stanno chiusi nelle celle con un’ora d’aria al giorno. Stanno sempre in cortile quindi volendo riescono a scappare, e difatti succede soprattutto durante i permessi che capita che non rientrano. Ma nessuno non se ne è mai occupato del problema a livello nazionale, sulle prime pagine dei giornali, invece adesso l’attenzione comincia ad esserci. Il passo successivo, spero, che ci sia qualcuno che si preoccupi di creare un link tra il dentro e il fuori perché pur se lì dentro ci siano persone per quanto illuminate, capaci a recuperare quei ragazzi o comunque a dar loro un punto di vista diverso sul mondo, una volta però che valicano quel portone non c’è più nessuno, non c’è un pensiero, un progetto che possa accompagnarli anche fuori. Alla fine vengono riconsegnati al territorio, alle loro famiglie che spesso sono il problema di partenza e quindi non c’è nessun progetto di recupero e questo dispiace.

         Il successo di Mare Fuori ci fa ovviamente sentire ancor più responsabili perché se uno scrive una cosa tanto per riempire la pagina e trovare un momento di svolta che possa agganciare lo spettatore è un discorso, ora invece tanti giovani veramente lo stanno considerando qualcosa di grande, ed è decisamente una cosa diversa. Persone che ti scrivono cose del tipo: “Mi ha salvato la vita”, ti accorgi quindi che c’è proprio bisogno di una guida. Mare Fuori ha acquisito, volente o nolente, questo ruolo di faro, di faro nel buio. E di conseguenza bisogna essere molto responsabili perché la presa è tanta e nel nostro piccolo dobbiamo cercare anche eticamente di essere corretti e di attribuirgli un valore effettivamente positivo che possa dare speranza, perché il messaggio credo abbia in qualche modo perforato il tessuto degli adolescenti che molto spesso sono in difesa, hanno una barriera protettiva rispetto al mondo degli adulti, soprattutto. Mare Fuori è riuscito a sfondare questa barriera perché ha dato a tutti una possibilità di speranza. Anche dietro lo sbaglio più grave c’è la possibilità di una nuova vita se si guarda nella direzione giusta, se si affronta con responsabilità la propria responsabilità, perché non voglio parlare di colpa, e se si capisce quanto si è responsabili di quello che si è fatto poi si può tranquillamente ricominciare se c’è qualcuno che non ti giudica ma ti tende la mano e cerca di tirare fuori il bello che c’è in te.

            Per tutta questa serie di motivi, quindi, tutte queste storie in qualche modo sono rientrate dentro Mare Fuori proprio perché partivano da realtà non universali ma sicuramente molto più larghe di quello che si pensi. La cosa di cui mi sono appassionata particolarmente è la possibilità di recupero effettiva che c’è all’interno dell’IPM, una possibilità di recupero però che è molto delegata all’iniziativa personale di chi ci lavora.

La genesi di Mare Fuori: gli step di scrittura della serie

            Cristiana Farina È iniziato tutto quanto con questa presentazione alla Rai del progetto, un conceptdi dieci pagine e a loro è interessata molto l’idea dopodiché per lavorarci mi sono affiancata a Maurizio Careddu, con lui abbiamo strutturato diversi soggetti di serie e dalla seconda stagione facciamo anche insieme gli headwriters, perché è un lavoro decisamente impegnativo. Abbiamo fatto tantissima ricerca, siamo andati tante volte a Nisida, abbiamo conosciuto molteplici realtà locali che organizzano attività per i detenuti anche all’esterno del carcere, come la “Pizzeria dell’Impossibile”: si tratta di un’associazione che praticamente si occupa di insegnare ai ragazzi di Nisida ma anche di altre comunità, di Airola e di altri istituti campani, di fare la pizza. E in questa pizzeria, che sta ai Decumani, proprio al centro di Napoli, loro offrono la pizza a chi non può pagarla. Si può andare lì, prendere una pizza e una Fanta senza pagare, e questo succede a pranzo tre, quattro volte a settimana e i ragazzi imparano un mestiere, fondamentalmente. Ho conosciuto lì tanti ragazzi e ho avuto modo di parlare con loro in maniera libera, forse anche più libera che all’interno dell’istituto. Da tutti questi racconti, io e Maurizio abbiamo raccolto molte idee e anche molti modi di pensare che sono poi naturalmente confluiti dentro Mare Fuori.

         Con Maurizio, quindi, abbiamo fatto prima il soggetto di serie, dopodiché ci dividiamo i soggetti di puntata e sviluppiamo un soggetto io e un soggetto lui, poi lui passa a me quello che ha fatto lui e viceversa, ci scambiamo, ci rimpalliamo continuamente il lavoro e, una volta scritti, i dodici soggetti vengono spediti alla produzione della Rai che ci dà il feedback in base a quello che a livello produttivo si può ottimizzare piuttosto che a livello di contenuto migliorare; abbiamo un referente, un capostruttura Rai che si chiama Michele Zatta il quale anche lui si è calato in questo progetto con tutto se stesso e quindi insieme si fa un vero e proprio lavoro di gruppo. Poi, dopo i soggetti si passa alle scalette, che scriviamo sempre io e Maurizio, dove le nostre scalette sono in realtà dei trattamenti, noi scriviamo scena per scena e consegniamo scalette di trenta pagine per un episodio da 50’, quindi sono molto dettagliate. Successivamente io e Maurizio scriviamo quattro sceneggiature ciascuno e quattro di anno in anno vengono assegnate a diversi sceneggiatori. Dal primo anno c’è Luca Monesi, per le altre invece ogni anno sperimentiamo qualcuno di diverso. Poi ritorna tutto a noi e rileggiamo tutto io e Maurizio e diamo una continuità finale. È un lavoro a step: soggetto di serie, soggetti di puntata, scaletta di puntata e sceneggiatura, e poi c’è l’edizione finale. Per fare un esempio attuale, ad oggi siamo in fase di sceneggiatura ed entro metà Aprile dovremmo consegnare tutto per poter poi iniziare a girare a metà Maggio.

La genesi di Mare Fuori: il cast

            Cristiana Farina Il merito di questo cast è innanzitutto del primo regista, perché i registi si sono alternati mentre  noi siamo rimasti sempre. Il primo regista, Carmine Elia ha fatto un lavoro di casting insieme a Marita D’Elia (casting director, ndr)straordinario. Marita ha fatto un lavoro di cast incredibile perché è riuscita in ogni caso, anche essendo ragazzi molto giovani, a trovare dei professionisti. Non ci sono improvvisati tra di loro: sono tutti giovani attori e che comunque c’è chi ha fatto il Centro Sperimentale, chi aveva già fatto qualche film, chi veniva dal teatro, chi da una famiglia di teatranti, avevano tutti già studiato e sono tutte persone molto preparate e anche intellettualmente molto sensibili e argute rispetto alle tematiche trattate.

         Io a volte rimango molto affascinata dall’ascoltarli perché dicono cose che travalicano e che superano anche le intenzione delle parole scritte. Fanno delle analisi sui loro personaggi che lasciano veramente a bocca aperta me per prima, che ho scritto il personaggio. E questa è una ricchezza aggiunta   sicuramente all’idea originale innegabile ed è una sorta di alchimia fortunata quella di Mare Fuori, perché questi ragazzi tra di loro poi hanno sviluppato anche un’amicizia, una collaborazione, sono diventati proprio una famiglia. E tutta questa passione, tutto questo amore, tutta quest’anima alla fine ha dato corpo a qualcosa di unico.

            Nella serie, poi, naturalmente ci sono anche personaggi, come quello di Carolina Crescentini, che poi avvertono l’esigenza di uscire da quel ruolo, è una serie lunga perciò magari un attore ad un certo punto ha altri interessi e altre proposte e dunque dobbiamo trovare un modo per farli uscire, è un mix di tutto questo e non dipende perciò solo da noi, da semplici scelte narrative. Penso anche ai personaggi di Filippo (Nicolas Maupas) e Naditza (Valentina Romani) che poi hanno avuto altre proposte e hanno pensato che il loro contributo a Mare Fuori fosse terminato, ed è rispettabile alla loro età perché chiudersi in un ruolo può cominciare a diventare stretto.

La genesi di Mare Fuori: i riferimenti

            Cristiana Farina Le storie in sé presenti in Mare Fuori non provengono guardando altri prodotti ma la struttura e il genere ovviamente sì: Orange is the New Black, Oz, Vis-a-vis, io ho sempre avuto il pallino del carcere. È un luogo che evidentemente da bambina mi porto dietro. La Rai, ricordo, faceva dei film la mattina tipo di Sabato o di Domenica e io li guardavo tutti e tra questi c’era Sciuscià di De Sica che mi colpì proprio al cuore, perché forse la libertà negata su un bambino era per me l’innocenza violata per antonomasia. Ed è una cosa che mi ha sempre colpito nel profondo proprio perché mi spaventava e in qualche modo la indagavo. E sicuramente il carcere è sempre stato un ambito che mi ha affascinato, quindi me le sono viste tutte quelle serie, dalla prima ora. Detto questo, poi si tratta di serie corali e anche questo è ricorrente in Mare Fuori, però le storie, come dicevo, si sono sviluppate molto autonomamente, anche a livello strutturale, come l’idea dei flashback, dei personaggi, perché noi del reato fondamentalmente non parliamo mai, ne parliamo solo nel flashback dove questi hanno sempre un intento salvifico, cioè cercano in qualche modo di far capire cosa c’è dietro quel reato, e ti fa chiudere alla fine il cerchio su quel dato personaggio che fino a quel momento non avevi ancora inquadrato perfettamente o lo avevi inquadrato in un’altra direzione.

            Un’altra considerazione che non è solita come abitudine seriale è quella di compiere gli archi narrativi, cioè noi abbiamo come regola la seguente: abbiamo chi sbaglia e decide di sbagliare e fa una scelta, compie una scelta e quindi non ha nessuna possibilità di recupero perché non si responsabilizza e per noi chi ha scelto di essere un criminale è già un adulto, non è più un ragazzo ed è una persona che con questa scelta è già al di fuori del nostro raggio. E a quel punto se continui a perpetuare il male non c’è possibilità di salvezza, per cui un Ciro Ricci muore. Se invece c’è qualcosa dentro di te che si è acceso, allora ci lavoriamo e continuiamo su questa direzione. E ci sono stati anche addii, tipo quello di Viola (Serena de Ferrari) che soltanto sul finale noi capiamo chi era e perché. Fino a quel momento era odiatissima Viola perché era un personaggio psicopatico che aveva ucciso senza un motivo comprensibile e che continuava a comportarsi in maniera provocatoria verso tutte e tutti e non provava empatia e, di conseguenza, era un personaggio respingente. Ma io Viola l’ho sempre amata perché l’ho conosciuta e so da dove proveniva quella mancanza di empatia, non perché conoscessi la sua storia ma perché conoscevo lei e quindi avevo accettato questa sua diversità in qualche modo. E proprio perché c’era una diversità diventava per me fonte di interesse, perché tutto quello che non capisco mi appassiona molto di più di quello che invece già conosco. E il finale di Viola per quanto sia straziante è anche in un certo senso rivelatore, proprio in quel momento infatti lei prende coscienza di chi è e che cosa ha fatto.

            La serie è iniziata al maschile perché le storie di entrata sono quelle di Carmine (Massimiliano Caiazzo) e Filippo e, di conseguenza, con loro e con la loro amicizia speculare, entriamo dentro l’IPM e parliamo più che altro al maschile perché loro sono al maschile. Le ragazze sono personaggi sì interessanti ma solo sullo sfondo, diciamo che nella prima stagione sicuramente emerge Naditza. Lei è un vero portento sia come attrice che come personaggio, rompe proprio le righe con la sua vitalità eccessiva che fa saltare tutti gli schemi. Nella prima stagione, dunque, i personaggi femminili erano presenti ma sicuramente le storie portanti erano quelle del maschile.

         Il momento in cui Ciro (Giacomo Giorgio) viene a mancare si avverte la sua mancanza, la proviamo anche noi proprio perché era un antagonista meraviglioso ma noi tuttavia non volevamo fare una storia incentrata soltanto sull’antagonismo e sulle forze camorriste, per cui quando Ciro viene a mancare ci siamo detti: che cosa c’è di meglio se non ricalcare un archetipo che conosciamo tutti, come è quello di Romeo e Giulietta? E perciò abbiamo i Di Salvo contro i Ricci e quindi arriva Rosa (Maria Esposito) che si innamora del Di Salvo, anzi viceversa, è lui che prima ancor di lei mostra interesse perché l’intento di Carmine, molto più consapevole da sempre, è quello di disinnescare questa lotta, questa guerra, questo odio, questa violenza con cui è cresciuto ed è l’origine di tutti i mali. Per cui dice: l’amore è sicuramente la cosa che potrebbe far finire tutto questo, e ci prova disperatamente.

La genesi di Mare Fuori: i processi produttivi e l’importanza dello showrunner

            Cristiana Farina Io non faccio differenze tra serie e fiction, essendo che poi la fiction si basa su diversi generi e sottogeneri che possiamo poi chiamare soap, drama, comedy, comedy-drama, avventura però di fatto sempre di fiction si tratta. Nel senso che nel momento in cui fai recitare qualcuno e scrivi un testo da far recitare diventa una fiction, non è che può essere un’altra cosa. Altro discorso è una docuserie, lì prendi dei ragazzi magari in base a degli archetipi e li metti in una stanza e li fai interagire tra di loro senza uno script di riferimento.

            Per quanto riguarda le serie italiane, in particolare, c’è molto da dire secondo me perché in Italia la vera serialità è trattata in maniera diversa da come si produce nei Paesi che ne hanno fatto un mercato anche redditizio, come negli Stati Uniti, lì è di carattere industriale in qualche modo. Anche quando è autoriale ha dei sistemi di preparazione, produzione e postproduzione che sono dettati da un calendario che rende tutto verificabile e ciascun momento è imputabile ad un ruolo preciso. Un ruolo preciso che ha un compito in un tempo preciso. Qui in Italia, invece, è diverso, nel senso che sembra che ancora oggi si producano le fiction, e quindi le serie TV, con le modalità e un piano di produzione di stampo cinematografico, non seriale. E su questo ci scontriamo anche noi autori perché anche nel caso di Mare Fuori, una serie di cui siamo ovviamente tutti orgogliosi, però di fatto per noi autori a volte è frustrante poiché nel momento in cui tu interrompi la comunicazione perché appunto la produzione non ha questo tipo di impostazione, ed interrompi la comunicazione tra scrittura e regia, tra regia e montaggio, crei un danno perché la continuità di una serie non ce l’ha in mano il regista che non l’ha scritta, non ce l’ha in mano l’attore che improvvisa. Possono avere un ruolo autoriale tutte queste figure ma si deve avere un controllo editoriale dal minuto uno alla fine. Perché infatti esiste in America la figura dello showrunner, del producer creativo, in generale del creatore della serie che è presente in tutti gli step di produzione perché deve controllare la continuità, l’anima. In qualche modo è il termometro della serie, proprio perché ha più stagioni e non è scritta dall’inizio per più stagioni, la direzione la deve avere una persona. E comunque la deve avere la scrittura, perché la scrittura è quel processo che guarda più lontano. Poi l’approfondimento lo può avere in mano in regista, lo può avere in mano l’attore perché magari l’approfondimento del personaggio sicuramente non si può pensare che non sia delegato all’attore, perché l’attore ha una visione solo del suo personaggio e può andare solo che a fondo rispetto alla scrittura, però tutto questo deve essere verificato e valutato da chi ha in mano la scrittura della serie.

E questo non è semplice da attuare in Italia, non è semplice affatto. Io ho avuto fortuna perché in Amiche mie (2008, ndr), un’altra serie che ho fatto ho avuto questo specifico ruolo, in Mare Fuori invece non è stato così, però di fatto tra una cosa e l’altra alla fine siamo riusciti anche con il montaggio a rimettere a pari un po’ di pasticci che erano accaduti durante la fase di registrazione rispetto a quello che era stato scritto. È tutto un po’ più pasticciato, meno codificato. Io ho lavorato con gli inglesi, con gli americani, con gli australiani e non c’è questo margine di sbaglio, non è proprio possibile perché ci sono dei sistemi di verifica che permettono di scrivere e ad andare in onda con uno scarto minimo. Addirittura lì si va in onda con episodi ancor quando si sta scrivendo: ad esempio io sono in onda con l’episodio 4 e sto scrivendo l’episodio 8, per cui riesco anche a cambiare le cose – questo succede in America – in funzione del feedback che mi torna dalla registrazione e anche dal pubblico. È un sistema molto più evoluto di come invece noi lo stiamo intendendo.

La genesi di Mare Fuori: storylines multiple e il confronto con Gomorra     

            Cristiana Farina Ho lavorato a Un posto al sole quando ero una ragazzina, era il 1997 e conosco bene come far ruotare bene più personaggi e più storytelling all’interno di un episodio. Detto questo, il consiglio che posso dare ai giovani scrittori e scrittrici se si hanno diverse linee narrative è scrivere sempre intorno ad un tema. Ad esempio, tutte e tre le storylines dovrebbero ruotare tutte intorno allo stesso tema: se il tema è la vendetta piuttosto che la gelosia, adesso io vi parlo di grandi sentimenti, tutte e tre le storie ruoteranno intorno a questo tema. Per cui pur se non si incrociano, risuonano nel pubblico perché è come se tu costruissi un prisma, ogni faccia ti restituisce una luce dello stesso argomento, un aspetto.             Il confronto con Gomorra può venire molto naturale parlando di Mare Fuori, nonostante non sono assolutamente io a dare le definizioni e a fare paragoni, ma si tratta di storie e di serie molto diverse. Io parlo proprio di tecnica del racconto: Gomorra ha un punto di vista unico, è un punto di vista che non prevede il bene e il male ma prevede solo il male. C’è solo un racconto ed è un racconto senza speranza. L’intento penso di chi l’ha scritto è proprio questo, ossia quello di dire che se prendi quella strada, se fai quello che fanno loro è la fine, non è che ce ne sia un’altra di possibilità. O finisci in galera o finisci ammazzato. Puoi essere ricco per un giorno, per un anno, per dieci anni ma poi alla fine il nodo arriva al pettine e quindi non c’è speranza, è un racconto senza speranza quello di Gomorra. Invece in Mare Fuori i punti di vista ne sono tanti, non ce ne è solo uno, non sono neanche due, sono molti ed è anche contraddittorio molto spesso. Mentre Gomorra è come un Far West, un po’ bidimensionale, anche come regia, come impianto tecnico, è tutto molto bidimensionale, ci sono queste inquadrature molto statiche, tutto molto studiato, precisissimo. È un gran lavoro, io sono una fan di Gomorra. In Mare Fuori, invece, è tutto molto scombinato: è anima, magma, pancia, è una roba più che si ride e si piange. Lo stesso ragazzo che ha compiuto un delitto lo puoi veder piangere perché ha fame o perché non gli va di svegliarsi alle sette di mattina, è un po’ così: è il racconto di un’umanità molto più complessa e che non ha fatto una scelta come in Gomorra ma che si ritrova in prigione per pagare per degli sbagli che ha fatto senza neanche pensarci più di tanto perché è un ragazzino e perché a quell’età si sbaglia e si deve sbagliare perché dagli sbagli si impara…anche se li hanno fatti un po’ grossi

In Narrature

CALL FOR PAPERS!

Dalla Kallipolis platonica alla Città del Sole di Campanella, dalla fervida Milano di Manzoni alle narrazioni sull’inurbazione selvaggia del secondo Dopoguerra: ogni epoca ha avuto a che fare con la propria idea di città, sia essa ideale o reale. In particolare, a partire da quella che Jean-François Lyotard ha chiamato La condizione postmoderna (1979), si è imposto un ripensamento dell’uomo in termini non più storici, bensì spaziali: la città è dunque diventata luogo privilegiato per la costituzione di quello «spazio sociale» teorizzato da Lefebvre (La produzione dello spazio, 1974) che permette, stimola e proibisce delle azioni. Ma esse sono anche altro. Nel 1972 Italo Calvino pubblica «l’ultimo poema d’amore alle città», Le città invisibili. Nella presentazione, scrive:

“Le città sono un insieme di tante cose: di memoria, di desideri, di segni d’un linguaggio; le città sono luoghi di scambio, […] non sono soltanto scambi di merci, sono scambi di parole, di desideri, di ricordi.”

Al contempo, sul versante strettamente letterario, in un’epoca come la nostra che privilegia la rapidità degli scambi e dei rapporti, legata molto spesso ad una superficialità degli stessi (si pensi a Bauman), la forma più adatta alla rappresentazione del contemporaneo sembra essere quella breve. Scrive Giulio Ferroni, in uno scritto fortemente polemico di qualche anno fa (Scritture a perdere. La letteratura degli anni zero, 2010):

“A me sembra che la forma «breve» del racconto […] sia oggi la più adatta a toccare la frammentarietà e la pluralità dell’esperienza, a scavarne il senso con tensione linguistica ed espressiva […] La relativa brevità dei racconti rispecchia in fondo lo spezzettarsi della realtà che oggi ci è dato.

A tal proposito, riteniamo opportuno calare la narrazione sulla città all’interno della forma del racconto, per tentare di dare una risposta alla domanda che già spingeva Calvino a comporre un libro (Le città invisibili, appunto), che “si deve leggere come si leggono i libri di poesie, o di saggi, o tutt’al più di racconti”: Che cosa è oggi la città, per noi?

Si accettano, pertanto, proposte di racconti di qualunque genere che raccontino la città, declinata sotto ogni aspetto possibile. 

In Sesto Potere

Su The Mandalorian, The Book of Boba Fett e la riscrittura del concetto di spin-off nel panorama trans-mediale contemporaneo

di Giovanni Morese

This Is The Way”

Mai citazione fu più profetica. Parliamo di The Mandalorian, prodotto live-action di punta della piattaforma streaming Disney+ fin dal suo lancio sul mercato internazionale, giunto il 1° marzo al terzo ciclo di programmazione con il rilascio dell’attesissima premiere. Oltre all’indubbia bellezza di un episodio che riporta la qualità in queste storie dopo lo scricchiolante esperimento di Obi Wan Kenobi, ciò che salta immediatamente agli occhi dello spettatore è la conferma di una tendenza rivoluzionaria nella costruzione della lore ultra-quarantennale dell’universo Star Wars. Difatti la puntata, denominata Chapter 17, non figura minimamente come il naturale proseguimento del capitolo precedente. Chi credeva di ritrovarsi dinnanzi allo status quo del finale – andato in onda il 18 dicembre 2020 – che vedeva il Mandaloriano protagonista separarsi apparentemente per sempre dal suo fido amico Grogu, non solo rimarrà sorpreso, bensì anche profondamente perplesso e disorientato. Questo perché la storyline orizzontale della serie è proseguita ed ha anche avuto risvolti narrativi di fondamentale importanza all’interno dello spin-off The Book Of Boba Fett, show andato in onda lo scorso anno, proprio a cavallo tra Season Two e Season Three. La trama, incentrata sul personaggio incontrato per la prima volta in The Empire Strikes Back del 1980 e interpreto sul piccolo schermo da Temuera Morrison a partire dal 2020, ha di fatto riscritto il concetto di serial storytelling, fungendo sia da contenitore delle vicende di questo personaggio che da diretto sequel del Mandaloriano. Se i primi quattro episodi avevano posto quindi le basi per una storia in salsa western focalizzata sui giochi di potere relativi alla gestione del noto pianeta desertico Tatooine da parte del cacciatore di taglie e della mercenaria Fennec Shand, a partire dal quinto non solo ci siamo ritrovati di fronte ad un prodotto totalmente diverso, in cui il protagonista viene da un momento all’altro messo da parte a favore di personaggi che, al massimo, avrebbero dovuto fare un’apparizione crossover in funzione della trama della serie, bensì ad una storia che nel Season Finale non fa assolutamente brillare il suo lead character, a favore di un Grogu deus ex machina che si sostituisce prepotentemente e insensatamente sulla scena. Emblematica anche l’ultima scena, che non vede la presenza di Boba ma del duo della serie principale riuniti per nuove avventure, collegandosi ad un opener episode della terza stagione che evita così di fornire al teleutente un doveroso recap di quanto accaduto ai due all’interno di un prodotto diverso che si dà, quindi, per scontato essere stato seguito. E la situazione non potrà che peggiorare, con le nuove serie tv spin-off Ahsoka e Skleton Crew in arrivo tra questo e il prossimo anno. Che cosa stiamo guardando, quindi? A cosa sta andando incontro esattamente il panorama trans-mediale contemporaneo? Siamo di fronte ad un nuovo format che presto riusciremo a collocare in maniera puntuale all’interno dei complessi e mutevoli linguaggi cine-televisivi? Effettivamente il messaggio della major parla chiaro, considerando anche il caso Marvel di Doctor Strange – In the Multiverse of Madness, film uscito a maggio dello scorso anno e sostanziale sequel non del primo capitolo sul personaggio, bensì della serie televisiva Wanda Vision del 2021, senza la quale la visione di questo prodotto risulta alquanto incomprensibile: questa nuova modalità di interconnessione mediale pare non tener conto della nostra libertà in qualità di fruitori di storie. E così, schiavi di strategie di marketing che ledono la narrativa seriale e cinematografica attraverso la creazione di micro-universi frammentari e mutilati, potremo decidere se impelagarci sempre di più nella visione di percorsi quasi orgogliosamente privi di una loro identità o se, forse in maniera più dignitosa, decidere di premere il tasto play altrove.

In Focus

Sul caso Roald Dahl: modernizzazione o censura?

di Giovanni Morese

Non ho niente da insegnare. Voglio soltanto divertire. Ma divertendosi con le mie storie, i bambini imparano la cosa più importante: il gusto della lettura.

Così ci diceva l’autore di letteratura per l’infanzia che, a cavallo tra la generazione X e quella dei Millenials ha dato voce, corpo ed anima a personaggi divenuti iconici ed inimitabili. Tra terribili streghe, mostri spaventosi, una preside che farebbe rabbrividire anche gli studenti più impavidi ed uno strambo ma sempre affascinante Willy Wonka, Roald Dahl ci ha offerto la visione del mondo di un uomo britannico nato nel 1916 che, però, riesce ancora a pieno nel suo intento di appassionare e divertire i piccoli lettori.

Almeno fino ad oggi.

È recentissima, infatti, la polemica innescata dalle revisioni ai romanzi dello scrittore attuate dalla Puffin Books e la Roald Dahl Story Company in collaborazione con Inclusive Minds, un’organizzazione che si occupa di inclusione e accessibilità nella letteratura per bambini. In questo modo fat si trasforma in parola-tabù da estirpare, la scrittrice donna Jane Austen prende il posto del ultimamente “cancellato” Rudyard Kipling tra le letture della bimba-prodigio Matilda, mentre a Roald Dahl vengono messe in bocca parole e considerazioni mai neppure lontanamente concepite dalla sua mente novecentesca. Eppure, su questa pesantissima revisione delle opere Dahliane – il Telegraph parla di ben cinquantanove modifiche solo per il romanzo The Witches – la branca della famosissima Penguin Books si esprime convintamente parlando di “modernizzazione”. Da qui il paradosso: modernizzare la letteratura eliminando ciò che l’ha resa tale. Trasformare Roald Dahl in uno scrittore degli anni ’20 del 2000, non offrendo ai suoi fruitori contemporanei la doverosa possibilità di interpretare un mondo che non esiste più e capire se da quest’ultimo si possa ancora apprendere qualcosa. Siamo sicuri che modernizzare significhi davvero prendere la trasposizione su carta dei classici Disney e appiccicarsi con lo sputo il nome dei fratelli Grimm, di Charles Perrault, Lewis Carrol e Hans Christian Andersen come se questi ultimi avessero davvero dato gli stessi happy ending smielati della controparte cinematografica? Siamo davvero convinti di salvaguardare la sensibilità delle nostre generazioni future non fornendo loro gli strumenti necessari per comprendere quelle che sono le contraddizioni del nostro ieri? È questa la nuova concezione del moderno o possiamo parlare apertamente di censura? Ai posteri l’ardua sentenza. Eppure rimbomba, in questi giorni più di altre recenti occasioni un pensiero costante, sofferto, malinconico: ridateci la nostra letteratura. Una letteratura che può essere modernizzata con delle note esplicative. Una letteratura studiata a scuola e nella vita attraverso le parafrasi e le chiavi di lettura che ci donano l’abilità di leggere il passato comprendendo meglio il contemporaneo. Una letteratura che dia ai nostri lettori più giovani la libertà di imparare a leggere divertendosi con Roald Dahl e – qualora nel nostro tempo quest’ultimo non dovesse riuscire più nel suo intento – quella di posare il passato ed abbracciare, perché no, qualcosa di definitivamente nuovo.