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Joyce, Ulisse, Appunto 4 [VIII, 237-285]

di Demetrio Paolin

FLUSSO. «Così scrivono i poeti, assonanza di suoni. Però in Shakespeare non ci sono rime: versi sciolti. Flusso del linguaggio, è. I pensieri. Solenni» [VIII, 242]. Troviamo queste parole nel capitolo VIII. Osserviamo Bloom camminare per la città, impegnato in futili conversazioni, alla ricerca di un posto dove mangiare: l’ottavo è un capitolo dove domina la materialità del cibo e l’atto della masticazione: tutti gli uomini che Bloom incontra durante il suo peregrinare sono descritti con precisa e ironica cura nell’atto di mangiare. La nota fondamentale è la materialità, i bisogni primari del corpo, ma a questa esteriorità si unisce una interiorità che proprio il gesto del cibarsi ci invita a non dimenticare: il cibo è prendere qualcosa di esterno (ed estraneo) e portarlo all’interno (renderlo intimo), è un movimento da fuori a dentro, ma può essere benissimo anche un movimento da dentro a fuori:«Fammi vedere come mangi e ti dirò chi sei» [VIII, 274]. In questo caso, noi lettori ci facciamo cibo e entriamo nell’intimo dei pensieri di Bloom, ne sentiamo il flusso. L’immagine del fluire torna in tre occorrenze la prima nella citazione con cui si apre questo appunto (sottolineo l’ennesimo, errato, riferimento a Shakespeare), e di seguito: «Come si può essere proprietari dell’acqua? Scorre sempre in un flusso, mai la stessa, ciò che nel flusso della vita inseguiamo» [VIII, 243], e infine «Proseguì sul marciapiede principale./ Flusso di vita» [VIII, 246].

La parola flusso è legata a per due volte al termine vita e una volta al termine linguaggio. Potremmo elaborare una sorta di equazione matematica flusso + vita = flusso + linguaggio e, risolvendola, notare una uguaglianza, vita = linguaggio. La vita è il linguaggio, il modo di dire la vita sta nelle strutture del linguaggio che Joyce usa, e queste strutture grammaticali attengono ancora una volta al dentro e al fuori e vengono risolte con una sapiente uso della prima e della terza persona, un’alternanza che proprio in questo capitolo diviene centrale e fondamentale.

PRIMA/TERZA. Parlando di flusso il pensiero corre al “flusso di coscienza”, il monologo interiore di Molly, che conclude il romanzo. Ora il monologo di Molly è posto a fine dell’Ulisse non solo per una logica di trama, ma perché rappresenta l’approdo definitivo di quella lenta, costante e decisa rottura dei legami sintattici e grammaticali, che è il cuore dell’Ulisse come opera letteraria.

Se dovessimo definire il narratore dell’Ulisse potremmo rubricarlo come un classico narratore in terza persona, che per almeno i primi due capitoli ci guida nel racconto; nel cap. III accade qualcosa: con una sempre maggiore frequenza alla  terza persona si affianca una prima. Senza una mediazione sintattico-grammaticale di alcun genere, la narrazione passa da una all’altra: «Il suo passo rallentò. Dunque. Vado da Zia Sara o no?» [III, 78]. In questo caso la terza persona si occupa di raccontarci che Stephen sta camminando e il suo passo rallenta, mentre la prima persona, senza mediazioni (forse il “dunque” ci prepara che qualcosa sta succedendo) ci fa entrare nella testa del protagonista. L’intero capitolo III è una soglia, il passaggio, a una forma di indiretto libero privo tutto “l’armamentario” di deiettici, proposizioni, segni e interpunzioni. La scelta di Joyce di riprodurre l’interiorità dei personaggi passa appunto dallo strumento che l’800 aveva privilegiato come medium per raccontare l’anima; infatti l’indiretto libero – con una serie di abili movimenti grammaticali – ci comunicava il sentire di Bovary, di Nanà, di Lucia o di Renzo o di Raskolnikov. Joyce prende questo mezzo e lo trasforma: il cap. III è dominato da Stephen e dai suoi pensieri, Stephen è un personaggio, uno scrittore, e rappresenta – in maniera obliqua – Joyce e il suo modo di vedersi scrittore. Lo statuto narrativo di Stephen è complesso nel suo duplice essere personaggio e proiezione dell’autore. Non credo allora che sia casuale come l’uso l’indiretto libero (Io) si alterni a una seconda persona (Tu): «Il mio cappello da quartiere latino. Dio, si tratta semplicemente di vestirsi come richiede il ruolo. […]. Eri studente no? Di cosa, in nome dell’altro diavolo?» [III, 83]. Il Tu soliloquiale, vecchio armento dell’interiorità delle letteratura occidentale da Petrarca in poi, è un altro modo per far rendere il lettore edotto dell’animo del protagonista (una sua variante settecentesca furono i romanzi epistolari). Il Tu suona alle orecchie di noi lettori come una intermittenza, un piccolo brillio grammaticale, una movimento della narrazione, in cui si passa da Egli a Io, attraverso il TU. La struttura monologante di Stephen è quindi tripartita (la sua passione per le eresia trinitarie potrebbe essere un indizio?), in cui il Tu media tra i dati materiali raccontati in terza e i pensieri espressi in prima. In Leopold Bloom questo non avviene, nel capitolo VIII, salta completamente il Tu: il capitolo, in soggettiva su Bloom e suoi movimenti per le vie, è un continuo passaggio tra terza e prima. Solitamente questo movimento è segnato da una frase costruita con “Il signor Bloom + verbo”. Vediamone due esempi: «Il signor Bloom scoccò un sorridente Oh, cacchio a due finestre dell’autorità portuale. Ha ragione in definitiva [si riferisce a Molly]. Paroloni per cose ordinarie soltanto perché suonano bene. Lei non è esattamente spiritosa. E può anche essere greve. Sbotta papale papale quello che stavo pensando. Però, non so. Diceva che Ben Dollard ha una voce da basso baritono. Be’, ha due gambe come barili e sembra che stia cantando dentro un barile» [VIII, 244]; «Il signor Bloom, respiro accelerato, passo rallentato, superò Adam Court. […]Sì. Come pensavo. Vita dentro l’Empire. Sparito. Gli farebbe bene una gazzosa lisca. Dove Pat Kinsella aveva il suo Harp theatre prime che Whitbred prendesse in gestione il Queen’s. La quintessenza del ragazzino.» [VIII, 263]. Ciò che si può notare dalle diverse letture di questi indiretti liberi è la loro trasformazione in un flusso, in una sorta di nastro su cui sono registrati i pensieri, l’indiretto monologante di Bloom ha a che fare con una interiorità spicciola (la sua vita coniugale, i tradimenti, cosa mangiare, dove mangiare) in Dedalus a parlare è l’esule, lo scrittore. Altro dato essenziale, sempre in vista del finale flusso di coscienza di Molly, è  la frammentazione in piccole frasi, alcune volte, nominali intervallate da punti fermi: «Funzionerebbe: uno si sente sempre lusingato. Adulazione dove meno te l’aspetti. Nobile fiero di discendere da un’amante del re. La sua progenitrice. E giù a palettate. Cappello in mano si va lontano.» [VIII, 262]. Con lentezza, ma con metodo, Joyce affranca i suoi personaggi dalla sintassi e dalla grammatica, come se alla esplosione della trama seguisse una esplosione del discorso; a questo punto della nostra lettura possiamo registrare: la scomparsa della mediazione del soliloquio (Tu) e la frantumazione del periodo (frasi nominali) e la scomparsa progressiva della sintassi (esempio la punteggiatura).

OMERO. Durante il suo girovagare, siamo quasi a conclusione del capitolo, Bloom incontra un ragazzo cieco [VIII, 281-282]. Questo giovanotto che il protagonista aiuta nell’atto di attraversare la strada è così descritto: «Il signor Bloom si avviò dietro a piedi privi di occhi, un completo di taglio ordinario in tweed a spina di pesce. Povero giovane! Come diavolo faceva a sapere che là c’era il furgone? Deve averlo sentito. Vedono cose nella fronte magiari; una sorta di senso del volume. Peso (o forma, qualcosa di più nero del buio. Chissà se lo avvertirebbe se qualcosa fosse tolto di mezzo. Sentire un vuoto. Un’idea bizzarra di Dublino deve avere, a orientarsi in quel modo picchiettando sulle pietre» [VIII, 282]. Questo personaggio cieco, che sente il vuoto, che si aggira per la città picchiettando le pietre potrebbe essere Omero? Non riesco a togliermi dalla fantasia che Joyce voglia rappresentare Omero a Dublino; il cieco ha una visione (vedono cose nella fronte), si muove nel buio, sente il vuoto. 

NO ONE/ANYTHING. Il capitolo VIII inizia con un annuncio di rivelazione e con un esplicito gioco di parole tra Bloom e blood: «Bloo… Io? No./ Blood. Il sangue dell’Agnello» [VIII, 239], come abbiamo visto in precedenza questo capitolo è dominato dal cibo, come strumento privilegiato per vedere nel cuore di Bloom: «Tutti sono lavati nel sangue dell’agnello. Dio vuole sacrifici cruenti. Nascita, imene, martirio, guerra, fondazione di un edificio, sacrificio, bruciata offerta di rognone, altari druidici» [ivi]. Così il cibo, l’agnello scritto in minuscolo, diventa figura della storia dell’uomo, di ogni uomo, anzi di ogni essere vivente. Bloom in queste pagine, proprio come l’agnello dell’Apocalisse, assume su di se tutti peccati, i dolori del mondo – «Ho un dolore.» [VIII, 259] -, assume su di sé il mondo e la sua sofferenza: «Ne nasce uno ogni secondo qua o là. Un altro muore ogni secondo. Cinque minuti da quando ho dato da mangiare agli uccelli. Trecento hanno tirato le cuoia. Altri trecento nati e gli hanno lavato via il sangue, tutti sono lavati nel sangue dell’agnello, strillando beeee» [VIII, 258]. La sofferenza dell’uomo si tramuta in queste righe in qualcosa basilare, primordiale: una sofferenza animale: «Il dolore degli animali, inoltre. Spiumare e tirare il collo ai polli. Quegli sventurati animali al mercato del bestiame in attesa che la mannaia gli apra il cranio in due. Muuu. Poveri vitelli tremanti. Meee. Zampino tremolino. Manzo e cavolo. Polmone che sballonzola nei secchi dei macellai» [VIII, 268]. C’è in Bloom uno sguardo sul creato colmo di pietà – «il signor Bloom tiro avanti alzando gli occhi afflitti» [VIII, 243] – per ciò che vede nel suo peregrinare: «Uomini, uomini, uomini. […]. Appollaiati su sgabelli alti al bancone, […] o ai tavoli che berciano per chiedere altri pane compreso nel prezzo» [VIII, 265]. Una visione così potente che lo costringere a chiedersi: «Sono così io?» [ivi]. Cosa è un uomo? È questa la domanda che nasce leggendo questo capitolo e Bloom sembra rispondere quando in uno dei suoi monologhi dice: «Nessuno è niente» [VIII, 259]. La parola “nessuno” ci riporta a Ulisse Odissea, IX, 366. Nell’originale leggiamo «No one is anything». Grammaticalmente è corretto tradurre e risolvere come fa Biondi, ma anche Terrinoni, “nessuno è niente”, ma si perde una certa sfumatura. Celati traduce con «Nessuno è qualcosa» [Celati, 226], che, forse meno corretta, condensa in sé il tema del capitolo. Se la risolvessimo letteralmente dovremmo scrivere: No-uno è quache-cosa. Quindi nessuno è qualche cosa, anche l’essere nessuno, il chiamarsi nessuno, è qualcosa. Nella traduzioni di Biondi e Terrinoni tutto scivola in un nichilismo, lontanissimo dalla visione joyciana. C’è, invece, nel VIII il tentativo profondo e complesso di descrivere la materialità degli esseri umani (partendo loro modo di mangiare) e il loro vivere e morire (presentandoceli come animali morenti). Bisogna interrogarsi su cosa significhi la parola nessuno:  nessuno è l’uomo da nulla, l’uomo che è solo se stesso, che non ha altro da sé, proprio come Ulisse quando mette piede a Itaca mendico, Ulisse è così “nessuno”, è così povero di sé, da non riconoscere neppure la sua isola; nessuno indica l’uomo  che non ha altro che il suo essere sé; la nuda vita, che si espleta nelle funzioni basilari e fisiologiche; ma allora questo “nessuno” è qualcosa, è qualcuno, è chiunque. Diventa ogni umano, si trasforma da “no one” a “everyman”, diviene ognuno di noi. Così nelle pagine di questo capitolo assistiamo alla trasformazione di Bloom in un personaggio universale, che – alla pari di Ulisse o Amleto – travalica le pagine del romanzo, per diventare patrimonio comune del nostro immaginario.

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ULISSEIDE – Joyce, Ulisse, Appunto 2 [III-VI,83-165]

di Demetrio Paolin

CIBO. Leopold Bloom compare nell’Ulisse nel quarto capitolo (IV, 101): è impossibile fornire un quadro esaustivo di ciò che rappresenta per la letteratura novecentesca e contemporanea l’apparizione di questo personaggio. Queste righe si prefiggono  un  “compito minore e limitato” (Frank Kermode) ovvero fornire qualche appunto di lettura. L’incipit del quarto capitolo è: «Mangiava di gusto, il signor Leopold Bloom, le interiora di animali e di volatili» (IV, 101). La concretezza del gesto (il mangiare) e  la precisione nel descrivere uno stato interiore (la golosità), sono unite a un’immagine che suggerisce qualcosa di più arcaico (le interiora). In Aspetti del romanzo Forster ricorda che i personaggi – funzioni verbali create dal linguaggio – si mostrano agli occhi del lettore come reali e concreti, attraverso alcune qualità: la nascita, la morte, il sonno, l’amore e cibo: «il cibo è l’anello di congiunzione tra mondo conosciuto e mondo dimenticato; legato saldamente a una nascita che nessuno di noi ricorda, e che giunge fino alla colazione di stamani».  Bloom è rappresentato come un moderno aruspice che sonda le interiora delle bestie per mostrare ciò che siamo e diventeremo. Non è casuale che il suo taglio di carne preferito sia il rognone, filtro delle impurità corporali e luogo di produzione dell’urina. Una prima apparizione del “piscio” ha come protagonista Dedalus: «Scorre ruzzolando, ampiamente scorrendo, galleggiante pozza di schiuma, fiore che si dispiega» (III, 96). Poniamo attenzione sulla immagine del “fiore” e della “schiuma”, perché appare identica nella descrizione del gesto di Bloom: «vide gli scuri riccioli aggrovigliati del pube galleggiare, galleggiante chioma del flusso attorno al flaccido creapopoli, languido fiore galleggiante» (V, 147). Nel linguaggio biblico le reni rappresentano l’intimo, l’interno, il nascosto, il lato umbratile dell’essere umano; rimandano in qualche modo alla potenza sessuale, alla sessualità espressa e repressa.

NATURALISMO. Bloom è uno dei personaggi in cui si incarna il modernismo, eppure le sue radici più tenaci sono tipiche del romanzo realista dell’Ottocento: Bloom come Bovary, quindi? Che Joyce avesse in mente il grande romanzo di Flaubert, e lo considerasse una pietra di paragone è una ipotesi suggestiva[1] e quindi non desta stupore l’esclamazione di Stephen, «Cappello, cravatta, soprabito, naso. Lui, c’est moi» (III, 82), che ricalca un famoso motto flaubertiano.  Bloom appare a noi senza la mediazione di aggettivi. Lo vediamo compiere un’azione consueta, il mangiare, ma non sappiamo nulla del suo aspetto fisico. Solo successivamente, molte righe dopo, Joyce ce lo descrive  come “bigio e tozzo” (IV, 101): la distanza tra l’apparizione del nome “Bloom” e la sua descrizione “bigio e tozzo” è accentuata da una serie di termini semanticamente legati al cibo (interiora, volatili, cuore, rognone, il languorino, il pane, il burro, il the): il dato materiale disinnesca la descrizione fin troppo “comune” del personaggio. La diade qualificativa risalta e interroga, perché lontana dal nome proprio di Bloom; Joyce avrebbe potuto scrivere “Il signor Bloom, bigio e tozzo, mangiava con gusto le interiora di animali e volatili”, compie invece una scelta stilistica diversa, perché?

CLICHÉ. Bloom rappresenta alcuni cliché del romanzo ottocentesco a)il bisogno di soldi (IV, 106; 109; 111) ; b) la trasandatezza del vestire (IV, 104); c) una vita sessuale più sognata che attiva (IV,107) con tanto di d) tresca immaginaria via lettera(V,135). I punti a, b, c e d rappresentano in un’ottica ottocentesca gli accadimenti narrativi che conducono la freccia della nostra narrazione da un inizio a una fine. Potremmo definirli peripezie che producono il desiderio da parte del lettore di continuare nella lettura; Joyce prende quel tipo di armamentario, lo rende parodico ed estremo, come lo è la scelta di raccontare 24 ore“a caso” di un personaggio .

«Potrei buttar giù un bozzetto. Dei signori L. M. Bloom. Inventare una storia su un proverbio. Quale? Un tempo cercavo sempre di annotarmi sul polsino quello che diceva lei mentre si vestiva. Non mi piace che ci vestiamo insieme. Mi tagliavo radendomi. Lei si mordeva il labbro inferiore» (IV,122). La parola “bozzetto” è interessante. È un termine preso in prestito dalle definizioni di genere letterario in voga nell’ottocento, Bloom la pronuncia, mentre legge un  racconto (ironica rivisitazione di un racconto giovanile di Joyce) pubblicato su una rivista. Niente di nuovo: un personaggio riflette sulla sua vita sentimentale mentre legge un racconto, se non fosse per il luogo in cui avviene: «Aprì con un calcio la porta sgangherata del cesso». Bloom, accosciato sulla «cattedra stercoraria» nel «tanfo di calce muffosa», durante la defecazione, legge «in silenzio, trattenendosi, la prima colonna e poi, cedendo ma ancora resistendo, attaccò la seconda. A metà, al cedere dell’ultima resistenza, lasciò che i visceri si rilasciassero quietamente mentre leggeva, continuando a leggere pazientemente, totalmente superata la stitichezza del giorno prima» (IV, 122). Il contrappunto tra il falso racconto naturalista e la pratica di evacuazione corporea è la mimesi radicale: se dobbiamo mostrare la realtà per come è, allora non dobbiamo sottrarci davanti a nulla, neppure davanti alla merda dei nostri protagonisti. La chiusa del cap IV è talmente icastica da rappresentare alla perfezione il modo con cui Bloom e il suo autore si presentano al pubblico: «Strappò via bruscamente metà del premiato pezzo e ci si pulì il culo. Poi tirò su i calzoni, infilò le bretelle e si abbottonò. Tirò a sé la sobbalzante traballante porta del cesso e uscì dalla penombra all’aria aperta» (IV,123).

STERILITÀ. Uno dei tratti dominanti di queste prime pagine su Leopold Bloom è la sterilità. Ulisse viene pubblicato nel 1922, lo stesso anno di The Waste Land di Eliot. La sterilità, che domina entrambe le opere, non riguarda non solo la sfera sessuale, ma l’impotenza rispetto al mondo, ormai landa deserta, vuota e grigia, abitata da uomini invecchiati prima del tempo, vizzi come fiori. Si leggano i versi della terza parte di The Waste Land (https://poetryarchive.org/poem/waste-land-part-iii-fire-sermon/) e si accostino a «Una landa sterile, nudo deserto. Lago vulcanico, il mar morto: niente pesci, senza alghe, sprofondato nella terra. Nessun vento potrebbe sollevare quelle onde, grigio metallo, fosche acque velenose. Un mare morto in una landa morta, grigia e vecchia. […]. Ma ha generato i progenitori, la prima stirpe. […]. Adesso non poteva più generare. Morta; di una vecchia; la grigia figa infossata del mondo» (IV, 110). La comunanza d’immaginario è certamente interessante, come se derivasse da uno choc di percezione, che è primariamente linguistico[2]. La sterilità della natura è legata in Bloom a una riflessione sulla propria stirpe (IV,110). C’è quindi un rapporto stretto tra sterilità/ discendenza. Nella scena dell’urina (V, 147) questa tensione è presente nel rapporto tra aggettivo – floscio –  e nome –  creapopoli – . La vita sessuale di Bloom è legata a fantasie sessuali, difficilmente realizzabili: la cameriera dei vicini di casa incontrata dal panettiere (IV, 107), la blasfema descrizione della comunione in chiesa: «Il prete passavo loro davanti a una a una, mormorando, reggendo la cosa tra le mani. […] Si fermò a ciascuna di esse, estrasse l’ostia, […], e gliel’infilò destramente in bocca» (V,139);  e infine l’amante Martha (V, 134). Bloom nutre per Martha un  desiderio sessuale de lonh. In una versione deforme dell’amore cortese, Bloom, che si fa chiamare da Henry Flower (V, 137), esprime il proprio desiderio in termini di trobar clus: «Arrabbiata tulipani con lei adorata orchide italica punisco il suo cactus se non accontenta la povera nontiscordardimé quanto anelo viole al caro rose, quando noi presto anemone ci conosceremo tutti ragazzacci belladonna moglie di profumo di Martha» (V, 135). Il desiderio più che esperito è un fatto linguistico, sublimato desiderio in parole. È necessario che la parola, quindi, venga chiarita, per ben due volte a Bloom viene chiesto il significato di una parola i) Martha: «La prego, mi dica qual è il vero significato di quella parola» (V,135); ii) Molly: «Dimmelo con parole semplici» (IV, 114-115 ).

FIGLIO. Rudy è la parola segreta, che costringe Bloom a produrre immaginazioni sessuali sterili. Il figlio morto di Leopold e Molly Blom viene nominato la prima volta con queste parole: «Ha capito [si riferisce alla levatrice] che il buon piccolo Rudy non ce l’avrebbe fatta. Be’. Dio è buono, signore. L’ha capito subito. Avrebbe undici anni, se fosse vissuto» (IV, 118). L’immagine di Rudy continua a circolare sotterranea nelle pagine successive, che Bloom pare allontanare con il ricorso a ragionamenti economici. Se il figlio morto è un pensiero latente e oscuro, l’altro polo del pensare è economico: Bloom è spesso descritto mentre fa di conto, come quando si chiede quante pinte di birra abbiano venduto i proprietari della Guinness per diventare così ricchi: «Due pence a pinta, quattro pence per un quarto, otto pence a gallone di porter, no, uno e quattro pence a gallone di porter. Venti diviso uno e quattro: quindici circa. Sì, esattamente. Quindici milioni di barili di porter. Cosa dico barili? Galloni. Comunque circa un milione di barili» (V, 137). Bloom comprende le persone tramite un valore di economico, come un far tornare i conti, un mettere in ordine guadagni e perdite. Rudy è, perciò, la restituzione mancata, la cifra errata dell’addizione, è la falla del suo pensiero: «Una faccia da gnomo, viola e grinzosa, come era quella del piccolo Rudy. Un corpo da gnomo, fragile come il gesso, in una cassa di abete foderata di bianco. Funerale pagato dalla società del muto soccorso. Un penny alla settimana per una zolla di terra. Nostro. Piccolo. Straccione. Bimbo. Senza senso. Sbaglio di natura. Se è sano dipende dalla madre. Altrimenti dall’uomo. Andrà meglio la prossima volta». (VI, 162). Ecco che la tensione tra dentro e fuori, tra sterilità e sesso, tra cibo e escrementi qui si coagula terribilmente “se è sano dipende dalla madre, altrimenti dall’uomo”: il sesso ha prodotto uno sbaglio della natura, uno gnomo grinzoso, qualcosa che non può essere restituito, una morte che ha valore di perdita anche economica (il penny alla settimana), qualcosa di irrimediabile, infine, che rende malinconico e triste, simile a una sbronza,  il bozzetto tardo ottocentesco di Molly e Leopold (IV.122).


[1]      Lo stesso Italo Svevo considerava l’Ulisse un’opera che portava a compimento la poetica realista.

[2]      Nel saggio Narratore Benjamin lo afferma chiaramente: “Non si era visto, alla fine delle guerra, che la gente tornava dal fronte ammutolita, non più ricca, ma più povera di esperienza comunicabile?”

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ULISSEIDE – Joyce, Ulisse, Appunto 1 [I-II-III, 21-83]

di Demetrio Paolin

BUCK. Dell’incipit del romanzo, o meglio del periodo che apre il romanzo,  sottolineo il soggetto e le sue apposizioni: «Statuario, pingue, Buck Mulligan» [I, 21]. Cosa si vede?  In primo luogo la mescolanza di alto e basso, non tanto nel registro linguistico, quanto concettuale: “statuario” ci porta alla mente i monumenti; mentre “pingue” afferisce certo all’obesità,ma è connotato dal suo riferimento a Falstaff, il personaggio scespiriano definito più volte nelle sue apparizioni come “pingue”. Sono sufficienti, quindi, poche parole per capire già quale sarà il linguaggio dell’Ulisse: alternanza di registro alto e basso, marcata inter-testualità. Proseguendo nella lettura, troviamo lo “specchio” e il “rasoio”, due oggetti neutri in sé, ma il loro posizionamento a croce e la successiva citazione latina dal salmo attirano la nostra attenzione. Buck è un sacerdote che celebra una messa o un surrogato di essa.  L’intento parodico (non in senso spregiativo) dell’Ulisse, quindi, è sin dalle prime righe decisivo: la natura dei grandi romanzi  è di presentarsi come antimodello.

STEPHEN. Quindi (clausola temporale) appare Stephen Dedalus: la sua descrizione non è incentrata sul corpo (vd. Buck), ma sul suo nomignolo: Kinch. La parola allude al termine bambino, ma assonante nel significante al rasoio affilato.  Stephen, perciò, lo abbiamo già incontrato, senza riconoscerlo, nel rasoio delle prime righe, accompagnato dallo specchio. Specchio che ritorna  [I, 30] nel momento in cui Stephen si domanda: «Come mi vedono lui e gli altri? Chi mi ha scelto questa faccia?». Tale interrogativo potremmo rubricarlo sotto il tema del discorso dell’orfano: Stephen ritorna sul tema della madre, della sua morte e sul tema del padre, che è presente come ragionamento letterario: il dialogo e le riflessioni su Amleto [I, 47-48], ma anche all’elenco delle diverse eresie [I,51], che hanno appunto come loro centro il rapporto tra Padre e figlio; mentre nel capitolo III la figura del padre si incarna nella voce «consustanziale» [III, 78], che si mescola con il flusso di pensieri diretti di Dedalus. Questo tema è il primo punto di contatto tra Ulisse e Odissea, molto più  che le corrispondenze architettura narrativa o le citazioni dei calchi omerici; infatti nell’Odissea il viaggio ha a che fare con l’identità. Ulisse, declinando il suo nome come nessuno, non mette solo in atto uno stratagemma furbesco, ma attribuisce a sé stesso una condizione umana monca: Ulisse è letteralmente nessuno, uomo da nulla, è stato re marito guerriero, ma mentre fugge da Polifemo, non è più nulla. Telemaco, nel parallelo istituito da Omero, vive la stessa condizione del padre, non più figlio, non più figlio di re, non più pretendente al trono, si trova nella stessa situazione del padre: non è nessuno.  A questo viaggio come movimento esteriore che produce cambiamenti interiori si può collegare il susseguirsi delle azioni e dei gesti nelle prime pagine del romanzo, nelle quali è ravvisabile una sorta di dicotomia tra dentro e fuori. Se ripercorriamo i gesti dei personaggi noteremo che a) Buck e Stephen sono sulla torre (fuori), b) poi entrano dentro una stanza (dentro), c) escono (fuori), d) quindi Buck si immerge nel mare (dentro); e) Stephen è in classe (dentro), f) poi i suoi ragazzi escono per giocare (fuori), g) poi lui entra dal preside Deasy (dentro), h) quindi esce per andare dallo zio (fuori) e i) infine è a casa dello zio (dentro).  Questo continuo dentro/fuori, che è spaziale, ha una declinazione fisica in Stephen, anzi nella parole che Buck dedica a lui: «Il moccichino del bardo. Un nuovo colore per i nostri poeti irlandesi: verde moccio» [I, 28]. Il moccio esce dall’intimo di Stephen: è segno preciso dell’interiorità del protagonista.  È sintomo di qualcosa di marcio, che egli ha dentro di sé: in questo verdastro, che ricorda la tonalità di certi incubi di Shakespeare, pieni di acqua putrida e torbida, non c’è nulla di salutare. Ecco l’identità di Stephen è una identità di colpa come gli ricorda Buck: «La zia pensa che sei stato tu a uccidere tua madre» [I, 29]. In queste prime pagine il tema della morte della madre si presenta spesso  [ I, 30-31; II, 61], ma mi soffermo su un episodio del capitolo II , Stephen pone un antico un indovinello ai suoi alunni: «Cantava il galletto/il cielo era perfetto: del paradiso i batacchi/battevano undici rintocchi./ È ora che quest’anima buona/vada in paradiso.// Cos’è?» [II, 59]. Mi soffermo su quest’ultimo stralcio di testo, perché appunto l’indovinello è un’interrogazione profonda sull’identità. Nei versi possiamo individuare una serie di echi evangelici, il canto del gallo/tradimento, “è ora”/consumatum est dal vangelo di Giovanni, le ore battute/le tre del pomeriggio orario della morte di Cristo. Siamo davanti a una piccola passione, al racconto di una morte e di un tradimento.  A  pronunciare questo indovinello è Stephen che come abbiamo visto è accusato di aver “ucciso” la madre.  Reso più esplicito l’indovinello, anche la risposta allo stesso deve essere interpretata. Dopo alcuni tentativi a vuoto dei suoi alunni, ecco la risposta alla domanda: «La volpe che seppellisce la nonna sotto un cespuglio di agrifoglio» (II, 59).  Rispetto alla risposta tradizionale, Stephen non usa il termine “madre”, ma “nonna”: una sostituzione, un breve scarto, un lapsus, che mostra chiaramente la sua colpevolezza.

MADRE/MARE/ESILIO. L’immaginario legato alla madre non si conclude qui. Joyce gioca una serie di rimandi narrativi, di tessiture di vocaboli, che in un certo senso legano il tema del mare e a quello della madre. Buck stabilisce un rapporto tra mare e verde moccio tramite il calco omerico de «Il mare color verde moccio» [I, 28], poche righe prima Buck ha dichiarato che il mare è «una dolce e grande madre» [I, 28], e successivamente con una piccola variatio sostiene che l’acqua è «la nostra potente madre». La trasformazione del mare nella madre e il successivo legame con la colpa di Stephen avviene poche righe più sotto: «Attraverso l’orlo liso del polsino vedeva il mare salutato nei termini di grande dolce madre dalla ben pasciuta voce al suo fianco. L’anello di baia e orizzonte racchiudeva un’opaca massa di liquido verde» [I, 29]. Il mare verde suggerisce anche la madre patria. Anche in caso Joyce gioca con una serie di rimandi, che infine legano il mare al latte, bevuto durante la colazione [I, 39-41]. A tenere insieme è l’apparizione di una vecchia, osservata tramite gli occhi di Stephen: «La guardò versare nel misurino e da lì nel bricco sostanzioso latte bianco, non suo. Vecchie poppe vizze. Ne versò di nuovo una misura […] strega seduta sul suo fungo velenoso, le rugose dita svelte sui capezzoli spruzzanti. Muggivano intorno a lei, che conoscevano, animali serici di rugiada. Seta di vacca e povera vecchia, come chiamavano un tempo l’Irlanda. Una vecchia errante» [I, 41].  Queste parole possono essere lette in parallelo con quelle [II, 61] in cui Stephen racconta di come sua madre «con il suo sangue debole e il latte acido di siero lo aveva nutrito e aveva celato alla vista degli altri le sue fasce». Il tema della madre patria che nutre da tette vizze simboleggia l’esilio, che viene introdotto da alcuni riferimenti al cibo e al denaro che si coagulano in una serie di riflessione sulla condizione ebraica (di per sé esiliata). Nel cap. II assistiamo al colloquio tra Stephen e il preside Deasy che all’atto di pagare Dedalus per il suo lavoro di insegnante, dà il via una lunga tirata, dove sono ripresi molti dei temi tipici contra judaeos: «Hanno peccato contro la luce. E gli si vede il buio negli occhi. Ed è per questo che vanno tuttora errando sulla terra» [II, 69].  Poche pagine prima [II, 58] Stephen si paragona a un essere che non sopporta la luce: «[…] sotto lampade di luminescenza, impalati, con antenne che fremevano lievemente; e nel buio della mia mente un bradipo da inferi, riluttante, schivo della luce, che muoveva le sue scagliose spire di drago. Pensiero è pensiero del pensiero. Luce tranquilla». Si può ipotizzare una sorta di sovrapposizione sulla condizione dell’erranza ebraica e la propensione alle tenebre, secondo le parole del preside Deasy, e la condizione all’esilio e al buio di Stephen Dedalus, che infatti afferma: «Io non vedo niente»[II, 58]. Il tema dell’ebreo errante e l’erraticità saranno fondamentali nello sviluppo del romanzo, ma già qui se ne avvedono i prodromi.

PARANOIA. «Guarda. Sempre lì senza te: e sempre, nei secoli dei secoli» [III, 76]. Nel capitolo III si incontra questa affermazione, che pare alludere alla reale. Esiste una realtà che è inaccessibile, che sta “lì senza di te” e da sempre, sono le cose reali e concrete; gli alberi, la malattia, il cibo, lo sperma, la gioia, i pensieri, il sesso e la morte sono cose che sfuggono a una concreta comprensione. C’è un albero qui davanti alla mia finestra: posso dire una serie di cose su questo albero, come è cresciuto, quando ha messo le gemme, quando ha messo le foglie etc etc; ma come posso conoscere quello che l’albero è? Posso solo immaginare quello che l’albero è, posso solo dire cosa è in relazione a me: la realtà che io descrivo è soltanto in relazione a me soggetto che la guardo, non ne ho esperienza. Potremmo definirla una sorta di paranoia, perché quello che lo scrittore spaccia per descrizione di realtà è solo un insieme di convinzioni, che sono indimostrabili, nella massima parte, e false per il rimanente. La narrazione è una forma di paranoia, la più alta ed evoluta se volete, che permette all’autore di codificare una serie di corrispondenze che vede solo lui. Il lettore è costretto a credere – tramite il rapporto sintassi, logica compositiva, storia – all’autore della storia e ai suoi personaggi. La famosa “sospensione di credulità” è appunto un avallo di una paranoia. La realtà e la letteratura sono due entità separate. «I segni caratteristici di tutte le cose, io sono qui per leggere» [III, 75]. Joyce parla dei signa rerum, i segni delle cose, delle impronte, che qualcuno deve interpretare: questo esclude la possibilità di conoscere la cosa in sé;  del reale conosciamo solo i segni, le orme, il passaggio, non la intima essenza: si conosce negando la realtà, si conosce costruendo una riproduzione di un impronta negativa.

Nota: L’edizione che seguo in questa lettura annotata è J. Joyce, Ulisse, trad. M.Biondi, Nave di Teseo (2020). I numeri romani capitali indicano i capitoli, i numeri arabi la pagina di questa edizione. Qualora e in qualche citazione si usasse un’altra edizione verrà ovviamente segnalata.