di Umberto Mentana
Tim is back! Tim Burton è tornato. Quante volte stiamo leggendo e ascoltando questa tagline, in particolare sul web, nelle ultime settimane? Credo che innumerevoli volte sia il numero che più si avvicini. Da parte mia però utilizzerei un vocabolo più consono alla natura del regista/artista californiamo: Tim Burton è ri-tornato. È ritornato dove tutto è incominciato, trentasei anni fa e attenzione, non è esclusivamente un discorso di ripresa di un sequel perché, quello di Beetlejuice Beetlejuice è un vero e proprio percorso a ritroso sui propri passi, alla ricerca di un amore, di una firma, quella di sé stesso e del proprio Cinema.
Per Burton, la carriera di amante dei cimiteri incomincia da ragazzino, nel 1982, nei sobborghi californiani di Burbank con il cortometraggio Vincent, utilizzando la sua amata stop-motion e dotando questo piccolo-grande film della voce narrante di un “mostro” sacro come Vincent Price. Il corto è già un manifesto del suo stile e della sua idea di arte, della sua poetica dark e sulla forza emotiva di cui sono portatori i suoi outsider. Poco dopo avviene la sua incursione nel live-action con l’ancora incerto Pee-Wee’s Big Adventure (1985), ma sarà proprio Winter River, con lo “spiritello porcello” Beetlejuice (1988) a dare i natali alla sua inconfondibile firma d’autore prima addirittura di quel 1990. Questo decennio in assoluto porterà in alto il suo nome per una emotiva generazione, una folta schiera di ragazzine e ragazzini amanti dell’oscurità e di altri strambi sentimenti. Il 1990 è l’anno di Edward Mani di Forbice e il suo Cinema diventa “burtoniano”, le sue storie dal forte imprinting visivo divengono fiaba, sì dark ma da batticuore. Da lì in poi si sussegue una filmografia distrofica ma allo stesso tempo coerente su vari registri: a volte con più humour, a volte più spettacolare…prima del grande buio avvenuto a tratti negli ultimi anni con opere decisamente minori dove una flebile voce sussurra al suo orecchio ricordando chi e cosa faceva Tim. Sono gli anni di una sovrabbondanza di CGI, a mio vedere la morte della meraviglia, e per Burton è assolutamente importante questa indicazione poiché per un autore che ha fatto dell’incanto, della reciprocità, del legame, in particolare con l’inconoscibile e del soprannaturale, la sua viscerale identità, “plastificare” tutto con una caterva di effettacci digitali – naturalmente abbinati ad una scrittura e ad uno storytelling visivo modesto – non è che espressione di un allontanamento, e l’allontanamento porta una mancanza di amore. Ed è questo che ha pian piano incominciato a provare il nostro caro poeta del macabro, Tim Burton, nei confronti del Cinema È stato lui stesso a confermarlo più volte, soprattutto dopo l’insuccesso di Dumbo (2019), un film tronfio di CGI e spento di passione.
Ma arriviamo a oggi. Non è passata un’eternità dal 2019, eppure, l’universo mediale si è assolutamente trasfigurato nelle forme e nei meccanismi: concluso il picco della parabola dei cinecomics con Avengers: End Game (sempre 2019, dir. Russo brothers), si assiste sempre più spesso a un ritorno, un viaggiare all’incontrario per ricreare una autenticità perduta, con una certa dose di selvaggia materica. E le piattaforme di streaming on-demand non lasciano aleggiare a lungo questi “movimenti” della società non ascoltandoli, e le migliori storie di questi anni venti puntano tutto sulla nostalgia e sull’ “artigianato” (Stranger Things su tutti da capostipite del filone fin dal 2016). Quale migliore nostalgia creativa, dunque, se non re-brandizzare e rimettere in pista Tim Burton in un contesto e con un gusto del pubblico nuovamente più consono e vicino al suo sentire? Con l’uscita di Beetlejuice Beetlejuice (2024), secondo viaggio all’interno della difficile ma esilarante convivenza fra i morti e i vivi, i volti del cast storico hanno dichiarato ironicamente che Tim Burton ha aspettato trentasei anni per fare il secondo film perché doveva nascere Jenna Ortega. E infatti, forse può essere proprio questo il fulcro della sua parabola artistica in piena rinascita. Miss Ortega è infatti più nota al pubblico come Mercoledì Addams, protagonista della serie Netflix Wednesday di enorme ed incalcolabile successo di cui Burton ricopre il ruolo di creatore-ideatore (showrunner) e regista di alcuni episodi (la serie è stata rinnovata ad oggi per altre stagioni). Il mondo narrativo della famiglia Addams è un soggetto che il nostro Tim si portava dietro fin dall’infanzia, da cultore dei mitici fumetti della macabra famiglia creata da Charles Addams. Pertanto sì, Tim Burton è ritornato ad essere sé stesso, dichiarando di essersi innamorato di nuovo dopo l’esperienza seriale di Mercoledì. Così, trentasei anni dopo, ritorna al Cinema a Winter River dove tutto è incominciato per ritrovarsi in compagnia di coloro che hanno dato avvio alla sua Storia Cinematografica: Winona Ryder, Michael Keaton, Catherine O’Hara, e ovviamente anche Jenna Ortega fautrice ed immagine simulacro di Mercoledì che rappresenta per Tim Burton una personificazione della sua rinascita. Tutto questo è Beetlejuice Beetlejuice, un film dalle sfiancanti e dovute citazioni e connessioni, partendo dalle carrellate iniziali sui luoghi della cittadina che in realtà, come nel primo capitolo, si riduce ad essere un plastico in miniatura della città stessa, quasi a svelare la natura paradossale e fantastica del film. E il tempo a River Winter non sembra essersi arrestato, con la piccola galleria di pittura rossa che viene attraversata in bicicletta non più da Winona Ryder (Lydia Deetz) ma da sua figlia Astrid (Jenna Ortega), in questo film personaggio apparentemente lontano dalle manifestazioni dark della madre. Più del plot mi vorrei concentrare invece a rintracciare questi frammenti dell’universo burtoniano in piena reconquista, e attenzione non è un lavoro di citazionismo fine a sé stesso. Quello che avviene in Beetlejuice Beetlejuice è tutto, a mio vedere, perfettamente incasellato con un ritmo e una naturalezza che io non ho trovato stucchevole né stanca e ‘marchettata’, come invece era avvenuto spesso nelle sue ultime prove cinematografiche. Le gag di Michael Keaton (l’indemoniato Beetlejuice), coloratissime e spumeggianti, sono degne e vicine alle espressioni più efficaci del Joker burtoniano interpretato da Jack Nicholson (Batman, 1989), Monica Bellucci invece è…letteralmente una Sposa Cadavere (Tim Burton’s Corpse Bride, 2005), celebrata da tagli di cucitura su tutto il corpo visivamente vicini alla Sally de The Nightmare Before Christmas (1993, dir. Henry Selick) mentre la sequenza del racconto di Beetlegeuce – pronunciato Beetlejuice – nel quale illustra in medias res l’angusto incontro con la “succhianime” Delores (Monica Bellucci) è una celebrazione in bianco e nero dell’horror targato Universal – ma anche un po’ del Frankenstein di James Whale, 1931 – nonché, ovviamente, ritroviamo in questo fittissimo bianco e nero un pezzettino del suo, per me, immortale Ed Wood (1994) e del sensibilissimo Frankeenweenie (cortometraggio del 1984 e successivamente lungometraggio animato del 2012). Dunque Beetlejuice Beetlejuice segna un ritorno a quell’artigianato nella tecnica che poc’anzi ho cercato di individuare. Tim Burton accantona questa volta l’esasperazione della computer grafica per riabbracciare la tangibilità delle sue creazioni artistiche e il film ne guadagna esponenzialmente: memorabile è la sequenza in stop-motion incentrata sul povero capofamiglia Deetz de-umanizzato in puppet per l’animazione a passo uno. Infine, come non affezionarsi al tenerissimo ma allo stesso tempo inquietante Bob? Una corpulenta creatura, a capo di uno degli uffici infernali dell’aldilà, dalla testa minuscola la cui sproporzione anatomica fa il verso ai terrificanti alieni di Mars Attacks! (1996),e che riverbera presenze del primo capitolo del film. Insomma, scenari su scenari di riproposizione e di svecchiamento si confondono, si intrecciano, si amalgamano nascosti sotto la sabbia in Beetlejuice Beetlejuice, come gli spaventosi Vermi delle Sabbie, e questa cura maniacale e di puro divertimento di creazione manuale è ben tangibile in ogni angolo del film: le location dell’aldilà già perfettamente in mood con tutto lo “spirito” (battuta infelice ma dovuta!) dell’opera sono ricreate con una cura e con un design scompigliato e curveggiante di perfetta coerenza burtoniana, oltre a far popolare i numerosi ambienti della burocrazia infernale di una numerosissima pluralità di personaggi, caratterizzati da una vivida identità visiva che li fa risultare indimenticabili (e non solo l’ispettore-attore Wolf Jackson, interpretato da Willem Dafoe) anche esclusivamente per la loro presenza on-screen.
Le sequenze più folli di questo corale trip visivo tutte ricadono naturalmente quando è in scena il volgarissimo bio-esorcista Beetlejuice che a suon di scherzetti degni del Jim Carrey di The Mask, cerca in tutti i modi di coronare il suo sogno d’amore con l’antica amata darkettona Lydia Deetz, anche utilizzando gli escamotage del musical, cantando e proponendo canzoni spassosissime.
Concludendo, dal Festival del Cinema di Venezia 81 dove Beetlejuice Beetlejuice è stato proposto come titolo di apertura, all’exhibition di grande successoThe World of Tim Burton (in Italia al Museo del Cinema di Torino presso la Mole Antonelliana dall’Ottobre 2023 ad Aprile 2024, ci sono stato e l’ho amata profondamente!), alla stella numero duemilasettecentottantotto sulla Hollywood Walk of Fame assegnatagli questo 3 Settembre, si può sinceramente dire che l’amico che costellava le mie giornate da spettatore ispirandomi con mostri e altre sensibilissime creature, quel corvo gracchiante che avevo sulla spalla e che non vedevo da un pezzo è ritornato…divertendosi come un pazzo. Beetlejuice Beetlejuice Beetl! Ops, non converrebbe pronunciarlo una terza volta, o forse sì? Per il momento fermiamoci qui e grazie di tutti questi fantastici orrori.