Quando Jack Frusciante uscì dal gruppo alcuni di noi si aggiravano tra i banchi del liceo, altri erano già stati assorbiti dal flusso palpitante che riempie le aule universitarie. Tutti proiettati verso un futuro che sembrava aspettare solo i figli del benessere e della tivù commerciale, quella generazione X giudicata viziata tanto dai boomers quanto dai millennials. La generazione di mezzo, quella su cui i padri avevano investito capitali, riversato aspettative e, spesso, anche un certo desiderio di riscatto. I ragazzi degli anni Novanta, incastrati nel mezzo, tra un prima irripetibile, inarrivabile, e un dopo che si prospettava eccezionale. I ragazzi degli anni Novanta, gli anni del post comunismo e dell’Europa unita e a portata di Interrail, gli anni dei Segreti di Twin Peaks e del Pool di Mani Pulite, della fine della Prima Repubblica e del caos annunciato dalla Seconda. Eppure, il fascino che quegli anni esercitano ancora oggi è fortissimo e non solo in Italia. Già nel 2018 Nicholas Mathieu, con E i figli dopo di loro, ripercorre una storia della provincia francese negli anni Novanta: è proprio la provincia in quegli anni a ricoprire un ruolo fondamentale; ed è proprio lì, nella maggior parte dei casi, che in Italia si annida il germe della “narrazione cannibale”. Appena un momento prima c’era stato il Gruppo 13 di Lucarelli, Teodorani e compagnia che aveva raccontato una Bologna underground: costruendo storie che si ispiravano alla tradizione del noir all’italiana, quello di Scerbanenco e De Angelis e che non disdegnava atmosfere più cupe, con richiami al grottesco e al cyberpunk, il gruppo aveva dato una nuova connotazione a quel fantastico che era già stata la cifra di un altro milanese (integrato) come Buzzati. Ma all’ombra delle Due Torri non accadeva solo questo. Gli anni Novanta sono stati anni strani, anni in cui acquisivamo la consapevolezza che l’incanto si era spezzato. Allo stesso tempo, però sentivamo di dover chiudere finalmente i conti con la storia del Novecento, con il millennio e tutto il resto, gli anni della polvere sotto il tappeto, del muro di gomma a fare ancora da barriera a certi misteri di Stato ma anche a misteri apparentemente più piccoli. E allora ci accorgiamo che la narrazione maggiore – quella di Ustica ad esempio – trova punti di contatto con certe narrazioni della gente comune. Via Poma, Marco Dimitri, i fratelli Savi e la loro Uno bianca… Tutti questi eventi, nomi, date, si impastano e rimescolano fino a diventare una nuova vulgata. La gente comune è ora attratta morbosamente dai nuovi casi di cronaca nera che, altrettanto morbosamente, riempiono prime pagine e i palinsesti delle piattaforme streaming. Eppure, qualcuno aveva anticipato i tempi. Ad esempio, un gruppo di scrittori che a partire dai primi anni Novanta solleva il tappeto e ci sbatte in faccia lo sporco che nasconde. Sono i cosiddetti Cannibali: così li chiamò Daniele Brolli nell’antologia che curò nel 1996, Gioventù Cannibale.
Storie di quotidiana brutalità, popolate da mostri della porta accanto, banali, quasi anonimi rispetto ai loro più famosi predecessori. L’incubo metropolitano è fatto di figli, amici o semplici sconosciuti che diventano assassini per noia, per interesse, per puro sadismo o ferocia fine a sé stessa. Cronaca e finzione si mescolano, senza soluzione di continuità e le città finiscono per assomigliare sempre più alla Londra di Dylan Dog, investigatore di quell’incubo di carta e china, nato dalla fantasia di Tiziano Sclavi, snobbato dai fans di Tex Willer e Diabolik ma iconizzato dai loro figli.
Il movimento cannibale non era diverso dalla società che lo ha generato. Come un Leviatano, per qualche anno ha agitato il mare dell’editoria, per un fugace momento lo ha dominato, ma poi ha finito per fagocitare tutto, anche sé stesso. Eppure, la sua essenza, più che il semplice ricordo, è sopravvissuta al suo stesso nome. Ha dato l’imprinting a una nuova generazione di scrittori affascinata dall’estetica di questo movimento non compreso fino in fondo, quasi ghettizzato e l’ha riformulata. Ha guardato a quelle storie usando un filtro, ha addomesticato la ferocia con il riuscito espediente del gotico, del realismo magico di un tempo, con richiami al folklore e all’esoterismo.
A quasi trent’anni dalla celebre antologia, i Cannibali continuano a mordere attraverso nuove bocche e nuovi denti forse meno affamate di un tempo ma consapevoli di quanto quella narrazione della realtà sia stata profetica. Oggi che la cronaca ci restituisce verità ancora più agghiaccianti delle storie di lupi mannari bolognesi o certe ritualità fluo.
Cosa ne è stato di quella generazione di scrittori che, in blocco, sembrava destinata a macerare i vecchi arnesi della narrazione italiana? Si sono sparpagliati, un poco anche dispersi, ma il seme fu piantato. E oggi che Aldo Nove con Pulsar conferma la nuova vocazione autobiografica, ma non rinuncia a un linguaggio crudele; Isabella Santacroce con Magnificat amour accosta desideri e calvari (con Il Saggiatore a patrocinare il repêchage dei vecchi cannibali: si conta anche la riedizione di Woobinda) e, infine, Enrico Brizzi annuncia il sequel di Frusciante, si fiuta da lontano – forse – di nuovo l’odore acre di eccessi dimenticati.
Saranno accolti saggi (max 30000 battute) o articoli (max 15000 battute) su autori e temi legati ai Cannibali, con una attenzione particolare ai caratteri di un fenomeno ormai storicizzato; a quanto si è conservato della esperienza originaria e quanto è stato mutuato nelle scritture odierne e nei nuovi media, digitali e non.
Le proposte di contributo, con allegato abstract di max 150 parole e un breve profilo biografico, vanno inviate entro il 31 settembre 2024 al seguente indirizzo e-mail :
6 maggio 2023: compleanno di C., su un bigliettino di auguri vi è scritto «Che la forza sia con te», un suo amico commenta in modo spontaneo e naturale: «Ah sì, la frase iconica di Guerre stellari».
24 maggio 2023: muore Tina Turner. L’addetta stampa della Casa Bianca, Karine Jean-Pierre, la definisce un’icona, «un’icona della musica che ha vissuto molti momenti incredibili nella sua carriera».
Due episodi diversi, uno di vita privata, l’altro di vita pubblica e, per quanto riferito prima ad una persona e poi ad una frase, l’aggettivo che compare in entrambi i contesti è lo stesso: iconico. Questo dimostra quanto pervasivo sia il suo uso. Iconico allude al sacro, al culto, alla fede. Ma cosa oggi è degno di devozione e di culto? Tante volte viene ripetuto, citando Lyotard, che il postmoderno ha segnato la fine delle grandi narrazioni. E questo sarà anche vero, ma siamo sicuri che il viscerale bisogno di creare dei miti e degli idoli sia scomparso? Questa esigenza o aspirazione a qualcosa di “altro” in realtà è un’urgenza del tutto umana a cui non è possibile rinunciare. È chiaro però che questo bisogno cambia, si estende e si indirizza verso nuovi soggetti, oggetti o feticci degni di culto. A questa impellente necessità risponde tutto ciò che oggi viene definito iconico. Sembra che si stia costruendo un nuovo pantheon che pare mettere in discussione la tradizione, ma che non fa altro che assecondare un bisogno ineliminabile. Quali sono, però, gli oggetti di culto di oggi?
Per capirlo si prenda in considerazione un autore che in maniera originale sfrutta e reinterpreta in modo alternativo tutto ciò che è considerabile iconico, cioè Zerocalcare. Attraverso le sue storie, per mezzo di un lavoro di autofiction, Rech crea un universo alternativo, parallelo al nostro, che però «mantiene tutta la durezza tagliente di quello reale» (Cocchi 2014, p. 223), in cui le sue opere (siano esse fumettistiche o d’animazione) ne sono i tasselli costitutivi. È un mondo ibrido e surreale, in cui realtà e fiction si compenetrano senza soluzione di continuità, creando delle intricate relazioni intertestuali (cfr. Ursini, 2018a, p. 4) e dando vita a una vera saga o, meglio, ad un epos, a tratti lirico, della quotidianità. Questo storyworld, continuamente interrotto da osservazioni metanarrative in cui il reale prende il sopravvento creando dei cortocircuiti, è un vero specchio in cui riflettersi.
Tale universo è abitato da un’ampia varietà di personaggi che crescono, cambiano, evolvono nei vari libri. Oltre al celebrearmadillo, compaiono personaggi di varia natura: quelli ritratti con fattezze reali, come l’alter ego dell’autore, Zerocalcare, o l’amico Secco; i personaggi zoomorfi come l’amico Cinghiale, ritratti con fattezze animalesche; infine figure nate dall’unione tra un ipotesto pop o scolastico a cui fanno riferimento e il personaggio reale che interpretano nella storia, come la presenza dolcissima di Lady Cocca. In quest’ultimo caso, come è ben noto, il bacino a cui l’autore attinge proviene da serie e film d’animazione, come Ken il guerriero, videogiochi, come Street Fighter 2, cinema, come Star Wars e Jurassic Park, serie tv, come Game of Thrones, e dalla realtà presente o storica, come Darwin, Pirandello, Margaret Thatcher, etc. Conta soffermarsi su quest’ultimo gruppo di personaggi, che alludono alla cultura pop o scolastica e che talvolta possono anche convertirsi in parti della coscienza del protagonista dando vita a vere e proprie psicomachie (cfr. Capoferro 2020, p. 163), perché in tutta la produzione questo è forse il più copioso e perché è quello che maggiormente ci aiuta a cogliere il senso di ciò che è definibile iconico e l’origine del nuovo pantheon di divinità a cui si alludeva pocanzi. In Un polpo alla gola, storia dalle tinte noir in tre tempi corrispondenti alla fase infantile, a quella adolescenziale e a quella presente, la coscienza bambina viene impersonata da David Gnomo, la coscienza dei sedici anni da Kurt Cobain, Joe Strummer e Che Guevara, e la coscienza dei ventotto anni dai tre porcellini. Inoltre, come si vedeva precedentemente, può anche capitare che in alcune storie per alludere a particolari aspetti e sensibilità della propria coscienza si utilizzino personaggi storici, come ne La profezia dell’armadillo,in cui ad esempio la sensibilità ambientalista che induce un conflitto interiore nel protagonista, che non sa se andare o meno a mangiare in fast food perché, tra le altre cose, contribuirebbero alla distruzione del pianeta e all’omologazione dei popoli, è interpretata dall’ambientalista indiana Vandana Shiva (Zerocalcare, 2017a). Questo personaggio, oltre le sue tre tavole, non comparirà più, ma il suo inserimento ha contribuito a rendere meno piatto e sicuramente più dinamico un continuo monologo interiore che si trasforma in dialogo. Se allarghiamo lo sguardo a tutta la produzione notiamo che ci sono momenti in cui come consigliere avrà Darwin (Zerocalcare 2017b, p. 37), altri Noam Chomsky (Zerocalcare 2020, pp. 10-20), altri Re Leonida di 300 (Zerocalcare 2017a), altri ancora Galileo Galilei (Zerocalcare 2015, p. 59), Marx (Zerocalcare 2019, p. 73) e tanti altri, che compaiono come dei brevissimi flash, creando un parodico effetto-sorpresa disorientante, in un pastiche apparentemente caotico, ma sapientemente ordinato per il lettore inserito in questa dimensione altra in cui, per l’appunto, c’è un continuum tra verità e finzione. Questo lavoro, la cui tecnica viene ripresa dal fumettista francese Boulet (cfr. Scarpa 2013, p. 74), ha un’utilità pratica, cioè descrivere i personaggi e la loro psicologia in uno spazio ridotto. Disegnare un personaggio in un certo modo che collettivamente viene associato ad un certo tratto caratteriale consente di essere subito comprensibili. L’autore lo conferma: «se io un personaggio te lo disegno come Dart Fener, non devo spiegarti: “guarda che lui in verità è cattivo ecc. ecc.”, tu lo percepirai subito come cattivo, nero, quindi questo lavoro sui personaggi mi faceva andare più in fretta nel racconto» (Scarpa 2013, p. 74). Questo vale moltissimo per le storie brevi del blog, ma anche per i libri di più ampio respiro. Non sempre, però viene usata la caratteristica che più spicca di un determinato personaggio di un film o serie, ma vengono sfruttati anche dei caratteri a cui non sono universalmente associati (cfr. Scarpa 2013, p. 73) o vengono utilizzati personaggi secondari. Sarebbe, infatti, ridondante adoperare staticamente dei tipi già creati e stereotipati. Qui, invece, avviene una traslazione in cui l’ipotesto assume nuova vita nel testo di arrivo. In questo caso l’esempio emblematico non può che essere il personaggio Julian Ross del cartone animato giapponese Holly e Benji, utilizzato in Macerie Prime e Macerie Prime – Sei mesi dopo. Questo diventa il simbolo del talento inespresso – «E mentre tutti i bambini si appassionavano ai due protagonisti, il nostro beniamino era un altro […] Julian Ross. Quello con la malattia cardiaca per cui, pure se era fortissimo, poteva giocare solo 10 minuti a partita, sennò infartava. “Il più grande talento inespresso del calcio giapponese”, dicevano» (Zerocalcare 2017b, pp. 86-87) – e vero e proprio protettore del protagonista e dei suoi amici, che regalano il biglietto con la sua faccia al matrimonio di uno di loro (Zerocalcare 2018a, p. 85). Se nell’anime Julian Ross era un personaggio secondario, qui finisce per acquisire nuovo potenziale narrativo lungo tutti e due i volumi di Macerie Prime e addirittura la sottotrama distopica, quella con le pagine nere, si risolve con la figura misteriosa che si muove nel mondo post-apocalittico che rivela di essere proprio Julian Ross (cfr. Zerocalcare 2918a, pp. 176-179). Queste metafore visive, metafore disegnate o, forse meglio, vere e proprie allegorie grafiche (cfr. Capoferro 2020, pp. 153-176), assumono un senso ben preciso in questo specifico contesto. Tali personaggi disegnati attraverso «visual and/or multimodal metaphors» (Ursini 2018, p. 4) creano delle relazioni intertestuali tra uno o più risorse e storie di Zerocalcare, creando un mondo narrativo in cui varie memorie autobiografiche e fonti culturali coesistono in un centro deittico esteso (cfr. Ursini 2018, pp. 6-7) e in un cui si salda una fitta rete a maglie strette tra fumetti e riferimenti esterni, un vero e proprio network coinvolgente. Dart Fener, Julian Ross, Re Leonida di 300, Il trono di spade e Jurassic Park, fino a Tina Turner e che la forza sia con te alludono precisamente al medesimo concetto di icona e al medesimo nuovo pantheon laico di totem da divinizzare. E nessuno è escluso, anche se si crede nella lotta al capitale. E questo lo dimostra lo stesso autore romano. È naturale, infatti, chiedersi che cosa ne resta della lotta al capitale in un autore che finisce per fare fortuna proprio sfruttando quei meccanismi prodotti dal capitalismo stesso. Ecco perché Maringelli si chiedeva cosa significasse avere un immaginario legato a film, serie tv, cartoni animati, videogiochi se ci si definisce anticapitalista. «Significa produrre, e sentirsi addosso, un continuo cortocircuito» (Maringelli 2015). Le merendine, i fast food, Netflix e le case editrici alludono a qualcosa che, nel bene o nel male, ci ha prodotti e ci costituisce, è inutile ipocritamente negarlo. Si può risolvere questo paradosso? No. L’autore non propone né la fuga verso un utopico mondo puro e incontaminato né il generico e banale “fa tutto schifo”. È proprio nel paradosso e nella contraddizione che si continua a vivere. La speranza può venire solo dalla collettività, ma la lacerazione, la frattura, la si continua a portare con sé senza nasconderla. Il fumettista continua a rimanere legato ad un mondo molto radicale, ma allo stesso tempo è «un autore mainstream, che può incidere sui media di massa e modificare le relazioni interne al mercato, non solo nello specifico del fumetto, ma in maniera crossmediale, dalla carta stampata al digitale alla televisione» (Bindi 2022, p. 62). E, almeno a livello tematico, non c’è schizofrenia tra le due parti, ma continuità. La radicalità viene mantenuta anche nel mainstream. Se, per esempio, realizza un manifesto per sostenere il blocco della vendita delle armi in Turchia (Zerocalcare 2018b, p. 59) che rappresenta un salvadanaio a forma di maialino con sopra impresse le bandiere dell’UE e dell’Italia che rimpinguano con le sue monete le armi turche, utilizzate poi per distruggere e creare disastri, nel libro che vende più di centomila copie non può che continuare a parlare di quanto l’impatto della Turchia sia deleterio sul gruppo dei curdi.
Eleonora Brandigi sostiene che
l’arma vincente di Zerocalcare è in assoluto l’idea di dipingere la sua generazione, di identificare, così facendo, un lettore tipo (un trentenne o più in generale chi è cresciuto negli anni ’80-’90) e, in perfetto stile amarcord, di proporgli un catalogo inesauribile di citazioni, dai fumetti alle serie tv, dai cartoni animati ai personaggi simbolo della propria infanzia. Il piacere del lettore si scatena nel momento in cui emerge l’imprinting della propria generazione, il rimosso torna presente e scatta l’innamoramento, ai limiti dell’assuefazione, per l’autore che è capace di provocare tale piacere. Ecco quindi la serie di cammei di Guerre stellari, Ken il guerriero, Mila e Shiro, Kurt Cubain (Brandigi 2020, p. 153).
Lo stesso innamoramento scatta ammirando i meravigliosi frames di un altro capolavoro molto recente, ossia il film d’animazione prodotto da Pixar Animation Studios del 2021, Luca,diretto da Enrico Casarosa. Il film, che vuole celebrare l’amicizia oltre le differenze e i pregiudizi, finisce per celebrare volutamente tutto ciò che il Bel Paese ha di iconico, tutti i meravigliosi cliché e i miti di un’Italia sognata più che realmente esistita o esistente, convertendosi però, anche in questo caso, in qualcosa di terribilmente necessario. Le Vespe, le 500, la riviera Ligure, Mastroianni, Pinocchio, Leonardo Da Vinci, la pasta, Roma, Calvino (come dimenticare che la piccola Giulia ha come cognome Marcovaldo e che a Portorosso c’è Piazza Calvino?), Visconti, La strada di Fellini, Vacanze Romane di William Wyler, La donna è mobile di Giuseppe Verdi, Viva la pappa col pomodoro di Rita Pavone, Andavo a cento all’ora di Gianni Morandi sono solo alcuni dei tantissimi riferimenti alla cultura italiana presenti. Ci si trova di fronte al culto e al trionfo del nazional-popolare. Potrebbe sembrare qualcosa di kitsch e di cattivo gusto, eppure lasciandosi trasportare dal susseguirsi di quelle immagini iconiche si scopre che si tratta di un piccolo capolavoro artistico e si prova anche una calda sensazione di comprensione e sana appartenenza.
Che le icone siano dei fenomeni di massa è, dunque, appurato. È bene, però, ricordare che i fenomeni di massa non sono certo, poi, una novità assoluta. E se è vero che sempre si è sentito il bisogno di storie di eroi ed eroine, di avventure, di poteri, di spade, ma anche di un epos che si fa progressivamente più quotidiano, il modo in cui esprimere questi bisogni nei secoli è cambiato. In fondo una saga cinematografica popolare come Star wars non è altro che una storia di cavalieri, spade, armature e amore, niente di troppo dissimile dal poema ariostesco. Oppure i celebri supereroi del cinema e del fumetto, spesso, sono ispirati ai protagonisti dei feuilleton ottocenteschi come I tre moschettieri o alle divinità della mitologia classica. Insomma, cambiano le forme, cambiano i mezzi, in parte cambiano i messaggi, ma vi è un nucleo di necessità e urgenza che rimane costante e permane, anche a distanza di secoli: è la base dei cosiddetti classici.
TESI CITATI.
Valerio Bindi, 2022, Il paradosso di Rebibbia, in Leggere Zerocalcare 2.0. Nuova guida ai fumetti di un antieroe, a cura di Laura Scarpa, Roma, ComicOut.
Eleonora Brandigi, 2020, La vittoria del graphic novel, in Il graphic novel. Un crossover per la modernità, a cura di Elisabetta Bacchereti, Federico Fastelli, Diego Salvadori, Firenze, Firenze University Press.
Riccardo Capoferro, 2020, Allegoria e racconto grafico: il caso di Zerocalcare, in «Aisthema», VII, num. 1.
Gaia Cocchi, 2015, Comix riot. Il Graphic novel come forma di arte politica, Roma, Bordeaux edizioni.
Claudio Maringelli, 2015, Zerocalcare: facilità interpretativa o appropriazione dei modelli?, in «Fumettologica», pubblicazione on line:
Laura Scarpa, 2013, Zerocalcare. L’ascesa dell’Armadillo, dai centri sociali, ai blog, alle librerie. Come il fumetto intelligente può vincere, Roma, ComicOut.
Francesco Alessio Ursini, 2018, ´Alla ricerca dei Plumcake perduti´: visual metaphors, satire, and intertextuality in ZeroCalcare’s fumetti, in «Journal of Graphic Novels and Comics», 28 dicembre.
Zerocalcare, 2015, L’elenco telefonico degli accolli, Milano, BAO Publishing.
-, 2017a, La profezia dell’armadillo. Artist Edition, Milano, BAO Publishing.
-, 2017b, Macerie Prime, Milano, BAO Publishing.
., 2018a, Macerie Prime – Sei mesi dopo, Milano, BAO Publishing.
-, 2018b, Scavare fossati – nutrire coccodrilli, Milano, BAO Publishing.
-, 2019, La scuola di pizze in faccia del professor Calcare, Milano, BAO Publishing. -, 2020, Scheletri, Milano, BAO Publishing
Proprio l’individuazione di un fulcro permette di cogliere la foto in un unico colpo d’occhio, come ensemble. E la vera abilità diventa non tanto quella di fotografare, quanto di scegliere lo scatto fra tanti. Oggi il digitale ha reso questa pratica gratuita. Ecco perché su Instagram ci sono tante belle composizioni: sono l’esito di molti tentativi e centinaia di scarti. Ciò è possibile perché un’immagine da valutare in pochissimi secondi e pochi centimetri è in fondo pensata esclusivamente per l’oeillade. Il successo di un quadro o di un’immagine sta tutto nella sua riproducibilità tecnica: deve funzionare in un istante, magari stampato, piccolo quanto una cartolina.
Walter Benjamin, in un testo cruciale per il dibattito delle immagini, sosteneva che la riproducibilità tecnica delle opere avrebbe comportato una perdita della loro aura, cioè quella fascinazione suscitata nello spettatore dagli esemplari originali di pitture e sculture. La “tecnica” a cui si riferisce Benjamin è la fotoincisione: un medium meccanico, neutro, che permette di stampare i quadri su qualsiasi superficie. Del resto, non c’è dubbio: la riproduzione all’infinito annichilisce le immagini e può portarle a noia. Negli ultimi anni abbiamo visto troppi angeli di Raffaello appesi nelle camere degli alberghi, troppi baci di Klimt sui segnalibri. Il merchandising attraverso la riproduzione offusca la scelta di formato e dimensioni fatta dall’artista, ne stravolge il senso, ma allo stesso tempo rende il bacio di Klimt ideale, smaterializzato, onnipresente. Tuttavia, la profezia che l’aura di queste opere avrebbe risentito della sovraesposizione non si è avverata fino in fondo. Oggi, i turisti vanno al Louvre proprio per vedere l’originale de La Gioconda che fino a quel momento hanno conosciuto solo tramite riproduzioni. Il fascino del quadro non sta più nei meriti intrinseci della pittura, ma nel trovarsi di fronte all’originale di qualcosa conosciuto tramite libri, magliette, poster. In molti si fanno un selfie accanto a Monna Lisa come
con un vip incontrato in mezzo alla strada. Ci vanno perché quella esposta è quella autentica. In altre parole, il pubblico prova di fronte agli originali un senso amplificato dell’aura, in un certo senso mistico. E questo grazie alla riproducibilità.
È, insomma, l’uso reiterato dei dipinti, il vederli riprodotti su diversi supporti, che li ha trasformati in capolavori. Certo: l’abuso ha demolito un tipo di aura, ma ne ha creato un’altra, forse ancora più potente: il mito dell’arte. Come esiste la fotogenia – la qualità di alcuni individui di venire bene in foto – esiste la iconogenia – la qualità di risultare migliori visti in riproduzione. Fino al punto che alcune immagini possono essere reputate più “instagrammabili” di altre: funzionano cioè meglio quando sono viste piccole, velocemente, sullo schermo d’un cellulare, e hanno tinte vivaci. Oggi ciò che conta è il colpo d’occhio, l’oeillade. È un bene, è un male? Il successo della cartolina più venduta o dei molti cuori su IG non c’entra nulla con il suo valore artistico né con quello storico delle immagini. C’entra però molto con il loro futuro. Le opere che hanno successo sono anche quelle che darwinianamente avranno più probabilità di restare alle generazioni future. Sarà la riproducibilità a decidere quali opere rimarranno? Una cosa è sicura: grazie alla tecnica le immagini non sono più cose che si ammirano, ma cose che si usano. Le immagini possono essere usate per guardare, per conoscere, per accoppiarci e desiderare. Ma quando stiamo guardando per il piacere di guardare, senza altri fini, ecco che le immagini possono farsi tramite di un piacere spirituale. Credo infatti che la contemplazione estetica sia una forma di preghiera, specialmente per chi non crede in Dio. Di fronte alla perfezione di immagini complesse si può sentire forse, in modo illusorio, che tutto torna, che la vita ha una sua sensatezza. Di fronte a certe composizioni ogni cosa acquista senso, le difficoltà della vita vengono lenite, i pensieri depressivi si dissolvono. Noi quindi viviamo un’esperienza estetica anche di fronte a immagini commerciali, ovvero la predisposizione umana a godere dell’atto stesso di guardare spinge ad emozionarci, magari in maniera minima, anche per la composizione della pubblicità.
C’è un briciolo di contemplazione in tutte le immagini, artistiche o commerciali ed è questo piacere astratto, ritmico, formale che le rende eloquenti, memorabili.
L’immagine violenta
Riprendendo la caratteristica più peculiare di un’icona moderna, la sua capacità di essere colta in una sola occhiata, di sfuggita, ci viene in soccorso un testo fondativo delle teorie delle immagini, Tre saggi sull’immagine (2007) di Jean Luc Nancy. Nel primo dei tre saggi, il filosofo francese parla di “Immagine iconica che è di per sé violenta, l’irruzione di qualcosa che si esercita senza avere responsabili dietro di sé, o garanti.” Poi chiarisce meglio il concetto dicendo: “L’immagine iconica è violenta in virtù di alcune ragioni che sono quelle del suo stesso essere: deve sorgere, strapparsi alla dispersione del molteplice, ridurlo a unità; deve afferrarsi da sè, con un colpo di mano, con una semplice occhiata, o una grinfia. E’ una sintesi, una riduzione all’unità. Non è forse la categoria saliente dell’iconico, l’oeillade? Diventa iconica quando non deve più niente al suo riferimento empirico, all’oggetto per cui sta, e quindi travalica ogni forma di mediazione. È iconica per uno speciale statuto di verità. È come se l’immagine si
desse al di fuori di sé stessa, e che rivelasse una verità intrinseca, una apertura verso un fondo di un pozzo. Come scrive Borges “Quest’imminenza di una rivelazione, che non si produce, è forse il fatto estetico”. Più avanti nel saggio ci imbattiamo in una definizione dell’immagine iconica che ci è familiare, perché sembra di sentire gli echi delle caratteristiche dell’icona antica. “L’immagine iconica è in qualche modo sempre sacra, se vogliamo utilizzare questo termine senza confonderlo con “religioso”. La religione è l’osservanza di un rito che tiene e mantiene legati, il sacro è invece il distante, il distinto, il separato, il messo a distanza. Per certi versi la religione e il sacro sono ossimori, tanto la religione ha lo scopo di tenere insieme una comunità di fedeli, quanto il sacro si pone come obiettivo la contemplazione di un oggetto lontano, irraggiungibile. È ciò che non si può toccare. E proprio su questo terreno, della separazione dall’oggetto venerato, che si cimenta l’iconico. Non che sia proibito toccare l’oggetto iconico, i mezzi per farlo ci sarebbero pure, ma è proprio nella sua distanza che si trova il tratto distintivo della iconicità. Se fosse vicino, comune, alla portata di tutti, perderebbe improvvisamente il suo status di materiale diverso, altro, collocato in una sfera più alta. Eppure, l’immagine si dà all’osservatore, si offre per essere ammirata, un contatto viene creato. Il distinto si slancia verso chi l’osserva, salta in esso, ma non vi si lega. Questo è ciò che accade con i ritratti: un ritratto tocca, altrimenti è solo una foto segnaletica. Ciò che tocca è un’intimità che si porta in superficie, estrae qualcosa, una forza, una violenza che è quella che vedevamo prima. Per estrarla, deve sottrarla all’omogeneità, all’indistinto, la distingue, lo stacca e la getta in avanti. La seduzione, l’erotismo delle immagini non è altro che la loro disponibilità ad essere prese, toccate con gli occhi, le mani, con il cuore, e penetrate. Penetrare un’immagine vuol dire essere penetrati da esso, essere compenetrati.
Oltre l’iconico
E cosa c’è oltre l’iconico? Esiste una dimensione ulteriore che supera l’iconico? Dobbiamo a questo punto chiedere il surplus di riflessioni dal campo dell’Estetica, con un testo di Pinotti, Alla soglia dell’immagine, 2021. George Simmel nel suo saggio Ponte e porta ha insistito sul legare e sullo sciogliere, l’uno presupposto reciproco dell’altro, come gesti costitutivi dell’animo umano, “quell’essere senza confini che vive di confini”. Simmel è anche il teorico della separazione impegnato a scongiurare il confondersi tra immagine e realtà in virtù di un severo dispositivo di incorniciamento. La Soglia è il nome che lui dà all’abbraccio che unisce e separa, che scioglie e lega, linea di confine tra il dentro e il fuori, l’intervallo tra iconico e reale, è allo stesso tempo ponte e porta tra questi due mondi. Nel momento in cui l’immagine si costituisce come isola, come uno spazio-tempo altro rispetto alla struttura spazio-temporale della realtà ordinaria, si innesca il desiderio di gettare un ponte oltre il fossato, per conquistare quell’isola, riallacciare quei legami e aprire un passo carraio che consenta il transito nei due sensi. Nessuna epoca è stata immune da questo desiderio, ciascuna cultura visuale, di volta in volta secondo le tecnologie disponibili, ha interrogato a suo modo quella soglia. Il libro di Pinotti ha cercato di raccontare, nell’arco che si tende dal mito di Narciso (che si specchia nelle acque e si innamora della sua immagine, prototentativo di avvicinamento estremo tra realtà e immagine) alle contemporanee tecnologie di realtà virtuale, la storia di questo desiderio millenario, cogliendolo nello specchio delle idee e dei dispositivi che lo esprimono.
L’iconico si configura fino a quando esiste una soglia, una cornice che delimita lo spazio-tempo della realtà da quello della rappresentazione. Un’immagine è iconica se è ancora racchiusa in un frame, in un supporto che la isola dal vero. La domanda che si pone Pinotti è: se attraversassimo questa soglia? Se sconfinassimo oltre la cornice? Se bruciassimo i confini che ci tengono separati dall’immagine e arrivassimo a non distinguere più il reale dalla sua rappresentazione? Avremmo l’effetto di scorniciamento, nella sua presenza
e immediatezza. Ed ecco che irrompe il concetto di Realtà Immersiva: un’esperienza in cui non è più possibile eseguire un’operazione banale ma cruciale: focalizzare lo sguardo su ciò che immagine non è, sul fuori-immagine. Una proprietà tradizionale dell’immagine è sempre stata quella di avere una cornice, un frame che consiste nell’occupare un ritaglio del campo visivo all’interno del quale vigono regole sintattiche, riempimenti semantici altri rispetto a quelli vigenti nel mondo extra iconico. L’immagine ritagliata è una presenza nel mondo reale (si tratta pur sempre di un oggetto, supportato da un medium materiale: la tela, la carta, il marmo, lo schermo cinematografico) che ci introduce ad una specie di irrealtà.
Nella realtà virtuale, invece, non mi trovo più di fronte al quadro o allo schermo, sono piuttosto dentro, o appunto immerso in un ambiente che mi sollecita azioni e movimenti.
Se oggi c’è un abuso del termine iconico per designare qualcosa di antico e moderno, di distante e irraggiungibile, avvolto da un’aura di sacralità e che rispetta certe regole di composizione interna e esterna, il terreno su cui dovremmo più significativamente muoverci è quello del superamento dell’iconico, tentativo che permette di afferrare l’inafferrabile, di mettere un piede dentro lo specchio e di entrare (immergersi) in un mondo del rappresentato. Così, mentre l’iconico diventa un termine sempre più privo di senso, perchè usurato dalla sua infinita riproducibilità tecnica, il futuro è già presente, ed è lo sfondamento dell’iconico, il suo definitivo annichilimento.
Che cosa fa di un’immagine un’immagine iconica? Di cosa parliamo quando diciamo che un’immagine è iconica? È possibile stabilirlo? Si parte dal presupposto che questa immagine debba possedere qualità diverse e forse superiori alle altre. Iconica vuol dire cosa? È più efficace? È più suggestiva? Ha un soggetto più accattivante? Sgombriamo subito il campo dal primo dubbio sostanziale: la sfera dell’iconicità ha poco a che fare con il “contenuto”, molto di più sul piano “formale”. Ci possono essere due immagini identiche, che ritraggono lo stesso soggetto. Eppure, una delle due avrà il suggello dell’impressionabilità: sarà quella che rimarrà.
Facciamo un passo indietro, tornando alla definizione di iconico, che deriva dall’icona bizantina (dal greco antico vuol dire “immagine”).
Le regole dell’icona classica: centralità
Nelle icone bizantine Cristo è spesso simmetrico e ci guarda negli occhi, unendo al potere del centro quello della frontalità. Questa è una norma basata su un’abitudine visiva. Se guardiamo le persone accanto a noi è più probabile osservarle di lato, di tre quarti, “di sguincio”: muovendoci intorno a qualcuno abbiamo 360 punti di vista possibili su quel volto: la frontalità è l’effetto di una selezione. Le composizioni centrate hanno solennità, simmetria e compiutezza: il centro dichiara, raggela, monumentalizza, rende assoluto. E dunque è stato il modello prediletto dei ritratti ufficiali. Le divinità e i potenti della terra lo scelgono per prendere le distanze dalla casualità degli eventi e degli uomini comuni.
Quindi, già siamo in un campo di riflessione che ha dei codici standardizzati, delle regole di composizione dell’immagine elaborate e accettate da millenni. Sicuramente l’icona riceve forza e si distingue dalle altre immagini per il tipo di contenuto (divino) che rappresenta, ma cominciamo subito a vedere che non basta raffigurare un soggetto eccezionale come Cristo o i santi: bisogna anche rappresentarlo secondo certe regole interne.
Oltre a rispondere a criteri di composizione interna, l’iconico si struttura anche in base al suo presentarsi all’osservatore: il formato non è affatto un elemento neutro ma è portatore di valori politici e di complesse visioni del mondo. Le icone prediligono il formato verticale, non a caso. Il verticale è prevalentemente un ritratto di qualcuno distante e volitivo che ci si para davanti, affermando sé stesso; l’orizzontale è invece un paesaggio, un territorio o una donna nuda, cioè qualcosa che si stende nello spazio, che si possiede o si conquista.
Isolamento
Un’altra regola che aiutava (parlo al passato e presto si capirà il perché) a rendere iconica un’immagine era il suo isolamento, il suo apparire, manifestarsi, come un unicum, proprio alla maniera delle apparizioni celesti. In altre epoche un’icona di Cristo era considerata una manifestazione del divino, come se Gesù fosse davvero lì presente, e nessuno l’avrebbe mai messa accanto ad altre figure, sarebbe stata considerata sacrilega. Oggi quell’icona si trova vicino a una natura morta, oppure a una battaglia, dentro a un qualsiasi museo o manuale di storia dell’arte. Nel mondo attuale l’isolamento delle rappresentazioni è pressoché impossibile. Da quando siamo nati ne abbiamo viste milioni: affiancate, sovrapposte, ripetute, con entropia crescente.
Del resto, giustapporre linguaggi e codici disparati è lo standard di ogni social network, da Facebook a Pinterest, universi virtuali in cui il sincretismo è la norma: vediamo la pittura rinascimentale accanto ai cartoni animati, alla foto di gossip, alla tragedia di cronaca, all’icona sacra e a quella pornografica.
Le regole dell’icona moderna: ritmo
Oggi una caratteristica che determina l’iconicità di un’immagine è il suo ritmo. Due secoli fa i disegni dei bambini erano considerati meri scarabocchi. Le immagini degne di essere ammirate erano solo quelle che rappresentavano, stavano per qualche altra cosa, che riproducevano più o meno fedelmente la realtà. Il bello coincideva pressappoco con il vero. E dentro questa frase ci stava racchiusa tutta la storia dell’arte, dalle pitture rupestri delle grotte di Lascaux ai giorni nostri. Se oggi siamo in grado di apprezzare un’immagine per l’energia e il ritmo che contengono dipende dal fatto che artisti come Cézanne, Monet, Renoir, nella seconda metà dell’Ottocento, ci hanno messo nelle condizioni di vedere sempre un po’ di astratto nel figurativo, imparando ad apprezzare le immagini non tanto per decifrarle, quanto per il piacere del loro movimento. Del resto, anche molte delle foto che hanno successo oggi sui social sono in debito con le esperienze pittoriche del XIX secolo. Pubblicate, condivise, apprezzate, molte di loro mietono like per come sono composte e non certo per cosa raffigurano: bisogna concentrarsi sul ritmo e sui contrasti per trarre piacere da una lamiera ossidata, da una sezione di tronco d’albero o da un pattern di moda.
Il ritmo che ci dà piacere, che ci coinvolge ed emoziona è una faccenda fisica, forse addirittura biologica. Le costruzioni visive non sono poi così diverse. Come spiegano le neuroscienze, il nostro cervello è portato a rilevare i cambiamenti nella scena più che le cose in sé: la conseguenza è che siamo sensibili a ciò che si ripete e a ciò che varia, e dunque sappiamo cogliere ritmi, pesi e direzioni senza pensarci su. Allora, per capire davvero le immagini possiamo provare a guardarle come ascoltiamo Bach: possiamo cercare ciò che stringe e ciò che dilata, ciò che pesa e ciò che si solleva.
La divisione in parti uguali di un quadro (metà rosso e metà verde) è troppo geometrica, statica, monotona, e vediamo solo due strisce. L’asimmetria rende l’immagine più “narrativa”. Quando qualcuno afferma di pensare per immagini sta dicendo qualcosa del genere, cioè si sta figurando in testa rapporti di questo tipo: alto contro basso, pieno contro vuoto, molto rosso e poco verde. Un tale sistema di relazioni semplici ma sensate è ciò che potremmo chiamare “intelligenza visiva” (Arnheim, 1974).
Ogni giorno ci imbattiamo in fotografie pubblicitarie patinatissime, che hanno come unico scopo di rendere “desiderabile” l’oggetto rappresentato: un hamburger si affianca a un bicchiere di Coca Cola o a un sacchetto di patatine; un flacone di profumo si erge accanto a uno struccante. Il contesto commerciale in cui li vediamo può depistare, ma si tratta di una logica inventata cinquecento anni fa: quella particolare forma d’arte che raffigura gli oggetti inanimati che risponde al nome di “natura morta”. La comunicazione di massa ha imparato a comporre proprio studiando i maestri del passato, come disponevano canestri di frutta, bottiglie, teschi su uno sfondo, che senso del ritmo e che plasticità dare ai colori e alle forme.
Oggi più che mai viviamo in mezzo alle cose, siamo invitati a comprarle, a consumarle, cercando attraverso di loro di essere un po’ più felici. Consumare merci per scordarci di dover morire può sembrare l’opposto di un memento mori, ma pure se ribaltata, sempre vanitas è. Forse allora il contenuto delle nature morte in prospettiva evoluzionistica potrebbe essere questo: il desiderio che la vita abbia un senso. Quei frutti che presto marciranno (seppure disposti in modo tanto elegante) ribadiscono la qualità effimera della felicità umana. La composizione in pittura è dunque la vita emendata non del brutto o del doloroso, ma degli aspetti stonati.
L’artista invece di mettere le posate in fila sul tavolo, tutte allineate, come farebbe un nevrotico qualsiasi, ha capito che dipingere quelle posate può dare un minimo di senso al mondo. E quando è bravo riesce a mostrarci attraverso questa nevrosi una condizione esistenziale che ci riguarda tutti.
La scoperta del fulcro
Una delle caratteristiche dell’arte classica è quella di suscitare movimenti oculari ampi e lenti rispetto alla frenesia di altre epoche. Il modo in cui guardiamo un’immagine è determinante: la pubblicità di Dolce & Gabbana e la Madonna di Raffaello hanno un punto focale forte, perché entrambe – pur con ragioni diverse – vogliono essere comprese in un unico sguardo. Il centro delle vecchie icone bizantine è stato sostituito dal fulcro. Non importa che il soggetto sia grande o sia al centro, l’importante è che spicchi. Si può illuminare un solo punto della scena, usare le masse come puntatori, oppure tracciare diagonali con alberi, spade, onde, braccia. Proporre cioè un dispositivo costruito apposta per l’occhio moderno, dove le immagini non hanno più un centro ma un fulcro: ossia, letteralmente un perno intorno a cui ruota e si muove tutta la composizione, simile a una calamita per l’occhio. Siamo circondati da troppe immagini, troppi eventi, sapere che esiste un fulcro di un’immagine ci aiuta a rispondere alla domanda della modernità, che è sempre la stessa: a cosa devo prestare attenzione?
“Il vincitore della prima edizione del Premio Strega Giovani, con 93 voti su 353 espressi, è Giuseppe Catozzella, autore di Non dirmi che hai paura”. Con queste parole, il 9 giugno 2014, viene annunciato il primo vincitore del Premio Strega Giovani. La storia di questa sezione del Premio inizia dieci anni fa con l’obiettivo non solo di avvicinare il pubblico dei nuovi lettori alla narrativa contemporanea e al più importante premio letterario d’Italia, ma di renderlo protagonista. Si tratta di una novità che, con questo proposito, si inserisce nell’ambito del più longevo Premio Strega per infondergli nuova linfa, perpetuando e innovando il suo spirito e la volontà di Maria Bellonci di avere una giuria vasta e democratica e ora anche giovane. Sono oltre 1000 gli studenti tra i 16 e i 18 anni, provenienti da oltre 190 scuole secondarie superiori italiane ed estere, a comporre questa moderna giuria di amici della domenica, che, ogni anno, assegna il Premio tra i 12 libri candidati. I ragazzi leggono, votano e… scrivono! Insieme al Premio Strega Giovani, infatti, grazie al contributo della Camera di commercio di Roma e la collaborazione di BPER Banca, si svolge dal 2018 anche il Premio Strega Giovani per la migliore recensione (inizialmente Teen! Un premio alla scrittura), che premia la miglior recensione di uno dei titoli concorrenti scritta proprio dai giovani giurati e, dallo scorso anno, il Premio Leggiamoci, istituito per premiare il miglior racconto inedito scritto da ragazzi tra i 13 e i 19 anni. Insomma il Premio Strega in questo modo si apre agli adolescenti in quanto lettori e aspiranti scrittori, dando spazio alla generazione che secondo i numeri e le statistiche non solo non legge, ma si dimostrerebbe disinteressata nei confronti del panorama letterario e culturale in generale. Eppure, analizzando i nove titoli vincitori della sezione Giovani del Premio Strega, questo abusato cliché di gioventù bruciata e annoiata sembrerebbe frutto di una visione miope e generalista che, corretta con le giuste lenti, mette a fuoco una sensibilità inaspettata. Nel 2014, appunto, Giuseppe Catozzella vince la primissima edizione con Non dirmi che hai paura, un romanzo incredibilmente forte e terribilmente attuale che ha trasformato la cronaca in una fiaba cruda, conferendo dignità di storia ai fatti di Samìa, la protagonista, per poi affidarla al pubblico dei lettori. Secondo i giovani giurati il libro ha meritato la vittoria perché “È un libro che non solo dovrebbe esser letto, ma che dovrebbe entrare nel patrimonio di tutti, specialmente di quelle persone che purtroppo considerano l’immigrazione un problema da affrontare con il ferro e con il fuoco, senza pensare alla terribile sofferenza patita da persone che in Europa cercano solo un’opportunità migliore.”, come affermato da una giovane giurata. Non dirmi che hai paura è stato nel tempo ben accolto dal pubblico adulto, acclamato dalla critica nazionale e internazionale, diventando un long seller di recente inserito persino da Feltrinelli tra i 100 classici di nuova generazione, semmai volessimo ritrovare in questo successo tra “big” una riprova necessaria a dar credito al gusto dei ragazzi. Altrettanto “ impegnati” sono i titoli che trionfano nelle edizioni successive: da Chi manda le onde di Fabio Genovesi nel 2015, passando per Questa sera è già domani di Lia Levi nel 2018, Tutto chiede salvezza di Daniele Mencarelli nel 2020 (la cui risonanza è stata ulteriormente amplificata dall’enorme successo della omonima serie Netflix, che ha spinto chi ancora non aveva letto il romanzo a leggerlo); Il pane perduto di Edith Bruck nel 2021, che affrontano la malattia fisica e la malattia psichiatrica in tutte le loro sfaccettature, le leggi razziali e l’olocausto; fino ad arrivare a Niente di Vero di Veronica Raimo che racconta un lessico familiare moderno tra una risata, certamente, ed un calcio in petto in un batter d’occhio e capoverso. Romanzi che sono testimonianze e moniti al contempo di temi delicati: non sarà questa la cartina tornasole del sentire di una gioventù (magari una, non tutta) molto più attenta di quanto vogliano i cliché? I 12 candidati di questa edizione del Premio “s’inscrivono nel segno del trauma – privato, personale, a volte segreto e indicibile, ma anche pubblico, storico e collettivo. I leitmotiv principali sono la morte, la perdita (di una persona, del proprio paese), la malattia e l’elaborazione del lutto” come ha affermato Melania Mazzucco durante la cerimonia di annuncio della dozzina. “L’ospedale è lo spazio narrativo ricorrente. Corpo dell’individuo e paesaggio della nazione sono ugualmente minacciati e aggrediti dalla rovina. L’altro tema ricorrente è infatti l’epicedio per il paesaggio italiano e per la cultura rurale e l’Italia ritratta in questi libri è un paese ferito ed ammalato. Ma il segno positivo è la fiducia nella letteratura: mai come in questi tempi incerti, traumatizzati e oscuri la scrittura si propone come medicina e cura.”. Chi sarà premiato tra loro in questa X edizione del Premio Strega Giovani? Lo sapremo tra una manciata di giorni.
Il Salone Internazionale del Libro è, da sempre, un crogiolo di contraddizioni e sfide, una sorta di universo alternativo in cui l’arte e il commercio, l’innovazione e la tradizione si incontrano, sfidandosi in un’armonia incerta. È come uno specchio, attraente ed ingannevole, che sempre più persone sentono l’urgenza di dover attraversare. In questa danza meravigliosa e talvolta sconcertante, il SalTo incarna la nostra essenza di lettori ed esseri umani, costantemente sospesi tra la ricerca della bellezza e l’esigenza di dare voce alle inquietudini più profonde.
La storia del Salone Internazionale del Libro si intreccia, quindi, con la trama stessa della letteratura contemporanea. È un viaggio di scoperta e sfide, di passione e visione, che ha di fatto ridefinito il panorama culturale italiano fin dalla prima sua edizione nel 1988 e che, con il trionfante uscita di scena di Lagioia di quest’anno ha espresso e, forse, contraddetto come non mai le sue aspirazioni e i suoi limiti.
A partire dal 2017, lo scrittore del pluripremiato La ferocia, adottando un approccio galvanizzante, ha affrontato diverse tempeste del tempo e rocambolesche sfide dell’era digitale. Navigando come un contemporaneo Ulisse ed una curiosa Alice, l’ex direttore ha risvegliato la vitalità di una città che aveva temuto di perdere il suo status di centro letterario. Ospitando di anno in anno scrittori di fama internazionale, Lagioia ha affiancato loro voci emergenti che hanno risuonato come colpi di tuono, riflettendo la natura transmediale dello storytelling di oggi e avendo, allo stesso tempo, l’ardire di scavare nella polvere di storie dimenticate, resuscitando in questo modo personaggi dalle voci sopite in un’armoniosa atmosfera pluralistica.
Un percorso controverso, complesso, con momenti di crisi come quelli del Covid-19, in cui le pagine dei libri si sono trasformate in ponti immaginari verso mondi lontani. Quella di Lagioia è stata, però, anche la kermesse della polemica, tra dichiarazioni sessiste vecchie di vent’anni resuscitate dalle reti generaliste e la recente polemica sulle contestazioni alla Ministra Roccella che ha confermato la natura libera, multiforme ed apolitica di questo spazio culturale.
Insomma, un viaggio sempre più chiacchierato che ha reso i lettori veri guardiani e custodi delle parole di questa narrazione: nel virtuale, tra post e stories di Instagram davanti all’iconica torre dei libri e il fenomeno #BookTok che ha toccato quota 140.4 miliardi di visualizzazioni; in presenza, con l’eccezionale record di 215.000 biglietti strappati.
Una grandezza, quella di questa edizione, preannunciata, bramata, studiata. Un commiato immenso, a tal punto da disorientare e confondere. Un SalTo23 che ha fatto, per certi versi, perdere di vista la vera tana del Bianconiglio, ciò che rende la letteratura intima e preziosa. Quella che richiede tempo, riflessione, un ascolto attento. Quella dell’intreccio di conversazioni che vanno al di là delle mode e dei clamori. Ma il Salone è questo: un’autentica e delle volte contraddittoria occasione di sfida verso paradigmi consolidati e la direzione di questi ultimi anni ha pienamente rappresentato – e con indubbio successo e clamore – la sua naturale continuazione.
E così, come tutte le storie in divenire, il nuovo capitolo Benini, così potenzialmente diverso da quello appena concluso, dovrà guidarci tra gli intricati sentieri del tempio della scrittura, aprendo porte verso mondi ancora inesplorati.
Con incertezze, riflessioni sugli spazi ormai insufficienti ed aria di costante mutamento, la speranza nei nostri cuori selvaggi è che continui ad essere un luogo di incontri e scontri, di dibattiti e scoperte, di trasformazione e trasgressione; un faro per gli amanti dell’editoria, un’ancora per gli spiriti erranti. Che rimanga il solito Salone: un enorme, confusionario e mutevole caleidoscopio di emozioni pronto a spingerci ad esplorare i confini oltre lo specchio del nostro, nebuloso, domani.
Il cittadino si mette al riparo dal genio adorando le icone
Edward Dahlberg
Nell’antichità il genio era il nume al quale veniva attribuita la tutela di un luogo, di un’istituzione o di una persona, finché l’inevitabile processo di laicizzazione dei tempi moderni ha spostato il termine nell’ambito figurato, a designare l’entità astratta che si immaginava presiedesse ogni scelta compiuta dall’uomo e il suo corrispondente risultato: ingegno, indole o vocazione, stigmi individuali impressi allo spirito dei tempi. Ma nel passaggio dallo stato di natura al contratto sociale qualcosa deve essere andato storto se sulla volontà generale è tornata a prevalere quella particolare, affinando la forma d’arte forse più caratteristica della contemporaneità: la demagogia. E le icone, dalla dimostrazione sillogistica dell’esistenza di qualcosa di irraggiungibile, sono diventate gli ologrammi delle nostre misere aspettative. È l’era dei social network, baby: se non posti, non esisti. Il percorso di formazione è una strada lastricata di cattive intenzioni e pessime imitazioni e il traguardo lo raggiungi se diventi un meme. In un modo o nell’altro, molti ci riescono e ai pochi rimasti non resta che l’adorazione.
Le icone nascono come raffigurazioni di soggetti sacri su tavole in legno o bronzo. Eppure, nella cultura odierna che ha reificato qualunque cosa, sono riuscite a trascendere la propria oggettualità per farsi “persona”. Isn’t it iconic? Come siamo arrivati a questo punto, proverò a spiegarmelo ricorrendo a due guide, apparentemente lontane e inconciliabili, ma accomunate da un approccio metafisico sul cosiddetto “reale” e sull’agiografia dell’immagine a cui si è ridotta (o forse lo è sempre stata?) la storia dell’umanità. Comincerò con Pavel Florenskij, intellettuale ortodosso dalle mille sfaccettature che impartì i suoi insegnamenti all’università di Mosca sotto i soviet finché venne deportato e morì in un campo di concentramento nell’estremo nord della Russia intorno al 1943. Lui alle icone ha dedicato un saggio, fortunosamente riemerso solo in tempi recentissimi, come gli altri suoi scritti, una volta bruciate – almeno ufficialmente – tutte le scorie panslaviste. Si intitola Le porte regali e allude all’intrinseco valore di confine tra mondo visibile e mondo invisibile che le icone costituzionalmente hanno. Si pensava, addirittura, che fossero dipinte a seguito di visioni mistiche, secondo normative ben precise fissate dai Santi Padri alle quali il pittore, mero esecutore, doveva attenersi.
Guardiamo come i termini di questa definizione si sono ribaltati oggi: le icone sono un prodotto visibile, potenzialmente e transitoriamente emblematico, del mondo visibile, la cui origine non è da ricercarsi in una visione onirica ma in una strategia di marketing elaborata da loschi sobillatori, di solito molto più potenti dell’icona stessa, mero strumento (se non vittima) della popolarità alla quale tutti ambiscono. E qui introduco la mia seconda guida, che pure il mondo dei social lo aveva solo subdorato:
«LaMont, vuoi sentire un’osservazione su ciò che è vero? […] Tu hai fame di un cibo che non esiste. […] Essere invidiati, ammirati, non è un sentimento. E neanche la popolarità è un sentimento. Ci sono dei sentimenti associati alla popolarità, ma pochi di essi sono più gradevoli dei sentimenti associati all’invidia della popolarità». «Il bruciore non se ne va?» «Quale incendio si spegne se viene alimentato? Non è la popolarità che ti vogliono negare. Fidati di loro. C’è molta paura nella popolarità. Una paura terribile e pesante da portarsi dietro. Forse la vogliono solo tenere lontano da te fino a che non peserai abbastanza per tirarla verso di te». «Passerei da ingrato se dicessi che tutto questo non mi fa sentire per niente meglio?» «LaMont la verità è che il mondo è incredibilmente, incredibilmente, impossibilmente vecchio. Tu soffri per un misero desiderio causato da una delle sue bugie più vecchie. Non credere alle fotografie. La popolarità non è l’uscita dalla gabbia»[1].
LaMont e Lyle che discutono sulla popolarità in Infinite Jest, nella realtà aumentata della narrazione, sono due complementari alter ego di David Foster Wallace, lo scrittore che è morto, suo malgrado, da icona paventando i rischi della morte per canonizzazione e della ricerca della fama in tutti i suoi personaggi, summa contraddittoria di un’impareggiabile abilità in qualche campo specifico, di una straordinaria capacità oratoria e di un’inguaribile inettitudine a vivere in quel che resta del mondo reale dopo la grande glaciazione mediatica. Agli antipodi di Florenskij, ha scritto delle porte, certamente meno regali, che separano l’argento vivo dell’apparenza dalla zona morta della coscienza in ogni americano qualificabile come normale. Porte che si possono aprire ma che è impossibile varcare, a riprova di come nessuna normalità sia realmente perseguibile.
Secondo Florenskij, ogni icona evoca un archetipo, che per C. G. Jung è un modello innato e predeterminato, originato dall’inconscio collettivo, attorno al quale si tende ad organizzare la conoscenza. L’archetipo non è semplicemente un simbolo, ma accoglie i segnali multiformi e in continua evoluzione della cultura, costruendo nel tempo l’intelligenza condensata dell’umanità. Se si accetta l’idea di forma come necessaria all’interpretazione dei fenomeni della vita, non resta che risalire alla forma archetipica, all’idea eterna e sacra, diversa dalla materia vissuta e transitoria delle icone. Ma se l’icona rivendica un’eternità che non le appartiene, spezza il rapporto ontologico col sacro. L’inflazione della sacralità, che ricopre col suo mantello dell’invisibilità tanto Gesù Cristo quanto Jane Birkin, riduce il valore delle icone. Le porte regali non si aprono più, l’icona è diventata una cosa tra le altre cose e «il nesso vivente tra il celeste e il terreno, che è la religione, in questo luogo della vita si è sciolto, una macchia di lebbra mortalmente essendosi associata al luogo della vita, e allora deve sorgere l’angoscia, come se questa frattura non fosse già avvenuta»[2]. Florenskij formulava questo pensiero all’incirca cento anni fa.
La verità è che ci siamo stancati di chiederci cosa merita la nostra devozione e abbiamo cominciato a rivendicarla per noi stessi. Le vetrine dei social network, l’iconostasi digitale custodita nelle cattedrali della nostra pochezza, ci hanno insegnato che l’impressione di un momento vale quanto l’eternità, soprattutto se a suggellarla è un numero accettabile di pollici verso, cuoricini e baffi blu guadagnati alla svelta perché non abbiamo pazienza e soprattutto non abbiamo tempo. La prossima icona è già pronta a scalzarci e dobbiamo ricominciare tutto da capo, archiviando quel che è stato come sceneggiatura per un nuovo episodio di Black Mirror. Perché la morte per noi è solo temporanea, ce lo ha insegnato Cristo con la resurrezione, e sì che ci saremmo saliti anche noi sulla croce sapendo che dopo sei ore di dolore ci avrebbe attesi un’eternità di beatitudine alla destra del padre. Ma è comunque una gran rottura.
Tutto questo, David Foster Wallace non poteva immaginarlo. In un saggio su Dostoevskij[3] aveva adombrato gli effetti collaterali delle icone viventi, trasformate in astrazioni che, come tali, non sono in grado di avere una comunicazione vitale con i vivi. Aveva intuito che presentando da subito un grande autore come “classico” lo si condanna all’ingiallimento tra gli scaffali di una biblioteca, in attesa che dita indolenti si ricordino di sfogliarlo per la tesina di fine corso. Icone snaturate che innalzano barriere anziché abbatterle facendosi “porte regali”. L’utopia del precorrere i tempi fissando nella memoria qualcosa che non è ancora accaduto stava già generando mostri, primo fra tutti quello dell’incomunicabilità. Analfabeti di ritorno e anaffettivi anonimi, in effetti, non sappiamo più parlare e non vogliamo più farlo perché non ne vediamo l’utilità. Tutto ciò che ci occorre è un’immagine, quella giusta. Quella che batta tutte le altre, per ora. Il linguaggio ha perso la sua battaglia anni fa. È stato lo stesso Foster Wallace, suo malgrado, a darcene una chiara immagine. L’unica che dovremmo ricordare. La stessa che continuiamo a ignorare.
Non ho niente da insegnare. Voglio soltanto divertire. Ma divertendosi con le mie storie, i bambini imparano la cosa più importante: il gusto della lettura.
Così ci diceva l’autore di letteratura per l’infanzia che, a cavallo tra la generazione X e quella dei Millenials ha dato voce, corpo ed anima a personaggi divenuti iconici ed inimitabili. Tra terribili streghe, mostri spaventosi, una preside che farebbe rabbrividire anche gli studenti più impavidi ed uno strambo ma sempre affascinante Willy Wonka, Roald Dahl ci ha offerto la visione del mondo di un uomo britannico nato nel 1916 che, però, riesce ancora a pieno nel suo intento di appassionare e divertire i piccoli lettori.
Almeno fino ad oggi.
È recentissima, infatti, la polemica innescata dalle revisioni ai romanzi dello scrittore attuate dalla Puffin Books e la Roald Dahl Story Company in collaborazione con Inclusive Minds, un’organizzazione che si occupa di inclusione e accessibilità nella letteratura per bambini. In questo modo fat si trasforma in parola-tabù da estirpare, la scrittrice donna Jane Austen prende il posto del ultimamente “cancellato” Rudyard Kipling tra le letture della bimba-prodigio Matilda, mentre a Roald Dahl vengono messe in bocca parole e considerazioni mai neppure lontanamente concepite dalla sua mente novecentesca. Eppure, su questa pesantissima revisione delle opere Dahliane – il Telegraph parla di ben cinquantanove modifiche solo per il romanzo The Witches – la branca della famosissima Penguin Books si esprime convintamente parlando di “modernizzazione”. Da qui il paradosso: modernizzare la letteratura eliminando ciò che l’ha resa tale. Trasformare Roald Dahl in uno scrittore degli anni ’20 del 2000, non offrendo ai suoi fruitori contemporanei la doverosa possibilità di interpretare un mondo che non esiste più e capire se da quest’ultimo si possa ancora apprendere qualcosa. Siamo sicuri che modernizzare significhi davvero prendere la trasposizione su carta dei classici Disney e appiccicarsi con lo sputo il nome dei fratelli Grimm, di Charles Perrault, Lewis Carrol e Hans Christian Andersen come se questi ultimi avessero davvero dato gli stessi happy ending smielati della controparte cinematografica? Siamo davvero convinti di salvaguardare la sensibilità delle nostre generazioni future non fornendo loro gli strumenti necessari per comprendere quelle che sono le contraddizioni del nostro ieri? È questa la nuova concezione del moderno o possiamo parlare apertamente di censura? Ai posteri l’ardua sentenza. Eppure rimbomba, in questi giorni più di altre recenti occasioni un pensiero costante, sofferto, malinconico: ridateci la nostra letteratura. Una letteratura che può essere modernizzata con delle note esplicative. Una letteratura studiata a scuola e nella vita attraverso le parafrasi e le chiavi di lettura che ci donano l’abilità di leggere il passato comprendendo meglio il contemporaneo. Una letteratura che dia ai nostri lettori più giovani la libertà di imparare a leggere divertendosi con Roald Dahl e – qualora nel nostro tempo quest’ultimo non dovesse riuscire più nel suo intento – quella di posare il passato ed abbracciare, perché no, qualcosa di definitivamente nuovo.
Viviamo il regno della narrazione, giusta o sbagliata che sia, e dentro di essa ci dobbiamo barcamenare. Dopotutto A sangue freddo di Truman Capote (1966) ci insegnò, proprio negli anni di un cambiamento epocale quale quello della “visività” dei nuovi media d’allora, che eventi della cronaca, anche della cronaca nera o fatti di violenza spicciola, possono essere riutilizzati in una narrazione di secondo livello e mescolati a fatti inventati: a quel punto decrittare la realtà e cernerla da ciò che vero non è diventa un miraggio. E’ quel che è accaduto in questi giorni sui social, nei talk-show e sulle tribune più disparate. Insomma, a proposito dell’occupazione della Sapienza si può dire quel che si vuole, meno che non serva sul piano puramente simbolico. E qualcuno dirà che, se si tratta di un fatto solo simbolico, non serve a nulla. Mica vero. Oggi l’atto per l’atto è pressoché tutto. Tanto è vero che tutti si affannano a ricostruire i fatti, a cercare di capire se il collettivo era veramente un collettivo o se al suo interno vi fossero degli infiltrati che ne hanno approfittato per inquinarne le ragioni o, magari, sono stati chiamati a dar manforte salvo poi perdere la misura delle cose; tutti cercano di capire se la polizia ha manganellato perché l’ordine pubblico era davvero in pericolo o perché qualcuno le ha ordinato di ricorrere alle maniere forti per mostrare che veramente “la pacchia è finita”; tutti si industriano nel reperire notizie certe e verificate circa la volontà degli studenti: volevano solamente contestare una manifestazione a loro dire di matrice fascista o impedire il suo concreto svolgersi? Questioni secondarie. Resta l’impressione globale, complessiva, che se ne ha. Resta, in fondo, che qualcosa è successo e forse ancora sta succedendo. Non sentivo una frase come “hanno occupato l’università” da quando ancora non mi cresceva la barba. Forse è una frase anche inadatta al contesto, forse è anche eccessiva se messa a paragone coi tempi in cui le facoltà le si occupava davvero. Ma è un fatto che la frase è stata usata e che per qualche ora, forse qualche giorno, qualcosa è successo davvero. Certo, sciogliere l’occupazione “per il ponte dei morti” è il drammatico segno dei tempi, ma bisogna accontentarsi. Questi ragazzi – è probabile – non sanno nemmeno perché hanno fatto quel che hanno fatto, ma lo hanno fatto: c’è qualcosa nei gesti che qualche volta supera il livello della coscienza, anche collettiva. Leggo che si doveva cercare il dialogo con Capezzone. Sì, sono d’accordo. Ma lo sono solo in linea di principio. Sostengo il principio del dialogo, ma lo faccio dal comodo della mia poltrona. Il fatto è che il dialogo oggi non fa notizia, non va sui giornali e, soprattutto, non va in rete. Ci sarebbe stato un confronto, uno scambio di idee: Capezzone avrebbe detto la sua, qualche volenteroso studente avrebbe risposto e tutti a casa. Il vuoto. Se parliamo di qualcosa che, forse (dico, forse), genererà altro lo si deve a un atto. Simbolico, velleitario, illusorio quanto vogliamo, ma che ha generato una narrazione in grado, tra l’altro, di generare una polemica. Forse, per una volta, fruttuosa.
Perciò, alla fine resta la forza sublimante di un atto: quella che è stata chiamata occupazione e che forse non lo è. Ma almeno è dissenso. Impastato di confusione, ma non importa. Per qualche ora il piattume della infinita zona grigia degli ultimi vent’anni ha subito una scossa. Un confuso turbamento di incontrollata passione ha aperto un varco. Una atassia si oppone a una atarassia.
L’altro giorno, bighellonando in libreria, ho notato un’isola, posta nel mezzo, con un cartello che avvertiva il lettore: “Classici”. Così mi sono avvicinato e giustamente ho trovato i classici della letteratura: Mann, Dostoevskij, Cervantes, Jane Austen, Mary Shelley, Tolstoj, Fabio Volo… Ora, il romanzo di Fabio Volo poteva essere stato messo lì per scherzo da qualche avventore burlone o appoggiato lì perché chi voleva acquistarlo aveva, infine, deciso che l’avrebbe preso un’altra volta o di acquistare altro. La presenza del volume di Fabio Volo, quindi, era casuale come quando nelle corsie del supermercato, cercando i biscotti, ci imbattiamo in una confezione di costolette di agnello.
Uscito dalla libreria, se vi interessa, ho comprato Lovecraft I taccuini di Randolf Carter (Einaudi) e Garlini Il sole senza ombra (Mondadori): quella strana sovrapposizione, per quanto dettata da un errore o da una boutade, accendeva pensieri e ragionamenti. Mi tornavano in mente le parole dei I Canti di Maldoror e in particolare quelli resi famosi prima dai surrealisti e poi da una canzone di Franco Battiato: «bello come la retrattilità degli artigli degli uccelli rapaci; o ancora, come l’incertezza dei movimenti muscolari nelle pieghe delle parti molli della regione cervicale posteriore; […] e soprattutto, come l’incontro fortuito su un tavolo di dissezione di una macchina da cucire e di un ombrello!».
La “cosa” che mi rimaneva di quel incontro in libreria era, appunto, questa sensazione di stravaganza – perché tutti quando leggono i Canti si concentrano sulla “peculiarità” dell’immagine e non sul ciò che la introduce ovvero l’aggettivo “bello”? – ma andiamo con ordine, provando a fare un ragionamento.
Se dicessi che Tolstoj e Volo scrivono romanzi, nessuno ci troverebbe nulla da dire. Possiamo dire che sia i personaggi di Tolstoj che quelli di Volo hanno uno sviluppo, più o meno interessante, lungo un piano temporale e spaziale, dove incontrano altri personaggi che ugualmente hanno uno sviluppo, più o meno definito, lungo uno spazio e un tempo; che le loro storie hanno un inizio, di seguito una serie di fatti, alcuni pertinenti con la trama centrale e altri secondari, insomma delle peripezie, che producono poi uno scioglimento o finale. Si potrebbe procedere con innumerevoli definizioni di romanzo, anche diverse, e comunque in ognuna di queste Tolstoj e Volo sarebbero considerati uguali; non ultima quella per cui i loro testi sono esposti/venduti/catalogati nelle librerie negli scaffali di narrativa/romanzi.
Se, però, dicessi che Tolstoj e Volo “fanno” entrambi letteratura, ecco se dicessi questo, so per certo che un buon numero di persone incomincerebbero a storcere il naso. Eppure, io sono convinto che la letteratura non sia un fatto estetico, ovvero che l’aggettivo “letterario” non sia sinonimo di “bello” etc etc… Tolstoj e Volo scrivono entrambi letteratura, entrambi producono dei testi che vivono di una doppia tensione: una tensione informativa e un’altra comunicativa; la frizione più o meno consapevole (su questo “più o meno”, forse, possiamo discutere di differenza tra T. e V.) di informazione e comunicazione è ciò che produce la letteratura. La comunicazione è, almeno secondo Cesare Segre, ciò che in qualche modo sfugge a una semplice trasposizione in parole, qualcosa di aleatorio, che intuiamo nella lettura di un testo e che produce in noi domande, inquietudini etc etc… Ecco, questo intento è presente e consapevole sia in Tolstoj che in Volo.
Eppure – diranno coloro che sono arrivati fino a questo punto del mio ragionamento – c’è differenza tra Tolstoj e Volo, e si spingeranno a dire che è una differenza oggettiva. Qualche mese fa sul mio profilo social ho postato una frase, uno strillo di quarta di copertina di un romanzo, domandando che idea di romanzo/storia/racconto avesse chi leggesse quella frase. La frase era questa: “L’amore vince su tutto. Lui l’avrebbe rapita e condotta in capo al mondo”. Le risposte sono state interessanti: quasi tutti hanno sostenuto che quel periodo fosse estrapolato da un romanzo rosa, romantico, di scarso valore letterario etc etc, che potremmo definire come il prodotto di una “funzione Fabio Volo”. Quindi, tutti sono rimasti sorpresi e non poco nel venire a sapere che quelle parole secondo alcuni così banali, da romanzo rosa (detto ovviamente con una certa sprezzatura) fossero in realtà tratte da Guerra e Pace di Lev Tolstoj. Non avrebbe dovuto essere oggettivo riconoscere Tolstoj da Volo? Forse il riconoscimento di questa discriminazione è più complesso di quanto non vorremmo ammettere.
Torniamo alla frase di Tolstoj scambiata per una frase di Volo. Perché abbiamo deciso che non fosse tratta da un classico della letteratura mondiale? Intanto queste frasi, non questa frase, ma periodi tipo questi, periodi che hanno questa potenziale “citabilità”, sono molto presenti nei testi di Volo e della “funzione Fabio Volo”. Anzi, una della caratteristiche principali della scrittura di Volo è di fornire passi che si possono utilizzare in questo modo, perché si sforzano di fornire una visione gnomica della vita, di fornire, quindi, non tanto un mondo, ma una idea di mondo; frasi il cui contenuto, ciò che viene detto, è finalizzato ad essere estrapolato dalla narrazione e a esistere testualmente fuori dal racconto; è – credo – questa una scelta deliberata e precisa di narrazione, che vede nella letteratura una sorta di “bignami”, di pensieri, sentimenti, ragionamenti, comportamenti che possano essere citati: una sorta di manualista morale/comportamentale/sentimentale che nella funzione Fabio Volo vediamo al grado zero, nel suo apparire più semplice e chiaro. Ovviamente l’inganno del paratesto di Guerra e Pace era costruito per venire incontro a quel tipo di lettore, che vede nel romanzo ormai una sorta di breviario di citazioni plausibili e da utilizzare in diversi momenti.
Mi verrebbe da dire, quasi per paradosso, che maggiore è la riuscita di un romanzo quanto è minore la presenza di frasi memorabili; anzi, la non memorabilità delle frasi fa di un romanzo un classico. Di Guerra e Pace non ricordiamo frasi memorabili ma scene memorabili, che possono alcune volte durare decine e decine di pagine. Pensiamo alle descrizioni delle battaglie o alla scena di “Ballo di Natascha”: come si può estrapolare una frase o un periodo? è la costruzione del tutto, la scena, i dialoghi, la diegesi, la mimesi, l’intervento dell’autore etc etc a produrre quello stupore che ci fa sentire quelle immagini vive e vibranti davanti a noi. Prima ho sostenuto che la “funzione Fabio Volo” vuole con il romanzo non tanto dare un mondo, ma fornire un’idea di esso. Per concludere questo breve intervento, credo, che debba meglio specificare questa differenza, che se vogliamo può essere chiarita, analizzando la differenza tra finzione e storytelling. La finzione è qualcosa che crea un altro mondo, un mondo diverso da quello che noi viviamo: il Napoleone di Tolstoj non è per nulla il Napoleone storico né in alcun modo – perché ci è completamente precluso il cuore e l’intimo di ogni essere umano – è simile a Napoleone uomo; la finzione non ha una impostazione ideologica, ma chiede al lettore di sospendere la propria incredulità, cioè di credere che ciò che legge non solo possa ma debba esistere, facendosi così trasportare in una esperienza di alterità che nulla ha a che vedere con il reale. Lo storytelling, invece, ha con il reale un rapporto ideologico e fondante: non esiste storytelling senza realtà, anzi lo storytelling nasce per raccontare la realtà, per narrare il reale, escludendo completamente la finzione, vista come artificio, menzogna, bugia – ovvero come ficto/finto. La “funzione Fabio Volo” è una struttura dello storytelling, è lo possibilità di fornire una serie di interpretazioni del reale, di far diventare il reale una esperienza che può essere condivisa; la finzione (di cui Guerra e Pace è un esempio fondamentale proprio perché attiene con il dato storico a un atteggiamento ambiguo) non vuole, invece, fornire interpretazioni o esperienze del reale, ma vuole dare altro ovvero qualcosa che in ogni momento si oppone al reale e come tale non può essere ridotto a una formula, a un giro di frase o a una citazione.