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Inquisizioni sui Karamazov – Parte VII

di Demetrio Paolin

In FK, Parte quarta, Libro dodicesimo, cap. IX, leggiamo: «Amleto ce l’hanno gli altri, a noi per ora sono toccati i Karamazov». Durante la lettura si è parlato molto del romanzo saggio e dei rapporti tra La montagna incantata e i FK. Si potrebbe citare in questo contesto il lavoro sul romanzo saggio di Ercolino, dove il testo di Mann è visto come il prototipo di romanzo-saggio, perché i dialoghi tra i personaggi sono il movimento verso la verità, che si ottiene proprio lungo le battute tra di loro, che cambiano e si modificano lungo la narrazione, la struttura dei FK, dice sempre Ercolino, è invece tragica, i personaggi hanno un destino/necessità/etc etc e quello è dall’inizio alla fine. Paradossalmente la citazione sembra fornire appigli proprio alla interpretazione di Ercolino, ma nella mia esperienza di lettore questa idea che i FK siano una tragedia non è convincente proprio alla luce della citazione in cui si affiancano Amleto e i Karamazov. 
Nei personaggi della tragedia il destino è già deciso, pre-iscritto nella loro vita: Edipo può fare ciò che vuole, ma infine egli deve uccidere il padre e sposare la madre. C’è nel personaggio tragico qualcosa di assolutamente immobile, fisso e predefinito, che in nessun modo è riscontrabile nei personaggi dei FK. L’Ivan della prima parte non è l’Ivan della seconda: l’euclideo lascia spazio al febbricitante folle; neppure Alesa è identico: la disperazione che lo attanaglia nella morte di Zosima è differente dalla professione di fede della fine del racconto; un discorso simile vale anche per Dimitri: il balordo della prima parte non è simile all’uomo disposto ad accettare il suo destino di fuggiasco e di scacciato dal paradiso terreste della Russia. 
Mi pare che i personaggi abbiano degli sviluppi e in alcuni casi anche sostanziali: ma non sono i dialoghi a produrre queste modificazioni esistenziali. Negli FK i dialoghi sono quasi sempre degli a parte, in cui viene dimenticato l’interlocutore. Quindi D e Mann sono distanti, su questo Ercolino ha pienamente ragione, perché ne La montagna incantata il dialogo è una dialettica produzione della verità, mentre in FK particolarmente i dialoghi spesso girano a vuoto e prevale l’impressione che questi siano monologhi intrecciati, come se il personaggio parlasse a sé e avesse bisogno di sentire la propria voce pronunciare le parole a voce alta. 
In tal senso la pluridiscorsività che Bacthin individua come una delle caratteristiche principali dell’opera dei romanzi di D non è tanto orchestrazione dei diversi tipi di linguaggi, quanto la parcellizzazione degli stessi: ogni personaggio diventa il suo linguaggio e il suo discorso, contiene in sé la sua verità formalmente comunicabile, ma non condivisibile con gli altri personaggi del romanzo.  Il riferimento all’Amleto e l’intuizione di Stenier in Tolstoj o Dostoevskij, dove D viene descritto come un genio essenzialmente drammatico sono a questo punto del ragionamento centrali. Abbiamo sostenuto che le battute di dialogo tra i protagonisti suonano come monologhi; ora, il monologo è primariamente una struttura drammatica, nella quale il protagonista parla da solo, mette fuori ciò che ha dentro: è una tecnica narrativa che inscena l’interiorità, ma nella realtà fattuale dell’opera, nella sua rappresentazione, il protagonista – durante il monologo – non è solo, non parla da solo, ma parla al pubblico, al quale – concretamente – vengono indirizzate le parole. La mia impressione è che FK, come gli altri romanzi di D, siano dialogici, ma che il dialogo non si risolva all’interno del testo, ma tra il personaggio e il lettore: il personaggio comunica al lettore la sua verità, non la dice per convincere o per convincersi, ma semplicemente la enuncia per quella che è in modo che il lettore la conosca. 
Questo parrebbe confermare l’ipotesi di Ercolino, ma il problema sta nella stoffa della verità esposta nei monologhi; infatti, la dose di verità che D affida a questi “dialoghi” paralleli si modifica lungo il percorso del romanzo; i personaggi dei FK sono dei caleidoscopi, la loro verità non è mai la stessa, la loro parola muta di volta in volta. Si pensi solo al poema dell’Inquisitore di Ivan e al dialogo tra Ivan e il diavolo; è chiaro ai nostri orecchi di lettore che tra le due scene sia avvenuto qualcosa che ha prodotto una radicale diversità tra il primo e il secondo. Il loro destino, il destino dei personaggi dei FK, non è tragico, ma al massimo comico, la parabola di Ivan in tal senso è emblematica perché rappresenta una costante e continua umiliazione di sé, è una esperienza di vergogna e di viltà, che è un topos (il riferimento è ad Agamben Categorie Italiane) della narrativa.
L’unico personaggio nel quale sembra sussistere, per un certo grado di narrazione, il germe della tragedia è Dimitri. Anzi, potremmo spingerci a dire che il nocciolo della sua interiorità sembrerebbe essere tragico. Sin dal suo apparire nelle pagine Dimitri compie ogni possibile gesto per essere percepito in tal senso. Si presenta come un parricida, il cui destino è segnato: tutto sembra volgere a suo favore, ma lui non ha ucciso il padre, lui non è Edipo, la sua non è una tragedia ma un semplice errore giudiziario. 
Ma il riferimento ad Amleto? Non è Amleto una tragedia? Per rispondere a queste domande concentriamoci su un’immagine del dramma di Shakespeare: Amleto entra in scena, dopo aver visto lo spirito, ha in mano un libro, legge (Amleto, II, 2), così alla richiesta di Polonio «Cosa leggete mio Signore», Amleto risponde «Parole, parole, parole». Viene da chiedersi perché Shakespeare dopo aver fatto incontrare lo spettro e Amleto, decida di far entrare in scena il protagonista con libro, e perché questo libro viene descritto come un insieme di parole vuoto? Che legame c’è tra il libro e lo spettro, tra le parole dello spettro e le parole del libro? Nel Piccolo Organon Brecht fa una osservazione interessante, legando il destino del protagonista e alla temperie culturale: «Vediamo dunque come in tali circostanze un giovane -ma già adiposo- gentiluomo faccia un uso assai maldestro della nuova scienza, appresa da poco all’università di Wittenberg. Nei conflitti del mondo feudale, la scienza gli è di impaccio. Di fronte ad una realtà assurda, la sua ragione manca di senso pratico ed egli cade vittima della contraddizione tra il suo ragionamento e la sua azione». 
Amleto che legge libri è un rappresentante della nuova cultura, della nuova idea di uomo: ha frequentato le istituzioni più moderne d’Europa, è figlio di quel riso, di quella volontà di bellezza, di quel desiderio di sapere che, ad esempio, Rabelais mette in bocca al protagonista del suo poema; eppure, dopo l’apparizione dello spettro tutto quel sapere e ognuno di quei libri diventano parole vuote, ripetute. Perché   avviene questo? Perché, stando a Brecht, lo spettro ha mostrato ad Amleto come quel mondo – che la cultura umanista voleva cancellare, che immaginava finito – quel mondo di serpi, magie, maledizioni, oltretomba è ancora presente e reclama in un certo senso il suo intervento. Rispetto a quel mondo, l’intelligenza razionale di Amleto è completamente inservibile e inutile. Amleto vive, quindi, in un momento di crisi, di cambio di paradigma sociale, antropologico e politico che è, se vogliamo, una delle testi che Schmitt definisce con chiarezza in Amleto o Ecuba. 
Tornando a FK, possiamo notare come tutti i personaggi leggano, e questo loro leggere è spesso sentito come “fuori fuoco” rispetto a come essi si presentano sulla pagina; c’è da sottolineare come i Karamazov siano dei lettori “pessimi” perchè la maggior parte non comprende quello che legge: né esempio più clamoroso Smerdjakov, circondato di libri in francese, che appunto per lui non sono  altro che parole. Il discorso che Brecht e, in un certo senso, Schmitt fanno per Amleto, mettendo in evidenza come la sua crisi, la sua modernità, la sua inquietudine che tanto ci affascina da sembrare nostra, sia proprio il passaggio tra due mondi, tra due sistemi politici, tra due realtà, potrebbe essere declinato anche per i FK, la cui ambientazione temporale è proprio dopo l’abolizione della servitù della gleba (un momento di certo delicato all’interno della forma stato che ebbe la Russia). Questi personaggi sono catapultati in un mondo che non capiscono, sono ansiosi di uccidere il padre e di vedere la modernità, ma contestualmente ne sono sopraffatti, come Amleto hanno intuito qualcosa di nuovo, grande e moderno, ma come il principe danese, durante la narrazione, qualcosa li ricaccia indietro, rendendo impossibile la loro emancipazione. 
Date queste premesse possiamo dire che Amleto è una tragedia sui generis, anzi chiunque assista a una sua rappresentazione o legga il testo l’impressione che il protagonista sia maggiore, più ampio e più complesso dell’opera in cui è contenuto: Amleto non è un eroe tragico, così come lo intendiamo nel teatro, ma è in realtà l’eroe che mette in crisi l’idea della necessità, del destino, che rinvia, ripensa, re-immagina la sua vita e le sue azioni; esce dalla stessa trama dell’opera di Shakespeare. Biontani nel suo saggio su Amleto dichiara che non siamo noi a interrogare e interrogarci su Amleto, ma è lui che non smette di interrogare noi. D nei FK compie qualcosa di simile, quindi il riferimento all’opera di Shakespeare è molto profondo: in primo luogo Amleto è un’opera drammatica che pare essere la prediletta da Dostoevskij (ricordiamo Steiner): Dostoevskij è uno scrittore che tende a costruire testi come se fossero atti drammatici, scene in cui i personaggi parlano, dialogano, ognuno con la propria lingua e alcune volte questi linguaggi tra di loro così diversi non cooperano: ne può essere un esempio il dialogo tra Ivan e Alesa. Amleto è un’opera drammatica spuria, dove Shakespeare gioca con la stessa struttura, inizia con una tragedia della vendetta, vira verso la black-comedy, passa al teatro nel teatro, conclude nuovamente come una tragedia il cui finale per quanto simile a quello di una tragedia di vendetta è a ben vedere molto diverso. 
Shakespeare prende e utilizza ciò che gli serve dalla tradizione, dalla storia, dalla modernità del suo tempo e lo porta dentro la sua opera che si fa aperta; è in questo senso veramente una sorta di menippea, di genere non genere, di ordine narrativo disordinato. Anche nei FK entrano in gioco diversi repertori narrativi: le agiografie dei monaci, i testi filosofici, il giallo, il romanzo gotico, il romanzo lacrimevole, la cronaca giudiziaria: tutto viene usato senza soluzione di continuità, senza una vera spiegazione, senza un ordine, in una sorta di “ordine disordinato”, che potrebbe essere una plausibile definizione del romanzo di D.  I FK, così come L’Amleto, possiedono quindi una uguale e tenace idea, tipicamente romanzesca, ovvero quella di produrre una immagine dell’uomo nel tempo che passa, mentre il tragico è mosso da un’altra istanza narrativa ovvero di dare l’immagine dell’uomo nell’eterno immutabile.

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Inquisizioni sui Karamazov – Parte VI

di Demetrio Paolin

Il dialogo in FK assolve una funzione fondamentale, prima di avvicinarci con attenzione al cuore di questa struttura narrativa proviamo a fare un discorso più generico. I dialoghi all’interno dei FK sono spesso lunghi, delle vere e proprie “sparate” che alcune volte mettono in difficoltà anche il lettore più attento. In un certo senso D non fa che portare alle estreme conseguenze quella che era una caratteristica del romanzo ottocentesco, molti testi sono colmi di queste tirate lunghissime, ne sono un esempio le opere di Balzac a cui sicuramente Dostoevskij guarda. I dialoghi di Balzac hanno, però, una stoffa diversa: mi pare che spesso in Balzac i dialoghi siano quelli in cui uno dei due narra per pagine e pagine un fatto/accadimento che l’altro deve sapere – potremmo risolverla così: IO racconto a TE una cosa che è accaduta a EGLI in presenza di ME. L’evoluzione moderna di questa tecnica sarà il narratore di Conrad (Lord Jim e Cuore di tenebra). I dialoghi nei FK sono, a mio avviso, differenti, e potrebbero avere motivazioni, legate una alle fonti e una più narratologica.
Bachtin sostiene che la struttura del romanzo, non solo di quello dostoevskijano, derivi dalla satira menippea, quella sorta di ibrido tra poesia, prosa, tragedia, commedia e dramma satiresco, genere minore nell’antichità, ma che si è dimostrato duttile al mondo moderno, diventando lo strumento narrativo per eccellenza. Nel fondo dei dialoghi di D, però, più che la menippea troviamo un neppure troppo camuffato Platone, che è anche scrittore sopraffino (il Fedone, il Convivio, il Fedro, la stessa Apologia sono testi bellissimi al di là che siate d’accordo con la sua visione dell’essere etc etc). Ora prendiamo Repubblica di Platone: è un testo vivace, pieno di colpi di scena, di scambi, di miti, di posizioni limite, tutto giocato sul dialogo e su lunghissimi ragionamenti ora di uno ora dell’altro. C’è da sottolineare che quello di Platone non è un dialogo mimetico, non riproduce la situazione in cui due che parlano, ma è la messa in atto di un metodo di pensare (la dialettica). Le battute di Socrate e degli altri protagonisti si organizzano come pensieri, anzi come lo svilupparsi del pensiero, come lo srotolarsi davanti a noi dei ragionamenti, quelli di Repubblica sono personaggi non in quanto agiscono, ma in quanto pensano. 
Il dialogo è il modo più semplice per narrare l’interiorità che, almeno fino a Freud, non aveva strutture per essere esplorata del tutto. Il dialogo platonico è una messa in scena del pensiero che si pensa e, nel farsi, si dice. In Platone, però, tale struttura narrativa ha uno scopo: il giungere ad una verità, il passare da una situazione di ignoranza a una situazione di sapienza. Se vogliamo è questo il motore narrativo delle opere platoniche, la messa-in-scena della scoperta della verità. In D, come vedremo successivamente, questo è vero solo in parte: D non ha per nulla lo spirito maieutico di Platone nei suoi dialoghi. Ciò che D prende o ri-utilizza da Platone è il dialogo come estroflessione del pensiero; le battute dei dialoghi platonici sono momenti in cui il pensiero dei vari personaggi viene detto. Allo stesso modo nei FK i protagonisti non pensano, ma dicono ciò che pensano a un altro. Il dialogo tra Dimitri e Alesa è sintomatico di questo (FK, Parte prima, libro terzo, cap III-IV-V): noi sappiamo cosa pensando di sé, degli altri, della loro interiorità perché lo dicono. In un certo senso D utilizza Platone tradendolo, ne utilizza una struttura narrativa, ma la snatura non usandola come strumento dialettico, ma è possibile concepire un dialogo che non sia dialettico? La risposta nel capitolo successivo.
Per ora osserviamo un’altra stravaganza dei dialoghi dei FK legata al narratore: infatti, noi non dobbiamo dimenticare che il romanzo è scritto/raccontato in prima persona, che dichiara di conoscere i fatti e le persone, ed è quindi sullo stesso piano dei personaggi e dei fatti che racconta. Questa prima persona è attendibile? No, è in realtà una terza persona camuffata in prima, che torna ad essere prima testimoniale solo nelle parti in cui racconta il processo, dove appunto si fa stenografa delle due arringhe. 
Come possiamo credere ad un narratore in prima persona che   racconta con precisione ciò che si dicono Ivan e Alesa? Come può un narratore in prima persona conoscere gli intimi segreti del cuore di un uomo? La riposta più logica è “non può”, a meno che questi non vengano detti a voce alta e egli non sia presente “in qualche modo” (mi viene in mente il mio amato King Lear: «prenderemo su di noi/ il mistero delle cose come se fossimo le spie di dio») a questi dialoghi. La presenza fantasmatica di questo narratore è il primo patto di sospensione di credulità che D stipula con i lettori: senza questa possibilità, senza questo nostro credere che egli può ascoltare ed essere presente a questi dialoghi in cui i protagonisti non si parlano ma esprimono la propria interiorità, non ci sarebbe il romanzo. 
È chiaro che tale dato artefatto narrativo, alle nostre orecchie educate ai borbottii della nostra mente (pensate a Joyce o Svevo o Woolf) riprodotte dei romanzi, ci pare barbarico e antico. Personalmente tornano alla memoria alcuni passaggi dell’Iliade che descrivono e rappresentano i sentimenti: la rabbia, la furia etc etc non escono dall’uomo ma lo avvolgono, lo coprono e lo possiedono, come se rabbia, furia, amore qualsiasi sentimento&moto fossero esterni all’uomo, che in particolari casi e accidenti prendessero possesso di lui in un movimento dall’esterno verso l’interno. L’uomo in D, così come in Omero, è una soma, è vaso vuoto che di volta in volta viene colmato fino all’orlo di un sentimento, di un moto dell’animo. 
Viene, infine, da chiedersi: Perché e come parlano i personaggi dei FK? La risposta è: essi parlano come Amleto.

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Inquisizioni sui Karamazov – Parte V

di Demetrio Paolin

Il romanzo può essere una esperienza religiosa? La rappresentazione (teatrale, musicale e cinematografica) possiede ancora in sé qualcosa di sacro come l’entrata in un recinto, luogo di separazione dal mondo circostante, ma questo non può avvenire per il romanzo, che è una forma più laica e profana di comprensione del mondo, di analisi delle cause e degli effetti del reale: più della scienza, che in qualche modo arriva a una soluzione con una forma chiara e una lucida decisione nel dire, il romanzo consegna il lettore a un’assenza di perché, e lo consegna solitario in questo luogo senza risposta. Il romanzo non è una esperienza religiosa o, meglio, che si riduce alla sola esperienza religiosa. 
Ritorniamo ai FK, prendo le mie mosse dalle critiche mosse da Nabokov a D: «I lettori non russi non comprendono due cose: che non tutti i russi amano Dostoevskij, e che la maggior parte dei russi che lo amano, lo venerano come mistico più che come artista. Era un profeta.»
È il rischio che si corre con D e in particolare nei FK dove l’esperienza del mistico e del profeta sono all’ordine della pagina. Leggere D come se fosse un testo sacro è fuorviante, perché ciò produrrebbe una essenziale dimenticanza, ovvero che D ha scritto opere di finzione&immaginazione. Quale sia la differenza tra testo sacro e romanzo, che è poi la differenza tra la Bibbia e l’Odissea ad esempio, mi pare semplice, o almeno a me pare semplice: la Bibbia può essere letta come testo narrativo, ma nonostante questo per chi crede rimane un testo che afferma alcuni precetti di fede, mentre un romanzo non può mai assurgere a testo sacro. 
Il rischio che corriamo è legato all’immaginario di D, che è appunto intriso di religione, di immagini cristologiche, di colpa, vergogna e peccato, ma se leggiamo questo romanzo e questo autore solo alla luce di tale specchio, abbiamo una percezione ristretta di D.
Nelle pagine de L’arte del romanzo Kundera scrive una professione di fiducia nel romanzo, confessando che sceglierà sempre la parte di Chisciotte. Ecco, non dobbiamo mai dimenticare che D, come tutti grandi narratori, come chiunque voglia scrivere un romanzo, era/è/sarà dalla parte di don Chisciotte, di ciò che rappresenta. La religione è anche una norma, anzi, potremmo dire che essa è un normare le cose, uno stabilire leggi precise per dati comportamenti; il romanzo è un movimento che scarta questa normazione sin dall’inizio. Il romanzo nasce anzi da uno scarto, dai fogli di carta gettati per terra che il lettore legge: non è casuale che all’inizio del romanzo di Cervantes Chisciotte legga anche i fogli lasciati cadere per terra. Il romanzo è una apertura, un uscire, un camminare, è un imbastardirsi, uno sporcarsi: cosa che i personaggi dei FK fanno oltremisura. Se quindi dovessimo trovare una parola, una sola, che possa indicare il romanzo, definirlo, metterlo in una sorta di paradossale ordine di lemmi, diremmo che il romanzo è la possibilità. 
Il romanzo ha come motore del suo stesso la racconto la possibilità, ogni personaggio è o, meglio, potrebbe essere qualcosa (la dicotomia tra storia e poesia della Poetica di Aristotele) che sarà oppure no: questo senso di potenzialità e possibilità è il luogo in cui abitano Chisciotte, Bloom, Shandy, Ivan, Madame Bovary, Ida, Useppe etc etc e questo senso di possibilità è in Dostoevskij portato alle estreme conseguenze. Nel paragrafo precedente (V) parlavo della libertà come cardine dei FK: la libertà è un concetto complesso, ambiguo, polisemico che, se guardiamo solo da punto di vista religioso, diviene – per forza, perché la religione è questo – obbedienza al bene, alla bellezza e a Dio. Ciò, però, riguarda la mia vita privata di uomo, e non la mia esistenza di scrittore e di lettore. Quindi la semplice ipotesi di romanzo come esperienza religiosa produce in me un impoverimento ermeneutico, mentre la possibilità, l’apertura, è rappresentata dalla possibilità di leggere e rileggere e riguardare il romanzo da una prospettiva sempre nuova: il sacro è il regno dell’obbedienza, il romanzo è il regno della possibilità; ed io posso -leggendo un romanzo- trovare una visione religiosa, cristocentrica, buddhista, islamica della realtà, ma la bellezza del romanzo sta nel suo non esaurirsi, nel suo continuare a interrogarci costantemente. Se osservo il romanzo come un testo sacro lo impoverisco, mentre se leggo e analizzo un testo sacro come un romanzo trovo qualcosa di nuovo ogni volta, qualcosa che sposta un poco più in là la mia interpretazione e la mia possibilità di comprendere. D è uno scrittore religioso, ma non è un profeta, è un romanziere, è della schiatta di quelli fedeli a Chisciotte, di quelli che escono nel mondo e lo guardano e, stupiti dalle foglioline, le vorrebbero descrivere una a una, senza domandarsi se dietro ci sia un Creatore, un Demiurgo o un niente, anzi, ventilando la possibilità infinita che ci possano essere/coesistere – è questo il bello del romanzo – tutte queste cose insieme.
Il romanzo poi non è teologico, non si chiede la sostanza ultima delle cose, ma è economico, ovvero si chiede in che relazione stiano le cose tra di loro, e quali siano i possibili rapporti, azioni e movimenti esistenti tra idee, persone, cose, paesaggi. Ciò che interessa al romanziere, e a D in particolare, è l’economia del mondo, come si muove il mondo e i suoi personaggi, non gli interessa cosa sia il mondo, ma le azioni che accadono all’interno di esso; il romanziere non vuole tanto conoscere la sostanza ultima, il mistero nascosto della realtà, ma è interessato a come si ordinano le cose, come avviene che questo sia il mondo in cui viviamo: egli, infine, non è un mistico, ma predilige  l’ascetismo, se proprio vogliamo trovare una possibile corrispondenza religiosa.  Pensiamo a Par. XXXIII dove Dante che non penetra, non si consuma nel mistero di Dio, ma lo osserva, lo razionalizza, lo scrive, lo organizza in sillabe, 11, in versi (terzine). Nell’atteggiamento di Dante esiste una relazione economica tra numero di parole e cosa che viene descritta, niente di più lontano dal mistico. Il profeta è un mistico, D mette nei suoi romanzi molti personaggi che hanno un movimento e un modo di esistere mistico: Kirillov dei Demoni, Alesa stesso, il principe Myskin, ma non dobbiamo mai – come lettori – confondere il romanzo con i suoi personaggi, i personaggi sono dentro il romanzo, non possono essere estrapolati, non possiamo far dire loro le stesse cose fuori dal contesto in cui sono. I personaggi esistono all’interno di quella narrazione, sono vivi perché sono dentro quelle relazioni, dentro quel disegno, dentro quel movimento della storia. Ecco che torna il tema dell’economia del romanzo, che è un tentativo di rendere conto delle quantità e delle qualità, una idea che forse sta tutta nella scrittura, primo tentativo di mettere ordine e nei magazzini pieni di vettovaglie e nei racconti dei reduci da una guerra, e che il romanzo porta alle sue conseguenze più estreme e, mi verrebbe da dire, necessarie.  Proprio questo possibile contarsi, questo mettersi alla prova in un luogo aperto è il segreto movente di ogni romanzo, ovvero quello di fornirci «una possibilità di noi stessi» (Auerbach).

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Inquisizioni sui Karamazov – Parte IV

di Demetrio Paolin

Ho l’impressione che la lunga parentesi su Zosima (FK, Parte seconda, Libro Sesto, cap II e III) e la sua vita sia una sorta di risposta al poema dell’Inquisitore, cioè che in qualche senso D produca un effetto di rifrazione tra le due storie, o ancora di più tra i due personaggi – la strana coincidenza tra Ivan e la bellezza delle foglioline e Zosima e la bellezza del creato, che quasi pre-sente e partecipa al progetto di salvezza di Dio. 
Non ci sono dubbi per l’orecchio e l’occhio, anche quello disattento del lettore, di quanto narrativamente siano bellissime le pagine del Grande inquisitore (FK, Parte seconda, Libro Quinto, cap. V) e quanto invece la storia di Zosima, pur con dei momenti potenti, rappresenti una sospensione della trama centrale. Abbiamo lasciato la casa dei Karamazov nel pieno di una crisi che prelude a qualcosa di terribile, ma D vuole che leggiamo queste pagine sulla vita e la morte di questo monaco. È una sosta, è un momento dal punto di vista dell’intreccio e dello sviluppo del racconto non comprensibile, soprattutto perché l’intera vicenda dalla vita del monaco occupa l’intero libro sesto. 
Più sopra ho sostenuto che la vita di Zosima è la risposta alla Leggenda dell’Inquisitore, e come le pagine dell’uno si ripercuotono nelle pagine dell’altro, mi pare che in questo senso a far lo specchio siano appunto i capitoli che precedono la vita dello Zosima. In particolare, nel libro quinto assistiamo a   tre grandi dialoghi 
1) Alesa e Ivan – il tema del male e la sofferenza dell’innocente;
2) Inquisitore e Gesù – il tema della libertà;
3) Ivan e Smerdjakov – il tema della libertà e del fare il male.
E a questo trittico che la storia di Zosima fa specchio. D ha portato alle estreme conseguenze la sua riflessione, si è trasformato nell’avvocato del diavolo, ha condotto al massimo grado di complessità la visione di una storia e di una vita in cui è convocato l’ospite inquietante: il nichilismo. 
In queste pagine   la sofferenza degli innocenti, la scelta tra libertà e salvezza, tra libertà e possibilità di male, e la liceità di fare male diventano centrali: è questo il crogiolo ideologico in cui si prepara il parricidio, ma qui il parricidio è non più simbolico, ma diventa qualcosa che deve essere compiuto: se Dio non esiste tutto è lecito, se il padre viene ucciso tutto è lecito: io noto una strana conseguenza, una relazione stretta e indistricabile, tra l’atto di restituire il biglietto di Ivan e la decisione di Smerdjakov di uccidere il patrigno dopo il dialogo con Ivan; entrambi si escludono, si mettono fuori dal consenso umano, entrambi scelgono una strada che non è rappresentabile, che non è narrativamente raccontabile. Entrambi escono di scena. Questo ha un riverbero nella struttura del libro: sia Ivan che Smerdjakov sono gli unici due personaggi che escono di scena non “visti”: il suicidio di uno è raccontato durante il processo, come fatto di colore all’interno della grande messa in scena, che avviene in aula; Ivan è evocato da Katerina, da Alesa, da Liza ma non è più visto. Le domande di Ivan rimangano inevase dalla sua stessa assenza, a meno di non leggere la storia di Zosima che è suo contraltare. Quale è il tema di FK libro sesto? Se dobbiamo riassumerlo in due parole, direi: il bene. 
Provo a chiarire la mia affermazione che immagino sia percepita come apodittica. Il nucleo della riflessione di Ivan si può riassumere in una sorta di interrogativo refrain: Siccome c’è il male, io che posso farci? Siccome i bambini soffrono, io che posso farci? Dato che il nobile fa sbranare dai segugi il bambino, io che posso fare? La sua riflessione, logica, stringente, bellissima ci porta dire: “Che possiamo fare?”. La domanda che ruota intorno a tutti i discorsi di Ivan è legata a Dio. Il problema della sofferenza è un problema di Dio e della sua teodicea: Perché Dio se c’è il male? 
È questo l’abisso a cui Ivan ci consegna, subito dopo il tema del grande Inquisitore, che è una riflessione sull’arbitrio, la libertà: in questo elemento abissale dell’essere liberi c’è il male, il male non viene da Dio, ma non è neppure di Dio, è qualcosa che si produce perché infine c’è la libertà; la libertà è ciò che produce la possibilità affinché noi possiamo fare qualcosa; il perdurante, lungo tutto il dialogo, silenzio di Cristo, che è il silenzio di Dio, in cui ogni credente è gettato quotidianamente che è tanto più tremendo tanto si ha fede, perché avvolge ogni azione, singolo gesto, questo silenzio non è silenzio di assenza, di pianto o di stupefatto mutismo davanti al male, è il prezzo della libertà. È questo il prezzo della libertà che è disposto a pagare Smerdjakov, a lui D affida le conclusioni più logiche e terribili del ragionamento di Ivan, spingendolo oltre ciò che Ivan stesso ha potuto pensare.
Zosima e la sua storia mostrano al lettore che anche il bene viene dalla libertà; quindi, se vogliamo, il bene è qualcosa di estraneo a Dio, così come il male, entrambi, infatti, sono concetti che Dio nella sua terribilità e altezza non percepisce, potremmo affermare con un paradosso: Se c’è Dio perché il bene? Se Dio esiste ogni cosa avviene già per un fine, nonostante questo noi compiamo gesti di bene, dice Zosima, noi ogni giorno produciamo semi che morendo danno frutto. La questione che dobbiamo porci è: Perché facciamo il bene? 
Se il mondo fosse a misura di Dio, la sua misura sarebbe la perfezione, e invece il mondo (potremmo dire la realtà, l’esistente) è a misura della libertà, e quindi bene e male sono due facce della libertà, così come peccato e assoluzione, colpa e giustizia: l’assoluta totalizzante libertà è il fulcro di queste pagine, anche quelle che preludono al parricidio, e il parricidio a questo punto diventa il momento in cui gli uomini decidono di essere liberi, di essere adulti, di essere loro stessi. Smerdjakov deve uccidere il padre per essere se stesso, e così dovrebbero fare tutti: senza la morte del padre non è possibile nessun romanzo ovvero non è possibile nessun ragionamento sull’essere uomini nel mondo, e per compiere questo omicidio, rituale o reale che sia, è necessario capire che né male né bene dipendono da Dio, che Dio è in un certo modo superiore, lontano rispetto a questo, ma che male e bene attengono alla sfera dell’uomo ovvero alla libertà.
Mi rendo conto che questa lettura dei FK potrebbe sembrare una lettura troppo religiosa, troppo legata ai temi della fede, immagino che questo possa essere in qualche modo limitante per chi legge. Credo, quindi, che sia necessaria una precisazione che il lettore troverà nel capitolo successivo.

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Inquisizioni sui Karamazov – Parte III

di Demetrio Paolin

In FK, Parte Prima, Libro Terzo, cap. III, leggiamo: «Ma innamorarsi non significa amare. Ci si può innamorare e odiare». E poi continuiamo: «Cammino e non so se sono capitato tra tanfo e vergogna o tra luce e gioia. È questa la vera disgrazia, che al mondo tutto è mistero». Poi poco più avanti leggiamo: «Perché sono un Karamazov, io. Perché se finisco nell’abisso, mi ci tuffo a capofitto a testa in giù e piedi all’aria, e a caderci in quel modo umiliante è una soddisfazione, per me, addirittura una bellezza». E ancora: «La bellezza è una cosa spaventosa e tremenda! Spaventosa perché non definibile, e definirla non si può perché Dio ci ha lasciato enigmi. […] Troppi enigmi opprimono l’uomo su questa terra». 
Il movimento della prosa di D è, a mio avviso, affascinante: è uno continuo correre, una breve ripresa di fiato, e nuovamente al massimo di frequenza possibile, alcune volte a questa velocità, che è una vera e propria furia, incontriamo frasi come quelle appena proposte, che ci costringono a un inciampo o a una frenata brusca. A pronunciare queste parole è Dimitri, che è il personaggio a cui presto più attenzione. Dimitri, lontano dal fascino oscuro di Ivan e dalla luce di Alesa, mi si è imposto come il grande personaggio del romanzo, come colui che veramente uccide il padre, che compie il parricidio per mettersi in viaggio verso la coscienza di sé. 
D fa di tutto per convincerci che sia Dimitri a commettere l’omicidio, perché narrativamente è lui che prende il largo, è lui che farà l’esperienza dell’altrove. Queste frasi citate racchiudono, in maniera precisa, la figura sfuggente di Dimitri o, meglio, racchiudono il modo in cui lui si sente: sono la voce del personaggio, non sono né la voce del narratore (che sappiamo “segue” per Alesa), né quella di D che ho sempre pensato detestasse, amandolo Ivan. 
Dimitri descrive una forma di tensione in cui amore e odio sono mostri che agiscono così nell’intimo dell’essere da renderli simili: si ama ciò che si odia più profondamente, perché ciò che si ama mostra di te l’abisso che non vuoi vedere, mostra la parte di te più terribile, quella che tieni nascosta quando cammini per strada o siedi al bar a sorseggiare il caffè; l’amore diventa odio, perché l’amore ti mostra la tua totale insignificanza rispetto al mondo, alle cose, cosicché l’unico modo che tu hai per impossessarti di loro è odiarle più profondamente; è ciò produce luce e gioia, tanfo e vergogna, l’uomo non è buono, o cattivo, è una mescolanza in cui l’abietto sta con la bellezza, e la bellezza arriva a toccare il punto più basso della vergogna.
Si può desiderare qualcosa, sentirla come necessario al tuo essere, e sapere che ciò che desideri è sbagliato, disgustoso, possiamo amare ciò che ci disgusta, ciò che è considerato sbagliato dalla società e della morale, lo possiamo amare perché in parte lo odiamo: ne facciamo così esperienza che diventiamo noi stessi disgusto abiezione, diventiamo peccato, facciamo diventare ciò che amiamo peccato: e il peccato diventa bellezza, perché conserva intatta, in qualche angolo nascosto, la gioiosa luminosità dell’amore e la sua purezza, di quando vedemmo la bellezza prima che ogni singola parola la corrompesse. 
La bellezza diventa tremenda, e solo nell’accettare la mostruosità di questa bellezza potremmo comprendere a fondo la possibilità che la bellezza salvi il mondo, perché la bellezza in D non ha nulla della quieta immobilità greca, ma è contemplare in sé l’orrendo, il negativo; è questo l’enigma del nostro essere: la tensione o il desiderio a fare il bene, e il compiere nelle opere nostre il male, come dice Paolo: «Io scopro allora questa contraddizione: ogni volta che voglio fare il bene, trovo in me soltanto la capacità di fare il male».

In Appunti di Lettura

Inquisizioni sui Karamazov – parte II

di Demetrio Paolin

In FK, Parte Prima, Libro 2, cap. VI, leggiamo: «Perché campa uno così?». A pronunciarla è Dimitri, riferendosi al padre. Noi abbiamo già contezza di ciò che è suo padre, di ciò che hanno in ballo Dimitri e suo padre, quale sia il passato di tutti i fratelli, tutti orfani di madre, tutti abbandonati dal padre, vissuti nella privazione di ogni cosa. Perché campa uno così è la prima spia del parricidio, della morte del padre che è il centro del romanzo, da qui si irradiano come raggi che fuggono gli altri vettori della narrazione (la libertà, la liceità di agire secondo le proprie ideologie, ad esempio). Questo rapporto padre-orfano è veramente una delle profonde strutture del romanzesco: penso nell’Odissea a Telemaco che ignora la sua identità, perché non conosce il destino di vita o di morte di suo padre Ulisse; nel suo stato di orfanità presunta egli deve partire, deve lasciare Itaca per trovare notizie certe sulla morte del padre, così che possa in qualche modo essere certo di chi lui è. 

Nei FK questa struttura è sottoposta a una torsione: il padre non è morto, anzi è vivo, vegeto, sbruffone, e non ha nessuna voglia di morire. Il romanzesco sottende, però, sempre una domanda di identità che appunto possiamo riassumere nel “Io chi sono?”, ma per rispondere a questa domanda il padre deve morire, perché solo così il figlio si muove, si stacca da Itaca, inizia il suo viaggio. Alla base quindi del desiderio di parricidio, c’è un dato narrativo: senza la morte del padre non c’è romanzo. Se il romanzo è uno spazio di libertà, il protagonista deve muoversi in uno spazio di libertà, che è la tipica condizione dell’orfano – pensiamo a Tom Jones, o a Renzo dei Promessi sposi – o del non ancora nato – pensiamo al Tristam Shandy. 

Il romanzo nasce per investigare e descrivere l’uomo nel tempo e nello spazio, il romanzo pone al centro una questione identitaria, si chiede chi è chi, riflette sulla identità non avendo particolare amore per la tautologia, ma la domanda di Dostoevskij sposta il tutto rispetto a un piano teleologico, la domanda non è solo più chi sono io, ma perché io sono questo individuo che sono? Quale è la motivazione che fa sì che una persona viva? Ogni narratore si pone, quando costruisce le sue narrazioni, tali interrogativi: perché questi personaggi fanno così? Oppure, per quale motivo non possono che fare così?. 

Se guardiamo il susseguirsi di tali “perché” dal punto di vista autoriale, scopriamo una stringente logica narrativa, invece se spostiamo il nostro sguardo dall’autore al lettore, allora ognuno di essi diventa un dubbio, un abisso che si spalanca: perché questo personaggio fa così?, cosa del suo destino oscuro mi chiama e mi interroga? Perché campa? Perché io campo come lui? Quale è il motivo del nostro campare? 

In Appunti di Lettura

Inquisizioni sui Karamazov – parte I

di Demetrio Paolin    

Gli uomini maneschi leggon tutti Dostoevskij[1]

I

Il primo ricordo di Dostoevskij (d’ora in poi D) risale all’università, avevo vent’anni, non avevo ancora letto nulla di questo autore, quando a causa del mio nome mi venne chiesto se mia madre o alcuni miei parenti fossero di origine russa o fossero appassionati lettori di D; nessuna delle due ipotesi era corretta: il mio nome era legato a quello di mio nonno, che a sua volta era legato al nome di suo nonno, e così via, e nessuno dei miei parenti era un appassionato lettore di questo autore russo. Mi venne in mente che mia madre avesse potuto, negli anni della giovinezza, incrociare D e l’onomastica dei suoi personaggi nello sceneggiato della televisione che appunto raccontava i Fratelli Karamazov (d’ora in poi FK), ma nella realtà non avevo prove e quindi tralasciai la questione. Mi venne chiesto se avessi letto qualcosa di D e con somma vergogna dissi di no, provenivo da una famiglia con pochi libri e le mie letture erano disordinate, caotiche e spesso non seguivano nessun filo logico, se non quello delle disponibilità in biblioteca o nella libreria dove andavo ad acquistare i volumi, così mi venne detto che se studiavo lettere e mi piaceva la letteratura non potevo non aver letto D. E allora eccomi, il giorno stesso, nella mia libreria di fiducia in fila davanti alla cassa, con una copia di Delitto e Castigo, dell’Idiota, dei Demoni e dei FK che fu il primo romanzo che lessi, perché il nome di uno dei protagonisti era il mio.

Se dovessi comunicare la sensazione che permane di quella lettura, potrei descriverla come un sentimento di apertura, di vasto, di ampio, di ignoto. I FK mi aprirono al romanzo, instillarono in me la devozione a questo tipo di genere letterario; quel ragazzo timido, insicuro, innamorato della filologia romanza, dei testi medioevali, dei dibattiti teologici,[2] quel ragazzo che sentiva il bisogno di esprimersi, da un lato, e dall’altro la necessità di autolimitarsi nel suo dire, e che quindi scriveva versi in endecasillabi, costruiva racconti o poesie piene di vincoli formali, si trovò davanti alla ampia e libera pianura del romanzo, all’aprirsi davanti a lui di questa possibilità in cui poteva muoversi libero, seguendo il bisogno di ciò che voleva dire e esprimendosi come meglio gli andava: è stata allora, e lo ricordo ancora oggi, una sensazione di profondo panico; esisteva, esiste ed esisterà, almeno fino a quando l’uomo camminerà sulla terra, questa possibilità, questa forma versatile, unica e geniale del romanzo di poter dire tutto, di poter raccontare tutto, di poter organizzare ogni aspetto/evento/sentimento/accidente della vita umana in una trama, in una serie di scene, in una sequenza di paragrafi, un forma che produce in chi legge (ma anche in chi scrive) un dilatazione della sua esistenza, un ampliamento dei suoi orizzonti: il romanzo, il romanzo come mi appariva in FK, il romanzo come è diventato per me in questi lunghi anni di apprendistato e di frequentazione è ampia terra, una vastità esplorabile, una promessa di felicità, una ipotesi di terrore, una possibilità di sofferenza; è l’esperimento di più profonda libertà che io abbia mai provato. Così di colpo, senza volerlo, mi trovavo devoto alla religione del romanzo, l’unica forma a cui, come uomo, sento il dovere di obbedienza.

Rileggerlo, quindi, è per me motivo di gioia e di turbamento: è tornare a uno dei luoghi da cui tutto ha avuto inizio, proprio perchè i primi anni dell’università segnarono la lettura di alcuni dei romanzi che ancora oggi io reputo essenziali per me (Ulisse di Joyce, Illusioni perdute di Balzac, Tristam Shandy di Sterne, I promessi sposi di Manzoni). Mi muovo in queste pagine, quindi, alla ricerca di qualcosa di nuovo e nello stesso tempo mi accorgo di aver riletto il romanzo, auscultando il suo battito, alla ricerca quasi infantile di quello stupore che quasi 30 anni fa mi rapì per sempre.

II

In questa rilettura avevo preso con me alcuni saggi di Julia Kristeva, i lavori di Berdjaev su Dostoevskij, i saggi di Luigi Pareyson e gli studi di Bachtin che tenevo sulla scrivania accanto alla copia di FK, nella edizione Einaudi con la traduzione di Claudia Zonghetti. Alla fine non li ho consultati, pensavo di leggerli mentre riprendevo in mano i FK come se fossero un viatico, una mappa diversa del mio muovermi nel testo. Non è andata così, non ho mai sentito il bisogno di leggerli; cercando di capire il perché di questa rinuncia, mi scopro certe volte a sentire dentro di me una strana forma di fatica per tutto ciò che potremmo definire letteratura secondaria, i saggi, gli studi, che parlano dei libri che stai leggendo: ho l’impressione che tali   letture, per quanto essenziali in ambito accademico, siano una sorta di diaframma rispetto al romanzo, all’esperienza di lettura del romanzo che il lettore dovrebbe affrontare in solitaria.[3] Ho l’idea che siano questo tipo di studi una sorta di scudo, di protezione mentre l’avventura del romanzo è sentirsi in pericolo.

Ora, se dovessi pensare ad un’immagine legata alla lettura di un romanzo, e dei FK in particolare, penserei a una casa incendiata. Quando leggo, sento che le mie convinzioni, idee, ideologie e credenze sono messe in discussione; anzi il più delle volte mi sento spinto a ripensarle completamente; leggere un romanzo è come gettarsi dalla finestra di una casa in fuga. Ecco, se debbo dire a chi ho pensato durante la lettura di FK, rispondo David Foster Wallace.

Forse, l’unico saggio che in qualche modo mi è risuonato nella lettura del romanzo di D è stato Il Dostoevskij di Joseph Frank contenuto in Considera l’aragosta. Alcune frasi del saggio mi sembrano essere le uniche in linea con quello che vorrei sostenere in queste pagine. «Che Dostoevskij sappia raccontare storie non basta di per sé a renderlo grande. Se bastasse, Judith Krantz e John Grisham sarebbero grandi romanzieri. […] le loro trame sono popolate da figure bidimensionali rudimentali e poco convincenti. (Per dirla tutta, ci sono anche scrittori che sono bravi a creare personaggi umani complessi […], ma sembrano incapaci di inserirli in una trama credibile e interessante. E altri ancora – spesso dell’avanguardia accademica – che non sembrano esperti/interessati né alla trama né ai personaggi, i cui libri dipendono interamente per movimento e attrattiva da progetti rarefatti metatestici). I personaggi di Dostoevskij hanno questa cosa che sono vivi. E per vivi non intendo solo ben realizzati o sviluppati o “torniti”. Il meglio di loro vive dentro di noi […].    Queste e così tante altre creature di Dostoevskij sono vive […] non perché sono tipi o sfaccettature di esseri umani abilmente tratteggiati, ma perché, agendo all’interno di trame plausibili e moralmente avvincenti, essi mettono in scena le parti più profonde di tutti gli esseri umani, le parti più conflittuali, più serie - quelle in cui si rischia di più». (nota?)

Leggere i FK mi ha messo in pericolo, ha costretto a chiedermi che tipo di felicità perseguo nella mia vita, che tipo di amore ho per le persone intorno a me, quali sono i miei gradi di viltà, di piacere, quale grado di male, umano e divino sono disposto a sostenere e sopportare, quale grado di malvagità sono disposto a compiere, fino a che punto mi spinge la mia abiezione, la mia lussuria, il mio desiderio, il mio bisogno di gioia; quale è la mia fede, quale la mia idea di felicità, di demonio… Non è possibile leggere i FK senza porsi queste domande, senza camminare a fianco di Dimitri, di Alesa, di Ivan, condividendo con loro le loro furibonde passioni, le amplificazioni che D applica alle loro azioni; si ha l’impressione alcune volte che la prosa di D sia troppo: troppo urlata, troppo forzata, troppo lunga, troppo grezza, ma questo troppo infine, quando il romanzo verrà chiuso, risuonerà nella tua mente e ti dominerà. Questo troppo oggi ci fa ridere, ci fa alzare il sopracciglio: oggi siamo più fini, siamo più ironici, più scafati rispetto alle tirate di D, rispetto alle prolusioni dei suoi personaggi, al sistema di valori morali e ideologici che in FK o nelle altre opere viene gridato. Ciò è certamente vero, ma ogni ipotesi di analisi rigidamente testuale che non metta in pericolo il me lettore non ha senso: non è possibile produrre una speculazione strutturalista del testo, un approccio semiologico o semiotico all’opera; i bizantinismi della critica letteraria qui si rompono; c’è qualcosa di compatto nei FK che non lascia ridurre a puro testo, a pura speculazione, a pura analisi delle figure retoriche o a scomposizione narratologica, questo qualcosa   potremmo definirlo come una economia del romanzesco, una sorta di contenitore ibrido,[4] dove stile, storia, trama, montaggio convivono indistinguibili: tutto ciò che segue nel modo più disordinato possibile, eppure secondo un filo che a me pare chiarissimo, si è voluto inquisire mettendo sotto processo proprio questa economia del romanzesco.


[1]      Immagino che il lettore, vista l’epigrafe, arricci il naso o, peggio, provi fastidio. È chiaro che tale epigrafe è una boutade da leggere in antifrasi rispetto al suo contenuto. Nello stesso tempo tocca un nervo scoperto dell’opera di Dostoevskij, di cui forse il celebre saggio sul parricidio di Freud è il capostipite e il più chiaro rappresentante. L’idea di queste inquisizioni nasce proprio per negare (da qui il carattere antifrastico) il contenuto dell’epigrafe, nella speranza di sfuggire da psicologismi, autobiografismi che costellano l’opera narrativa. Quando iniziai, oramai trent’anni or sono, a leggere Dostoevskij discussi con alcuni amici e amiche sulle sue premesse ideologiche, eravamo giovani laureandi e volevamo fare gli scrittori, i critici letterari, i professori e volevamo darci un tono, e mentre eravamo lì a discutere una amica, rimproverando a D un certo maschilismo, se ne uscì con questo slogan, preso da qualche manifestazione e movimento dei ‘70, che allora venne accolto con una sonora risata, ma che nel tempo mi ha portato a riflettere sul modo di recepire e di raccontare questo autore e il suo testo.

[2]      Non credo sia casuale la presenza anche in questo mio saggio di numerose riflessioni teologiche, perché infine D rimane uno scrittore che produce una riflessione che mette al centro la domanda di senso su Dio.

[3]      Non è una contraddizione il fatto che queste inquisizioni nascano all’interno del gruppo di lettura di Lettera Zero, perché l’atto della lettura è solitario, così come lo è l’atto della scrittura, mentre il confronto, la riflessione, il ragionamento possono e debbono essere comunitari.

[4]      Mi rendo conto che questa è la stessa natura del contributo che state leggendo, altrettanto ibrido, indeciso tra saggistica e memoria, tra speculazione critica e lavoro di scavo letterario/stilistico.

In Appunti di Lettura

Céline, Trilogia del Nord, postille 19 -21.1 (*)

di Demetrio Paolin

19. Uno dei temi fondamentali della poetica Céline è il suo costante e continuo riferimento alla petite musique; una immagine che domina le riflessioni metaletterarie dello scrittore francese. Ci si chiede spesso, nella lettura di queste affermazioni, in che cosa consista tale petite musique, come potesse suonare nella sua mente e nella sua immaginazione. Il dato sonoro in Trilogia è essenziale: lo abbiamo sottolineato più volte, ad esempio quando abbiamo analizzato la ripresa/variazione della citazione dall’Amleto – “il resto è blabla” -, e individuando come il blabla rappresentasse una certificazione del linguaggio onomatopeico e pregrammaticale di cui i continui inserti – sopratutto nei momenti di descrizione di bombardamenti – di riproduzioni di suoni, alcuni dal vago sapore fumettistico, fossero una segno autoriale ben preciso. Non va dimenticata l’invalidità di Céline e di come, dopo la prima guerra mondiale, abbia sofferto di acufeni, che hanno sicuramente prodotto un sentimento diverso, anzi divergente, rispetto ai suoni e alla esperienza degli stessi. Il dato uditivo, quindi, in Trilogia è molto forte, tanto che assistiamo ad un momento in cui musica e trauma uditivo trovano un punto comune.

Siamo alle pagine finali di Rigodon Céline, mentre fugge da una serie di esplosioni e bombardamenti, viene travolto da un crollo e un mattone lo colpisce in testa. Per le pagine seguenti assistiamo al continuo lamentarsi di questo colpo subìto e di come il trauma fisico abbia creato all’interno della sua mente una sorta di musica, di suono (immaginario?, reale?), che egli continua a sentire nel corso delle pagine.

Con la solita abilità Céline, nel suo procedere rapsodico, ci porta dalla Germania in fiamme e fumo della fine della guerra, alla quiete notturna della sua casa Meudon, quando, Lili ha finito le sue lezioni, e le ballerine hanno lasciato la casa, così – nel silenzio più totale – l’autore entra nel salone delle prove.. Quella musica, che lo ha tormentato per anni, è ancora nella sua testa, ronza nelle sue orecchie a segnare un tempo che non passa; quella piccola musica, una sorta di motivetto, Céline l’ha sentito per l’intero viaggio lungo le macerie dell’Europa e non l’ha mai abbandonato: «una tastiera adesso! L’altro capo della sala… forse per averci pensato così a lungo… strimpello… ci siamo!.. quasi giusto, sì!… sì!… il la di una tastiera così com’è… ci sono!… nessun prodigio! Ti spremi la testa per vent’anni, il diavolo se trovi!…. Per quanto limitato, per quanto poco melodioso sei!… riscendo giù, ho le quattro note… sol diesis! Sol!, la diesis!, …si! … rammentate!… avrei dovuto averle là giù» (TdN 802).

È un brano fondamentale per comprendere a fondo il lavoro stilistico di Céline sulla propria prosa; il brano, infatti, è una sorta di descrizione in atto dell’operazione di scrittura: è certo che la musica/scrittura, che Céline crea, nasce da un evento traumatico (l’esplosione è la perfetta metafora della II guerra mondiale), ma esse è costruito successivamente, è una ricerca – ti spremi la testa per venti anni –, una ricostruzione, che nasce da un punto di evidente sicurezza (la casa, il silenzio quieto della notte), e, infine, una riproduzione del trauma (le poche note che riportano lo scrittore “là giù”). Lo scrittore è venuto fuori dall’inferno, è risalito, ma qualcosa l’ossessiona, questa ossessione si coagula in una musica, in una serie di singole note, neppure un accordo, o un motivo, ma alcune note, come dei rimasugli, rovine, pezzi, la petite musique di Céline sono quattro note singole: sono ciò che rimane, infine, non c’è nessun prodigio o miracolo, semplicemente sono quattro suoni che rimangono impressi nella memoria dell’autore.

Il brano, inoltre, ci è utile anche per esplorare un tema centrale non solo della Trilogia, ma dell’intera letteratura del secondo ‘900: la tensione tra il silenzio (l’ineffabilità di ciò che è stato vissuto) e il linguaggio. Il linguaggio, quello letterario ne è la parabola più disperata, rappresenta il tentativo di produrre una rappresentazione e del nostro pensiero e del nostro pensare la realtà, come se la nostra realtà non fosse altro che un linguaggio di un linguaggio, una riflessione sullo stesso: quando descrivo una morte, ad esempio quando Céline descrive la morte del suo cane (lo vedremo nella postilla successiva), io/autore o io/lettore non faccio nessuna esperienza di quella precisa morte, ma ciò che compio è  ragionare, verbalizzare, su altre parole che descrivono un accadimento, di cui non so nulla se non le parole che lo esprimono, come se fossero un velo dalla spessa trama che nasconde la “cosa” reale. Il secondo ‘900 ha vissuto appieno questa crisi del linguaggio, il suo tendere al silenzio, tanto che possiamo  pensare

a) alla frase di Adorno, poi ritrattata, ma che getta la sua ombra su una buona parte della narrativa e della letteratura post-Auschwitz, della impossibilità – etica, ma anche estetica e fattuale – di scrivere poesia dopo il lager;

b) al brano de Il canto di Ulisse di Se questo è un uomo in cui Levi, citando Amleto, dichiara “il resto è silenzio” e si trova a spiegare a Pikolo, il compagno di lager, un sentimento confuso, misterioso e non chiaro, che vorrebbe egli afferrasse, ma che il brusio babelico, a chiusura del capitolo stesso, consegna a una paradossale incomunicabilità;

c) alle opere di Beckett più estreme in cui la parola è abbandonata in ampi spazi di silenzio.

L’afasia, quindi, può essere, lo è in effetti, una possibile risposta alla tragedia del secondo 900, pensiamo solo a Celan o al finale di Mosé e Aronne di Schoenberg. C’è, però, esiste tenace una possibilità di un linguaggio, che è precedente e più assoluto della linguaggio della parola, ovvero la musica: essa non ha bisogno delle parole o, meglio, le sue “parole” non hanno nulla a che vedere con quelle che ad esempio ora io e voi stiamo vedendo su questo bianco supporto. Céline, affascinato dalla danza, dalla delicatezza dei movimenti, ha vissuto la sua scrittura come una ricerca dello stile, che producesse musica: l’esperienza della terribilità della guerra, dell’inumanità, del tracollo di ogni speranza, della fine di un’epoca ha prodotto un semplice “blabla”; accettare tale insignificante brusio significherebbe condannare la propria scrittura al silenzio, e così con un tentativo ultimo Céline, ormai vecchio, vicino più di altri alla morte, alla regione del silenzio e allo svanire delle cose, recupera dalla sua memoria quattro singole note. È interessante questo dato, egli non riporta sulla pagina un accordo o una armonia, non un ritmo, o una sequenza, perché questo paradossalmente sarebbe ancora tentare un linguaggio: quelle quattro singole note sono ciò che rimane, sono ciò che si oppone al silenzio a cui la Storia ci ha costretto. “Sol diesis/sol/, la diesis/si”…il mondo non finisce né con uno schianto né con un lamento, ma con quattro singole e separate note, che  – come i quattro cavalieri dell’Apocalisse – annunciano il compiersi di tutto, infine.

20. Agli animali così recita la dedica in apertura di Rigodon, che sancisce, ove mai ce ne fosse bisogno, la centralità dell’immagine e della presenza degli animali in tutta la Trilogia. Pare ovvio e scontato il riferimento a Bébert, il gatto enigmatico, il sancio-panza felino, colui che infine rimane, e che, pur non essendo un cane, ritorna sempre dal padrone non per fedeltà, ma per scelta, opportunismo, intelligenza e sopravvivenza, a lui Céline dedica pagine bellissime, che si condensano nelle righe, presenti in Nord,  ove ne racconta la morte. È un brano breve, asciutto, pieno di malinconia e di leggerezza, adatto proprio al gatto che fu Bébert: «… era più giovanissimo ormai… è campato ancora sette anni, Bébert, l’ho riportato qui, a Meudon… è morto qui, dopo tante di quelle disgrazie, cellulari, bivacchi, ceneri, tutta l’Europa… è morto in forma e slanciato, impeccabile, saltava ancora per la finestra la stessa mattina…» (TdN 649). L’epitaffio di Bébert è commovente, proprio perché Céline trova l’immagine perfetta per renderlo memorabile, si noti che attengono a Bébert una serie di qualità aeree e leggere (lo slancio, il salto) che per Céline si oppongono al “peso” (il male) del mondo; c’è una forma di delicatezza e di riguardo nei confronti degli animali che Céline coltiva come a segnare un discrimine con gli altri esseri. Ne abbiamo la prova continuando la lettura di Nord; siamo consapevoli, Céline ci lascia diversi indizi testuali, che lo Zornhof sia un sito infernale, prova ultima di questa di questa dannazione è data dagli abitanti che non «amavano nessun animale, nessun cane o gatto alla fattoria» (TdN 495). A dominare queste pagine è Iago , il cane magro e ossuto, che il padrone affamava per far mostrare agli abitanti del luogo come la mancanza di cibo fosse comune a tutti, e ridotto a uno scheletro ambulante veniva portato in giro con orgoglio a riprova di queste terribile situazione.

Anche la sua morte, al pari di quella del gatto Bébert, è descritta da Céline con altrettanta delicatezza, «il corpo ancora tiepido… il cuore… il cuore ha ceduto» (TdN 554). Quella degli animali è una morte composta, serena; anzi per Céline gli unici esseri degni di “morte” sono gli animali, lungo tutta la Trilogia, infatti, gli uomini non muoiono, si crepano come case, si rompono, spariscono, vengono gettati nei liquami come cose di poco conto, rimangono impressi come una fluorescenza ai muri, sono pezzi di corpi bituminati – «qua così nel bitume?… un piede tutto nero… soltanto un piede… niente gamba né corpo… il corpo deve essere bruciato» (TdN 834); Céline concentra la sua pietas verso gli animali, ne sono un esempio altissimo le pagine iniziali di Da un castello all’altro in cui l’autore narra la morte del suo cane, Bessy. È uno degli episodi più strazianti del libro: «Io le tenevo la testa… l’ho abbracciata sino alla fine… era veramente una bestia splendida… una gioia guardarla… una gioia da vibrare… come era bella!… […]. è un fatto io penso sempre a lei, anche qui nella febbre […]. Posso dire che l’ho amata, con le sue folli scappate, l’avrei mica data per tutto l’oro del mondo… […] ma ha sofferto per morire… non volevo assolutamente toccarla con l’ago… farle neppure un poco di morfina… aveva paura della siringa… le avevo mai fatto paura […]… un bel momento, una mattina, ha voluto andare fuori […] voleva essere in un altro posto… dalla parte più fredda della casa sui sassi…si è stesa per bene… ha cominciato a rantolare… era la fine… il muso al nord, rivolto a nord… la cagna così fedele d’un modo… fedele anche alla vita atroce» (TdN 112-114).

In questo brano stupendo, lirico, pieno di grazia e rabbia, colmo di senso di dolcezza e colpa a emergere è l’immagine della fedeltà canina alla “vita atroce”, che è forse il segreto, il motivo reale, per cui Céline dedica agli animali la sua Trilogia. I tre romanzi possono essere letti come una profonda riflessione sulla fedeltà (alcune volte stigma della colpa, del collaborazionismo e del tradimento) alla vita, che è atroce. Céline ha esperienza di questo, la Trilogia è un campionario delle atrocità che l’uomo ha commesso e subìto, ma l’io narrante rimane fedele alla sua natura più profonda, proprio come gli animali, che per istinto cercando in qualche modo di rimanere se stessi. Abbiamo visto come nel corso delle pagine l’autore faccia riferimento alla teatralità, l’inganno, alla calunnia, al camuffamento: nessun personaggio della Trilogia è ciò che è (l’epitome, in questo senso, è Le Vigan definito l’uomo senza identità) e non è casuale che il teatro sia una delle metafore ricorrenti lungo le pagine del romanzo: questa scelta di rifiutare la propria identità, però, non è degli animali. Bébert è sempre lo stesso a Meudon come lungo l’Europa devastata, così come Iago o come Bessy: semplicemente sono rimasti fedeli alla vita atroce.

Un altra presenza animale costante nella Trilogia è quella degli uccelli, i volatili sono dovunque, in un romanzo che fa della migrazione, del movimento e del viaggio verso-una-qualche-meta-finale la propria ragion d’essere. A una prima lettura, quindi, gli stormi di uccelli che solcano i cieli sono una metafora prefetta della Trilogia; gli orizzonti, però, sono anche solcati dalle fortezze volanti, dagli aerei, dai bombardieri. Nel corso del racconto, quindi, il cielo non è solo orizzonte che contiene il movimento dei personaggi, ma è anche morte distruzione: gli uccelli, che abitano i cieli, sono creature ambigue, lontane insomma dalla rappresentazione che ne dà Leopardi nel brano delle Operette morali: «…la cerimonia è finita.. i bibel appiattiscono le zolle… nugoli di passeri spuntano e delle cince.. tutto questo dopo la terra smossa… i lombrichi… che bisogna essere uccelli per vedere sti piccoli vermi… tutti il cielo si può dire svolazza!… la festa!… anche i pettirossi!… e corvi e gabbiani» (TdN 643). Gli uccelli attengono alla morte (il brano riportato è la conclusione di una cerimonia funebre), e contemporaneamente alla festa (la l’immagine del cielo che svolazza): essi sono un enigma, che tale rimane fino alla conclusione del romanzo.

Nelle scene finali della Trilogia, Céline, Lili e Bébert sono a Copenaghen, sembrerebbe quasi una sorta di finale felice, sono giunti a Nord, sono salvi, Céline è guardingo, però, sente qualcosa di strano e così invita Lili a seguirlo in un piccolo giardino al riparo dagli occhi di tutti. In questo giardino Céline e Lili tornano ad essere loro stessi, riprendono possesso dei loro passaporti e il loro atto di matrimonio: li vediamo squarciare la pagina, liberarsi dalla finzione, di cui sono stati protagonisti e schiavi per più di ottocento pagine. Ora, infine, sono descritti loro dati anagrafici e dal loro stato civile. Nel leggere queste pagine ravvisiamo qualcosa di paradisiaco, il racconto ha il sapore di rinascita: la luce, il mare, le piante, la vegetazione, la loro stessa solitudine, infine, che ce li fa immaginare come i primi esseri viventi di un nuovo mondo. In questo momento di stupefazione e incanto, però lentamente la scena si popola, a circondarli sono uccelli «da collezione da Orto Botanico» (TdN 894): un ibis, un egretta, un pavone, un “uccello lira”; la loro presenza non è per nulla portatrice di paradiso e di quiete, anzi. Questi uccelli sono simbolo, figura, di un infinito esilio, dell’inesausto peregrinare, sono animali fuggiti e sopravvissuti alle distruzioni degli zoo (l’inferenza che compiano da lettori è con le pagine bellissime di Storia naturale della distruzione di Sebald) e che in qualche modo si ritrovano salvi in questa zona di Europa, risparmiata dai bombardamenti. La scena, che si svolge sotto i nostri occhi, si fa complessa e misteriosa come se ci trovassimo all’interno di un racconto sacro; gli uccelli sono giunti a queste latitudini per portare tale silenzioso annuncio: la felicità è un breve sogno, è qualcosa destinato a finire. Essi sono gli ambigui messaggeri di un dio sarcastico o malvagio, da un lato come Céline e Lili sono «sono “in fuga da scatenate voliere”… devono venire come noi da giù», ma nello stesso tempo, terribili come angeli di Rilke, annunciano in modo misterioso che «per noi tutto è pericoloso» (idem). L’animale, quindi, in Trilogia diviene una sorta di presenza demonica, che attiene a qualcosa di più profondo e oscuro, qualcosa che è vivo e senziente pur non essendolo o non essendolo del tutto, l’animale che conosce ogni cosa – «sanno, è tutto» (TdN 287) – è la prefigurazione della rappresentazione più inquietante di quella “nuda” vita , che culmina nella descrizione dei bambini “svedesi”.

21. Le ultime 100 pagine della Trilogia sono dominate dalla presenza costante, silenziosa, vivace e vivente dei bambini che la signora Odile affida a Céline. Questi bambini, quasi certamente spastici, handicappati, affetti da diverse malattie e patologie, non parlano mai nel corso del romanzo, si muovono in branco, sbavano, ridono, rumoreggiano, sono un numero imprecisato – quindici, sedici, diciassette. Céline usa il più ampio e degradante ventaglio della sua scrittura comica per descrivere una serie di bambini menomati; il grottesco alla Hugo qui trova il suo oggetto perfetto: essi sono veramente tanti “Quasimodo” che si muovono, che strisciano, che fanno bisogni dove gli pare, che fanno a meno della parola, che utilizzano un qualche modo di comunicare, a noi precluso; sono come animali, o meglio sono uomini, esseri umani, che per miracolo o malattia condividono una sorta di più semplice, ma nello stesso tempo, più profonda forma di esperienza della vita: in loro la “vita atroce” si mostra nella sua totalità, si mostra completamente. I bimbi seguono Céline come i topi seguono il pifferaio magico: essi rappresentano lo scolo dell’Europa il prodotto ultimo della sua putrefazione, della sua distruzione, sono il rifiuto e sono il “ciò-che-resiste”, perché nonostante tutto «i nostri mocciosi i nostri dico non erano fatti fatti per esistere ma erano arrivati lì» (TdN 822). Sono testardi questi mocciosi dalla dura cervice, esistono anche se dovrebbero essere morti, sono viventi anche se ogni cosa pare cospirare per la loro estinzione.

Lo sguardo di Céline è ambiguo, passa appunto da un sentimento di estraneità a un sentimento di possesso, l’aggettivo possessivo della prima citazione ne è spia palese, è desideroso di salvarli, di nutrili, di portarli in qualche modo, è come se si sentisse padre, come se ne dovesse prendere cura pur riluttante. Questo atteggiamento ricorda un racconto di Kafka, Il cruccio del padre di famiglia, e la figura di Odradek. Lo scrittore ceco in questo racconto prefigura, come spesso gli accade profeticamente, lo stadio di sub-umano che l’umanità attraverserà durante la Seconda Guerra Mondiale. La domanda del padre, il cruccio del titolo, appunto riferita a Odradek – “Può egli morire?” -, riecheggia anche nelle pagine finali di Rigodon. Possono questi bambini morire? Possono loro, che hanno attraversato l’essenza ultima dell’umano essere considerati ancora umani e quindi morire? Il racconto di Kafka è enigmatico, proprio perché non dà risposta. Odradek può essere il male totale, sordo, stupido che nessuno può togliere dal mondo, è, infine, la prova suprema dell’esistenza del non-essere, oppure Odradek è ciò che restio all’autorità, che s’oppone a un’autorità di morte, la sua esistenza stupida e persistente è di fatto una vittoria su ciò che vorrebbe distruggerla. Durante la lettura di Trilogia si oscilla spesso, almeno dal punto di vista di Céline, tra queste due tensioni: i bambini spastici, gli Svedesi così come infine verranno definiti e grazie a quella definizione verranno salvati, sono opachi, si oppongono a qualsiasi tipo di comprensione. Nella loro descrizione la mia memoria è tornata più volte alle pagine, che in queste sede potrebbero suonare stravaganti, de La tregua di Levi; in particolare l’episodio dedicato a Hurbinek, il bambino nato nel lager e nel lager morto. Hurbinek, così come i bambini di Céline, ha una esistenza che inquieta e turba il lettore: è vivo, ma non è umano, ci porta a sentire affetto e nello stesso tempo ci respinge e ci ripunga, è ciò che rimane del lager, è ciò che nonostante tutto è riuscito a fiorire nel lager, è qualcosa di tremendo, vivo e non umano: lo scandalo che non comprendiamo. Leggendo le pagine finali del romanzo di Céline abbiamo l’impressione che in questi bambini lui raffiguri qualcosa, qualcosa che non riesce neppure a nominare: e se i bambini spastici fossero la sua colpa? Se rappresentassero ciò che avrebbe dovuto odiare e che invece salva? (la mia fantasia ha pensato che questi bimbi raffigurassero gli ebrei, in fuga verso una salvezza). Nelle pagine della Trilogia vivamo, senza che Céline lo verbalizzi, un sentimento molto vicino, a quello che Levi riesce a formulare, descrivendo Hurbinek che muore “libero ma non redento”: la chiarezza leviana si scontra con il furore celiniano. E qui, avviandomi alla chiusa finale di queste postille, e alla luce di queste prossimità, vorrei tentare un azzardo avvicinando, infine, Trilogia del Nord e La Tregua.

21.1 La Tregua e Trilogia sono due odissee che non si concludono con un arrivo a casa, non c’è nessuna Itaca ad aspettare i due Ulisse, entrambi laceri e affaticati; da una parte vediamo ergersi il profilo del carcere, la detenzione, e dall’altra il nulla torbido in cui vive il sopravvissuto. Céline e Levi hanno attraversato l’Europa devastata dalla guerra, hanno scelto di raccontare questo sfacelo usando il comico, che non è un semplice far ridere, ma è indagare a cosa si riduce l’uomo svuotato di tutto, l’hanno fatto con due lingue diverse certo, partecipi di due nevrosi differenti, eppure lo spostarsi, il muoversi, il perdere e salire treni, la fame, le scarpe, la sporcizia e la merda sono medesime (si potrebbero mettere in relazione la scena delle latrine intasate Da un castello all’altro e con Campo Grande il grande capitolo iniziale de La tregua). L’uomo stravolto/grottesco, come risultato di un esperimento andato a male, è il centro di entrambe le narrazioni; da sottolineare, infine, anche un dato temporale: questi libri in parte furono composti negli stessi anni, al 1960-1961. C’è, infine, la presenza dei bambini in entrambi i testi, mediata dal Kafka del Cruccio del padre di famiglia e dalla domanda: Può egli morire?.

Ho l’impressione che Céline e Levi abbiano intravisto qualcosa di più tremendo del lager, del nazismo, del disfacimento degli Stati, dei morti nei bombardamenti, dei morti gasati nei lager, qualcosa di più terribile dei sopravvissuti logori e cenciosi, degli impiccati di Norimberga, dei carcerati e dei suicidi degli amici, questa cosa terribile e tremenda è la vita, sorda, la biologica vita delle cose degli animali, degli esseri, questa vita prima e priva di ogni coscienza, intelletto e lingua, questa vita brutta (aggettivo caro a Levi) e atroce (aggettivo caro a Céline), come la materia stessa di cui è fatto il mondo concreto, questa vita sorda bassa minima, il cui unico obiettivo è esistere nonostante le guerre, nonostante le vittorie e le sconfitte, nonostante le cadute degli imperi e dei governi, questa vita basilare, minima, dura come un piccolo sasso, come un oggetto di forma bizzarra, come un bimbo spastico e bavoso è l’arcano che tiene in piedi questo mondo materiale. Questa vita è l’abisso più grande in cui gettare lo sguardo; qualcosa che loro hanno intravisto; qualcosa che è umano senza esserlo più, che partecipa all’esistente senza esserne parte; qualcosa – infine – che loro hanno visto con gli occhi mortali (gli occhi di Levi e di Céline a me sembrano così identici, chiari, acquatici) e che hanno provato a descrivere con le parole, fino a quando le Parche hanno deciso di recidere il filo e Céline e Levi sono morti, mentre quella cosa atroce e bruta, che è la vita, ha continuato e continua a esistere, e interroga noi che siamo rimasti.

* Voglio, infine, ringraziare tutti le persone del Gruppo di lettura condivisa di Lettera Zero, la loro presenza, il loro costante pungolo, la loro intelligenza mi hanno spinto a ragionare con ancora maggiore chiarezza rispetto a questo libro, mi hanno portato a capire che la strada per comprenderne il significato e ancora di là a venire. Nei prossimi mesi, qui su Lettera Zero, alcuni di loro pubblicheranno le loro impressioni che daranno vita ad un Dossier Céline, con il quale speriamo di approfondire ancora di più questo autore e questi libri così abissali.

In Appunti di Lettura

Céline, “Trilogia del Nord”, postille 16-18

di Demetrio Paolin

16. Una delle prime parole miliari, ovvero che ci accompagneranno per l’intero corso e sulle quali ritorneremo spesso, della Trilogia è “lordura”, la troviamo a pagina 4; l’area semantica che traccia questa parola nel corso della narrazione ha a che fare con lo sporco, il brutto e il deforme: possiamo elencare, ad esempio, in Da un castello all’altro, la vicenda dei bagni e della “merda” che letteralmente fuoriesce dai water, oppure l’apparizione del “cul-in-terra” di Nord o dei “bambini svedesi” in Rigodon. Il mondo descritto da Céline è un mondo sporco, dove a trionfare è appunto il brutto, senza nessuna ipotesi di bellezza (è interessante che quando Céline voglia parlare di bellezza scriva “delicatezza”, come se la bellezza fosse una sorta di contrappeso alla durezza del mondo). Ora che tipo di “brutto” abbiamo davanti ai nostri occhi nel leggere le pagine della Trilogia? Osserviamo questa righe: «si vanta di essere una strega… gli Americani le hanno fatto il culo viola… brutta in un modo che a Quasimodo la cosa gli avrebbe fatto piacere… […]la natura l’aveva ben conciata, tutta la guancia sinistra, una macchia di vino, i capelli rossi, ispidi, a cosa di vacca, gli occhi uno grigio, l’altro azzurro… e strabica pure… non c’è che dire, faceva il suo effetto» (TdN 313). La citazione di Quasimodo ci mette subito sulla strada giusta, abbiamo già avuto modo di vedere come Céline abbia ripreso certi movimenti del romanzo ottocentesco e proprio Hugo si era imposto alla nostra fantasia e immaginazione. La presenza dello scrittore francese è costante in Trilogia, forse anche più di quanto Céline stesso vorrebbe suggerirci: «aggiustate in stracci, più per niente sozzone mondezzaie!… piacenti!… Esmeralde!…» (TdN 388). Oppure le pagine di Nord dedicate al campo degli zingari (TdN 496 e seguenti): «L’Esmeralda chiama gli altri che si sganassino, lei crede che Lili sa manco maneggiarle, che superbia, che ridano di noi piano» (TdN 498). Esmeralda, Quasimodo, zingari: Notre Dame Hugo serve da possibile “caricatura” della descrizione topografica dello Zornhof: il campo degli zingari come la corte dei miracoli, il luogo in cui vengono ritrovati semi morti il conte e la guardia simile al Valdamore. Senza appunto contare la descrizione dei bambini “svedesi”: «tutti torti sbilenchi, teste grosse penzolanti, dai quattro ai dieci anni, pressapoco… Quasimodi bimbi bavosi» (TdN 819). Molti personaggi della Trilogia hanno qualcosa di orribile, come appunto Quasimodo, o sono descritti come personaggi che hanno perduto ogni armonia, ciò che vede Céline è una umanità ridotta a un mostro, a qualcosa di deforme e grottesco.

Attira ad esempio l’attenzione una immagine tra le molte, la riporto: «Cromwell gettato nell’immondezzaio, brulicante di vermi, non aveva proprio il filo!… ha imparato a sue spese! Dissotterrato l’hanno ristrangolato, e riappeso» (TdN 508). Cromwell è il titolo di un dramma di Hugo, importante sopratutto per la prefazione, in cui Hugo proprio teorizza la centralità del deforme, del brutto, nella nuova letteratura. La prima immagine è quella di uno specchio; la letteratura per Hugo è «uno specchio in cui si riflette la natura. Ma se questo specchio è un comune specchio, una superficie piana e limitata, non rimanderà che un’immagine sbiadita e senza risalto […] il dramma deve essere dunque uno specchio concentratore». A interessarci è appunto lo specchio che più che riflettere o rimandare le immagini, le concentra, le deforma e questo punto che Hugo inserisce la riflessione sul brutto: «Il bello non offre che una sola tipologia, il brutto invece ne mostra mille. Il fatto è che il bello, parlando umanamente, non è che la forma considerata nel suo rapporto più semplice, nella sua simmetria più assoluta, nella sua armonia più intima con la nostra organizzazione; ci offre sempre un insieme completo ma ristretto come noi. Ciò che denominiamo il brutto, al contrario, è solo il dettaglio di un grande insieme che ci sfugge e che non si armonizza con l’uomo ma con l’intera creazione: ecco perché esibisce senza sosta aspetti nuovi ma incompleti». La deformazione di Hugo è duplice: da un lato è fisica –  il brutto, il difforme, il fuori scala, in questo senso Quasimodo ne è l’epitome -, ma dall’altro, come bene fa notare Vanessa Pietrantonio in Maschere grottesche (Donzelli), la potenza deformante si innesta anche e sopratutto nella lingua e in particolare nell’argot. Ritorniamo alla parola “lordura” da cui ha preso l’avvio questa nostra postilla, se andiamo a vedere l’originale francese troviamo una parola “pochetée”, che a una prima breve ricerca non è presente nel dizionario classico, di certo è un termine ibrido una delle tante invenzioni/innovazioni linguistiche che Céline compie nella Trilogia. Siamo consapevoli, leggendo le lettere e le varie riflessioni, che per lo scrittore francese fosse centrale lo stile (Céline si definiva uno stilista), e di come fossero la musica, il dato fonetico della parola a guidarlo nella composizione (ne è un esempio la testimonianza della moglie che raccontando “come” vennero risolte le incertezze delle varianti di su Rigodon parla, appunto, di una scelta per assonanza, rima che era presumibilmente suggeriva il modo con cui Céline componeva i suoi testi). È chiaro che il recupero dell’argot e il suo uso siano una della grandi innovazioni romanzesche di Céline; lo scrittore francese fa diventare l’argot la lingua della Trilogia, sostenendo come “l’argot è nato dall’odio”, ma questa sua innovazione deve a Hugo più di quanto Céline voglia farci supporre. Leggiamo questa pagina tratta da I miserabili: “Lingua laida, inquieta, subdola, traditrice, velenosa, crudele, losca, vile, profonda, e fatale nella miseria. […] ora astuta, ora violenta, e al tempo stesso malsana e feroce, essa attacca l’ordine sociale […]. L’argot è appunto la lingua di battaglia che la miseria ha inventato”. E ora leggiamo questa riflessione di Céline: “Credetemi, conosco bene l’argot, tutti gli argot, ahimè! il vero argot è quello di Villon,sebbene già più accademico, ma soprattutto quello delle Chansons de Mandrin, che del resto ben pochi conoscono…No l’argot non si fa con un glossario, ma con delle immagini nate dall’odio, è l’odio che fa l’argot. L’argot è fatto per esprimere i sentimenti veri della miseria. […]. L’argot è fatto per permettere all’operaio di dire al suo padrone che detesta: tu vivi bene e io male, tu mi sfrutti e giri con un macchinone, ti ucciderò…”. Hugo e Céline parlano, o meglio, scrivono la stessa lingua nata dalla miseria, dall’odio e dal sopruso (curiosamente questa lingua umiliata, questa lingua che possiede solo parole negative, di rabbia, odio, umiliazione e sopruso è vicinissima alla lingua familiare – “la bizzarra parlata dei nostri padri” –  di Primo Levi, il quale nel Sistema periodico ne descrive come “evidente” “la radice umiliata”). L’argot nasce dal rovescio della civiltà, in questo modo possiamo comprendere come il segreto più profondo della  Trilogia ovvero la messa in scena di una lingua che si pone in contrapposizione rispetto alla lingua letteraria ufficiale: «potrei inventare, trasporre… quello che hanno fatto tutti… la cosa passava in antico francese… Joinville, Villehardouin l’avevano facile, si sono mica fatti scrupolo, ma il nostro francese qui, intisichito, così striminzito lezioso, accademizzato, quasi a morte, mi farei trattare da ancora più abbietto, stronzo delle Pleiadi e non mi venderebbero più per niente» (TdN 813). Chiaramente la deformazione dei corpi, che non risparmia nessuno, nemmeno Lili – «anche Lili pure carina, tratti regolari, per niente criminale, eccola matrigna, assassina, capelli in furia e Sabba, strega sul declino, lei che non vent’anni» (TdN 338) –, è il segno, il primo e il più visibile, di una visione della deformità che domina ogni cosa. «Il personaggio narratore, unico spettatore destinato a rimanere sulla soglia, si trova così di fronte a una coralità che, nel mettersi a nudo, si serve di un megafono improvvisato per celebrare l’orrore, facendone, addirittura, l’apoteosi», queste parole che la Pierantonio dedica a Hugo possono essere declinate alla lettera per la scelta e la motivazione di Céline nella composizione la sua Trilogia: una apoteosi dell’orrore.

17. Quando arriviamo a Zornhof, nel mezzo di Nord, che è poi nel mezzo della Trilogia veniamo accolti da una serie di personaggi molto stravaganti e strani, di cui forse il più stravagante e strano è il vecchio, di cui ci viene descritta la passione per essere picchiato e frustato dalle sue giovani bambine. A prima vista questo potrebbe essere letto alla luce di un sadismo spicciolo, ma se ci soffermiamo con più attenzione su tale descrizione, potremmo vedere come essa rappresenta una spia della possibile matrice sadiana più che sadica della Trilogia.

Possiamo intanto notare come un tema tipico dei libri di De Sade sia il viaggio, nei romanzi  del marchese si viaggia molto (si legga in questo senso Barthes di Sade, Fuorier, Loyola), ma il termine del viaggio è sempre uno, la meta è sempre una, una possibile chiusura, l’arrivo in un luogo che in qualche modo ha le stimmate della prigione: in questo senso lo Zornhof (ma prima anche Sigmaringen) è un perfetto luogo sadiano, popolato come è da strani personaggi con strani gusti sessuali, o malattie, o comportamenti al limite dell’abiezione; si  pensi solo al vecchio che porta Iago, il cane, in giro per la tenuta, così da mostrarne la magrezza, simbolo della fame che attanaglia tutti, a significare che tutti stanno vivendo di stenti; una pratica che porterà il povero animale ha morire durante una di queste “passeggiate”.

Altra immagine sadiana è l’impiccagione: riprendiamo la citazione su Cromwell (TdN 508), in quel brano leggiamo della riesumazione di un cadavere, e di una nuova impiccagione, ma non è l’unica: «Esatto! Vi dicevo nell’altro mio libro, dal momento che sei designato, il tuo collo, la tua corda!» (TdN 440); «Che ti impicchino! E presto! Alto, basso! In che stile vai a sdondolarti!”; “pendagli da forca, sospetti ovunque, traditori per la Francia e la Germania… […] un bel momento viene solo una domanda: perché non ti hanno impiccato?» (TdN 509). C’è un legameche collega il nodo, il tradimento, l’impiccagione e la punizione, che così De Sade esemplifica: «Non ci rimangono che due alternative: o il crimine che ci rende felici o il nodo scorsoio che pone fine alla nostra infelicità». L’impiccagione, quindi, è topos stratificato, quando lo leggiamo in Céline: ci ricorda la Ballata degli impiccati di Villion, che abbiamo visto Céline conosceva bene e al quale guardava come costruzione del proprio stile, ma la corda, il nodo e l’asfissia sono alcune della immagine topiche e tipiche dello stile sadiano o meglio che si radicano nello stile, in particolare, nella parte legata alla descrizione delle orge. La descrizione tipografica, cioè dell’organizzazione dello spazio della pagine di De Sade, fatta da Barthes, ci permette di cogliere tale particolarità: «Chi sfoglia i libri di De Sade sa bene che vi si alternano due grandi forme tipografiche: pagine fitte, continue: è la grande dissertazione filosofica; pagine spezzate da spazi bianchi, capoversi, da punti di sospensione, di esclamazione, linguaggio teso, bucato, vacillato: è l’orgia, la scena libidinosa o criminale». Nella Trilogia Céline prova tipograficamente e stilisticamente una sorta di summa infatti le pagine céliniane sono “fitte”, “continue”, “spezzate” “da puntini di sospensione, di esclamazione”, e il linguaggio è appunto (vd 16) “teso, bucato, vacillato”. La componente sadiana di Céline non è però legata al sesso, c’è qualcosa in Da un castello all’altro, la sfortunata storia di Clotilde e del Commissario Papillon (TdN 176 e seguenti), le scena del Stazione che diventa un bordello sempre in Da un castello all’altro, ma al crimine. L’io narrante si presenta come un libero pensatore, che va contro ciò che di solito pensa, è – in una parola – un libertino, termine che nella cultura francese possiede un’aura molto più complessa di quella che cogliamo noi oggi. Tale sguardo straniato sul mondo, che è lo sguardo della “canaglia” (per riprendere un termine che abbiamo già analizzato) è lo stesso di De Sade, e certificata l’idea di mondo, una storia, e una società tenute insieme da una sorta di Dio Malvagio, di essere supremo che è la copia distorta, terribile e grottesca dell’Essere Supremo, il culto viene sancito in Francia nella Costituzione (mai applicata) dell’Anno I (1793). De Sade scrive: «Convinto di questo sistema, mi dico: c’è un Dio; una mano qualunque ha creato necessariamente tutto ciò che vedo, ma lo ha creato soltanto per il male, essa si compiace soltanto nel male, il male è la sua essenza (…). Nel male egli (Dio) ha creato il mondo, con il male lo regge, con il male lo perpetua. Impregnata di male la creatura deve esistere e in seno al male deve rientrare dopo la sua esistenza». Ad una prima lettura della Trilogia l’immaginario religioso è di certo poco presente. Nel corso dei romanzi, però, l’assenza di Dio viene rotta da alcune bestemmie che, sopratutto in Rigodon, tornano insistite: in Céline la bestemmia diviene de facto una lamentazione, un sberleffo a qualcosa che esiste e che se ne sta indifferente sopra di noi; la bestemmia è tipica della visione De Sade come rovesciamento grottesco della preghiera in un mondo appunto  retto dal Male, costituto di Male, e mosso a Male.

Il mondo di Céline è retto dal male? Potremmo provare a rispondere a questa domanda con l’episodio del “pugno alla scatola di legno”. Céline, citando (ancora una volta fraintendendo il testo) Bergson, scrive: «riempite una scatola di legno, una scatola grande, di limatura di ferro molto fina, e ci date un pugno dentro, un pugno forte… che cosa osservate? Avete fatto un cratere… della forma esatta del vostro pugno! Per capire che cosa è accaduto, quale fenomeno, due intelligenze, due spiegazioni… l’intelligenza della formica sbalordita stravolta, che si chiede per quale miracolo un altro insetto, formica come lei, ha potuto […], e l’altra intelligenza, geniale, la vostra, la mia, una spiegazione che è bastato un semplice pugno» (TdN 707). Ciò che mi chiedo io è: chi dà il pugno? La nostra intelligenza, superiore a quella della formica, comprende che a generare il cratere è stato un pugno, ma il romanziere, lo scrittore si deve chiedere: perché viene dato un pugno, perché proprio il pugno? C’è qualcosa fuori dalla scatola che cala il suo braccio e questo potrebbe essere Dio, l’essere supremo, ma supremo e malvagio, perché si palesa nella storia (romanzo) e nella Storia (esistenza) dell’uomo con un atto di violenza. Il dato sadiano, quindi, agisce in profondità costituendo quella che è la visione e l’organizzazione del mondo in cui i personaggi della Trilogia si muovono; un mondo dove Dio c’è ma è un essere crudele che dà un pugno e rompe ogni cosa.

18. «riconosco il posto… proprio così, davanti all’Hotel Esplande… oh non mi sbaglio!… ma ammaccato e tutto crepato, l’Hotel Esplande, il tetto cadente gli spenzolava davanti.. direi per ridere: surrealista!» (TdN 832). Questa descrizione attira la mia attenzione soprattutto per l’aggettivo che la conclude, Céline sicuramente è stato un attento lettore e osservatore che ciò che accadeva nella Francia delle lettere proprio nel momento in cui, ad esempio, si apprestava a esordire; quindi possiamo immaginare che abbia letto e abbia riflettuto sul manifesto del surrealismo che Breton aveva prodotto. Uno dei momenti più interessanti di questo manifesto è a ripresa del famoso “incipit puro” di Valery, «la marchesa uscì alle cinque»; su questo incipit si concentravano tutte le ironie e i sarcasmi dei surrealisti per un tipo di narrazione, che aveva fatto il suo tempo.

E Céline? Dovremmo pensare che egli sia in linea con questa concezione di rinnovamento, eppure se andiamo a guardare con attenzione e ciò che abbiamo analizzato in queste postille possiamo fare alcuni nomi degli autori che più in profondità agiscono nella sua prosa: Cervantes, Shakespeare, De Sade, Hugo… Non è quindi casuale che Céline scriva: «Pare che sia del tutto passato di moda scrivere “che alle dieci il calesse delle contesse era venuto avanti” ah vacca miseria! Che ci posso fare se vado giù di moda?» (TdN 531). Céline ha ben chiaro, in questo passo, e nei molti altri  che dissemina lungo i romanzi, la Trilogia potrebbe essere anche letto come una lunga riflessione meta letteraria sul romanzo, che la sua novità sta appunto e forse nel recupero di alcuni modi di raccontare gli eventi che possono parere obsoleti agli occhi di molti innovatori. Abbiamo visto che Céline si muove nel campo dell’inter-testualità come un uomo tra le macerie dopo una esplosione, ne raccoglie brandelli, né salva piccoli pezzi, li ricompone secondo una sua personale sensibilità; ad esempio il termine “cronaca” per descrivere la Trilogia secondo l’uso di alcuni scrittori medioevali francesi o l’utilizzo dell’argot (vd 16) alla luce di Hugo. Avevamo messo in evidenza, sin dalle prime postille, come l’utilizzo della punteggiatura, sopratutto, dell’esclamazione poteva essere visto come debito “stilistico” verso Hugo e Balzac, di Hugo abbiamo già detto, ma Balzac?

È chiaro che lo sberleffo di Valery, che Breton riprende, ha proprio come oggetto il romanzo dell’ottocento, che vede in Balzac il suo più grande interprete; Céline cita chiaramente due volte Balzac la prima parlando della pelle dello zigrino, uno dei romanzi centrali della Comedie Humaine, e poi nelle pagine conclusive di Rigodon, quando appunto dichiara che Balzac ha vissuto per un periodo a Meudon: «Balzac giusto!… Balzac sarebbe venuto a Meudon… avrebbe abitto a Belle-vue in casa del conte Apponyi» (TdN 897). La Trilogia insomma si chiude all’ombra del grande romanziere francese, quello che sognava di “portare un’intera società nella sua testa”, la sua presenza in chiusura non è casuale: Céline con la Trilogia ci fornisce una descrizione che per certi versi poteva essere molto simile a quella di Balzac: se il primo voleva rappresentare la Francia nel XIX secolo (e con la Francia il mondo, stando alla felice intuizione di Wilde), Céline compie un’azione simile: rappresenta tutta la prima metà del XX secolo, nel suo punto apicale e finale, pochi istanti prima che scompaia. Rigodon (e la Trilogia di conseguenza) è libro “finale”, perché sono le ultime parole scritte e pensate di Céline, un libro scritto mentre le Parche gli rosicavano i fili, scritto in furia proprio perché la pelle dello zigrino è ormai giunta alla fine. È un libro sulla morte di un’epoca e sulla sua, di Céline, personale morte: «ho adesso sessantasette anni, la mia pelle di zigrino così ristretta, dovrei essere crepato dal un bel pezzo, ho fatto tutto per… applaudite» (TdN 885). Ora, come sempre, la citazione di Céline non è corretta completamente, necessita di essere esplicitata: nel romanzo di Balzac la pelle dello zigrino è una sorta di amuleto magico che il protagonista (Rafael de Valetin) ottiene da un usuraio, la pelle ha una particolarità: è costruita a misura della vita del suo possessore, a ogni desiderio, che magicamente viene esaudito, essa si ritira fino a svanire, decretando la morte del suo possessore. Valetin, dopo una vita dissoluta, si accorge che la pelle dello zigrino è ormai poco più di niente e cerca di rimandare la morte, vietandosi qualsiasi desiderio, ma infine le parche avranno ragione di lui… La pelle dello zigrino è ristretta: Céline scrive sapendo, oscuramente di certo, ma sapendo che questo sarà il suo ultimo romanzo; e così, proprio come in una recita, si mostra infine nelle ultime pagine al centro del palco da solo, i rumori della storia sono passati, tutto è consumato, anche il suo amuleto, e lui ci guarda oramai vecchio e stanco, sta per farci l’ultima confessione – «ho scritto tutto per…» – in cui forse ci racconterà quello che ha nel cuore, il suo ultimo pensiero, il motivo per cui ha scritto questo romanzo, ma invece con un movimento, da clown quale ha voluto farci credere di essere, ci chiede un applauso. È il suo ultimo desiderio, quello finale, che infine al braccato, all’impostore, al traditore venga concesso il giusto applauso. Noi sappiamo, e Céline lo sa perché è conoscitore di Balzac, che con questo ultimo desiderio, la pelle dello zigrino si consumerà e all’autore non resterà che confondersi con “quelle profondità spumose che più niente esiste” (TdN 898).

In Appunti di Lettura

Céline, Trilogia del Nord, postille 14-15

di Demetrio Paolin

14. «Il resto è blablà» (TdN 771). Sarebbe scontato sostenere la centralità della presenza dell’Amleto nella Trilogia del Nord partendo da un dato puramente vettoriale/geografico: il Nord a cui i protagonisti tendono è, appunto, la Danimarca, terra del principe pallido. Nella realtà la presenza di Amleto lungo i tre volumi della “cronaca” è molto più ampia, di cui è memoria proprio questa citazione, che troviamo in Ridogon, e che sono le ultime parole pronunciate da Amleto prima della sia uscita di scena: «Il resto è silenzio». Come abbiamo notato (vd 12), quando ci troviamo in presenza di citazioni più o meno esplicite nella Trilogia, le scelte di Céline non sono mai neutre, e per tale ragione proviamo ad analizzarla da vicino.

La citazione di Céline, così come riportata nella Trilogia, è presente almeno in altre due occorrenze: in Bagatelle per un massacro e in una lettera cui riflette sui suoi ascendenti letterari (Lettere agli editori Quodlibet). Tali evidenze sono sufficienti per sgombrare il campo da qualsiasi idea di mero decorativismo o di semplice calembour, e per segnalare – invece – un percorso all’interno della riflessione céliniana. È indubbio, comunque, che la citazione, pur facilmente “rintracciabile” alla sua origine (nessun lettore, neanche il meno avvezzo all’opera di Shakespeare faticherebbe a riconoscere la battuta del principe danese), abbia negli esiti della Trilogia tutt’altra cadenza.

In Amleto la frase ha una portata gnomica, morale, si staglia nell’ambito del dettato del testo con la sua grandezza ultima: sono le parole finali con cui l’eroe si congeda, esse rappresentano supremamente l’ambiguità di sentimenti, di visione, che il protagonista ha nei confronti dell’esistenza; rappresentano uno sguardo sul mondo da cui nessuno fa ritorno; sono – a volerla guardare con attenzione – una sorta di summa delle aporie attraverso le quali è costruito il personaggio di Amleto; inoltre è una frase, che interroga anche il lettore o lo spettatore della tragedia: cosa è per lui “silenzio” e cosa si intende per “resto” (è questo un enunciato sommamente polisemico che si apre a diverse se non opposte riflessioni).

Ad una prima lettura la battuta shaschespiriana nella Trilogia si configura come una riduzione; tutta la carica morale, filosofica viene disintegrata da Céline nella sua riscrittura della frase; c’è di più. La citazione ci pare contraddica ciò che il principe di Danimarca morendo sostiene, il “resto” non è silenzio, ma anzi è un fragore, un rumore bianco di fondo, che continua e istupidisce tutta l’esistenza: il blablà a cui fa riferimento Céline è il continuo borbottio a cui lui stesso ci ha abituato e nella sua prosa e nelle sue interviste (sarebbe interessante vedere e costruire una sorta di parallelo tra il modo in cui lo scrittore francese compone le sue frasi e il modo in cui parla durante le interviste).

Eppure questo blablà potrebbe ricordare e rimandare alle molte onomatopee presenti nel libro, potrebbe essere, quindi, spia di quel linguaggio pre-grammaticale, di cui le pagine della Trilogia abbondano a volte come ironica rivisitazione dei comics  e altre – il più delle – volte come tentativo provare a descrivere ciò che è accaduto durante i terribili bombardamenti degli alleati, di cui Céline è stato testimone.

Quindi a guardarla con più attenzione la citazione céliniana dell’Amleto è meno lineare di quel sembri a prima lettura. Per spiegarla, mi concedo, una piccola digressione: ho sempre creduto che una delle funzioni essenziali del romanzo sia la parodia; con essa non intendo individuare un semplice rovesciamento di un concetto, di un’idea o di una immagine. Tale stravolgimento produce non impoverimento del sapere, ma anzi una sua nuova e più complessa forma: l’esempio più lampante di tale ipotesi è appunto il Chisciotte di Cervantes, il quale è di certo parodia dei poemi e dei romanzi cavallereschi rinascimentali e tardo rinascimentali, ma non è solo questo. L’esito parodico della Trilogia ormai un dato acquisito di queste nostre postille: un’odissea senza ritorno, un romanzo che si frantuma in cronaca, una lingua che perde per la sua grammatica; e quindi ciò che accade nel macro si riverbera anche nel micro.

Abbiamo visto come la citazione céliniana, nei confronti di Nietzsche, di Cervantes, di Balzac, rappresenti una sorta di setaccio tra le rovine: il mondo “letterario” è esploso e lo scrittore si aggira per questa biblioteca disfatta e trova lungo il suo cammino dei resti, dei rimasugli, delle cianfrusaglie che rappresentano ciò che resta dell’archivio del nostro sapere. In questo orizzonte si comprende meglio il significato e l’utilizzo della citazione: essa è il “resto” di quella grande tragedia. Ciò che rimane di quel caposaldo del nostro sapere sono alcune parole, che lo scrittore non può neppure riprodurre in maniera esatta; la grande letteratura, il grande sistema culturale, che ha formato l’uomo, che ha definito l’umano nella sua essenza, Umanesimo, Rinascimento, Barocco etc etc tutto ciò che eravamo abituati a concepire come orizzonte del nostro vivere, dopo la guerra, dopo la distruzione totale avvenuta tra la prima e seconda guerra mondiale, si è ridotto a una vuota lallazione. Letta in questa prospettiva, la citazione proprio nel suo proporsi come antifrasi – silenzio vs parlottio – rispetto all’originale, in realtà non fa che confermarne l’assunto.

La tragedia di Shakespeare è il ritratto di un personaggio e di un mondo che non riconosce più in sé stesso, di un momento di passaggio, tra il vecchio e il nuovo, tra qualcosa che è noto, ma ormai morto, e qualcosa che deve venire ed è rappresentato come sconosciuto: questo bifrontismo è caratteristico di Amleto, ma lo stesso Céline, o meglio l’io narrante della Trilogia, si trova ad agire in una situazione molto simile, il mondo in cui lui aveva vissuto era andato in frantumi, era saltato via del tutto, e se annunciava un altro che stentava a comprendere (forse l’antimodernismo di Céline sta appunto in questa mancata comprensione). Il “silenzio” di Shakespeare e il “blablà” di Céline sono simili indicano le macerie di un mondo che non c’è e lo spavento rispetto a ciò che sarà.

Non è, però, questa l’unica occorrenza dell’Amleto in Trilogia, soprattutto in Da un castello all’altro, il principe danese viene evocato alcune volte: «Yorick! Niente alas» (TdN 92); «ah not to be! Be» (TdN 168); «l’Amleto lui l’aveva facile a filosofare su dei crani» (TdN 273). Come si vede le diverse riprese del testo di Shakespeare vengono trattate allo stesso modo, confermando – per sommi capi – il modo di lavorare sul materiale letterario di Céline; egli conosce l’opera di Shakespeare e la riscrive la modifica, come vediamo nella citazione a p.168, nella quale Céline riprende i termini del famoso monologo e li inverte; basta questa semplice operazione, per mantenere da un lato la memorabilità della sentenza, ma calcando ancora più la mano su dato negativo, nichilistico, puntando, quindi, all’attenzione sul “non essere” rispetto all’ “essere. È interessante notare poi che l’ultima occorrenza sia posta all’interno della scena del funerale di Bichelonne (TdN 270 e seguenti). La descrizione delle cerimonia funebre del ministro collaborazionista ha profonda portata comica e parodica, dove il tono basso e corporale della prosa céliniana ricorda il linguaggio scatologico con cui i becchini dell’Amleto discutono dei morti; ecco come Céline vede il morto: «Bichelonne è in scatola» (TdN 272); Céline poi continua: «è proprio Bichelonne sta bara?… nessuna fiduca coi Tedeschi… sai mai… comunque una bella bara!, ha più conti da rendere a nessuno, Bichelonne!». (TdN 273). Notiamo un passaggio interessante: nella prima citazione il morto è ancora separato dal suo contenitore, nella seconda contenitore (bara) e contenuto (Bichelonne) sono divenuti una cosa sola. L’uomo si riduce alla sua bella bara, non è neppure importante che sia realmente lì dentro. È questo un procedimento tipico di Céline che trasforma ogni cosa in paesaggio, in scenografia, uomini, prati, colline, strade, città tutto diventa una sorta di sfondo in cui l’io narrante si muove, ciò che viene rappresentato come sempre vivo e vivente è ciò che è pare più estraneo o lontano dall’umano (gli animali e i bambini “svedesi” come vedremo in una delle future postille). Ritornando al funerlae, esso avviene in una atmosfera comica; la delegazione, che ha viaggiato per portare l’ultimo saluto al ministro, si trova nel bel mezzo del niente, tra la tormenta di neve, il freddo terribile e una banda militare che per fare gli onori suona la Marsigliese. La scena dei becchini, che è forse una delle scene più emblematiche riproposte e riscritte dell’Amleto, contiene al suo interno la rappresentazione profondamente creaturale dell’uomo: il becchino, con una sorta di ironia dissacratoria, di chi è abituato a maneggiare la morte (i cadaveri, le tibie, i teschi) mostra a Amleto ciò che prima o poi ogni uomo sarà; questo atteggiamento dissacratore e nel contempo pietoso, la cui genealogia letteraria Céline non esplicita mai, ma che secondo me è appunto legata alla scena di Amleto, è presente in ogni pagina della Trilogia, tanto che ad un certo punto Céline esclama, siamo verso la fine di Rigodon: «oh sì più niente conta, se non la canzonatura e il cimitero» (TdN 849); canzonatura e cimitero potrebbero essere le due parole lungo le quali si muove non solo l’episodio dei becchini, ma l’intera parabola di Amleto, e tra canzonatura e cimitero vive anche Céline della Trilogia in particolare di Rigodon. L’io narrante non rivendica mai per sé il ruolo di protagonista di una tragedia, non sarebbe nelle corde della sua scrittura, ma fa in modo che il lettore comprenda questa vicinanza con il principe danese, ad esempio quando esclama: «dovunque io arrivo, tutto diventa marcio» (TdN 852), a sigillare appunto quella corrisponde con il principe di Danimarca, dove sappiamo c’è del marcio.

15. Oltre a questo dato testuale, non certo marginale, c’è altro mi spinge a guardare all’Amleto come una delle “fonti” nascoste della Trilogia o almeno come uno dei testi con cui Céline dialoga maggiormente. Per farlo vorrei provare a seguire una suggestione legata alle descrizioni delle città in rovina, che troviamo nella Trilogia; ora non è possibile in queste postille soffermarsi su ogni dato testuale legato alla categoria “distruzione”, “rovina”, “bombardamento” etc etc, ma si potrebbe notare come il paesaggio delle città distrutte in Trilogia sia quasi sempre vicino a una idea di “rappresentazione teatrale”, quasi i personaggi si muovessero tra «il teatro e le quinte» (TdN 887). L’impressione più forte del paesaggio come “messa-in-scena” lo abbiamo quando i protagonisti entrano nella città di Berlino: «fra poco non ci saranno più marciapiedi, troppi mucchi, troppo alti, troppo larghi, piramidi… ve l’ho già detto, le facciate che restano, sbolgiano, sventolano, cedono, si scrostano al vento… […] fra poco resterà più niente delle case… altro che rovine e crateri» (TdN 336).

L’immagine che domina qui, quella che ci viene fornita come lettori, è appunto di una quinta teatrale, come se dietro non ci fosse niente, un vuoto totale, lo stesso che Céline ci presenta qualche pagina prima: «niente! Il vuoto… oh, un vuoto di ben sette piani» (TdN 333). Berlino non è più una città, ma semplicemente uno scenario: «ma io conosco lo scenario delle facciate, credo che una strada esiste, esiste più… tutto il suo interno, travi, mattoni, scale, gli spenzola dalle finestre… o si trova a mucchi davanti alle porte… se vedi di lontano, una certa altezza di mattoni, è questo tutto il ricordo dell’edificio…» (TdN 330). Non esistono più edifici, ma ricordi di essi, come se le abitazioni fossero esseri umani morti; e così le squadre impegnate nella raccolta delle macerie portano alla memoria di Céline i beccamorti, così il passaggio dai becchini alla tragedia di Shakespeare è nella logica della narrazione: «…ste squadre di vecchi beccamorti lavorano per l’avvenire! Amleto era poco meno che una matricola… dialettico e viziato avesse attaccato il Castello, demolirlo pietra su pietra… gli avrebbe fatto un bene boia! Avrebbe sgranato meno alas…» (TdN 336).

C’è quindi un rapporto tra le rovine delle città distrutte dai bombardamenti e la tragedia di Shakespeare, un rapporto che potrebbe fare vedere la Trilogia come il romanzo, o la narrazione, che più di ogni altro è riuscita a mostrare le macerie che le due guerre mondiali hanno prodotto. L’Amleto è un’opera enigmatica, che ha come paradosso quello di essere irresistibile e inafferrabile (devo questi due aggettivi alla lettura di In cerca di Amleto di Pietro Biotani, edito da il Mulino), essa sfugge a qualsiasi classificazione e ossessiona tutti coloro che vengono in contatto con quelle parole. Amleto nella Trilogia diventa una figura simbolica, un paradigma, ma di che cosa? Amleto è l’Europa, egli come Chisciotte, come Faust, rappresenta al meglio questa idea, questo luogo geografico, questa categoria dello spirito: se Chisciotte raffigura l’orizzonte che si apre, la grandezza dello spazio e dell’avventura che abbiamo davanti, se Faust è la tentazione della grandezza, Amleto è il demone dell’ironia, dello sguardo sulla rovina delle cose, è il tentativo di comprendere il perché del continuo guastarsi del tempo, della vita, dell’incessante processo di distruzione, è la tentazione di uccidersi o di uccidere; è il segreto inesplicabile del cuore dell’uomo.

Paul Valery aveva intravisto tutto questo nel suo saggio Crisi del pensiero, nel quale immagina un Amleto (il suo, perché ogni scrittore ha il “proprio” Amleto) affacciato da una balconata ampia come l’Europa, mentre contempla migliaia di spettri. Questi spettri sono gli stessi che Céline vede nel suo cammino, uomini, donne, con cui scambia una occhiata furibonda o tenerissima; alcune volte Céline si ferma, placa la sua rabbia, che si tramuta in una tenera rievocazione, in tali frangenti la sua gentilezza è a favore degli animali e dei bambini: «tutto fu distrutto intorno a lei, tutto il quartiere, un’ondata di aerei, la casa in fiamme, lei nella sua culla, niente! Siamo tornati a prenderla per riportala al municipio in perfetto stato… mi domando che ne è stato di lei?» (TdN 880).

L’Amleto di Valery è stanco: «I suoi fantasmi sono tutti gli oggetti delle nostre controversie, i suoi rimorsi tutti i titoli della nostra gloria, è oppresso dal peso delle scoperte, delle conoscenze, incapace di rimettersi a questa attività illimitata»; così come è stanco Céline, la cui stanchezza è quella di chi non riesce più a comprendere il mondo in cui vive (forse sarebbe da leggere sotto questa lente la sua continua invettiva a proposito della minaccia gialla; quindi non tanto come dato razziale, ma come dato culturale di un uomo che ha strumenti vecchi per comprendere un mondo troppo nuovo), così proprio come l’Amleto di Valery anche quello di Céline odia e non comprende appieno la modernità e il progresso. Valery scrive che il mondo «battezza progresso la propria tendenza a una precisione fatale» e «cerca di unire i benefici della vita ai vantaggi della morte». Parole che il Céline delle ultime pagine di Rigodon scrive con più amletica forza e comicità: «come noi qui mettiamo domani, arrivato il missile, da Est da Ovest, o Nord, mi darete notizie… chi che sarà comunistissa o no?… anti?… sarete poltiglia ed è tutto! E puttana di Dio per amore o per forza! A questo l’uomo è giunto, il suo immenso progresso ecumenico, pluriatomico, tutti quanti nell’arena» (TdN 815). Alla fine di tutta questa distruzione, di questo disastro, scrive Valery, «vedremo apparire il miracolo di una società animale, un perfetto e definitivo formicaio», immagine questa che non ci può non rimandare alla dedica “Agli animali”, che apre  Rigodon e che si riverbera anche sugli altri due pannelli del trittico, sulla quale torneremo nelle prossime postille, e sulla immagine della formica: «io poi cronista mi trovo a scegliere, il genere formica». (TdN 707). Questa idea del cronista, dello spettatore che osserva il mondo e lo guarda, mentre le cose accadono, riporta alla mente alcune riflessioni del Benjamin del Dramma Barocco tedesco: «Ad appagarlo (Amleto), però, non può essere lo spettacolo che viene recitato per lui, ma solo e unicamente il suo proprio destino». L’Amleto di Shakespeare non è il protagonista di un dramma, ma è il farsi dramma, è il destino dell’uomo, dell’essere umano, i lutti, gli amori, i dolori, le gioie e la follia, che non sono più esterni, guardati da fuori, ma vissuti: in questo senso la scelta cronachistica di Céline è una scelta teatrale, perché porta sul piano della narrazione l’intenzione di mostrare e raccontare ciò che avviene vivendo; siamo davanti a un enorme e lunghissimo “a parte”, in cui l’autore ci mette a conoscenza di ciò che gli accade realmente nel momento in cui gli accade; è come se Céline avesse portato la trascendenza delle cose – la necessità, il destino, la morte, la vita, la gioia – nella immanenza della vita, come se da piccola formica, tornare all’immagine precedente, volesse comprendere l’immensità della volta celeste. Amleto rappresenta questa frattura conoscitiva, rappresenta, anzi meglio, questa possibilità gnoseologica. In un saggio bellissimo e illuminate, dal titolo Amleto o Ecuba Carl Schimtt scrive: «Don Chisciotte è uno spagnolo buon cattolico; Faust è tedesco e protestante; Amleto sta tra i due, nel mezzo della frattura che ha segnato il destino dell’Europa». Dalla/nella frattura nasce Amleto, tale frattura è quella che geograficamente Céline attraversa durante il percorso raccontato nella Trilogia. Avevamo esordito (vd 14) sostenendo che usare il vettore geografico per parlare dell’influenza che Amleto possiede sulla Trilogia fosse semplicistico, ora – però – dopo questa disanima la traiettoria spaziale che percorrono i personaggi acquista un valore nuovo: il percorso descritto nella Trilogia non rappresenta solo più una direzione, ma uno stato, anzi uno “stato d’essere”; meglio ancora l’Amleto, la sua presenza testuale, è indice di un modo di stare nel mondo, e quindi un modo di etico e politico di esistere. Céline come Amleto si trova nel mezzo della frattura che l’Europa vive, quella frattura nata appunto in Europa verso il 600 e che tra il 1914 e il 1945 è divenuta un abisso, dove «per noi tutto è pericoloso» (TdN 894).