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Céline, Trilogia del Nord, postille 11-13

di Demetrio Paolin

11. Se mi venisse chiesto “la Trilogia del Nord è un romanzo su Hitler?”, la mia risposta sarebbe no.

Per giustificare questa secca risposta, si potrebbe partire da un’altra interessante spia linguistica, segnalata durante la condivisione del nostro gruppo di lettura: nella Trilogia i personaggi si salutano gli uni gli altri con il semplice heil, tralasciando completamente la seconda parte del saluto, Hitler. Questa assenza nella giro della frase, come l’erronea costruzione delle negative (vd 10), non può essere derubricata a semplice riduzione del parlato. L’apparizione di Hitler in una narrazione non è mai neutra: il suo essere evocato in pagina produce un accesso di radicalità; Hitler è il male, è ciò che noi figuriamo come l’idea stessa di male. Prendiamo come esempio la sua nascita: nella poesia Annunciazione di Primo Levi essa è una sorta di contro-natività; non nasce il salvatore del mondo, ma viene annunciata la nascita di colui che distruggerà il mondo.

Hitler è il male idiota, senza senso, il male che non è altro che male; un male di questo tipo può essere preso o terribilmente sul serio (penso a un film come La caduta con la mirabile interpretazione di Bruno Ganz) o oggetto di ironia (il grande dittatore di Chaplin) o, peggio, oggetto di una narrazione parodica consapevole in Lui è tornato di Vermes o inconsapevole in Eric-Emmanuel Schmitt La parte dell’altro (libro che sconsiglio fortemente), sembra insomma che la sua figura se evocata non possa essere lasciata in disparte. Eppure la scelta di Céline, una opzione la sua prettamente narrativa, ha la sua prima spia appunto in una omissione: Hitler lentamente si fa diafano nel racconto. In Nord questa scomparsa è così palese da configurarsi come una ipotesi narrativa affascinante. Hitler nel romanzo muore due volte; già nelle prime pagine di Nord assistiamo alla notizia dell’attentato contro di lui (TdN, 311), le notizie si susseguono senza un ordine e una ragione, la maggior parte dei gerarchi crede che il capo sia morto, o meglio Hitler è morto per loro, e quindi ecco la festa, l’orgia nell’albergo e il sabba – non sfugga l’evocazione della strega ( TdN 313) – che avviene sotto il ritratto del defunto leader capovolto ( TdN 315). Se veramente Hitler è il dio dei tedeschi, questo festino – con tanto di “satanico” capovolgimento dell’immagine sacra – indica alla perfezione la funzione dissacratoria del testo di Céline. Hitler rimane una figura aerea e impalpabile nella scena della cancelleria che abbiamo già letto e commentato (vd 10). In quel caso il dottor Pretorius racconta che «Hitler aveva proprio una bella cera» (TdN 344), perché nel tripudio del “niente” (tre volte esclamato da Céline) il dottore «vede Hitler» (ibidem). Se nella prima apparizione Hitler era morto, qui è un fantasma, figura che nessuno vede, Hitler non c’è, non cammina tra le macerie, non è presente in nessuna pagina del romanzo; se non fosse un paradosso o una sovra-interpretazione potremmo dire che Hitler si annida in quel “non”, in quella negazione che Céline toglie dalla sua sintassi. Notiamo che anche in queste pagine il saluto che Pretorius urla nella piazza che lui immagina colma di gente, ma in realtà è deserta, è monco della seconda parte. Anche negli episodi ambientati presso lo Zornhof, il fantasma di Hitler non viene meno; anzi la sua assenza, la sua presenza nell’assenza, diventa sempre più fondamentale; i suoi messaggi arrivano in un modo nuovo inaspettato: «la minestra tiepida nei piatti, increspava, tremolava [per via dei bombardamenti sempre più vicini], microscopiche onde… una bombardata-squacquerata! […] non solo la minestra, i bicchieri d’acqua anche e il ritratto di Adolf… nella sua cornice dorata… si riceveva più “comunicati” ma dalla finestra e la vetreria ci si poteva ben accorgere un po’ che di giorno in giorno la faccenda si avvicinava» (TdN 493). Notiamo che in questa frase sono presenti entrambe le stravaganze linguistiche che abbiamo segnalato, da un lato non c’è Hitler, ma l’immagine di “Adolf”, e dall’altra l’assenza del “non” quando si parla dei comunicati. Il ritratto diventa, quindi, centrale nel corso della narrazione come fosse il catalizzatore di ogni rappresentazione del potere. Così lo scrittore-  nel momento presente in cui scrive il suo resoconto – si chiede cosa ne abbiano fatto gli abitanti dello Zornhof: «io mi domando dove l’hanno cacciato, dove adesso può essere sto formidabile ritratto di Adolf? I russi sono venuti a Zornhof l’hanno certamente bruciato forse è passata la cornice a Stalin? Idolatrato e bruciato a sua volta! […] ste formidabili cronici tutto oro aspettano sempre un altro Titano! Cornici consacrate» (TdN 501-502). La cornice, essa è consacrata al potere, non l’immagine contenuta.

Questo potere magico del quadro esplode nella tua totalità poche pagine più avanti; durante un pranzo nel momento in cui i bombardamenti diventano più feroci e tramite un ricorso al linguaggio pre-grammaticale Céline mischia agli heil e le detonazioni: « “Non sentite le bombe? Boum! Boum! Heil! Heil!” Viene giù dalla scranna, si mette a far il verso…“Boum! Boum! Heil! Heil!”» (TdN 505).

A pronunciare queste parole è la signora Kretzer, che impazzisce e inizia a delirare e sbraitare; secondo la donna presto ogni cosa esploderà e prima o poi la bomba colpirà tutti: «Vi scoppierà in mezzo alla pancia! Tutti!… anche a lui! Heil! Heil!» (TdN 506). Il lui, a cui fa riferimento la donna, è facilmente identificabile con Hitler e così Céline: «Lui è Adolf nel suo quadro… ce lo mostra… lei sta proprio sotto… sbatte i piedi in terra… un piede, l’altro!… danza!… pam!… pam!… e si sganassa… […] è la sua una risata da serraglio… quasi da iena» (ibidem). Ancora una volta,  Hitler è semplicemente chiamato per nome, quasi a smorzare la sua potenza, e nuovamente la sua immagine è partecipe di un atto di follia, di un nuovo sabba, di un nuovo rovesciamento e di una nuova morte: in Nord Hitler non è mai vivo è o immagine o morto o fantasma: la sua sparizione è una vera e propria estromissione dall’immaginario del romanzo stesso. Ne è un esempio l’SS Kracht che, nelle pagine del romanzo, rappresenta la quintessenza delle SS originale e non la sua parodia, che è identificata in Harras. Tra i vari dettagli che Céline ci premura di descrivere, vengono sottolineati i baffetti, che Kracht sfoggia alla maniera di Hitler. Nel corso del racconto, con il passare dei giorni, con l’avvicinarsi dei russi, con l’aumentare dei bombardamenti anche il corpo di Kracht, come quello di tutti i personaggi, subisce una metamorfosi. Durante un banchetto, Kracht «su rimette a tavola e ribeve… a collo!.. anche gli altri! Si può dire in pieno buon umore!… ah però!… i suoi baffetti “Adolf” se li strappa!… erano incollati… niente veri… teufel! Teufel!… diavolo… tutto quello che sa dire… diavolo! Diavolo!» (TdN 518). Questo brano è fondamentale, l’SS ha i baffi posticci, così come è posticcia l’immagine di Hitler nei quadri, e la rivelazione avviene nuovamente davanti a una sorta di sarabanda infernale, di sabba nel quale non difetta neppure l’evocazione del “diavolo”. È sufficiente ricordare il quadro di Hitler al contrario che avevano incontrato all’inizio di Nord e questa immagine per comprendere la sapienza narrativa, di costruzione del racconto, in Céline. La Trilogia non è un romanzo su Hitler, perché non è ciò che a Céline interessa: Hitler è un paio di baffi posticci, una serie di dipinti che presto saranno dimenticati. Eppure Céline ci dice che sta vivendo in luogo infernale: «sta Zornhof è un buco d’inferno» (TdN 519). Può esistere un inferno senza demonio, e in subordine può esistere un romanzo senza il malvagio?

Senza cadere nella teologia e nella narratologia, possiamo formulare diversamente la domanda, unendo le due istanze: quale è la funzione di Hitler in Nord? Possiamo farci guidare dalla una suggestione legata ai banchetti, alle feste, e ai sabba per sostenere che infine Hitler è “il più inquietante degli ospiti”; in una parola egli rappresenta il nichilismo, ovverosia la svalutazione di ogni valore, di ogni idea, di ogni sentimento. L’assenza di Hitler è qualcosa di più profondo, non è codardia per non mostrarsi collaborazionisti, ma è una presa d’atto che pur negando la presenza di Hitler è impossibile metterlo alla porta, così come è impossibile mettere alla porta il nichilismo (Heiddeger). La scomparsa di Hitler è guardare a ciò che è accaduto nella seconda guerra mondiale, con più profondità, è vedere l’assurdo, il niente che si nasconde dietro, grattare via quel poco di realtà che la guerra ha lasciato integra e vedere che ciò per cui si sta combattendo è destinato all’insignificanza. Hitler è un vuoto, è la quinta del teatro che crolla, mostrando che non esiste profondità, tutto si muove sulla superficie, persone, cose, azioni, storie, delitti, bellezze e meschinità e dolcezze, tutto è come se fosse una schiuma, un vapore o una bolla che fragilmente resiste.

C’è, quindi, infine un legame tra la sparizione di Hitler dal saluto dei vari protagonisti, il giro di frasi che descrivono i suoi quadri e il “non” che cade nella frasi negative? La risposta è affermativa: sta appunto nel trionfo del nichilismo, e per corroborare questa mia tesi,  vorrei provare ad allargare il discorso ponendo la Trilogia del Nord  accanto ad alcune pubblicazioni, che hanno come nodo centrale la Seconda Guerra Mondiale. Scelgo, e so che la scelta scopre in parte la mia ipotesi critica, di citare alcuni titoli di libri usciti tra 1945-1947 in Europa, eccoli: Se questo è un uomo, La specie umana, Uomini e no, La lettera sull’umanismo, L’esistenzialismo è un umanismo. Levi, Alteme, Vittorini, Heiddeger, Sartre mettono al centro della loro riflessione – sin da titolo –  l’uomo, l’umano, l’umanità dopo il grande disastro della seconda guerra mondiale; c’è in loro – in maniera differente è ovvio, Sarte e Heiddeger, non stanno sullo stesso versante quantomeno filosofico – una preoccupazione su ciò che sarà l’uomo ora che tutto è finito. Céline non è partecipe di questa preoccupazione, non sceglie questo tropo letterario, non si chiede “Che cosa sarà l’uomo?”, ma si domanda “Che cosa non è più uomo?”. Per rispondere a questa domanda Céline sceglie la strada più complessa, invece di addossare ogni tipo di “negatività” a Hitler, alla sua rappresentazione, lo toglie dalla narrazione, così facendo ci costringe a fare i conti con noi stessi, situa ognuno di noi in quel cono d’ombra di male. Ricordiamoci la domanda con cui il narratore conclude l’episodio delle fotografie, nella quale si chiede “Ma quando siamo diventati mostri?”. La mostruosità, quindi, è il “non” che tolto dalla sintassi rientra prepotentemente nella descrizione, è lo stravolgimento. L’intuizione céliniana è interessante, perché anticipa la data della bancarotta dell’umano. Per molti, ad esempio per gli scrittori di cui abbiamo citato i titoli, le date individuate per questo fenomeno sono 1939/1945: in quel lasso di tempo l’uomo perde il suo essere uomo e da questa condizione nasce la necessità di ripensarlo; Céline in Trilogia torna spesso su di un’altra data: «La ragione è morta nel ‘14, nel novembre ‘14… dopo è finito tutto, tutto scazza» (TdN 443). Quello choc percettivo che avevamo individuato come una delle caratteristiche della sintassi di Céline è segnale più profondo: è la Prima Guerra mondiale che distrugge l’uomo, che fa a pezzi l’uomo ottocentesco, che quello che ancora Céline si sente di essere ed è quello di cui i libri prima citati celebrano il funerale. È una rottura diversa, precedente a Hitler, che lo tiene dentro, ma non lo assolutizza, che permette paradossalmente di toglierlo di mezzo senza per questo rendere meno radicale il male subito e raccontato. C’è una apparizione, infine, in cui si coagulano tutte queste tensioni, pagine che mettono in scena questa tensione grottesca (vd 13 ): la descrizione del vecchio conte che decide di indossare la sua alta uniforme, di farsi sellare il suo cavallo e di andare a Berlino per combattere i russi.

11.1 In Nord Nietzsche torna con una citazione: «Tutto finirà con la canaglia», la frase rimanda a un capitolo di Così parlò Zarathustra. La citazione nicciana, che è immediatamente successiva alla duplice scena dei banchetti: sia quello della donna che impazzisce e profetizza la morte di Hitler e sia quella dell’SS con i baffetti posticci, può far supporre che “la canaglia” sia Hitler, e che il discorso di Céline sia ancora più sorprendente di quanto immaginiamo: Céline utilizza Nietzsche, che a sua volta era stato stravolto dal nazismo, per sostenere che ogni cosa, la guerra, i bombardamenti etc etc, finirà con la morte della canaglia.

Questa può essere una possibile interpretazione, ma la frase potrebbe essere letta anche in un altro modo; non sarebbe erroneo pensare che “tutto finirà con la canaglia” possa significare che infine ciò che rimane, ciò che resta alla fine di tutto, è la canaglia. Lavorando su entrambe le ipotesi, mi imbatto nella possibilità di tradurre la parola canaglia diversamente, ad esempio Anna Maria Carpi la traduce con “plebaglia”, quindi – nel cercare di capire qualcosa in più – leggo alcuni saggi in cui si parla della ricezione di Nietzsche in Francia fino al 1914 (nuovamente questa data) e mi sottolineo una riflessione che mette in evidenza come “canaglia” fosse sentita, da una parte dagli intellettuali francesi, come una immagine che rappresentava “la desolante classe media” (Vincenza Petyx, Il viaggio di Nietzsche in Francia). La canaglia della Trilogia, quindi, potrebbe essere la borghesia, quella rabbiosa repressa del dopo prima guerra mondiale, la quale vive su di sé la disvalutazione dei valori, il nulla, il niente, diventando uno dei terreni di coltura del nascente nazismo.

Il Céline anti-borghese, critico della modernità, il profeta di sventura, ritorna qui prepotente, ma la frase è, comunque, ambigua. Potremmo provare a costruirne una sintesi: se Hitler è la canaglia in cui tutto finisce, e se Hitler è la raffigurazione del nichilismo (vd. 11), in cui ognuno di noi si specchia – “come siamo diventati mostri?” -, la frase potrebbe spingere a chiederci quanto di Hitler ci sia in ognuno di noi? Quanto di quel  sostrato culturale, antropologico, storico, filosofico si annida nei nostri cuori? Quanto della nostra formalità, del nostro decoro, del nostro ben pensare ha a che fare in realtà con la “canaglia”?

Ancora una volta il romanzo porta al centro il discorso identitario, comprendere cosa noi siamo, chiederci la nostra identità: ogni romanzo è una storia di fantasmi e attraverso i quali noi guardiamo noi stessi, scopriamo qualcosa di noi che avremmo voluto sinceramente non vedere. Tale svelamento è tremendo in Céline, perché utilizza uno specchio, che produce una immagine che nessuno sostiene: è uno specchio che all’altezza dei nostro viso ha disegnate due lineette nere, due baffetti, e che ci mostra come ognuno di noi possa essere Hitler, come ognuno di noi sia canaglia.

12. La postilla su Nietzsche e la citazione mi porta a fare una brevissima riflessione sulla inter-testualità in Céline, come ogni romanzo, anche la Trilogia vive di una duplice tensione inter-testuale, interna verso le proprie opere (molti sono i riferimenti di Céline alle sua opere precedenti) e esterna. Quest’ultima mi pare interessante, perché Céline non ragiona per citazioni, che siano essere letterali o parodistiche, ma spesso mostra dei “rimasugli” come ad esempio nella citazione dallo Zarathustra, dove ad esempio appena una parola di quel testo è transitata nel romanzo, ma con effetti detonanti per l’intera rappresentazione. Ho l’impressione che lavorare sulla inter-testualità nella Trilogia sia simile al lavoro che fanno i vecchi e i bambini nella Berlino, che i tre personaggi del romanzo si trovano ad attraversare: Céline descrive delle persone alle prese con una attività sfiancante e particolare ovvero fare delle piccole montagnole di macerie in corrispondenza della casa, villa, negozio, palazzo che fu, prima che il bombardamento sventrasse tutto.

Qualcosa del genere accade durante la lettura della Trilogia: abbiamo visto e vederemo più avanti, come moltissimi siano gli autori citati, moltissimi libri che hanno interferito con la narrazione dell’opera di Céline: penso a Cervantes, penso alle opere di Hugo, penso all’Amleto o a certi passaggi di De Sade, ma nessuno di questi è citato in maniera aperta o facile, ma per allusioni, per pezzi, per macerie, come se non solo il mondo, ma anche il romanzo fosse andato in frantumi. Tocca, quindi,  a chi legge o al critico che ci ragiona fare i mucchietti e  scoprirne il senso, posto che ci sia.

13. La scena del cavaliere domina alcune pagine di Nord (558-562), sono pagine bellissime, piene di ambiguità e di grandezza. L’uomo ha ottanta anni, viene descritto nella sua vecchiaia con le sue debolezze e perversioni, è figura di un tempo lontanissimo e perduto, un uomo che ha smemorato come la ragione sia morta nel 1914, questi è ancora tutto dentro un modo di intendere la vita prettamente pre-moderno. Céline ce lo rappresenta come un cavaliere errante, una sorta di Don Chisciotte fuori tempo massimo (vd. 9). L’atteggiamento dello scrittore rispetto a questo uomo è ambiguo. Da un lato ne riconosce una certa grandezza nei discorsi che l’uomo fa, così simili per ardore, per incoerenza temporale a quelli che appunto Chisciotte fa a Sancio prima di lanciarsi nelle sue avventure: «Voi mi capite sorella! Vi abbraccio!… e in sella!… stasera, cadaveri! Ancora cadaveri, guardate il quadrante!… la chiesa!… teste!… teste!… ne vedrete passare! Tartari l’avete voluto!» (TdN 560). Dall’altro noi sappiamo che Céline pur conoscendo il Chisciotte (vd 8, 9 ) non vuole riscriverlo, perché se avesse voluto avrebbe immaginato, per queste pagine, una “spalla” per riportare l’uomo alla ragione, o quantomeno per fargli notare una certa discrasia tra la vita reale e la sua immaginazione. La sorella invece non contraddice il fratello: «Certo fratello, guarderò tutto» (ibidem).

Questo atteggiamento modifica il modo con cui guardiamo la scena, che diventa più che una parodia, una farsa, più che una rievocazione malinconia, una scena da teatro. Il vecchio viene descritto con grande solennità: «Ecco il Rittemeister, tutto equipaggiato, speroni, spalline, alamari, croce di ferro… ed elmo!.. si palpeggia se ha tutto… sì, gli manca niente!.. e le staffe!… le porta corte… e se ha abbastanza avena?… sì, due sacchette!… e lo zaino di tela!, bene!» (TdN 561). Un servo si avvicina per aiutarlo a salire, ma lui da solo «senza aiuto… una mano al pomo e hop!» (ibidem). Sembra di vedere Chisciotte che parte in una delle sue missioni (viene anche accompagnato nel suo viaggio da una sassaiola, che avviene anche nel romanzo di Cervantes) ma Céline fa un’aggiunta, minima, nuova, che modifica tutto e mostra il totale diaframma di finzione che sta nella scena: «Adesso va bene, tutto a posto!… “si gira!”…» (ibidem).

Una osservazione che modifica tutto, siamo al cinema, siamo nella pellicola di un film, il vecchio è una immagine di una immagine che fu, la sua grandezza tragica, quella che il Rittemeister avverte su di sé, è in realtà un vuoto: è una scena girata, una falsità. Tanto del suo viaggio che ha qualcosa di luciferino, muovendosi tra nuvole “nere e gialle, zolfo” non sapremo niente se lui sia veramente andato o se fosse una finta, o se fosse una pazzia a cui qualcuno ha posto fine: «nessuno ci domanda.. questo… quello… se il vecchio è veramente partito?… non una parola!… né al mahlzeit, la sera.. né più tardi.. niente…» (TdN 562). Quel “niente” che chiude il racconto e il paragrafo avvolge il cavaliere e il suo destriero, che cosa raffigura questo episodio nell’economia di Nord e della Trilogia?

Ho immaginato che fosse lo spirito del tempo, di quel tempo che non c’è più, leggendo queste pagine ho ripensato alla descrizione di Napoleone, fatta da Hegel, quando nel vederlo camminare tra la gente gli era sembrato di veder passare lo Spirito del tempo. In questo episodio c’è qualcosa di simile, lo Spirito del tempo, dell’uomo, di ciò che è stato prima del 1914 sparisce, è ingoiato nel niente che chiude ogni cosa. Ci fu un tempo in cui esistevano certe idee, certi concetti, certe idealità che poi sono state fatte a pezzi: prima sono diventate degne di una farsa,poi di un film comico, che infine spariscono nel nulla senza che nessuno domandi o chieda ragione.13.1 L’immagine del cavaliere che corre verso il niente richiama un altro episodio della Trilogia (TdN 409-412), in queste pagine abbiamo Harras che affida a Céline un lavoro letterario per «far chiaramente  conoscere […] la lunga collaborazione dei nostri due paesi in tutti i campi, filosofico, letterario, scientifico, e medico! Medico!» (TdN 410), e Harras indica un baule pieno di libri e di fogli: «troverà tutto questo qui!… in queste carte!» (ibidem).  Harras descrive il piano dell’opera a Céline e mentre parla, gli mostra l’incisione di Durer, quella raffigurante i Quattro cavalieri.  Harras, però, fa notare a Céline una cosa è accaduto qualcosa in questa incisione, una novità che non possiamo ignorare: «La Peste è divenuta piccola piccola… la Fame pure… piccola piccola!… la Morte, la Guerra, assolutamente enormi!… più le proporzioni di Durer!… è cambiato tutto!» (TdN 411). Harras è convinto che un tempo le guerre finissero perché le malattie, le epidemie e le carestie, ma soprattutto che fosse Peste a dominare su tutto, oggi non è più così: «le epidemie non attaccano più… né in Mongolia né nelle Indie!.. questa guerra ai tempi di Durer sarebbe finita dopo due anni!… questa può non finire mai!…[…] due cavalieri al posto di quattro! Miseria!» (ibidem). Il mondo di un tempo, il mondo che i quattro cavalieri rappresentavano e spaventavano è finito per sempre, forse il vecchio riassume su di sé l’immagine di Durer e nel suo allontanarsi incastonato da rovine e nubi gialle e puzza di zolfo si intravede la fine del mondo, la rivelazione dei misteri ultimi delle cose, de «la sua Apocalisse, puttana eva, cazzo!» ( TdN 412)

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JJ & Me

di Ramona Lacorte

Il 17 giugno 2022 ho trascorso il mio compleanno a Trieste, dove si celebrava il centenario dalla prima edizione integrale dell’Ulysses di James Joyce. Ho deciso di regalarmi i biglietti per assistere alla lectio di Mauro Covacich, costringendo il mio fidanzato ad accompagnarmi, spacciandolo per l’evento dell’anno, e accusando di scarso gusto i trentamila barbari diretti a Lignano Sabbiadoro per il concerto dei Maneskin.

Covacich, nato e cresciuto a Trieste, ha aperto il suo monologo raccontando di quando, giovane studente, trascorreva interi pomeriggi con i suoi colleghi a vagare per i vicoli della città, sulle tracce di Joyce. Quasi sempre quei pomeriggi terminavano davanti ad una birra, a parlare di letteratura, e a porsi i due grandi interrogativi che ogni aspirante scrittore si è posto almeno una volta: “Si può vivere di scrittura?” e “Ma tu, lo hai letto l’Ulisse?”

Ho sorriso commossa dietro la mia ffp2.

Ero stata appena annoverata da Covacich tra gli aspiranti scrittori..

No, penso che non si possa vivere di sola scrittura, e Si, io l’ho letto l’Ulisse. “Fa paura a tutti leggere l’Ulisse”. Sarà, ma ho avuto la fortuna di essere guidata nell’impresa da un Maestro, che un giorno ha chiesto se qualcuno avesse voglia di leggerlo o rileggerlo con lui. Siamo così partiti per quella che è stata ribattezzata l’Ulisseide. Demetrio Paolin ha formato un gruppo di perfetti sconosciuti che ogni settimana si incontrava per fare cose del tipo passare dieci giorni a interpretare correttamente l’espressione “No one is anything”.

 Ma si sa, “Nessun libro, eccetto la bibbia, riesce a trasformare un gruppo si estranei in una comunità come fa l’Ulisse di Joyce”.

Ho letto metà del libro pensando che JJ fosse una persona estremamente scaltra, di quelle intelligenze pericolose, da cui mettersi al riparo e che avesse scritto tutte quelle parole solo per ubriacarci e burlarsi di noi. Mentre il gruppo provava a trovare un senso, io continuavo a sostenere che fosse tutta una farsa e che il senso di ogni parola era attribuito dal lettore a di volta in volta, per questo non si smetteva mai di litigare. Poi ho abbandonato le resistenze e come ha detto qualcuno “ho capito che dovevo coinvolgermi in simili azzardi e accettare il disordine delle parole come le mescolanze e variabilità delle fantasie”.  JJ crea una stralingua in cui non è importante capire, ciò che conta è sentire la musicalità (d’altra parte si scrive con le orecchie) e “L’Ulisse non si legge, si esegue”.

L’abbandono definitivo è arrivato con il capitolo Circe. Alla diffidenza è subentrata la rassegnazione: JJ è totalmente matto,  un matto che ha usato con maestria il caos che regnava nella sua mente. “Prendo appunti su pezzi sparsi di carta che poi dimentico nei luoghi più improbabili, in libri, sotto soprammobili, nelle mie stesse tasche, sul retro di volantini pubblicitari”.

 Tutto quel frastuono che mi ha distrutto il sistema nervoso e costretto a prolungate pause dalla lettura, la violenza, la volgarità, le immagini deliranti di quella dimensione onirica esplodono nella figura angelica di un bambino di undici anni che “avanza silenzioso leggendo da destra a sinistra impercettibilmente, sorridendo, baciando la pagina”.

Le centinaia di note, la difficoltà di reggere alcuni capitoli in cui Joyce letteralmente sovverte lo  stereotipo di letteratura creando un genere (il suo), si susseguono sino al capitolo diciassette.

 “La giornata descritta nel romanzo è stata un fallimento per tutti, dal principio alla fine. Tutti i rapporti nel libro sono o superficiali o sfortunati”, “L’Ulisse parla di un passato disperato, di un presente ridicolo e di un futuro patetico”.

Il capitolo diciassette termina con un punto. Molto grande, in neretto, posto al di sotto del testo.

A questo segue il capitolo diciotto, il celebre monologo di Molly, la moglie di Leopold Bloom, con cui termina il romanzo.

Nell’ultimo disperato tentativo di ribellarmi a quel congegno diabolico e perfetto ho commentato: “ è  sicuramente un errore di stampa!”.

 No, sembrerebbe voluto, e che lo desiderasse ad ogni ristampa sempre più grande.

Abbiamo ragionato circa una settimana anche su questo.

“Qualcuno sostiene che rappresenti Le Colonne D’ercole”.

“NIENTEMENO!!!”, ho pensato mentre lavavo i denti, guardando la registrazione di un incontro perso.

Eppure, eppure quello sarebbe il punto esatto in cui finisce la terra e inizia l’ignoto. Il mare più impetuoso, indica il limite oltrepassato il quale non era più possibile fare ritorno.  Ho immaginato che JJ volesse dirci che in quel punto esatto finisse la terra ferma. Il Plus Ultra. Quello che è dato sapere a noi marinari. Quello che è dato sapere a Bloom. E questa idea romantica si è rafforzata in me  guardando il testo in lingua originale del Molly’s monologue. Si dice che non ci sia punteggiatura, ma come ci ha insegnato Demetrio due cose sappiamo con certezza sull’Ulisse: la prima è che la narrazione non si svolge in un solo giorno bensì in due, il 16 giugno (data in cui JJ conobbe sua moglie Nora) e il 17 giugno (per la precisione il venerdì nel quale, con Saturno in opposizione, venne al mondo la sottoscritta), la seconda è che nell’ ultimo capitolo a discapito delle dicerie esiste la punteggiatura, troviamo ben due punti.

Ho immaginato così l’ultimo colpo di genio di JJ, aggrappandomi a quei due punti dimenticati (?).

Il monologo nasce con la sua punteggiatura, è chiaramente presente, l’occhio non la vede ma l’orecchio interno la sente. Poi un giorno JJ  ha deciso di “rendere il concetto” levando tutti i segni di interpunzione dal capitolo finale. Non come gesto fine a se stesso, non per ribadire che lui era il più figo e rivoluzionario di tutti. (Niente è casuale nell’Ulisse). Io sono qui oggi, per giurarvi, che nel GUARDARE una pagina del flusso di coscienza di Molly e l’Atlantico, non noto differenza alcuna.

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Postille alla Trilogia del nord di Louis-Ferdinad Céline (8-10)

di Demetrio Paolin

8. Ritorno sulle postille 3 e 3.1 e la sostituzione del verbo “scrivere” con il verbo “parlare”. Proseguendo la lettura di TdN (ora sono a pagina 450 e sto leggendo Nord) posso provare a fare una riflessione più ampia rispetto a una presenza letteraria, che mi pareva inizialmente estravagante, ma che ora si è fatta più distinta e chiara.

– Ci trovi la sua vena comica, Céline!… scriva dunque come parla! Che capolavoro!

– Sono più in condizione, andiamo!… mi casca la penna!

– Ma no Cèline!… lei è in gran forma, invece!… l’età più bella!… Cervantes! …le insegno niente!

– No, Gertrut! Lei m’insegna niente!… la stessa età di Achille!… 81 anni… Don Chisciotte!

Il trucco di tutti gli editori per spronare i loro ronzini… che Cervantes era uno sbarbatello!… 81 primavere!

– È più mutilato di lei!… Céline (TdN 35)

La prima notazione è legata alla tensione tra scrivere e parlare; l’interlocutore invita Céline a scrivere come parla; certificando in parte quello che avevamo già sostenuto e che l’autore aveva ben chiarito nell’incipit della Trilogia. Non è questo l’unico passaggio di poetica centrale in questo brano, che, appunto, indica nella vena comica il centro di TdN e istituisce un parallelo tra Céline e Cervantes, una vicinanza che potrebbe essere anche biografica, se pensiamo che entrambi vissero l’esperienza del carcere e della guerra. Il Chisciotte lo sappiamo bene è un romanzo che nasce in catene, a smentire clamorosamente dell’asserzione di Marino sulle Muse che non amano le prigioni. La musa di Cervantes e quella di Céline, invece, si nutrono di quella profonda umiliazione. La comicità céliniana, che qui in parte iniziamo ad affrontare (queste postille solo un lavoro di aggregazione, di cumulo), è come quella di Cervantes, figlia di una profonda vergogna, di un profondo sentimento di perdita di sé: il nodo comico del Chisciotte e, io penso anche, di TdN sta tutto nel sentire che qualcosa si è scomposto, rotto, e non può essere in nessun modo riannodato; si sbaglierebbe a vedere nella comicità di Céline una tensione semplicemente al basso e al crasso, una comicità da buccia di banana. Meglio anche tale comicità e presente in TdN, così come tale esito del comico è presente nel Chisciotte. Molte volte, infatti, l’hidalgo cade e finisce con il cavallo “culo all’aria”, ma ad ogni “scivolata sulla buccia”,  Cervantes fa seguire narrativamente con un altro e più complesso movimento, che mostri come il racconto delle avventure di Chisciotte sia ben più ambiguo. Prendete l’episodio dei mulini a vento, il quale ad esempio non si conclude con il cavaliere disarcionato, ma con l’asserzione dell’hidalgo che certamente quelli ora sono mulini a vento, solo perché il mago –  nemico giurato di Chisciotte – li ha trasformati con un incantesimo. Così, leggendo, con maggiore attenzione il racconto, comprendiamo come Chisciotte sia perfettamente cosciente della concreta realtà (dei mulini a vento), ma la sua consapevolezza è diversa da quella che noi ci aspettiamo, e lui riesce a raggiungerla tramite un cammino di umiliazione, che è il principio stesso della comicità.

Il comico, quindi, a cui il dialogo prima riportato si riferisce, assume la connotazione di una particolare rifrazione della realtà, è uno sguardo, è il modo con cui osserviamo. Potremmo definirlo come un fatto di prospettiva, di punto di vista. Se è vero che il romanzo nasce, almeno così come Kundera sostiene nel suo l’Arte del romanzo, con l’allargarsi di un orizzonte in cui il personaggio si avventura, un ampio orizzonte in cui può guardare e vivere tutto, il comico, presente in Cervantes e in TdN, è un “impaesarsi”, un abitare il paese, nell’immaginario del personaggio. Tale evidenza chiarisce meglio la logica compositiva delle prime cento pagine della TdN, in cui Céline “costringe” il lettore ad assumere su di sé il panorama della vita del protagonista, le sue ubbie, i suoi dubbi, le sue colpe, mancanze. L’effetto del comico è, perciò, un mezzo attraverso cui il lettore può trovare il suo posto nell’orizzonte “fittizio” del reale di cui ogni romanzo, compreso TdN, è esplorazione.

Basterebbe già questo ad ascrivere TdN hai grandi romanzi “anatomici”, come lo possono essere appunto il Chisciotte, Tristram Shandy o l’Ulisse, romanzi in cui si descrive non tanto un mondo in pezzi, ma il farsi a pezzi del mondo, lo sfilacciarsi del rapporto con il reale; in realtà ci sono ben altre tensioni tra TdN e Chisciotte, proprio perché il passaggio da cui siamo partiti esprime, se vogliamo con una elegante antifrasi, una idea di poetica.  In TdN il Chisciotte ritorna nel leggere un dialogo tra Laval, Céline e Bichelonne. Il primo a parlare è Laval

– Sì!… questo d’accordo! Ma lei come lei? …comunque, ha pure un piccolo desiderio? […]

– Lei potrebbe forse, signor Presidente, farmi nominare Governatore delle Isole di Saint-Pierre e Miquelon?

[…]

– Promesso! Concesso! D’accordo! Lei prenderà nota, vero, Bichelonne? […]

– Certamente, signor Presidente!

– Ma chi le ha dato l’idea, dottore?

– Oh così, signor presidente! Le bellezze di Saint-Pierre e Miquelon (TdN, 240)

Sembra una delle tante spacconate di Céline, una delle tante uscite enfatiche di questo io che straborda da ogni parte, eppure in realtà Céline cita il Chisciotte, o quanto meno ricorda piuttosto nitidamente il capitolo VII del Chisciotte nel quale Don Chisciotte promette a Sancio di nominarlo governatore di qualche isola, anzi lo invita a non sperare niente di meno. Alla luce di questo il dialogo possiamo fare alcune riflessioni riguardanti l’io narrante di TdN. 

L’equazione pare semplice, Céline (io narrante): governatore dell’isola = Sancio : governatore dell’isola, quindi Céline (io narrante) = Sancio. TdN è un romanzo particolare, lo sentiamo durante la lettura, procede sghembo come il suo narratore, che non a caso ha bisogno di bastoni per sostenersi. La Trilogia sceglie come punto di vista non il protagonista, ma la spalla, il personaggio “minore”, questo narrativamente produce un cambio, un diverso modo di muoversi, e da questa postura nascono una serie di domande: è possibile che il narratore sia Sancio? O, meglio, che abbia la funzione che ha Sancio nel Chisciotte, senza tra l’altro il bilanciamento nella presenza del cavaliere? E, infine,  quale sarebbe la funzione di Sancio nel Chisciotte? Per rispondere a queste domande si dovrebbe iniziare sostenendo che Sancio rappresenta il buon senso comune, quindi è colui che radica Don Chisciotte nel presente e che gli ricorda sempre come ciò che lui crede di vedere non sua vero. Eppure Sancio, infine, è sempre vicino al cavaliere della triste figura, non lo abbandona mai, fino alla fine della sua esistenza. Perché Sancio è così vicino a Chisciotte, perché gli crede quando gli promette la sua isola, perché lo segue? 

La risposta ai nostri interrogativi possiamo trovarla in Kafka e nel suo apologo La verità su Sancio Panza. In questo breve racconto Kafka sostiene che Sancio abbia ingannato il suo diavolo, il suo demone, facendogli leggere un mucchio di romanzi cavallereschi. Il diavolo che avrebbe dovuto avere ragione su Sancio «inscenò, scrive Kafka, le imprese più folli» che «non danneggiarono nessuno».  Per questo motivo Sancio «uomo libero, forse mosso da un certo senso di responsabilità, seguì l’imperturbabile destino di Don Chisciotte». In questa fatalità in questo seguire il demone che ha lui stesso creato c’è qualcosa di coincidente all’io narrante della TdN, al suo protagonista, che paradossalmente è causa, destino e scioglimento della sua storia. Céline come Sancio cammina tra i demoni, alcuni che ha suscitato e altri che ha conosciuto, e il suo compito e dialogare con loro, mostrarne la follia. 

Prendiamo un passo da Nord che in un certo senso segna l’apice di questa ricognizione su una possibile vicinanza tra Céline e Cervantes. Siamo a Berlino, la città è una serie di ordinatissime macerie (anche su questo ci torneremo in una delle future postille), e affacciandosi da uno finestra dello Zenit, l’albergo inquietante, dove hanno trovato alloggio, Céline, Lily, Lavigan e Bebert vedono uno strano balcone fiorito, una visione aerea di leggerezza: «La casa di fronte, come sospeso tra i pilastri dell’edificio… ad amaca… i piani sopra e sotto non esistono più… spazzati via!… per di più sti piano fa vetrina… vetrina di fioraio… fioraio, negozio pensile… rose, ortensie clematidi, sospeso tra i pilastri ad amaca… più niente esiste di sta casa se non questo aereo ammezzato» (TdN 340). Questa visione, quasi fiabesca, leggera, colorata (i nomi dei fiori ci portano alla mente i loro colori che si oppongono al grigio delle macerie), accende in tutti il desiderio di vedere quel balcone – non è questo in motore dell’avventura donchisciottesca? La visione di qualcosa che stride con la realtà che lo circonda? È più strano vedere dei giganti nell’assolata pianura della Mancia o una visione floreale paradisiaca nell’inferno di una città distrutta della guerra? La compagnia parte in avanscoperta e scopre come il negozio in realtà non sia altro che l’ufficio di un avvocato (non giganti ma mulini). La scena, però, non si conclude, e ha il suo vero culmine poche pagine dopo. Ecco che veniamo a fare la conoscenza di Pretorius, l’avvocato, personaggio strano, ambiguo, forse una spia o – peggio – in combutta con Ivan, che in realtà si chiama Petrov (notate come nessuno in questo spezzone di romanzo ha una ferma e precisa identità, vd. 9), per racimolare in qualche modo carne di dubbia provenienza, come quella che viene data a Bebert. 

Questo avvocato porta Céline e gli altri alla piazza della Cancelleria (TdN 343-344). La Berlino di Céline è una città spettrale, e l’aggettivo è da intendersi in senso letterale ovvero siamo di fronte a una città abitata da fantasmi. E infatti in una piazza completamente vuota – «siamo solo noi nella piazzetta» – Pretorius vede Hitler e lo vede sfilare con ali di folla intorno, ma in realtà non c’è nessuno. A fare da contraltare alle farneticazioni di Pretorius è appunto Céline/Sancio che oppone sua la sua visione concreta. Il protagonista continua a dire «vediamo niente, si sente niente noi», mentre l’uomo grida «heil!». Pretorius si tira sulle punte per vedere meglio, tanto che Céline sbotta: «c’è niente… niente, posso dire: niente!… ci prende per il culo! […] tutte le botteghe attorno chiuse… lui vede l’Hitler». Quando tutto è finito, Petroius continua a parlare con Céline e gli altri come se la sua visione fosse reale che «Hitler aveva proprio una buona cera… che la folla era così felice». Di fronte a questa lucida follia la scelta degli accompagnatori è di assecondarlo quasi fossero tutti Sanco Panza – «noi ben volentieri diciamo come lui».

Forse la TdN è la possibilità di scrivere il Chisciotte dopo la seconda guerra mondiale, sono gli stralci del lavoro che ha tentato di fare Pierre Menard, ma che non c’è riuscito. Nel racconto di Borges, dove assistiamo al tentativo di immaginare l’immaginaria vita di un immaginario scrittore che immagina di poter scrivere nuovamente il Chisciotte, parola per parola, simile all’originale eppur diverso, compare infine anche Céline insieme a Joyce, entrambi eletti a nuovi autori di quel libro memorabile che l’Imitazione di Cristo. Forse nell’intuizione di Borges c’è il riconoscimento della natura donchisciottesca della TdN, un’opera in cui assistiamo alla rottura nevrotica dell’uomo rispetto alla realtà: nella riscrittura moderna, così come aveva compreso Kafka, la nevrosi moderna fa a meno di Don Chisciotte, del demone solitario, che in queste pagine viene sostituito da una congerie di folli, di saltimbanchi, e pazzi. La Trilogia è, quindi, una dichiarazione d’amore (vd. 6) e di resa nei confronti del romanzo ottocentesco: la letteratura non è più per i protagonisti, ma è ormai sulle spalle dei comprimari, di quelli che s’arrangiano, che tentano di sopravvivere, che sanno la bugia, la smascherano, ma rimangono al loro posto, di coloro i quali hanno nutrito i loro stessi demoni, e li hanno portati ad impazzire e ora “con grande e utile diletto e fino alle fine” (Kafka) li seguono nelle loro scorrerie.

9. A un certo punto di Nord Harras, l’alto funzionario delle SS, dove i fuggiaschi hanno trovato riparo, chiede a Céline i documenti per poter fare le fotocopie necessarie i loro lascia passare. Céline non si separa mai dai suoi documenti perché appunto essi rappresentano ciò che lui è, sono la prova che lui è ciò che dice di essere. A questo punto nel racconto come spesso accade in TdN, fa una sorta di prolessi apocalittica e dal 1944 arriva direttamente al momento in cui lui nel suo presente sta scrivendo e da questo suo tempo presente si immagina ciò che sarà in un probabile futuro

da dove vi scrivo, qui dal mio locale, Bellevue, in prospettiva, vedo almeno centomila case, un milone di finestre… quanti là dentro, ipocriti, ci hanno carte non loro?… sono altri da quel che pare? … che hanno assunto altre vite, altri luoghi di nascita? … che moriranno con un altro nome? Metti ancora quattro, cinque disfatte, e una veramente bella, atomica, tutti si saran fregati le carte, nessuno saprà più se stesso ( TdN 385)

Il tema dell’identità diventa centrale con l’arrivo a Berlino, come se questa città che non ha più profondità, ma solo superficie, produca nei protagonisti una crisi dell’Io, una possibile e probabile, forse anche in parte pirandelliana (Céline lo conosceva come autore di teatro, e Berlino pare un immane palcoscenico ), crasi da personaggio, persona e maschera. Non è un caso che uno dei motori narrativi di questa parte del romanzo siano appunto le fotografie. Céline, Lili e Le Vigan devono rifarsi le foto perché quelle che hanno non corrispondo più alle facce che hanno, la guerra, le privazioni li ha così cambiati che nessuno di loro assomiglia più a se stesso. 

– Harras, caro collega! Un secondo! Permette!… vuole guardare le nostre foto?

Gliele passo…

– Lei ci riconosce?

Lui le guarda… ci guarda…

– Evidente che no!… io, be’ vi riconosco… ma uno straniero, specie un “polizei” farebbe fatica. ( TdN 363)

Le foto non rimandano ai visi che la persona ha davanti a sé, ovvero in questo breve dialogo si vede come chi guarda, in questo caso Harras, non possa stabilire un nesso certo tra immagine e persona: lo sguardo esterno e estraneo di una persona fatica a dire che la faccia ritratta e quella reale di Céline siano la stessa cosa. Abbiamo notato (vd 8) come alcuni personaggi nascondano la propria identità: Ivan l’uomo che dirige l’albergo si chiama Petrov, Petronius l’avvocato è in realtà quasi certamente una spia o un ladro (ha di certo frugato nelle sacche dei tre profughi). La foto e le carte, che dovrebbero sancire la precisa identità, in realtà alludono a una identità che è perduta, di cui ne è certo simbolo Le Vigan l’attore che spesso viene evocato come «l’uomo senza identità» (TdN 349), in quanto attore, teatrante, che quindi mette in scena sempre una maschera. 

L’identità è così compromessa, così flebile nella narrazione della TdN che gli stessi protagonisti stentano a conoscere se stessi. Infatti nel rifare le foto per i nuovi lasciapassare sono costretti a vedere come nessuno di loro è più se stesso: «lo sviluppo è nello sgabuzzino… due minuti! Ecco! …pago… fuori i nostri musi!… lì, abbiamo il tempo… ci guardiamo… e riguardiamo… Lili, io La Vigue abbiamo  cambiato ghigna!… […] niente più guance!… certe bocche flosce, come di annegati… tutti e tre!… siamo proprio diventati orrendi… tre mostri… innegabile… come siamo finiti mostri?» (TdN 338)

Questo breve excursus ci porta, infine, alla duplice domanda sulla propria identità, che Céline rilancia anche a conclusione della “tirata” sulle carte, quando rivolgendosi ad una immaginaria persona chiede: «Lei è proprio lei?» (TdN 385). 

Tale domanda è la domanda di senso, che permea ogni romanzo, potremmo forse dire che è la domanda iniziale che produce ogni narrazione: torniamo ancora una volta al Chisciotte, narrazione dove si affrontano temi come l’identità, la perdita della stessa e il tentativo di trovarne una nuova e diversa, dopo che ogni cosa, come dice John Donne, è «andata in pezzi». Don Chisciotte è convinto di essere se stesso, ma in ogni momento questa sua identità è messa in discussione da altri, che sostengono che lui non è quello che lui crede di essere. Questo moltiplicarsi di specchi e di identità fittizie, credute vere e/o presunte ci porta al capitolo XXXVII della prima parte del romanzo di Cervantes, in cui il protagonista fa questa annotazione: «Esiste al mondo qualcuno che nel vederci nella situazione in cui ci troviamo, sia capace di supporre e credere che noi siamo quelli che siamo?». Questa domanda abissale nel Chisciotte si riverbera lungo i secoli e arriva intatta nella TdN, è questa la domanda per eccellenza, che il romanzo pone a noi e che noi poniamo agli autori delle storie che leggiamo: la richiesta di comprendere chi siamo, il definire il nostro stato, la nostra identità, di intravedere nelle pagine che leggiamo ciò che abbiamo compiuto, e ciò che potremo compiere, di sezionare i sentimenti che siamo. Questa domanda non prevede nessuna concreta risposta, il romanzo odia la tautologia, quella della perfetta identificazione, nella quale A = A. Ortega y Gasset scriveva appunto nelle Meditazioni sul Chisciotte che «io sono io e la mia circostanza». Il romanzo non è una tautologia – “io sono io”, non è neppure un libro sacro – “io sono colui che sono”, il romanzo è una struttura proteiforme, in cui il nostro essere noi stessi si modifica a seconda della circostanza, sia essa un’avventura lungo la Mancia assolata, o l’attraversamento di una nazione disfatta dalla guerra. A seconda del paesaggio  geografico, fisico, culturale i personaggi cambiano se stessi e noi lettori cambiamo con loro. Il lettore insegue questa possibilità di capire chi è lui e chi sono gli altri: a tutto questo si oppone la struttura stessa della narrazione romanzesca, che cambia modifica, sfugge, recalcitra nel dire, che spinge a leggere ancora e a stupirsi, a vivere nuove avventure, spinge il lettore ad essere dalla parte del mostro, ovvero del “meraviglioso” che vira verso l’eccezionale, lo stravagante, il tremendo. In TdN, infatti, la ricerca di identità è anche una ricerca di comprendere non solo chi siamo, ma perché siamo diventati ciò che siamo ovvero “mostri”, proprio come fa Céline dopo aver visto la propria faccia. Céline comprende di essere mostruoso e in questo certifica, anche verso i più dubbiosi, che l’idea della Trilogia come narrazione volta ad auto-assolversi e a proclamarsi innocente, sia completamente errata e contraddica la struttura stessa e del romanzo e del personaggio narrante, perché TdN contiene dentro di sé una narrazione e ricerca di senso di questa trasformazione. 

Come siamo diventati mostri questo chiede Céline a se stesso, a Lili e a La Vigue, e lo chiede anche a ognuno di noi: Perché siamo diventati ciò che siamo? Siamo sicuri di esserlo? Neppure scattandoci una foto potremmo riconoscerci, tanta è la mostruosità che abbiamo compiuto. 

Céline spinge la nostra empatia nei confronti dei suoi personaggi fino ad un punto in cui dimentichiamo chi sono e cosa hanno fatto, siamo con lui presso la Cancelleria mentre un pazzo urla Heil Hitler, siamo con l’SS che apre lo sportello e trova il fagotto di un bambino che dorme; siamo con i mostri e camminiamo con i fantasmi, perché noi per primi come Don Chisciotte abbiamo voluto chiederci: “Perché noi siamo quello che siamo?”.

10. Durante l’incontro del gruppo, alcuni lettori che stanno leggendo TdN in lingua originale ravvisano e fanno notare una stortura grammaticale di Céline, il quale compone in maniera ortograficamente errata tutte le frasi negative. Ovvero invece di scrivere Je ne mange pas, egli scrive Je mange pas. Nella discussione, che è seguita questa notazione, è risultato come questo uso céliniano assecondi una certa evoluzione della struttura della negazione; in linguistica si situano tre fasi: 1) inizialmente per negare una frase si mette una particella che trasformi la frase da positiva a negativa (il “ne”), quindi 2) se ne aggiunge un’altra per rinforzare il senso della narrazione (“pas”), infine 3) soprattutto nell’uso orale cade la negazione più forte (“ne”) e le sopravvive quella più debole (“pas”). Questa notazione mi interessa, perché  mi permette di fare una serie di riflessioni, partendo dall’uso particolare della forma negativa, più afferenti al campo della scrittura. Io credo che questa scelta di Céline, oltre certo ad avere una ricaduta strettamente linguistica, abbia a che fare con una precisa decisione di stile. In primo luogo l’opzione praticata da Céline conferma appunto la preferenza accordata al parlare rispetto allo scrivere ( vd. postilla 3, 3.1, 9). Mi verrebbe da dire, però, che questa è la lectio facilior, abbiamo ormai compreso come le scelte stilistiche di Céline siano dovute a questo profondo choc della guerra e allo stile che abbiamo definito farneticante (vd. postilla 7). La punteggiatura, la sua assenza, o la sua presenza particolare, i tre puntini, i punti esclamativi (vd. 6) ci fanno comprendere come in TdN ogni parola abbia una profonda realtà sonora, sia una immagine che produce un suono e il mescolarsi dei suoni sia più importante dell’ordine esatto con cui le parole vengono messe su pagina per significare qualcosa. Questa idea del suono è così presente in Céline che, sin dai suoi esordi, l’autore parlò – rispetto alla lingua dei suoi scritti –  di petite musique, una musica minuta, fatta di piccoli accordi, leggere variazioni.

Credo che, forse, il modo reale per poter comprendere Céline sia abbandonare l’ideologia, di cui è sovraccarica la critica ai suoi romanzi, e concentrarsi sul dato stilistico e letterario (che è il compito che mi sono prefisso con queste postille). La forte impressione, che si ha nella lettura, anche di chi come me conosce poco il francese, e si affida al semplice orecchio che sente leggere la Trilogia, conferma come ogni scelta linguistica di Céline sia musicale; essa è una opzione così decisiva da arrivare ad forzare l’idea stessa di composizione della frase. Provo a spiegarmi: solitamente ognuno scrive una frase per farsi comprendere, si scelgono quindi le parole in base una sorta di vicinanza, alla idea di ciò che si vuol dire. Céline ha una idea della frase completamente diversa, segue una prosodia, un suono, un ritmo, una modificazione che avviene per lievi aggiustamenti. Ovvero mentre io scrivo una frase in base a parole che si equivalgono, cioè parole che esprimono ciò che voglio dire, Céline produce frasi con parole che si combinano tra di loro, in base a ciò che vogliono suonare. La prosa di Céline è una forma di rottura sintattica e compositiva vicina alla poesia, e nel leggere alcuni passaggi tornano alle mente alcune riflessioni di Jakobson sul linguaggio poetico: «la funzione poetica proietta il principio d’equivalenza dall’asse della selezione all’asse della combinazione». È il modo in cui le parole di Céline si combinano sulla pagina che deve interessare la nostra attenzione. Perché, quindi, mi interessa questa slabbratura della negazione? 

La prima risposta più semplice è appunto dovuta alla scelta parlata che Céline pratica in maniera totale nella TdN, ma c’è di più . Se avesse voluto semplicemente rompere con la lingua scritta del francese,  Céline avrebbe potuto scegliere di usare la negazione “ne” e non “pas”, e perché non lo fa? Quale significato associa lo scrittore a questa combinazione delle parole?

La particella “ne” davanti al verbo lo nega, nega ciò che si compie, è qualcosa di assoluto, è imperioso, preciso, indubitabile. Indica che l’azione descritta non accade, non accadrà, e non avrebbe potuto accadere. Faccio un esempio. Domanda: “Vieni alla festa?” . Risposta. “Non vengo”. Non ci sono dubbi sulla scelta del soggetto di chiudere il discorso, di non lasciare adito a dubbi. 

Proviamo, adesso, ad usare un modo di dire tipico di forme dialettali, ma che si adatta bene alla prosa di Céline. Domanda: “Vieni alla festa?”. Risposta: “Vengo più”. Il messaggio è chiaro: il soggetto non verrà alla festa, ma c’è in questa frase rispetto alla precedente qualcosa di diverso, c’è una esitazione, un dubbio, un leggero traballare della consapevolezza, c’è l’essere in bilico, il desiderio di venire e l’impossibilità, oppure il desiderio di essere pregati di venire etc etc, si adombra infine anche un desiderio impossibile da realizzare “vengo più = avrei voluto tanto venire”, possiamo, quindi, avere durante la lettura di una frase del genere mille diverse interpretazioni; ma dal punto di vita strettamente grammaticale entrambe sono due frasi che sono negative. 

Sin dalla mia prima lettura di Trilogia del Nord, ho sempre pensato che questo testo metta in scena il dubbio, l’intermittenza (in primo luogo l’intermittenza dell’io), l’insicurezza, il fare o non fare una cosa, il compiere o meno una determinata scelta, o l’essere costretti a una precisa parabola biografica dalle circostanze (vd 9); ora questa scelta di rendere meno netta la negazione, di assorbire nella negazione il dubbio (questo “pas” è come una forma avverbiale che modifica ogni assunto verbale, lo rende meno netto, meno preciso, più sfumato), il “non so”, il “forse” e di farlo diventare una precisa e reiterata scelta stilistica è conferma di questa tensione: l’io narrante di Céline è un personaggio che non riesce neppure a negare completamente, che non riesce a sentire nessuna forma di assoluto e di trascendente, è traballante e incerto, come lo sono le macerie che gli fanno da orizzonte, come lo sono i palazzi intorno a lui mentre cammina, come lo sono i personaggi che incontra, terribili e mascalzoni, mostri in alcuni casi, ma ritratti sempre sul precipizio e pronti a cadere. Tutto questo, però, non è tanto descritto, quanto “sentito” dentro la lingua e tramite la scrittura ed è ciò che fa di Céline un grande narratore e della Trilogia del Nord uno dei testi, essenziali per comprendere il secolo XX. 

In Appunti di Lettura

Ulisse? No, grazie.

di Massimo Iovinella

Se nella tua bolla un “pazzo” mette su un gruppo per leggere non un romanzo ma Il Romanzo e cioè l’Ulisse di Joyce, allora stanne alla larga.

Se quel “pazzo” però è Demetrio Paolin, allora seguilo.

Ed è stato così dunque che, accogliendo il folle e lucidissimo invito di Demetrio Paolin, ho letto, nel centenario dalla pubblicazione, l’Ulisse.

Che non rileggerò mai più.

Ma sul cosa, e cioè sul romanzo, ci torno dopo.

Prima, un passaggio sul come e cioè circa l’esperienza della lettura di gruppo.
Se uno dei temi, o Il Tema, del romanzo di Joyce, è il nostos, posso dire che il nostos di gruppo attraverso le pagine del dublinese-triestino è stato affascinante, a volte (e per fortuna) dialetticamente burrascoso, proprio come un mare procelloso, sempre stimolante e divertente.

Il merito principale va a Demetrio Paolin che ci ha messo, come in ogni cosa che fa, dedizione, conoscenza, simpatia, pazienza. E le sue idee, sempre. Oltre a una passione assoluta per questa opera (per lui è stata la terza lettura integrale: vabbe’, ognuno ha le sue ossessioni, e non saremo noi a giudicare).


Ma anche il miglior comandante nulla può senza un valido equipaggio, e posso dire di aver avuto la fortuna di dividere il nostos attraverso la Dublino joyciana con fantastici compagni di viaggio, ciascuno portando un suo personale e interessante punto di vista su un’opera che, ontologicamente, è iperstratificata e aperta e che dunque naturalmente si presta a n letture (ok, ho messo due avverbi in mente in due righe successive, scusa Stephen! Dedalus? No, King).

In un gruppo c’è sempre poi un cazzone che straparla, e pertanto mi scuso pubblicamente con tutti, ora per allora

Veniamo dunque al cosa e cioè all’Ulisse, di cui dirò pochissimo per manifesta indegnità.

Premessa: l’ho letto nella traduzione di Celati, dunque senza note.

Il che è una follia nella follia: perché, ritornando al concetto di nostos, è come navigare sotto costa di notte, senza luna né stelle né bussola né carte nautiche, senza mai essere andato prima per mare. Praticamente un suicidio.

Che ovviamente consiglio.

Perché l’assenza di note mi ha portato a essere davvero solo davanti al testo e dunque a concentrarmi, per quanto le mie capacità mi consentivano, esclusivamente su di esso.

Facendomi perdere la quasi totalità, il che è paradossale, dei rimandi e delle citazioni e dei calchi (a volte volutamente errati); ma consentendomi di cogliere forse meglio, non dovendo procedere a soventi interruzioni della lettura per andare alle note, il grande ritmo della pagina di Joyce.


Non starò a parlare di lingua, di struttura, di personaggi, di registri o dei singoli capitoli: cosa potrei dirvi rispetto a quanto detto da Demetrio Paolin negli appunti da lui scritti e pubblicati su Lettera Zero e che vi invito a leggere? Nulla.

Un’unica menzione sul cap. XVIII o anche detto Molly: un capolavoro, incastonato in un’opera monumentale.

Apparentemente non punteggiato, è in realtà dotato di una partitura magistrale (benché appunto non riportata graficamente), e mi è risultato il capitolo di più facile lettura.

Esperienza di lettura che va ASSOLUTAMENTE fatta: se non vi va di sorbirvi i precedenti 17 capitoli, no problem, andate su Wikipedia e leggetevi il riassunto. Ma poi comprate l’Ulisse e leggetevi Molly (sembra un consiglio per gli acquisti. E lo è).

Ne è valsa la pena leggere questo romanzo?

Non lo so: è un’opera che lascia meravigliati e annichiliti per alcune pagine e passaggi di bellezza davvero iperuranica, dalle quali emerge la grandezza immortale di Joyce.

Allo stesso tempo è un testo respingente, principalmente per il fatto che Joyce esagera, continuando ad accumulare e a rimandare e a calcare oltre il necessario, generando la sensazione (almeno in me) di un dialogo in vari frangenti ripiegato all’interno tra Joyce stesso e il suo testo, come di una sfida all’ultimo sangue da cui nessuno uscirà vivo: non l’autore, non il romanzo, certamente non il lettore.

Un testo Doctor Jekyll e Mr. Hyde: corporeo e viscerale negli strati superficiali della crosta e dunque apprezzabile istintivamente da un vasto pubblico (quale lettore, anche il più debole, non riderebbe o si esalterebbe davanti ad alcune scene?); erudito e citazionista/ criptocitazionista invece più ci si avvicina al nucleo e dunque riservato a pochi (“skillati”* o comunque a coloro che accettano/ desiderano di studiarlo con un approccio da entomologo).

*skillati è termine che ho usato unicamente per far imbufalire Demetrio, perché so quanto gli piace!

Quale delle due anime prevale, in fondo? Credo questa seconda.

Ed è ciò che, a mio avviso, rende l’Ulysse il romanzo da cui tutti sono attratti e da cui moltissimi fuggono. 

Per finire, dunque, la fatidica e inevitabile domanda:

Ulisse? Sì, grazie**.

**grazie, ma è come certi posti: bellissimo per carità, ma non ci vivrei (cioè letto una volta, basta. Ma se proprio volete rileggerlo, dalla seconda volta fatelo con le note)

In Appunti di Lettura

Leggere Céline

di Demetrio Paolin

  1. «Per parlare con franchezza qui tra noi» (TdN 3) è questo l’incipit della Trilogia: la mia attenzione si posa sul verbo parlare, che si configura come un sinonimo di scrivere. Per Céline scrivere è parlare, parlare sostituisce nel modus operandi della composizione della trilogia lo scrivere (Céline prova orrore per lo scrivere TdN 91: «… ho sempre trovato indecente, solo anche la parola: “scrivere”!»). «Vi parlo di mia madre» (TdN 6); «Io mi scuso di parlare tanto di me stesso» (TdN 17); «vi parlo di Achille» (TdN 41); l’idea dell’oralità – di questa finzione dell’oralità, perché la prosa céliniana è assolutamente ordinata, retoricamente impostata – è nella realtà il risultato di un sapiente ordito; si prenda per esempio questa sequela di aggettivi «lustro, pettinato, pitturato e laccato» ( TdN 3) che dovrebbero descrivere il dottor Céline come dovrebbe essere e la si confronti – poche righe dopo – con il ritratto di come è: «Scorbutico, sdentato, ignorante, scaracchioso, gobboso» (ibidem). C’è una simmetria e un equilibrio, oltre a una profonda ironia, che ci fa comprendere come questo parlato non sia una semplice registrazione neutra di un discorso orale, ma si configuri come una orazione, quindi come abbia a che fare con la retorica e, quindi, con l’organizzazione del discorso. Discorso/ordito: Céline parla del suo cappotto, la cui stoffa ha resistito a 14 anni di avventure, e così lo descrive – «Il mio è qui! Logoro senza dubbio” d’accordo! Alla trama!, 14 anni di peripezie! Alla trama!» ( TdN 6) –, creando subito un rapporto tra la trama del cappotto e quella del suo romanzo.
    Continuando ad analizzare l’inizio di Da un castello all’altro mi soffermo sul termine “qui”. Cosa indica questa particella di luogo? Individua il luogo e il tempo presente del racconto, Céline porta il lettore nella sua casa nel suo sobborgo alle porte di Parigi. Ci porta momento presente, in cui scrive le pagine come se parlasse. Questa sensazione è rafforzata dal “tra noi”, come se costruisse una sorta di assemblea e un luogo esatto dove noi, da intendersi lui che parla/scrive/declama e i lettori che ascoltano, siamo.

5.1 A latere di questa postilla sull’incipit di Da un castello all’altro, mi segno una piccola notazione. Nell’Iliade il poeta chiede alla Musa di cantare l’ira funesta etc etc; nell’Odissea il poeta chiede alla Musa di parlargli dell’uomo etc etc: non credo che sia una differenza di poco conto; cantare e parlare non indicano il medesimo gesto, parola e canto non sono la stessa cosa. Il romanzo deriva dal canto o dalla parola? Chiaro che io propenda per la seconda, mi pare interessante che pure Dio dovendo scegliere in che forma presentarsi abbia prediletto il “verbo” e non il “canto”: si potrebbe ragionare in questo modo per una genealogia del romanzo?

  1. Il lettore infatti viene più volte chiamato in causa nel corso della narrazione, il suo ruolo è attivo, anzi mi verrebbe da dire che Céline pensa ad un lettore ostile, spesso distratto, incline alla noia e a perdersi negli andirivieni delle pagine della Trilogia. L’apostrofe al lettore rappresenta una sorta di “ricalibratura” del racconto, come se il lettore fungesse da richiamo all’ordine del racconto: la sua funzione non è tanto quella di ascoltare/leggere, quanto quella di richiamare Céline ai suoi doveri narrativi. «Mi attardo… vi infastidisco forse?… vi parlavo di Madame Nicois» (TdN 58) in questa citazione vediamo appunto:
    a)il perdere tempo – cosa è la digressione narrativa se non un modo per fermare il tempo della lettura, rispetto alla linea narrativa principale, uno stallo;
    b)l’ostilità e il fastidio del lettore;
    c) la sinonima parlare/scrivere.

«Lasciamo il passato al Grevin!… Al presente! a Madame Nicois!… stiamo a casa sua» (TdN 61); «Accidenti!… divago… vado a perdervi!» (TdN 65); «Ecco qui!.. ecco qui!… folleggio! Miro all’effetto! Vado a perdevi…» (TdN 89) e potrei continuare che molte sono presenti di queste invocazioni, chiamate in causa al lettore ( TdN 134; 139; 170; 191). Nella loro quasi totalità, però, oltre a essere uno strumento retorico per chiamare il lettore in causa, servono sempre per riportare e rimettere in sesto il tempo della narrazione e il luogo della narrazione.
In Trilogia il tempo della narrazione e il tempo dei fatti tendono a confondersi; il personaggio che dice Io nel romanzo ha la capacità di muoversi indifferente nel passato, nel presente e nel futuro (in Da un castello all’altro l’uso prolessi è ampio, vd prossime postille), i richiami al lettore sono come una sorta di paletto in cui l’autore torna al tempo di ciò che sta narrando. Quando questi avvengono nella prima parte dei romanzi, nei quali a dominare è il tempo presente della scrittura – l’oggi in cui Céline scrive -, questi appelli suonano come un richiamo a non divagare, a non anticipare troppo, quando invece avvengono mentre l’Io narrante sta raccontando il dato storico, le apostrofi pongono solitamente fine o una incursione nell’oggi della scrittura o per concludere una possibile anticipazione di ciò che sarà.

  1. La più banale delle notazioni: Céline non vuole scrivere un romanzo tradizionale. C’è un qualcosa che, però, non torna in questa affermazione perché egli utilizza molte delle micro-strutture romanzesche. Ad esempio quando per descrivere le sue vicende le definisce peripezie ( TdN 30); ci possono essere diverse definizioni di peripezia, ma a me pare interessante quella di Kermode, «La peripezia, […], è presente in ogni racconto che abbia un minimo di congegno strutturale» (Il senso della fine, p.23), perché sottintende che essa sia una struttura del romanzo e di certo Céline non usa questo termine a caso: Da un castello all’altro, ad esempio, possiede una sua struttura, una sua circolarità (il luogo di inizio e di fine del romanzo coincidono, il personaggio di Madame Nicois che aveva segnato l’avvio del delirio febbrile e il racconto segna con il suo riapparire anche la fine dello stesso).
    Céline abbiamo notato instaura un dialogo costante e continuo con il lettore, utilizzando – alla maniera di Hugo e Balzac – la prolessi non tanto come moderno spoiler ma come tentativo di imporre una diversa suspense. C’è in queste scelte che tornano più volte il fantasma del vecchio romanzo dell’ottocento, il costruire una trama che ogni tanto si fermi – «Sono pieno di digressioni» (TdN 230), che anticipi qualcosa di ciò che avverrà – «abbiamo conosciuto molto peggio… Korsor là in alto! Baltavia, il Belt!… e quando a ghiaccio, vi racconterò… ma qui, è già mica male!… mica d’andare a spasso» (TdN 66) – per fare in modo che il lettore desideri andare avanti. Nell’ultima citazione Céline si riferisce a qualcosa che verrà narrato molto dopo, nel finale della trilogia ovvero nella pagine di Rigodon: faccio notare come nuovamente il lettore – vi – serva da richiamo, da paletto retorico per non andare troppo avanti con la storia con la particella di luogo “ma qui”.
  2. Altra notazione in sé banale. Ciò che colpisce nella lettura della Trilogia è l’uso della punteggiatura e in particolare dai puntini di sospensione. Céline ne parla a lungo in vari testi e interviste che non mi pare quasi il caso di discuterne, basti citare qui Colloqui con il professor Y, nel quale appunto Céline intervista sé stesso e parla dei suoi “indispensabili” tre puntini. Mi sono reso conto che, però, la mia attenzione riguarda un altro segno di interpunzione: il punto esclamativo. Non ho fatto una ricerca approfondita e numerica, ma ho l’impressione che il segno di esclamazione sia utilizzato dallo scrittore francese quasi alla pari che il segno di sospensione. L’interpunzione, lungi dall’essere – almeno nei romanzi – un mero marcatore del ritmo della lettura, si è trasformato nel tempo, quando la lettura delle opere è passata da essere pratica condivisa di lettura ad alta voce a pratica silenziosa solitaria, in uno strumento di contenuto. In questo senso basterebbe dare uno sguardo alla storia del romanzo, penso a quello settecentesco inglese, per vedere come i romanzieri di quel periodo debbano immaginare nuovi segni grafici, oltre ai soliti usati per convezione, per produrre o riprodurre nuove fasi della lettura (cfr Rosamaria Lorentelli, L’invenzione del romanzo, Laterza).
    Céline non è da meno nel suo lavoro di rimaneggiamento della punteggiatura. Perché mi colpiscono o, meglio, attirano la mia attenzione i punti esclamativi? Perché anche in questo caso sono una microstruttura del romanzo ottocentesco; meglio, sono ai miei occhi una sorta di sineddoche strutturale di quel tipo romanzo. Se prendiamo un autore come Hugo, registriamo come nel descrivere i sentimenti dei propri personaggi utilizzi una sorta di enfasi, di grandezza, di enormità: Quasimodo, Jean Valjean spesso dichiarano le loro emozioni con un furore che potrebbe essere rappresentato come una esclamazione. Sembrerebbe quasi che loro stessi siano i primi a stupirsi di ciò che sentono. È questa una cosa che si avverte ad esempio anche in certi passaggi, non tutti, di Balzac, penso a Splendori e miserie delle cortigiane quando Jacques Collins viene a sapere la morte di Lucien de Rubempré: è un momento altamente drammatico, in cui veniamo a sapere i “reali” e più “profondi” sentimenti di questo personaggio nei confronti del suo protetto.
    L’esposizione dei sentimenti in modalità esclamativa (mi si perdoni questa esposizione fin troppo semplificata, ma queste sono appunto solo postille di uno che legge un libro e prende qualche appunto di corsa) viene via sostituita dal concetto di interiorità: lentamente essa diventa una sorta fiume che scorre nelle pagine e non ha veri e propri fiotti o esplosioni o scoppi. Joyce, Proust la Woolf producono una prosa in cui il “dentro” degli esseri umani è mostrato fin nelle minime sfumature, e quindi non ha bisogno dell’esclamazione, ma della virgola o della sua completa assenza, ma sempre all’interno di una frase complessa tornita e strutturata (il flusso monologante di Molly lungi dall’essere senza filtri ha invece una precisa grammatica espositiva e un suo ritmo di lettura). Questo tipo di modello di descrizione non è seguito da Céline, che ha intrapreso una sua battaglia, di amore e odio, nei confronti di Proust (vd Magrelli, Proust e Céline, Einaudi) e che ad esempio, in un passo de Da un castello all’altro, utilizza il verbo «prousteggiare» ( TdN 99) con evidente riferimento a un certo tipo di narrativa che lui non ama, perché per lui invece «le emozioni bollono, ribollono, portano via tutto!» ( TdN 215). Céline, quindi, per opporsi a Proust ritorna indietro all’Ottocento, lui stesso si definisce un uomo dell’altro secolo «ripeto la mia età… 1894!… farnetico?… biascico?… ci ho il diritto!.. tutte le persone che sono dell’altro secolo hanno il diritto di farneticare!» ( TdN 7). Chiaramente Céline non riprende quello che era il romanzo ottocentesco e lo ripropone: non sarebbe stato né sensato né nella sua indole. Se Joyce nell’Ulisse ha tentato di riprodurre un mondo complesso, variopinto e stravagante e lo ha tenuto insieme, paradossalmente, con la vecchia forma del romanzo, costruendo una sorta di museo dello stesso, così Céline si muove in quello stesso luogo ma dopo la deflagrazione di una bomba: egli cammina tra muri diroccati che dicono quasi più nulla, e in questa rovina egli trova alcuni rimasugli, qualcuno potrebbe chiamarli topoi retorici, stilistici, concettuali, e con questi tira il suo romanzo di rovine.
  3. L’ultima citazione ci conduce, è solo prima di altre postille sull’argomento, al tema dello stile; c’è nelle pagine della Trilogia una frenesia, un biascicare (quasi le parole si legassero le une alle altre come come in un impercettibile sussurro) e una sorta di farneticazione: «Io vi racconto tutto così come viene… secondo le scosse, cigoli della lettiera… che so più quello che mi scuote… la febbre?… la rete che cede?…» (TdN 111). Questo farneticare avviene «nel momento che tutto crolla, capitombola!… rottura totale!» (TdN 121). Questo modo di esprimere la sua scrittura ha a che fare con lo choc, delle due guerre. Céline, nel riferirsi al fatto di essere un uomo del secolo scorso, ammette di non avere gli strumenti per comprendere ciò che è accaduto e di cui è stato inconsapevole testimone; c’è uno choc percettivo che è perfettamente tratteggiato da Benjamin nel suo saggio su Leskov: «Una generazione che era ancora andata a scuola con il tram a cavalli, si ritrova sotto il cielo aperto, in un paesaggio in cui nulla era rimasto immutato fuorché le nuvole, e sotto di esse, in un campo magnetico di correnti e esplosioni micidiali, il minuto e fragile corpo dell’uomo».
    Céline appartiene alla generazione ritratta in queste righe e ha la fortuna o la sfortuna di vivere sia il terribile rivolgimento della prima guerra e di seguito ciò che accade nella seconda. Se la Prima Guerra aveva come aperto la breccia in cui questo choc percettivo pareva infilarsi è stato con il secondo conflitto mondiale che tale breccia salta ed esplode tutto. A fare le spese di questo stravolgimento storico, sociale, antropologico è lo strumento del romanzo: se ancora Joyce o Proust potevano avere fiducia in questa struttura narrativa, dopo il ‘45 tutto questo viene meno. Alla luce di tutto questo non è imputabile alla casualità il fatto che Benjamin – uno dei più profondi critici letterari del primo ‘900 – non dedichi mai molto spazio nella sua speculazione al romanzo (un unico esempio eclatante sono le Affinità Elettive) e che la sua opera letteraria, speculativa e più profondamente innovativa sia un testo pensato per non essere mai concluso e dall’impianto frammentario come I “passages” di Parigi. E d’altronde è curioso che proprio i passages, che il filosofo tedesco vede come il luogo in cui la modernità entra e si fa vedere, siano anche il luogo della prima infanzia di Céline?
    C’è, quindi, nel periodare céliniano, nel suo sobbalzare, nella furia e nel biascicare le parole di certo l’eco delle esplosioni delle bombe, della deflagrazione, ma c’è anche l’attestazione di una debolezza e dell’impossibilità di riportare tutto all’unità, all’uno, all’insieme: lo scrittore deve accontentarsi di mettere insieme pezzi, senza neppure più il paziente lavoro di puntello, ma di giustapporli e sperare che si tengano: «La testa è una specie di officina che funziona mica così bene come uno vuole… pensare! Duemila miliardi di neuroni completamente in pieno mistero… stai fresco! […]hai vergogna… […] ma non so più… ritrovo più!… vi ritroverò!… voi e il mio Castello… e la mia testa! […] mi ricordo una parola! […] ritrovo il filo! […] ah, rieccomici!» (TdN 112).
In Appunti di Lettura

Parodia nell’Ulisse di Joyce

di Maria Luisa Mozzi

Leopold Bloom è personaggio parodico. Cerca il bon ton o almeno di non apparire fuori dalle righe, è bonaccione, permissivo con sé e con gli altri, evita gli eccessi e di incrociare per strada le persone no. Vuole, se possibile, salvare, in ogni diatriba, capre e cavoli. Desidera essere all’altezza di una vita da adulto, ma è un ragazzone che nel lavoro ottiene da qui fin là e con sua moglie tollera ipocrisia nasconderella e concorde. Tiene in tasca una patata contro i dolori come faceva la sua mamma e si dimentica di mettere in tasca le chiavi di casa. Ci tiene al cibo, se lo va a comperare e prova a cucinarselo. Si concede il tempo che serve a fare la cacca nello sgabuzzino in giardino e a pulirsi per bene prima di uscirne. Bagna le mutande guardando una bambina. Deve andare a un funerale ma si ferma a comperare per la moglie una saponetta profumata e poi un romanzo osé, anche se sa che alle 16.00 lei lo tradirà. Va a ritirare in posta una sua lettera clandestina. Con la figlia grande ha un atteggiamento che crea gelosia in Molly, e ha continua nostalgia per il figlio morto piccolo. Accudisce Stephen, alla fine, e lo vorrebbe a casa per affidargli Molly e accontentarla, anche, se necessario, perché, con Stephen, gli sembrerebbe di avere indietro suo figlio.

Raccontato così Leopold può apparire personaggio volgare e sciocco.

Non lo è. Non del tutto, almeno.

I suoi flussi di coscienza sono dei capolavori. La sua mente passa velocemente da un pensiero all’altro, da Molly ai figli alle persone che non vuole incrociare al fastidio che gli dà la saponetta che ha comperato e cha ha ficcato in tasca. Sono pensieri da vecchia casalinga, che deve badare al suo ménage, che controlla pignola ogni momento con un’occhiatina che sia tutto al suo posto, e se non lo è interviene, sposta magari di un millimetro perché lo sia.

Ristagna, Bloom, tiene il suo paesaggio in ordine, vuole avere sotto controllo tutte le sue cosine, Molly compresa. A costa di nasconderle o di nascondere a sé stesso la sua sofferenza o il suo imbarazzo.

Si muove sempre nel concreto, nel qui ed ora, nello spazio e nel tempo della lunga giornata e della nottata. Lui e Molly sono fatti della stessa pasta, amano loro stessi, non inseguono altro da sé.

Anche Stephen Dedalus è personaggio parodico, ma lui no, non si ama. Schizza continuamente fuori da sé, i suoi flussi di coscienza e i suoi discorsi sono fatti di citazioni, o usano strumenti di argomentazioni stabiliti da altri, da Aristotele, da San Tommaso. Stephen si addolora per il suo passato, di non essersi inginocchiato per sua madre morente, di non essere riuscito a diventare un poeta. Non crede più nel cattolicesimo gesuita ma non ha perso l’abitudine al trascendente. Ha una terza dimensione, oltre al tempo e allo spazio, l’altezza, il superamento, l’al di là da sé.

In comune, Leopold e Stephen hanno l’approccio infantile alla vita: di Leopold si è detto e lui, Stephen, non vede la realtà e teorizza una realtà astratta e parallela, che alla fine lo fa stare male e lo fa sentire inadeguato.

Ho detto che la parodia è costruita soprattutto, per i due personaggi, nei flussi di coscienza e nel trascinamento all’estremo, al punto di rottura. Questo trascinamento all’estremo avviene attraverso la reiterazione di azioni e pensieri, riflessioni e ossessioni, simboli dei due personaggi.

Però nell’Ulisse Joyce fa anche parodia con la letteratura.

Situazioni prese dalla letteratura alta, Omero, Virgilio, Shakespeare, soprattutto, o anche dalle canzoni popolari, dalle filastrocche, vengono portate fuori, anche linguisticamente, dal loro contesto e messe al servizio dei personaggi, specialmente dei due co-protagonisti, per marcarne in modo ridicolo i tratti di cui si è detto, già di per sé parodici.

Nell’Ulisse c’è poi anche parodia della letteratura. Stili e timbri narrativi vengono in ogni capitolo variati, come se Joyce dicesse: siamo al capolinea, ho un dominio tale degli stili usati in passato o possibili, di mia invenzione, da poterli usare come voglio e da poterli tirare fino a che diventino burla, presa in giro, messa in ridicolo degli stili stessi.

Prende in giro il lettore, in questo, l’Ulisse, e lo tormenta, lo stressa, perché gli fa leggere ogni paragrafo, ogni riga, ogni parola.

Invece magari in quel pezzo lì, vale capire che cosa Joyce abbia combinato, in che modo abbia usato lo stile per enfatizzare, portare a rottura. Trasformare il dramma in ridicola parodia.

Io non ho letto tutte le parole del monologo di Molly.

Credo di averne capito lo stesso il senso.

Che cosa c’è di non parodico nell’Ulisse?

Quello che si dice dell’Irlanda e della sua “schiavitù”.

Il dolore per i lutti familiari.

La coerenza del testo, i particolari che compaiono e poi ricompaiono e un po’ alla volta si disvelano, lasciano capire il loro significato.

I simboli, che a volte sono anche le ossessioni dei personaggi, come il coltello per Stephen o l’ombelico. La volontà di mettere in un romanzo epico un funerale e di dirci che anche un funerale può essere una cosa da ridere se per raccontarlo si fa la parodia di Shakespeare e si osservano da vicino le cose buffe che si fanno e si dicono nelle carrozze che lo seguono.

In Appunti di Lettura

Ulisse e il romanzo onfalico

di Mara Fortuna

Ho affrontato questa mia seconda lettura dell’Ulisse come sempre quando mi trovo di fronte a testi molto lunghi: in una modalità, se si può dire così, di lettura estensiva. Non la più adatta, temo, per testi di tale intensità e portata. E tuttavia è l’unica di cui sono capace essendo io sì un’amante della lettura, ma di tipo ansioso, che, riconosco, non essere il migliore. Questo per dire che leggo a velocità di crociera in attesa di essere colpita, attratta, respinta, scandagliata, e, anche, ricacciata all’indietro. In più avendolo letto una prima volta molti anni fa in lingua originale (non completamente, a un certo punto interruppi e saltai al monologo finale) questa lettura mi ha costantemente, ma periodicamente, acceso la curiosità, e quindi spinto a cercare quale fosse la parola o la frase scritta da JJ. 

Ad esempio, “oxonboviniano”. Come l’avrà scritto lui? Oxy chap. Un tizio bovino, un ragazzo bue. Mi viene in mente Oxo, i concentrati di carne. E qui? “Bianchedonda”. Wavewhite. “Bianchedonda” parole accoppiate che scintillano sulla fosca marea. Wavewhite wedded words shimmering on the dim tide. Eh, ma qui si perdono le allitterazioni, le consonanze. Senti che ritmo! E così proseguivo la lettura in inglese per un paio di pagine, attratta da quei suoni, da quel modo di fluire e suggerire. Per poi tornare alla traduzione, rendendomi conto che in entrambi i casi qualcosa perdevo e qualcosa guadagnavo, dato il mio livello di competenza (in-).

Ne è risultata una lettura in qualche modo confusa, altalenante, non fosse stato per gli appunti di Demetrio Paolin e gli incontri con gli altri del gruppo che mi riportavano a terra e mi aiutavano a focalizzare l’attenzione, almeno su alcuni aspetti del testo. Che non sempre coincidevano con quelli che più mi avevano preso, ma spesso sì.

Un paio di cose, tra le tante.

Quasi subito incontriamo onfalo, l’ombelico, collegato a “noi stessi”, Sinn Fein, il luogo del corpo in cui risiede l’identità. Poi c’è Eva, senza ombelico. E l’ombelico ricompare ogni tanto (come tante persone, oggetti, parole). Se lo guarda Leopold mentre fa il bagno e dice, come Gesù, questo è il mio corpo. Sono cordoni ombelicali le corde che calano la bara di Dignam nella terra. E dell’ombelico mi ricordo alla fine del diciassettesimo, quando Leopold, stanco, finalmente ritorna a casa e si corica e si mette, sono sue parole, in posizione fetale: uomo-bimbo stanco, uomo-bimbo nel grembo. The childman weary, the childman in the womb (anche l’acqua del bagno era un grembo). Lo fa dopo aver compiuto un viaggio interminabile in cui è stato perfino donna e ha partorito, e in cui compare costantemente la maternità/paternità, la generazione, la morte e la nascita, il sacrificio e la rinascita (il parto di Mina Purefoy e poi lei in ceppi sulla pietra d’altare, dea dell’irragione, nuda, un calice posato sul ventre gonfio). Come se l’ombelico, infine, non fosse possibile tagliarlo davvero.

Perché a cosa torna Leopold dopo aver vagabondato, disquisito, inscenato le sue fantasie e i suoi incubi, disegnato la mappa di Dublino, contato ogni centesimo che ha speso o spenderà nelle sue future imprese e i relativi guadagni? Dopo aver messo in ordine, raccontato attraverso domande e risposte precise, catechistiche, gli ultimi atti e pensieri della lunga giornata, dopo questo sovrumano sforzo di catalogare nei minimi dettagli il contenuto dei cassetti, enumerare gli amanti della moglie, a cosa torna quando si mette in posizione fetale e si addormenta, come se non avesse fatto altro che seguire il suo cordone ombelicale?

A Molly. Donna assente, ma sempre presente, durante tutta la giornata, che non ci prova nemmeno a mettere in ordine: è abbandonata alla marea. Sembra, col suo ventre e il suo sesso, allo stesso tempo a portata di mano e irraggiungibile. Leopold torna in una “casa” che non è sua del tutto, che non è mai stata sua. Il ritorno, quindi, non è possibile.

Non è possibile nemmeno, fino in fondo, la paternità: Milly si sta trasformando in una donna, è un’altra Molly e come tale è alterità, Rudy, invece, è morto piccolo. Il figlio maschio nasce, ma muore subito, non cresce. Lo vede, in un’immagine folgorante, alla fine del quindicesimo episodio, con il volto color malva e un agnellino che spunta dalla tasca del panciotto. La sua apparizione lascia senza fiato. Mancanza e incompiutezza sembrano il cuore profondo di questo libro.

E poi, arrivata alla fine, mi sono accorta di un aspetto che in precedenza non avevo considerato. In questo libro-mondo, in fondo, nella mia attuale percezione, le donne non ci sono. Nel senso che sono sempre viste da un punto di vista fortemente maschile, forse perfino nel monologo di Molly, dove, apparentemente, lei trionfa. Infatti, nonostante la poca cultura, gli errori, l’infedeltà che Leopold vede quasi connaturata in lei, Molly è lì con la sua potenza vitale, la più forte tra i due. Mi era sempre sembrata una celebrazione della donna oltre che una prova di scrittura incredibile. E tuttavia nei pensieri di Molly spuntano elementi tipici delle fantasie maschili e quindi il femminile, ancora una volta, sembra restare estraneo.

Lettura stupefacente e poi esasperante e poi di nuovo stupefacente. Tanto che, aprendo il libro, mi viene voglia di rileggerlo.

In Appunti di Lettura

Postille alla “Trilogia del nord” di Louis-Ferdinad Céline

di Demetrio Paolin

– 1. Ho deciso di redigere delle piccole postille durante la lettura di Trilogia del Nord di Céline. Di tanto in tanto, senza una vera regolarità, metterò in ordine numerico crescente le mie impressioni. Ogni volta aggiornerò il medesimo file: le nuove postille saranno separate dalle precedenti da un segno grafico. Buona lettura.

0. Prima di leggere il testo ci troviamo davanti a una soglia, quella dei titoli. Cosa suggeriscono Da un castello all’altro, Nord e Rigodon? Il tema comune è lo sposarsi nello spazio; il primo titolo è emblematico: ci si muove da un posto all’altro. Il titolo suggerisce al lettore una rotta: io parto da questo luogo e arrivo a quest’altro. Lascia presagire quindi un terminus, una stazione definitiva e ultima a cui approderemo, e infatti il secondo titolo ci indica la direzione come in una mappa, il nord come punto cardinale tipico dei naviganti. Il terzo titolo, però, modifica questa interpretazione: Rigodon allude a un ballo, classico della Provenza, che è un ballo in tondo; in questo modo Céline rafforza il vettore del movimento, ma ne modifica l’esito: da un lato il desiderio del Nord, della pace, come luogo della salvezza, ma dall’altra la frustrazione del ritorno allo stesso posto, al punto in cui si è partiti. La narrazione procede ruota su se stessa, non è un esodo come i primi due titoli vogliono suggerirci, ma è un nostos, ma è un non voluto e desiderato un ritorno beffardo e ironico, come una presa in giro.

0.1 La funzione del ritorno e dell’erranza è un’antica struttura della narrazione (bisognerebbe studiare il collegamento tra orfanità e erranza). Non c’è narrazione che paia non rispondere a una delle due esigenze o la storia di una orfanità o la storia di una fuga. La Trilogia risponde ad entrambe le necessità (forse questo è tipico del romanzo novecentesco penso a l’Ulisse di Joyce): Céline è orfano della sua patria, della sua idea di patria e nello stesso tempo è in fuga, braccato, la sua è una erranza nel duplice aspetto di errore e movimento: questo suo vagare, però, non conduce alla pace, alla scelta di vita, alla volontà di ritorno al grembo della madre terra che Molly rappresentava nel romanzo joyciano e neppure all’arrivo nella terra promessa dell’Esodo o alla patria dell’Odissea. Trilogia è un romanzo che gira a vuoto intorno a se stesso, più simile al non-senso dei romanzi beckettiani.

1. L’esplorazione della soglia continua con la definizione di romanzo. Céline sceglie per tutti e tre i testi il sottotitolo di “romanzo”: abbiamo davanti una narrazione di tipo finzionale, dove esiste un autore, un narratore e uno o più protagonisti. Dovremmo, nella lettura, ricordarci di questa volontà di autoriale e editoriale; Céline sembra suggerirci sin da subito che ciò che leggiamo deve essere compreso attraverso la lente dell’opera di finzione, distinguendo quello che è legato all’esperienza biografica dell’autore e da ciò che è tecnicamente narrativo (ad esempio i tempi, il montaggio delle scene).

1.1 C’è qualcosa di ambivalente nella parola romanzo in questa situazione: il lettore sa, lo sapeva anche nel momento in cui i romanzi venivano via via pubblicati, lo sapeva l’autore quando componeva l’opera e, di certo, in parte contribuiva a creare questa attesa (vd. le sue interviste), che il tema della Trilogia sarebbe stato percepito come profondamente autobiografico, dove i protagonisti centrali erano Céline, sua moglie e il suo gatto. Eppure definire questi testi attraverso l’ampia categoria di genere – che viene racchiusa nel termine “romanzo” – suggerisce al lettore di non abbassare la soglia di attenzione e a non credere che tutto ciò che è scritto abbia una corrispondenza esatta nella verità autobiografica.

2. Mentre leggo Trilogia del Nord, riprendo in mano Letteratura Europea e Medio Evo latino di Curtius, ne sottolineo questa frase: «Un libro, indipendentemente da ogni altra cosa, è un “testo”. O lo si comprende o non lo si comprende. Vi si trovano alcuni brani “difficili”. Per comprenderli occorrerà una tecnica: questa si chiama filologia». Il rischio di sovrapporre la figura di Céline, la sua storia, le sue scelte e posizioni ideologiche alla sua opera è sempre presente; ma se questo accade daremo della Trilogia una lettura moralistica, che produrrà giudizi sulla opportunità o meno dei temi trattati, ma non produrrà riflessioni sul testo in sé, la sua costruzione, la sua lingua, la sua retorica e l’ordine della composizione. Se dimentichiamo che la Trilogia è un testo, anzi è essenzialmente un testo, se non utilizziamo gli strumenti delle filologia, finiremo per produrre giudizi etici, che – per quanto legittimi – non attengono alla letteratura, ma al massimo alla verità giuridica in alcuni casi e storica in altri. Leggere un romanzo non è leggere un verbale di un processo, o ricostruire la correttezza storica di un evento, ma è produrre un aumento del proprio “mondo interiore”.

2.1 Céline è nazista? La domanda è mal posta, anche perché produce uno spostamento nella lettura del romanzo: non leggiamo il romanzo per stabilire le colpe e le scelte personali; non è questo tema della Trilogia: se leggiamo il testo  con tale intento prediamo la possibilità di vedere un modo diverso, tramite una prospettiva diversa, il racconto della seconda guerra mondiale. Leggere la Trilogia come un libro di storia, o come una confessione indiretta, e non come una narrazione finzionale è un errore di prospettiva. Un testo letterario è solamente un testo letterario, non ha altra funzione che essere un testo letterario, non ha altra ragione d’essere che l’essere un testo letterario. In un certo senso, so che l’affermazione è volutamente provocatoria, anche l’opera di Primo Levi deve essere –  prima di tutto e solamente-  letta come testo letterario; sostanzialmente, quindi, non c’è nessuna differenza tra la Trilogia del Nord e la Tregua.

In Appunti di Lettura

Questo libro senza di te, lettore, non gira

di Luca Iori

Non ho ancora finito di leggere Ulisse, e un po’ me ne vergogno. Ho scoperto durante questa lettura collettiva che ci sono persone che addirittura si vantano di non averlo mai aperto. Mi è sembrato sciocco, non tanto per il posto che ha nella storia della letteratura, ma perché più di altri questo è un testo che chiede al lettore una collaborazione che può sconfinare nella devozione. Questo è un libro che senza di te lettore non gira, è una macchina i cui ingranaggi sono per terra smontati e se non funziona è perché non sei capace di rimetterli assieme. Com’è strano in un tempo in cui tutto compete per la nostra attenzione sbattere la faccia contro un testo che, al netto delle note e delle guide di lettura, rimane segreto, quasi ostile.

Prendiamo il capitolo terzo. Seguendo i rimandi all’Odissea, sappiamo che si può chiamare Proteo, e che il riferimento è alla storia di Menelao che riesce ad acchiappare il dio multiforme e a farsi predire il futuro. In Ulisse, Stephen passeggia sulla spiaggia di Sandymount assorto nei suoi pensieri, un turbine che va da Aristotele a una caccola secca attaccata su di una roccia. Questo spezzone di trama è insignificante, e la verità è che non sappiamo ancora niente, e va anche bene perché più avanti riassunti e schemi saranno ancora meno d’aiuto, tanto da far sospettare a un profano come me che Joyce si stia sbellicando dalle risate mentre manda il suo all’amico Linati.

Tocca quindi cominciare, come uno che vuol salire su una scala a cui mancano i primi tre pioli. Allora con Stephen chiudiamo gli occhi e sentiamo le conchiglie che crepitano sotto ai nostri piedi. Sto entrando nell’eternità lungo la spiaggia di Sandymount? Non lo so, ma ti sto dietro, anche se per farlo devo arrampicarmi per una teologia oscura e immaginare un giro da certi parenti ubriaconi che poi deciderai di non fare. Vai più piano, vorrei dirti. Ma tu sei già a Parigi, a rievocare il tuo periodo da studente morto di fame interrotto dal telegramma “Mamma morente torna a casa papà”. Non è necessario esserci stati per immaginare «Parigi all’aspro risveglio, crudo sole sopra le sue vie color limone» bastano i frammenti che si compongono leggendo, è come guardare in un caleidoscopio. Il getto di vapore di caffè, i mozziconi di dialogo in francese. La sabbia bagnata che riporta ancora una volta alla realtà, in modo ritmico, ondeggiante. La paura per un cane che ti viene incontro e a cui invece non interessi tu, ma la carcassa gonfia di un suo simile. Chissà se è per via di quel gonfiore che poi si arriva a San Tommaso, il pancione Aquinate. Amore e morte e poi infine pensieri sconnessi, gli stessi che potrei fare anche io, una persona qualunque. Preoccuparsi per i propri denti, per un fazzoletto che non si trova. Attaccare una caccola a una roccia.

Finisco su quella caccola abbastanza frastornato. Non sono sicuro di aver capito proprio tutto, eppure non mi sembra di aver perso tempo. È come in quella canzone dei Magnetic Fields che dice «Tu hai bisogno di me, come il vento ha bisogno degli alberi per soffiarci dentro, come la luna ha bisogno della poesia», e dalla voce con cui queste cose vengono dette si capisce benissimo che il cantante sa che non è vero, che il vento basta a sé stesso e che la luna delle nostre poesie non sa che farsene. Eppure è così bella l’illusione di un libro che ha bisogno di te per esistere.

In Appunti di Lettura

Immergersi nella città-verme. Io lettore di Joyce

di Davide Russo

  • Se solo potessimo vivere di cibo buono come questo, le disse piuttosto ad alta voce, non avremmo il paese pieno di denti marci e budella marce. Vivere in un acquitrino di torbiera, mangiare cibo da due soldi con le strade tappezzate di immondizia, merda di cavallo e sputi di tubercolotici.
  • Lei è uno studente di medicina, signore? chiese la vecchia.
  • Si, signora mia, rispose Buck Mulligan.[1]

Più ci penso, essendo difficile riprendermi dall’ubriacatura conseguente alla lettura di un’opera così complessa nella sua polifonicità, e più mi appare difficile descrivere in termini diversi l’Ulisse, o meglio l’esperienza della sua lettura, rispetto all’immagine di un’immersione. Un’immersione in un mondo liquido in cui i confini si fanno porosi e la realtà sembra così “reale” da non esserlo più.

Quali criteri o categorie specifiche è possibile estrapolare da questo libro per tradurre razionalmente le caratteristiche peculiari di quest’immersione, cioè le leggi strutturali di costruzione di quest’opera?

Terrinoni, nelle sue note all’edizione Newton-Compton che ho letto, insiste sull’ombra come apporto fondante di Giordano Bruno all’opera joyceana, assieme alla congiunzione degli opposti (l’alto e il basso, ad esempio come registri narrativi e come personaggi):

Inoltre, la grande influenza su Joyce del pensiero di Giordano Bruno il Nolano pone quesiti di non facile risposta circa il senso della sua traduzione moderna di quelle ombre omeriche dei morti che avevano parlato ad Odisseo. Le ombre secondo Bruno sono per l’uomo la conoscenza possibile delle cose in sé, e la visione umbratile è quanto mai imperfetta perché ci presenta oscuramente, e senza varietà alcuna, solo quanto si trovi all’interno del contorno di una figura – contorno peraltro assai poco nitido. Le ombre dei morti sono numerose nell’Odissea, così come in Ulisse, e nei pensieri dei personaggi di “Ade” esse parlano silenziosamente e per interposizione simbolica… [2]

Sicuramente essa è presente, vista la predominanza della categoria del possibile, ma probabilmente non in maniera così chiaramente definibile. Tutte le influenze in Joyce si presentano come rimescolate, rimasticate, storpiate e reinterpretate. Non mi stupirei se non lo fosse pure Bruno.

I due termini che userei io, non avendo così approfondito l’opera bruniana per poter confutare o affermare con sicurezza quello che dice Terrinoni, sono quelli di città e di tempo, tra loro intimamente connessi. Il primo spunto per questa idea viene da una raccolta di saggi di Lyotard su alcune sue grandi influenze “letterarie”, che così scrive:

Persino nel motivo della città, così predominante nell’Ulysses, non c’è nulla che non abbia a che fare con questa posta in gioco. Non basta infatti considerarlo in modo storico o sociologico come il corrispettivo letterario dell’urbanizzazione in corso. Esso è anche e (a partire da Benjamin) credo soprattutto, il ritorno della solitudine, del deserto e dell’inoperosità nel cuore della comunità. La città moderna è quest’opera in seno alla quale la comunità e l’individuo sono privati della loro opera dall’egemonia dei valori mercantili. Lungi dall’essere una zona franca, la Dublino di Joyce, è, per usare l’espressione di J.L. Nancy, una comunità inoperosa. Bloom, piazzista di annunci economici, è il testimone di questa futilità sofferente.[3]

Walter Benjamin, nella sua analisi della trasformazione di Parigi in una metropoli ai tempi di Haussman, si rifaceva prima di tutto a Baudelaire, ma anche a Poe, Hoffman e Valery. Riguardo a quest’ultimo e all’isolamento urbano contemporaneo, che isola l’uomo contemporaneo da suoi simili, racconta:

«L’uomo civilizzato delle grandi metropoli – scrive, – ricade allo stato selvaggio, cioè in uno stato d’isolamento. Il senso di essere necessariamente in rapporto con gli altri, prima continuamente ridestato dal bisogno, si ottunde a poco a poco nel funzionamento senza attriti del meccanismo sociale. Ogni perfezionamento di questo meccanismo rende inutili determinati atti, determinati modi di sentire.» Il comfort isola. Mentre assimila, d’altra parte, i suoi utenti al meccanismo. Con l’invenzione dei fiammiferi verso la fine del secolo, comincia una serie di innovazioni tecniche che hanno in comune il fatto di sostituire una serie complessa di operazioni con un gesto brusco.[4]

La Dublino reale e quella di Joyce si sovrappongono, ma non corrispondono.  Modificando le azioni dei personaggi attraverso modifiche nel meccanismo sociale. Sono queste interazioni ad interessarmi.

Sono all’opera nella città joyceana quegli spostamenti minimi di cui parlava Benjamin in relazione al tempo messianico e all’opera di Kafka, in cui non si cambia quasi nulla per cambiare in realtà tutto:

I significati però non ritornano tutti al loro posto di prima, da questo istante l’esperienza esce modificata e tra le stratificazioni della memoria si inseriscono piccoli spostamenti, passaggi minimi ma duraturi che esigono dalla riflessione di essere elaborati. Perciò questi istanti del passaggio sono cruciali per la concezione che Benjamin ha della dialettica. […] Dialettica però significa, in senso forte, pensare per determinazioni, fosse anche soltanto la determinazione dell’indeterminatezza stessa. Benjamin vuole dischiudere il regno dell’indeterminato, del fuggevole e incomprensibile all’esperienza dialettica senza schiacciarlo con l’artiglieria pesante della concettualità tradizionale.[5]

Il tempo è probabilmente uno degli elementi centrali in questa inversione dialettica, uno di quegli aspetti che produce quello straniamento ubriacante, che è conseguenza diretta dell’esperienza di immersione e che io stesso sto vivendo come lettore, persino parecchi giorni dopo aver finito l’opera.

Si sostiene nel senso comune che quest’opera duri un giorno, in realtà ne dura due, tuttavia la relativizzazione delle coordinate spazio-temporali operata da Joyce va ben oltre tutto questo, contribuendo a quell’indeterminatezza in cui, contrariamente alle parole di Einstein, “Dio gioca davvero a dadi con il mondo”. Noi sappiamo che il processo ventennale di scrittura dell’Ulisse fu coevo sia con la teoria della relatività speciale del 1905 che con le interpretazioni indeterministiche di Max Born e Werner Heisenberg, che inaugurarono la meccanica quantistica. Ancora Lyotard ci illumina su questa analogia o convergenza storica straordinaria tra fisica e letteratura nel Novecento:

Sartre dichiarò più tardi di aver voluto una scrittura einsteiniana, contro l’universo newtoniano del romanzo classico. Ma a partire da Joyce e da Gertrude Stein la posta in gioco romanzesca non doveva più essere pensata sotto il segno delle equazioni della relatività, ma delle relazioni di incertezza. Il “Noveau Roman” si poneva sulla stessa lunghezza d’onda di Heisenberg e dei pagani danesi, più che su quella del pio Einstein.[6]

Ma il Dio-narratore di cui stiamo parlando è Joyce? Egli è sicuramente l’autore, ma si fa tramite di un qualcosa di più ampio, che vagamente definisco “la città”.

Si tratta di una relativizzazione che però è anche una pluralizzazione dei tempi a seconda delle coordinate spazio-temporali di riferimento in cui di volta in volta si trovano i personaggi.

Noi ci troviamo a passeggiare per questo spazio amorfo, o meglio polimorfo e policentrico, che è la Dublino di Joyce con Leopold Bloom e Stephen Dedalus, incontrando con loro prostitute, il profeta Elia, un’anziana lattaia, venditori vari, padre Conmee, marinai che raccontavano dei loro viaggi e delle improbabili avventure che avevano vissuto nei vari paesi. È stato ipotizzato che quel marinaio fosse Ulisse e non Leopold, non saprei dire con certezza, ma rilevo questo: vero è che, come Ulisse, il marinaio lascia moglie e figli a casa, mentre viaggia nelle sue diverse tappe. Rappresenta un dato interessante e curioso da rilevare il fatto che tra i popoli peggiori incontrati in queste peripezie figurino proprio gli italiani, con una chiara fama di accoltellatori e bugiardi. Probabilmente Joyce traduceva qui dei sentimenti comuni per la popolazione di Dublino verso gli italiani, come fece anche per gli ebrei e il sentimento nazionalista irlandese, sovente ridicolizzato.

La città potrebbe rappresentare lo spazio, una sorta di macro-contenitore per tutte queste storie, una meta-cornice narrativa come quella di Sherazad per Le mille e una notte o la peste di Firenze per il Decameron di Boccaccio. Lo spazio e il tempo quindi o, per dirla in termini sempre einsteiniani, riguardanti la quarta dimensione: lo spazio-tempo. Città e tempo formerebbero quindi un unicuum, una continuità quadridimensionale che solo analiticamente possiamo distinguere per descriverla. Come rappresentare questa entità? Io la definirei un “verme quadridimensionale”, come direbbero i quadridimensionalisti. L’ontologia delle entità materiali, anch’essa derivante dalle rivoluzioni novecentesche in fisica sopra citate (con i cui risultati cerca un migliore accordo rispetto ad altre ontologie), ci viene in aiuto, infatti, nel trovare un corrispettivo con cui definire questo oggetto parzialmente finzionale che è la Dublino joyceana:

L’assunto di base della dottrina nota come «quadridimensionalismo» è che l’estensione nel tempo sia del tutto uguale all’estensione nello spazio: come un oggetto ha parti spaziali diverse, esso ha anche parti temporali diverse nelle varie sottoregioni della regione totale di tempo che occupa. Il quadridimensionalismo è, infatti, noto anche come teoria delle parti temporali: di fronte ai continuanti del tridimensionalismo, il quadridimensionalismo introduce gli occorrenti, cioè entità a quattro dimensioni che occorrono nel tempo, anziché protrarsi attraverso il tempo, esattamente alla stessa stregua di un evento […] Un’entità a quattro dimensioni viene talora definita verme quadridimensionale: esso può essere immaginato come un verme in un sistema di coordinate spazio-temporali.[7]

Definire in maniera quadridimensionalista il mondo dell’Ulisse alla stregua di “un verme narrativo” potrebbe suonare irrispettoso per qualche lettore, ma anche Dionigi Aeropagita, che Joyce sicuramente conosceva dalle sue frequentazioni teologiche e patristiche, sosteneva che “Dio è un verme”, per farci capire come il linguaggio umano fosse totalmente inadatto per parlare del divino. Questa idea è alla base della cosiddetta teologia negativa. Potrebbe essere altrettanto inadeguato qualsiasi linguaggio narratologico tradizionale, descrittivo o analitico che sia, per illustrare la città del Dio-narratore Joyce e dei suoi alter ego trinitari Stephen, Leopold e Molly? Non ci vuole molto per dirlo ma, secondo la mia esperienza di lettura, ripeterò sempre, concludendo questo scritto come Molly conclude il libro: Sì.


[1] J. Joyce, Ulisse, a cura di E. Terrinoni, trad. di E. Terrinoni con Carlo Bigazzi, Newton Compton Editori, Roma 2015, p. 43.

[2] Ivi, p. 777.

[3] J.F. Lyotard, Letture d’infanzia, trad. di F. Sossi, Ed. Anabasi Spa, Milano 1993, p. 21.

[4] W. Benjamin, Angelus Novus. Saggi e frammenti, a cura di R. Solmi con un saggio di F. Desideri, Einaudi, Torino 1995, pp. 109-110.

[5] M. Ophälders, Costruire l’esperienza. Saggio su Walter Benjamin, CLUEB Edizioni, Bologna 2001, p. 90.

[6] J.F. Lyotard, Letture d’infanzia, op. cit., p. 111.

[7] P. Valore, L’inventario del mondo. Guida allo studio dell’ontologia, UTET edizioni – De Agostini Scuola Spa, Novara 2008, pp. 264-265.