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Gian Piero Brunetta su novant’anni del Festival del Cinema di Venezia – IV e ultima parte

di Umberto Mentana

La storia del divismo continua a svilupparsi a Venezia fino a che con Chiarini si comincia a prendere le distanze da questo fenomeno, poi si faranno tutti gli scongiuri possibili con Gambetti e non si vorrà neanche sentir parlare di questo aspetto che verrà considerato deleterio, ma le presenze divistiche sono importantissime, tra divismo cinematografico e divismo politico.
Il divismo politico prende subito la scena a partire dal ‘35 con la presenza di deputati, ministri o Presidenti del Consiglio dagli anni Cinquanta in poi. In questi stessi anni vengono ospitate anche grandi personalità, come ad esempio lo Scià di Persia e, soprattutto, Winston Churchill che ha una presenza al Lido memorabile per due avvenimenti: sia perché va all’Excelsior e finge di fare il bagno rimanendo in accappatoio, sia perché entrò durante la proiezione di un film inglese (a film iniziato) con qualcuno che cercava di aiutarlo mentre faceva le scale del palazzo, e lui reagisce in modo indispettito dicendo: “Sono ancora giovane!” e, quando finalmente entra in sala, avviene qualcosa che non era mai avvenuto in tutte le edizioni precedenti poiché verrà interrotta la proiezione per applaudirlo. Ebbene, c’è quest’aria di protagonismo, c’è una “dolce vita” che comincia al Lido dal Cinquanta in poi e i lidensi incominciano ad andarvi per vedere questa sfilata di attori, di personaggi piccoli o grandi dall’Excelsior alla Mostra, quando questo però non era ancora un red carpet che verrà poi ‘inventato’ negli anni Duemila. Io ho ancora delle compagne di scuola un po’ più grandi di me o della mia età che ricordano che già a dodici anni facevano la fila per vedere Gina Lollobrigida, Sofia Loren e poi quando apparirà Brigitte Bardot…insomma, a me dispiace ancora di non essere stato alla seduta fotografica che le fecero alla spiaggia dell’Excelsior dove c’era un pubblico grandissimo e una cinquantina di fotografi. È stato allora, nel 1958, un evento importante per il divismo che circolava per il Lido.

Poi dagli anni Sessanta i divi diventano i registi, i giovani registi: da Olmi a Rosi, da Pasolini a Pontecorvo, i fratelli Taviani, Ferreri, Bellocchio; passano per il Lido tutti i grandi registi perché il cinema italiano gode di momenti in cui il Festival serve effettivamente come occasione di lancio, di conoscenza di gente all’esordio che è già da consacrare. Gli anni Sessanta sono trionfali per il cinema italiano, Rosi vince nel ‘63 con Le mani sulla città, nel ‘64 vince Antonioni con Deserto Rosso, nel ‘66 c’è La battaglia di Algeri, nel ‘65 vince Vaghe stelle dell’orsa… di Visconti, che era sempre arrivato secondo proprio per via delle giurie politicamente condizionate e riceve il Leone d’oro per uno dei suoi film meno importanti. Però, appunto, quattro Leoni d’oro di seguito sono un evento straordinario.

    Ho cercato di seguire l’andamento dei pubblici e le loro trasformazioni: dai pubblici in prima fila, tutti vestiti per i grandi eventi come se fosse uno spettacolo al Teatro La Fenice, come se fosse un grande spettacolo teatrale, ma i pubblici cambieranno nel corso del tempo. I pubblici che andranno al Festival nei primi anni Quaranta saranno dei pubblici precettati: per esempio, pubblici di marinaretti, di soldati pronti a partire per la Guerra; invece, i pubblici che più mi emozionano, a parte quelli che vanno per le prime volte sia al Giardino delle fontanelle luminose all’Excelsior (che sarà il luogo adibito per le proiezioni) sono quelli che vanno al palazzo che viene costruito nel ‘37 dall’ingegner Quagliata in pochi mesi. Oggi è impensabile questo, sia il palazzo che il casinò vengono costruiti abbattendo delle costruzioni, un forte ottocentesco, in otto mesi o dodici mesi. Poi, nell’immediato dopoguerra viene costruita l’arena, aperta a milleottocento spettatori, e lì confluirà il pubblico popolare del Lido e di Venezia. La Biennale distribuisce gratuitamente tantissimi biglietti, quindi molti vanno al Festival anche legati dal lavoro in amministrazione pubblica ma cominciano anche ad arrivare giovani interessati al Cinema, e anche questa è una grande storia che vidi cambiare. Negli anni Sessanta si aprono posti anche per studenti universitari e con Lizzani anche i professori vengono invitati. I professori sono otto quindi non ci sono grandi costi per la Mostra ma gli studenti ci andranno con i sacchi a pelo: è una cosa straordinaria per quel periodo in cui Lizzani, con Enzo Ungari, inventa le proiezioni di mezzanotte perché a quelle proiezioni dove tentano di andare tre o quattromila persone, creando situazioni da stadio.

Fin qui, sei storie. E poi c’è anche la storia d’Italia nel mondo che si mescola. Il Lido è un’isola, è vero, ma quando la campana della Storia suona ci sono momenti in cui ci si rende conto che stiamo attraversando il Sessantotto; poi il ‘74 con il Cile, il ‘77 con la “Biennale del Dissenso” e poi vari momenti con il 2005 ed il problema del terrorismo con gli stati di tensione: il Comune di Venezia e il Ministero degli Interni mobilitano forze armate proprio perché temevano atti terroristici.

E sono arrivato ai giorni nostri; negli ultimi quindici anni ho recuperato tutti i film che riuscivo a vedere, appoggiandomi moltissimo ai cataloghi, a ciò che scrivevano i direttori e consultando ciò che scriveva la stampa. Avevo la fortuna di avere tanti ritagli di giornali anche di questo periodo, non guardavo ma conservavo molte cose, avevo notevoli materiali a cui appoggiarmi. Alla fine, quando ho fatto vedere al Direttore Barbera il capitolo a lui dedicato chiedendogli se c’erano degli errori, se avevo dimenticato qualcosa di davvero importante, mi disse che non aveva trovato nulla da rivedere e quindi fui molto contento. Avevo lavorato bene, cercando di mantenere una distanza da degli eventi che erano invece per me vicinissimi. 
L’ultima cosa che vorrei dire riguarda gli archivi che ho cercato di consultare e che non ho stimato per niente per molti anni; dovunque andassi, mi dicevano: “Mah, non so neanche dove possa essere questa annata del ’36!”. Pellicole e documenti non si trovavano e, da un certo momento in poi, hanno anche passato il materiale ad altri  – un po’ hanno ragione per i film infiammabili – ma perché non convertire tutta la cineteca (fatta anche di film in copia unica firmati dal regista) che poi, andando sul mercato, prendeva strade diverse? Invece, l’Archivio della Mostra della Biennale non ha i film. Questa è una cosa che, secondo me, va reintegrata con la crescita dell’archivio. Oggi, invece, è del tutto attiva e hanno messo in rete addirittura centomila foto (https://www.labiennale.org/it/asac/collezioni/fototeca).
    Infine, negli anni Ottanta la disorganizzazione era totale, con gente ammassata e schiacciata per vedere il primo Indiana Jones. Questa disorganizzazione continuerà, prima di tutto perché vengono meno i fondi a partire dagli anni Settanta già con la gestione Carlo Ripa di Meana (1974-1978) con dei tagli da circa un miliardo nel budget di Venezia. Contemporaneamente, però, la Mostra è in crescita, quindi come si fa a gestire tutto questo? Viene data possibilità agli studenti di accedere, io cominciavo a mandare qualcuno dei miei studenti di Cinema a partire dall’ ‘80 in poi però la disorganizzazione era totale, ma niente in confronto al ‘74, ‘75 dove la cosa era molto peggio. Poi, anche con Biraghi ci sono problemi. Infatti, quando Alberto Crespi diventerà critico de L’Unità, Biraghi farà delle rubriche dedicate proprio a cosa non funziona nella Mostra di Venezia. Nei primi anni di Gambetti si era tornati quasi a zero con la critica: il primo anno chiedono solamente trenta giornalisti perché era Novembre, perché non c’era niente di interessante, e poi invece con Lizzani ci sono seicento o settecento persone che chiedono di essere accreditate per l’evento. L’ufficio è lo stesso, il personale è lo stesso e quindi le cose non funzionano e non funzioneranno neanche con Laudadio nel ‘97, ‘98. A partire dagli anni Ottanta, i giornali non mandano più solo il critico che parla dei film e che li guarda tutti, iniziano a mandare le giornaliste che fanno i pezzi ‘di colore’, i giornalisti locali riempiono i pezzi di cose che non vanno e quindi, allargando lo sguardo, si troverà in tutto più o meno alti e bassi dell’andamento del Festival. Poi, le cose comunque vanno avanti, con sempre meno soldi e il problema è anche questo; negli anni Ottanta e Novanta la Mostra viene quasi abbandonata, è la figlia minore della Biennale, occupiamocene, sì, ma molto meno rispetto ad altri settori. 

“Il cinema è entrato, fin dall’adolescenza, da protagonista nel cast delle passioni che mi hanno accompagnato e guidato nel mio romanzo di formazione di veneziano del Lido. Ma è proprio grazie al Festival, all’attrazione fatale esercitata su di me dalle sue memorabili retrospettive, o dalle possibilità di scoperte di nuovi autori e tendenze del cinema contemporaneo, regalatemi dalle edizioni dirette da Luigi Chiarini, che ho avvertito, verso la fine dei miei studi universitari, l’esigenza di diventare, a pieno titolo, un cittadino del cinematografo sul modello di Jean Renoir”.


– Gian Piero Brunetta, dall’Introduzione a
La Mostra Internazionale  d’Arte Cinematografica di Venezia 1932-2022

qui il testo della I parte: https://www.letterazero.it/gian-piero-brunetta-su-novantanni-del-festival-del-cinema-di-venezia-i-parte/

qui il testo della II parte: https://www.letterazero.it/gian-piero-brunetta-su-novantanni-del-festival-del-cinema-di-venezia-ii-parte/

qui il testo della III parte: https://www.letterazero.it/wp-admin/post.php?post=866&action=edit

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Gian Piero Brunetta su novant’anni del Festival del Cinema di Venezia – III parte

di Umberto Mentana

Ho deciso di scrivere definitamente di ciò tuffandomi ventiquattro ore su ventiquattro quando ho visto i presidenti Cicutto e Barbera inaugurare l’edizione del 2020 con otto direttori di altri festival internazionali venuti a Venezia, ma che non avevano avuto il coraggio di iniziare un programma. Era l’unico festival che, con limitazioni e difficoltà, faceva questo atto di fiducia riguardo al futuro. Proprio questa mi è sembrata una cosa di cui essere molto orgoglioso e da cui partire per tentare di raccontare questa storia; una storia che, essendo molto complessa, doveva essere pensata anche nella sua singolare modularità: stiamo parlando di diciottomila film che passano per Venezia, novanta giurie e premi. Cosa racconto intanto di questo? Devo selezionare delle cose, però alcune cose sono obbligate. La giuria di quell’anno va in qualche modo definita perché, anche se pessima, deve essere ricordata: ha fatto male il suo mestiere, era manovrata, era eterodiretta e voglio che il mio lettore lo sappia. Le Coppe Volpi e i Leoni d’oro vanno messi, ci sono appunto dei passaggi obbligati. E da un certo momento in poi la Mostra non ha solo il concorso, ha altre cose che si aggiungono e nel corso del tempo i direttori arricchiscono con la loro creatività. Da subito, per esempio, c’è il lavoro di Francesco Pasinetti (1911-1949) che era un giovinetto di ventuno anni che, quando vede la sua prima Mostra, scrive tutti i giorni un articolo per sette giornali contemporaneamente. E lo fa per tutta la Mostra, seguendola, non solo facendo la cronaca giornalistica e inventando ogni giorno qualcosa, ma anche consigliando cosa non va bene e cosa si dovrebbe fare. Pasinetti è il primo laureato in Storia del Cinema: la sua è la prima tesi di Storia del Cinema italiano redatta a Padova, quindi ha avuto un ruolo importante. 

    E quali sono i protagonisti del mio racconto? Come li ho scomposti e poi ricomposti insieme? Intanto, i presidenti e i direttori. Per ognuno ho cercato di delineare a tratti le caratteristiche, dando notevole riconoscimento al Conte Volpi ma anche ai suoi collaboratori; sono dell’idea che grandi meriti debbano essere riconosciuti a De Feo che dirigeva e aveva ideato il Luce in quegli anni (Istituto Luce, ndr) e aveva ideato una rivista di spirito internazionale, la Rivista del Cinema Educatore [La rivista internazionale del cinema educatore, 1929, sic]. Grazie a questa, aveva già stabilito rapporti internazionali: era andato in Russia, aveva visto dei film, aveva instaurato rapporti con registi sovietici. Però, rispetto a ciò che avverrà in seguito in base ai vincoli che la Mostra avrà dal 1935 in poi, si pensa a qualcosa che dia l’impressione al mondo (dal punto di vista diplomatico) che si possa creare un luogo aperto, con minimi condizionamenti religiosi e di censura. Dove non ci sono censure, il pubblico che va a Venezia per i primi anni, e soprattutto il primo anno, ha la possibilità di applaudire un treno sovietico in cui ci sono le bandiere che sventolano, e già nel ‘32 ha la possibilità di vedere un amore tra donne in Ragazze in uniforme (1931), un film tedesco con un amore tra ragazze, nel ‘34 ha la possibilità di vedere Estasi (1933), con un nudo di Hedy Lamarr e una scena di sesso, Lamarr che fa il bagno nuda, che corre nuda tra i boschi e tra i prati. Nei primi anni c’è dunque questa libertà che il pubblico percepisce; dal 1935 in poi c’è un maggior controllo con l’istituzione del Ministero della Cultura fascista, con Luigi Freddi che vorrà avere un controllo sulla Mostra. Dal 1938 in poi, le alleanze con i nazisti si faranno sentire, a partire dalla presenza costante di Joseph Goebbels che viene applaudito più volte negli anni dal ‘37 al ‘38 e ‘42. Abbiamo questo tipo d’insieme di protagonisti; poi, a ruota, ne seguiranno diciotto, diciannove con carature diverse, a cui ho cercato di attribuire meriti e limiti nelle Direzioni. Il direttore che ho stimato più (perché ne ho vissuto l’intensità di presenza a Venezia dal 1963 al 1968) è Luigi Chiarini, non solo perché poi ho dedicato la mia tesi a Barbaro (Umberto Barbaro, ndr) e a lui. Mi sono laureato con una tesi su di lui nel ’66, nello splendore della sua Direzione durante la quale faceva scoprire il nuovo cinema di tutto il mondo e facendo incontrare con conferenze stampe ed incontri i grandi registi, come Dreyer o Bresson, Buñuel o Buster Keaton; lui ha dato l’impressione da subito di prendersi carico del cinema italiano, tanto è vero che nei suoi cinque anni di Direzione, per quattro volte, il cinema italiano ottiene il Leone d’oro, cosa non semplice, se non ci rifacciamo ai tempi del fascismo. 

    Dunque, storia dei direttori, storia dei film e storia dell’evoluzione tecnologica. Diciottomila film che mostrano tutta la sua evoluzione dal momento del sonoro – la Mostra ha la fortuna di nascere all’indomani circa dell’invenzione del sonoro – e quindi di captare da quel momento tutte le grandi trasformazioni tecnologiche: già nel 1936-1937 ci sono i primi esperimenti di cinema a colori e poi di 3D. Memorabile l’articolo di Irene Brin che parla delle meraviglie del 3D, di cosa si vede nel ‘38; poi Cinemascope fino alla Realtà Virtuale nell’Isola del Lazzaretto iniziata da Barbera qualche anno fa. Quindi la Mostra di Venezia partecipa ed è testimone dell’invenzione tecnologica, e la sua intelligenza rispetto anche ad altri Festival è quella di aver aperto anche alle piattaforme; non solo sono entrati in concorso alcuni film nati per le piattaforme ma anche hanno vinto, addirittura, il Leone d’oro. Gli ultimi due direttori sono quelli che, a mio parere, hanno rimesso in corsa il Festival per la riconquista del suo diritto di essere il leader tra i Festival. Oggi come oggi non considero Venezia seconda a nessuno, ha riconquistato in pieno il suo potenziale e quello che è curioso è che il luogo in sé è costituito, in grandezza, da quattro campi da calcio, un luogo minimo. Forse, proprio grazie a questa ristrettezza tutto si svolge tra l’albergo Excelsior, il palazzo e adesso anche il casinò; un tempo, si svolgeva tutto dentro l’albergo Excelsior.

La storia del giornalismo a Venezia parte con venti o trenta giornalisti, anche questa è una storia che cerco di raccontare. Oggi ha più di duemila giornalisti iscritti tra tutte le testate, chi ha giornali in rete, chi organizza festival; all’inizio i “padri pellegrini” che sbarcarono a Venezia furono venti, era presente anche una donna che scrive per Il Lavoro di Genova, si chiamava Guglielmina Setti. Io ho anche privilegiato negli anni alcuni critici per la loro intelligenza, per la passione, per troppa libertà anche che volevano apertamente manifestare negli anni del fascismo fino ai primi anni ‘40. Poi la Guerra Fredda ha diviso la critica e quindi ho studiato le critiche del dopoguerra tenendo conto anche delle divisioni ideologiche, ad esempio: se scrivevi per una testata comunista non potevi dire troppo bene per un film americano che ti era piaciuto e viceversa, i film sovietici venivano duramente stroncati da gran parte della critica, ma non dalla critica comunista che -anzi- accusava critica e pubblico di essere ciechi e sordi di fronte alla bellezza dell’ultimo film di Pudovkin o di altri film che arrivavano a Venezia. Quindi la critica cambia acquisendo strumenti nuovi, adattandosi ai tempi e subendo molti condizionamenti: ho potuto raccontare questo anche grazie a Rondi che era come il Dottor Jekyll e Mr. Hyde, era cioè sdoppiato in due. Il suo compito era quello di scrivere delle recensioni, ma alle volte confidava al suo diario che era costretto a scrivere per il suo datore di lavoro e non ne era completamente convinto. Inoltre, la critica cattolica si irrigidisce moltissimo ma lo fa già negli anni Trenta, poi invece ha delle aperture straordinarie negli anni Sessanta: alcuni critici sembrano imbracciare le armi e le bandiere della Rivoluzione con posizioni più a sinistra della sinistra in certi critici cattolici. Ma poi entra in ballo la Semiologia, lo Strutturalismo, ed ovviamente – ed è il padre di tanta critica – Benedetto Croce, poi entrerà in ballo la Sociologia e i critici cresceranno in misura costante: molto presto cominciano ad arrivare i critici stranieri contestualmente ad un parterre di divi dal ’34, i divi dall’America e dagli altri Paesi.
Dal 1934 al 1938 c’è una forte presenza di divismo americano, mentre la presenza di divismo italiano si accentua dopo Cinecittà e lo vedremo lungo gli anni di Guerra. Questo periodo consente ai divi italiani come Luisa Ferida o Alida Valli di essere presenti, così come qualche regista italiano che viene premiato e riceve appunto il premio per meriti ideologici: la Coppa Mussolini. 

qui il testo della I parte: https://www.letterazero.it/gian-piero-brunetta-su-novantanni-del-festival-del-cinema-di-venezia-i-parte/

qui il testo della II parte: https://www.letterazero.it/gian-piero-brunetta-su-novantanni-del-festival-del-cinema-di-venezia-ii-parte/

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Gian Piero Brunetta su novant’anni del Festival del Cinema di Venezia – II parte

di Umberto Mentana

Il fatto che i vari materiali siano oggi sistemati consente finalmente dei reperimenti che non sono delle “truaie”, tra cui quello delle lettere di Kubrick che per me, kubrickiano di ferro, è stata una vera scoperta perché negavo che ci fosse qualsiasi segno del passaggio di Kubrick per Venezia. Riccardo Triolo, il dottorando in questione, fece un bel lavoro, ma si fermò nel momento in cui bisognava passare da un’attività descrittiva dei materiali che aveva selezionato ad uno sguardo più generale. Perciò si trattava di decidere cosa fare ed organizzarmi, sapendo che recarmi negli archivi che intendevo visitare era impossibile. 

Come sostituire, come trovare delle alternative che rendessero questo lavoro egualmente soddisfacente e motivabile? Intanto mi accordo sulla disponibilità dell’archivio della Biennale, dalla quale mi riferiscono che avrei avuto disponibilità soltanto dopo qualche mese. Passarono i mesi, io costruisco il libro e mi servirò degli archivi per coprire i vuoti, un po’ perché nella tesi di dottorato di Triolo c’erano cinque o sei documenti che erano quelli che cercavo e non conoscevo, e che mi sono stati utili perché andavano dagli anni ‘30 al’68, poi perché ho avuto degli aiuti esterni, disperati, immediati, al di là delle mie attese e previsioni. Uno di questi mi è arrivato dall’archivio della Cineteca Lucana di Gaetano Martino. Avrei voluto recarmi alla Cineteca Lucana perché aveva due archivi importanti: uno di Giacomo Gambetti che è stato direttore della Mostra negli anni peggiori e che ha contribuito ad allontanare la Mostra dal Lido e a precipitarla in una sorta di buco nero per qualche anno; l’altro, l’archivio di Rondi (Gianluigi Rondi, ndr), da cui, imprevedibilmente, Gaetano Martino mi ha mandato oltre che una quantità enorme di materiale spedendoli direttamente a casa mia, circa settantacinque chili di roba. Rondi conservava tutto sia negli anni in cui ha fatto il critico, sia degli anni in cui è stato commissario e poi Direttore Presidente. Quindi un archivio straordinario perché dal momento in cui è arrivato a Venezia giovanissimo è sembrato subito predisposto nel compiere questa sua ascensus sonorum anno dopo anno. Un anno dopo, forse grazie alla sua amicizia con Andreotti, era già parte della giuria ed è rimasto per tre anni.

Successivamente ho chiesto aiuto ad altre cineteche come la Cineteca di Bologna ed infine conoscevo l’archivio di Lizzani che era stato dato alla Lily Library di Bloomington: l’avevo consultato e avevo avuto la fortuna di leggere tre o quattro sue lettere del periodo in cui era stato direttore alla Mostra, e poi c’era il suo libro. Insomma, il periodo mancante erano questi ultimi quindici anni, perciò telefono all’Archivio della Biennale e la direttrice dell’Archivio mi dice: “Ma di cosa ha bisogno?”, e io: “Guardate, io ho tutti i cataloghi della Mostra, da quando hanno iniziati a farli fino al 2002, 2003. Me ne manca uno e poi non li ho più, dal 2003 ad oggi”. Esattamente due giorni dopo avevo tutti i cataloghi della Mostra, una ventina di cataloghi dal 2003 al 2019. A quel punto diventò difficile trovare delle scuse con me stesso per non andare avanti e mi sono tuffato. Ho avuto anche spinte da amici che mi dicevano continuamente che dovevo fare questo lavoro e poi, dentro di me, la presi soprattutto anche come una chiamata, un atto di amore e di riconoscenza verso un posto che è stato importante per la mia formazione e che mi ha indicato la strada da prendere nella vita. 

    Ho cercato fin da subito di pensare al luogo tenendo dentro la mia ego-storia che tuttavia non trapela fino in fondo in quei momenti in cui la mescolo, ma essa c’è, e quindi nella scrittura di questo libro sono molto coinvolto autobiograficamente perché ancora oggi, a cinquanta o sessant’anni di distanza, ascoltare in questa sede una delle dottorande che si occupa di Pasolini è bello; io sono diventato amico di Pasolini col tempo, ho avuto varie occasioni di incontrarlo, di presentare i suoi libri, ma i primi veri traumi che ho avuto da spettatore fu vedere come era accolto all’arena del Lido: sentire il pubblico che al solo nome di un film di Pasolini iniziava a fischiare perché c’erano pubblici già costituiti. Quindi anche questo, il pubblico, lo voglio assolutamente raccontare e allora, quando ho iniziato a pensare a questo libro, mi son detto: “Va bene, vado avanti, ma come costruisco questa storia? Come la articolo?” 

È entusiasmante quella fase confusionale in cui, non sapendo quale strada intraprendere, ti senti facilmente perso nei materiali e ti ritrovi a pensare: “Beh, che storia racconto?”. Da veneziano, avevo anche una discreta fortuna per aver avuto in mente un modello che mi piaceva molto: quello di pensare a dei capitoli che fossero perfettamente autonomi come I teleri di Tintoretto, in cui quaranta teleri raccontano una storia unica, sono tra loro indipendenti ma pur sempre connessi. 

L’altra cosa che volevo far avvertire al lettore è la sacralità del luogo. Il Lido ha avuto questa fortuna: ha alle spalle Venezia e questa è la sua forza (rispetto anche a Cannes, che alle spalle non ha niente); la Mostra del Cinema di Venezia ha alle spalle la Biennale, la più grande manifestazione culturale italiana, ed ha avuto la fortuna di essere chiamata “Mostra d’Arte Cinematografica” dai suoi padri ideatori, i quali le hanno attribuito sin da da subito la connotazione di arte (cosa che nel 1932 non era così ovvia) in un luogo che all’inizio che non era nemmeno deputato al Cinema: è questo albergo nato nel 1907 che era diventato, negli anni di Guerra e subito dopo, un luogo d’attrazione per le élite internazionali. Il Lido attraeva la grande aristocrazia ma anche i magnati americani, Ford era amico di Volpi e gli chiese: “Ma come? Sono andato al Lido con le mazze da golf e non c’è un campo da golf?”, e Volpi gli farà un campo da golf un anno dopo. Il Lido cresce dentro questa grande logica di Giuseppe Volpi di Misurata di far diventare Venezia di nuovo città capitale della modernità e affermarsi anche come luogo di diplomazia culturale. I suoi padri fondatori sono persone che pensano con uno sguardo internazionale fin da subito e ciò è curioso, visto che la Mostra è nata e ospitata in questo luogo che è molto amato dall’élite, ma le proiezioni avverranno nella terrazza dell’Excelsior e la prima edizione registra venticinquemila persone. Anche facendo l’elenco di tutte le teste coronate, di tutti i nobili, di tutti i ricchi e gli imprenditori, non si raggiungono i venticinquemila spettatori. Quel pubblico di venticinquemila spettatori è anche un pubblico di persone qualunque, che non vestono in smoking ma con abiti di tutti i giorni. E dunque è vero che il pubblico che attrae, il pubblico che fa notizia, il pubblico che è il vero protagonista sono questi personaggi importanti, ma sin da subito ho percepito che la gente di Venezia c’è, ed è anche un pubblico incuriosito: si crea perciò un rito sulla terrazza dell’Excelsior, con un proiettore mobile dentro un capannino dell’albergo perché, se piove, ci si sposta rapidamente nello showroom. Ciò che voglio dire è che sin dal primo anno questo luogo acquista sacralità e ritualità poiché chi ci è stato desidera tornarci; è un luogo definito da Tullio Kezich come: “Un’isola ad alto potenziale di utopia” perché la gente va per coltivare sogni, visto che da subito i suoi tre ideatori Volpi, Antonio Maraini (segretario) e Luciano De Feo (organizzatore-direttore culturale), riescono in pochi mesi ad organizzare questo programma con quindici, sedici, diciassette nazioni che vi partecipano. E partecipano dagli Stati Uniti all’Unione Sovietica con i propri rappresentanti, con un messaggio di auguri di Auguste Lumière che si trova nell’Archivio, ed è una delle cose che l’Archivio regala e che questo luogo mantiene nel tempo.

(qui il testo della I parte: https://www.letterazero.it/gian-piero-brunetta-su-novantanni-del-festival-del-cinema-di-venezia-i-parte/)

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Gian Piero Brunetta su novant’anni del Festival del Cinema di Venezia – I parte

di Umberto Mentana

In occasione dei seminari di dottorato Film and Media Studies dell’a.a. 2022/2023 dell’Università degli Studi di Bari “A. Moro” a cura dei Proff. Federico Zecca, Angela Bianca Saponari e ricercatori Andrea Gelardi, Gabriele Landrini, ho avuto la possibilità di partecipare all’incontro con Gian Piero Brunetta (Università degli studi di Padova) che ha tenuto una vera e propria masterclass-presentazione della sua ultima pubblicazione dedicata ai Novant’anni del Festival del Cinema di Venezia per i tipi di Marsilio (https://www.marsilioeditori.it/libri/scheda-libro/2971504/la-mostra-internazionale-d-arte-cinematografica-di-venezia-1932-2022), un viaggio monumentale di oltre mille pagine tra ricerca storica, archivi e memorie da parte di uno dei più importanti storici del cinema attualmente viventi. 

Quello che segue è il resoconto dell’incontro, tenutosi online il 5 Maggio 2023.

“Questa monumentale storia della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia (una coedizione La Biennale di Venezia – Marsilio), che vede la luce in concomitanza con le celebrazioni per il suo novantesimo anniversario e, in maniera un po’ paradossale, grazie alla lunga pausa indotta dal confinamento imposto dal perdurare della recente pandemia, è di gran lunga la riflessione più articolata, ampia ed esaustiva mai tentata sinora. Un tentativo di riordinare i ricordi, dare un senso compiuto all’infinità di suggestioni e stimoli suscitati dal susseguirsi implacabile e nondimeno caotico delle edizioni, riportare alla luce fatti, personaggi e soprattutto film di cui si era persa la memoria […] Un atto d’amore, infine, da parte di Gian Piero Brunetta che della Mostra è stato per moltissimi anni spettatore assiduo e, a tratti, protagonista: consapevole della grandezza dell’impresa avviata in quel lontano agosto di molti anni fa, […] Di certo, chiunque si accinga in futuro a ritentare l’impresa, non potrà non avere come punto di riferimento il lavoro, d’ora in avanti imprescindibile, di Gian Piero Brunetta”.

– Roberto Cicutto, Alberto Barbera, dalla Prefazione de La Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia 1932-2022.

    Il prossimo anno si festeggeranno i novant’anni della Mostra di Venezia e nessuno ne ha mai scritto.

Avrei sempre desiderato guidare un gruppo di laureandi nello scrivere questa storia e mobilitarli in vari archivi: non ci sono mai riuscito perché fino ai primi anni del Duemila l’archivio della Biennale era qualcosa di disastroso. Io ci ho lavorato per la Mostra “Cinetesori della Biennale” del 1996 e dopo aver realizzato questa retrospettiva, dopo aver visto tutti i film della Mostra, dopo aver avuto vari contatti con l’archivio, mi ero ripromesso che mai più sarei entrato negli archivi della Biennale, tanto erano disorganizzati e impossibili da consultare. Per fortuna le cose sono cambiate col tempo e, proprio durante il Covid, quando ero incerto sul parto o non parto, sul ‘chi me lo fa fare’ e così via, ho capito di aver fatto sempre passi più lunghi della mia gamba. Quando, ad esempio, ho scritto la Storia del Cinema Italiano non c’era niente di simile e sono andato in giro per gli archivi del mondo a cercare, a vedere i film muti e gli archivi dei rapporti diplomatici tra Stati Uniti e Italia; quando ho pensato alla storia dello spettatore (Buio in sala. Cent’anni di passione dello spettatore cinematografico, Marsilio, Venezia 1997, ndr) nessuno si era mai avventurato in questo tipo di storie. Allo stesso modo, quando ho incominciato a viaggiare sulla storia dell’icononauta (Il viaggio dell’icononauta. Dalla camera oscura di Leonardo alla luce dei Lumière, Marsilio, Venezia 2009, ndr).

Quindi mi son detto: del tempo c’è, tutto è difficile, però proviamoci. Cos’ho di favorevole da parte mia? Ho tenuto numerosi corsi sulla Mostra del Cinema nel corso del tempo, ho scritto un sacco di articoli e saggi, quindi nell’insieme, salvo gli ultimi quindici anni, ne ho scritto e qualcosa ne ho detto. Infine, io sono lidense e sono cresciuto accanto alla Mostra con una casa a cinquecento metri da essa, e ad un certo punto della mia vita ho abbandonato il campo da calcio in spiaggia e ho cominciato ad entrarvi. I ragazzi lidensi per principio decidevano tutti insieme che si entrava gratuitamente alla Mostra, non si doveva pagare, e quindi con i miei amici ho incominciato a frequentare la Mostra dal ‘58. I primi momenti in cui ricordo di volervi entrare per vedere un film di Erich Von Stroheim erano prima dei miei diciott’anni, ma i primi veri ricordi incominciano nel ‘60 quando c’erano i film dei grandi registi italiani e, a seguire, le retrospettive. Dunque, dal Sessanta in poi ho cercato in tutti i modi e con tutti i mezzi di seguire tutto, proprio perché in quei quindici giorni la Mostra prendeva me ed alcuni miei compagni di scuola come una specie di febbre; facevamo anche un giornaletto locale in cui ci battevamo affinché la popolazione lidense fosse più coinvolta nella storia della Mostra. Quindi avevo un’esperienza personale di vari anni in cui avevo visto tutto, poi quaranta-quarantacinque anni di esperienza sulle retrospettive, ne scrivevo su Repubblica ma poi ho smesso.

Come mai ad un certo punto ho smesso di andare alla Mostra? Con gli attentati del 2005 sono comparse delle guardie armate sul tetto del casinò e la mostra si è militarizzata: questo non mi è più piaciuto, così come non mi è più piaciuto il fatto che per poter entrare dovevo passare, come negli aeroporti, attraverso le scannerizzazioni; in più, poco tempo dopo è stato praticato un buco per avviare la costruzione di un nuovo palazzo. Ci fu una gara tra architetti con la proclamazione di un vincitore, ma questo palazzo non è mai stato costruito perché una volta iniziati i lavori fu trovato dell’amianto, una quantità di amianto spaventosa che era poi l’amianto di cui tutti i lidensi erano a conoscenza, quell’amianto buttato dalle tettoie delle capanne di tutti gli stabilimenti dopo la grande alluvione del ‘66. E su questo fu strano che non ci fosse memoria, si doveva sapere, e perciò quando si è trovato l’amianto si vide che i costi di pulizia erano enormi e quindi per sette anni questo buco non venne chiuso.

Poi, il problema che si poneva era il seguente: io ne so poco del Festival di Venezia dal 2005 al 2020. Pensai che avrei potuto scrivere fino al 2000, fino alla nascita della Fondazione e poi finire rapidamente. Insomma, quando ho cominciato a pensare a questa storia ho iniziato a capire cosa possedessi di pratico, e di sicuro avevo nella mia memoria molto materiale: sapevo di avere raccolto – non sapevo in che misura – tanti ritagli di giornali degli anni Sessanta, sapevo che oltre ad averne scritto in varie sedi e aver seguito varie tesi, inclusa una tesi di dottorato di uno studente che dentro di me avevo eletto come ideale scrittore di questa storia con me affianco come guida. Lui fece un bel lavoro, però ha cercato di sistemare l’archivio nella fase ancora molto difficile in cui i materiali non erano ben schedati, quindi ha perso tanto tempo cercando di dare una mano nella sistemazione.  

In mdp

SPECIALE HALLOWEEN. TIM BURTON presenta al Lucca Comics & Games 2022 in anteprima europea la serie TV Mercoledì.

di Umberto Mentana

Quale migliore occasione se non la Notte di Halloween per chiacchierare con l’esponente forse più emblematico della notte più misteriosa dell’anno, ossia Tim Burton?

In occasione del Lucca Comics & Games 2022 il regista de Il mistero di Sleepy Hollow, Batman, La sposa cadavere, Edward Mani di Forbice ha presentato in anteprima europea la serie TV Mercoledì, un progetto ambizioso in otto episodi incentrati sull’iconica Famiglia Addams e in particolare sulla primogenita Mercoledì. Lo show sarà disponibile a partire dal 23 Novembre sulla piattaforma Video On-Demand Netflix.

Domanda: Il personaggio di Mercoledì Addams è al centro di una famiglia, questa serie la possiamo considerare una mystery con toni investigativi che ripercorre gli anni

di Mercoledì come studentessa all’interno della Nevermore Academy.

Quindi, Tim, come sei arrivato a lavorare su Mercoledì?

Tim Burton: Io sono cresciuto guardando la serie tv della Famiglia Addams anche se in realtà sono partito dai fumetti, sono a prescindere sempre stato un grande fan di questa famiglia.

Devo dire che Mercoledì è sempre stato il personaggio che mi ha interessato di più perché io mi sono sempre sentito come Mercoledì fin da quando ero ragazzino, sin da quando ero adolescente.

Sono un ragazzo ma sicuramente avrei potuto benissimo essere lei, condividiamo lo stesso punto di vista in “bianco e nero”, direi.

Lei in passato è stata sempre stata rappresentata come una bambina ma mi è sempre piaciuto sapere come poteva essere a scuola, come avrebbe potuto reagire alla propria famiglia, agli insegnanti…e da lì è partito il progetto.

D: Cosa pensi che renda la Famiglia Addams così amata ancora oggi? Perché dopo così tanti anni è ancora attuale?

T.B.: Io credo perché loro sono per definizione la weird family.

Nella realtà la maggior parte delle famiglie o almeno alcuni componenti che ne fanno parte sono propri di questa categoria. E quindi, in un certo senso, nella Famiglia Addams loro ci vedono un modo per identificarsi,fondamentalmente è questa la ragione del suo successo.

La maggior parte dei ragazzini che conosco si sentono imbarazzati dai propri genitori…immaginate avere Morticia come madre, che imbarazzo!

D: Come pensi che Jenna (Jenna Ortega, l’attrice che interpreta Mercoledì nella serie TV, ndr)abbia contribuito a dare vita a questa Mercoledì? Perché la sua è diversa da tutte le altre.

T.B.: Assolutamente vero, Mercoledì è un personaggio iconico.

Quindi era molto difficile trovare un’attrice che lo potesse interpretare, senza Jenna per me non ci sarebbe stata la serie perchè non era assolutamente facile trovare chi potesse impersonarla in quella maniera. È vero sono i suoi occhi, moltissimo, bellissimi e la sua forza di carattere a darle quel tono

perché Mercoledì è un personaggio forte, ed è quello di cui aveva bisogno per il nostro personaggio.

Il lavoro che Jenna ha dovuto fare fare è stato quello di trasferire, trasmettere questo personaggio in bianco e nero che però qui e lì lascia intravedere qualche sfumatura di un qualsivoglia lato umano senza tradire quel nucleo fondamentale insito in Mercoledì.

D: Per Mercoledì i social sono un buco nero di gratificazioni mentre per Enid (Emma Myers), la compagna di stanza di Mercoledì, è completamente diverso.

Mercoledì usa macchina da scrivere e violoncello, per Enid le emoji servono a trasmettere le emozioni che non sa esprimere. Si dice che Mercoledì esprime la tua visione del mondo, tramite lei vediamo anche quello che Tim Burton pensa. Cosa pensi quindi del rapporto tra i social e il mondo reale?

T.B.: Per quello che mi riguarda io ho paura di internet e ovviamente ogni volta che navigo su internet per cercare qualcosa mi ritrovo in qualche buco nero e qualche video strano di gatti.

Sicuramente in partenza queste cose erano pensate per fare qualcosa di bello, di fare del bene, ma poi finiscono per utilizzate per qualcosa di male.

Naturalmente io sono un po’ come Mercoledì, condivido il suo modo di pensare al mondo.

D: Ci puoi raccontare come il personaggio Mano è stato realizzato per lo schermo?

T.B.: Essendo un personaggio particolare gli volevo conferire una vita anche un po’ più ampia rispetto alle versioni precedenti, dargli un’esperienza più vissuta.

Il personaggio mi piaceva comunque anche nelle versioni precedenti, aveva quell’aspetto di vecchi film dell’orrore, io però gli ho voluto dare anche un passato che fosse abbastanza particolare.

La possiamo definire il Dustin Hoffman delle mani.

D: Con Mercoledì tu ci racconti come anche in passato hai fatto in molti dei tuoi film, di aspetti quali l’emarginazione, il sentirsi non accettati, di essere degli outkast. Vuoi per difetti fisici, psicologici, sociali. Ce ne parli in relazione al personaggio di Mercoledì?

T.B.: Capisco benissimo questo tema avendo avuto problemi di salute mentale per metà della mia vita. Ed è ovviamente questo perché amo il personaggio di Mercoledì, mi identifico con lei.

Lei è fonte di ispirazione, è sempre molto chiara, dice quello che pensa, quello che prova.

A volte però questo ti mette nei guai nei confronti degli altri ma lei è un simbolo, è simbolica per  tutto questo. Lei ha anche quella forza semplice e silenziosa che trovo molto importante.

D: Nella scuola, la Nevermore Academy tu racconti che l’hanno frequentata importanti figure storiche, come Edgar Allan Poe. Quali altre figure storiche immagini che abbiano frequentato o insegnato in questa scuola?

T.B.: Devo dire che questo è uno dei motivi perché la serie mi piace ed è buffo, Mercoledì lei va in una scuola per reietti e si sente una reietta tra i reietti. Ed è quello che io ho provato e sentito per tutta la mia vita nei confronti della scuola, dei genitori e degli altri. È il motivo perchè lei fondamentalmente mi piace.

D: Anche per Mercoledì si è rinnovato il sodalizio artistico con Denny Elfman. Come avete lavorato sul tema musicale forse più celebre della storia della TV?

T.B.: Io e Danny siamo amici da una vita, abbiamo entrambi un passato lungo di collaborazioni.

E questo perché condividiamo gli stessi gusti, amiamo gli stessi film, abbiamo un rapporto molto stretto in questo senso ed è molto facile lavorare con lui proprio per queste ragioni, peraltro io lo considero come un altro personaggio del film, come un attore, lo tratto come tale perché secondo me la musica è un altro personaggio nei film.

Ed è stato fantastico che lui abbia accettato di lavorare e di scrivere le musiche per questo nuovo lavoro, lui è ritornato ad essere una rockstar ed è stato bello che abbia trovato del tempo da dedicare a Mercoledì.

D: I costumi di Colleen Atwood svolgono come le musiche di Danny Elfman un ruolo fondamentale per contrassegnare e caratterizzare i personaggi. Ce ne parli?

T.B.: Allo stesso modo, la collaborazione con Colleen è stata una partnership che va avanti da tantissimi anni, abbiamo collaborato insieme per tantissime produzioni, tantissimi film.

Ed è stata importante la sua visione perché Mercoledì aveva un solo look ed era importante trovare uno stratagemma per conferirle look diversi pur distinguendola da tutti gli altri studenti della Nevermore dove anche loro hanno un aspetto da “diversi” che li distingue dagli altri ragazzi in generale. Per me è fondamentale che sia visibile il mondo, questo mondo e che risulti diverso rispetto agli altri a prescindere da quello che è.

D: Se c’è stata, quali sono state le difficoltà di affrontare una serie ad episodi? Il cinema rimane sempre il suo vero amore oppure affronterà nuovamente la serialità in futuro?

T.B.: Lavorare ad una serie televisiva significa lavorare ad un ritmo diverso, una specie di cottura un po’ più lenta rispetto ad un film ma il Cinema continua a rimanere ovviamente il mio primo amore e credo che comunque  oggigiorno ci sia ancora spazio per i film, per il Cinema.

D: Il regista in una serie tv è come un ammiraglio di una flotta perché come sappiamo anche in Mercoledì c’è stata una vera e propria collaborazione anche con altri registi per co-creare il prodotto (Tim Burton ha diretto 4 episodi su 8 dell’intera stagione, ndr). Come è stato per Tim Burton il rapporto con gli altri registi per mantenere consistenza e visione?

T.B.:Intanto, l’ho trovato interessante a prescindere da quello che è e si fa, io ho assoluto rispetto per le altre persone, conosco questo tipo di lavoro e so la fatica che c’è dietro.

È stata una sensazione molto bella, molto positiva perché noi ideatori abbiamo stabilito in un certo senso qual era il tono poi gli altri registi lo hanno ripreso, lo hanno rielaborato in base al proprio stile, hanno fatto la regia a modo loro però hanno seguito in un certo senso questo tono.

Io lo trovo estremamente importante poiché io traggo ispirazione dagli altri, è un dare e avere, io do qualcosa e questo qualcosa poi ti ritorna indietro. Quindi sei tu una fonte di ispirazione e gli altri lo sono per te.

La realizzazione di una serie, così come la realizzazione di un film, è sempre composta da una famiglia un po’ strana, magari nella TV ha delle caratteristiche un po’ diverse ma non sono dissimili come lavori.

D: Qual è il segno, l’eredità che ti hanno lasciato i comic books? E se ci sono quali sono

quelli che hai amato di più?

T.B.: Ho fatto Batman quindi ad un certo punto qualche comic book devo averlo letto e incontrato.

Tra parentesi io disegno, amo disegnare e amo tutto quello che ha a che vedere con l’arte.

Da ragazzino ho sempre avuto problemi nel leggere le didascalie nei comics perché non so mai a quale riquadro, a quale disegno si riferisce. Comunque il disegno, questo tipo d’arte la trovo fantastica ed è questo il motivo perché è bellissimo essere qui.

In mdp

“Stranger Things”: risospinti senza posa nel passato

di Giovanni Morese

Se in futuro qualche pittore dovesse mai decidere di realizzare un quadro sulle condizioni della Settima Arte nel 2022, non stupirebbe certo se ci ritrovassimo ad ammirare il ritratto di un uomo con uno sguardo assuefatto, rivolto ad un panorama cinetelevisivo che non esiste più. Non a caso, ad inaugurare il nuovo anno al cinema è stato Matrix – Resurrections, regia di una solitaria sorella Wachowski. Lana, la “sentimentale” di questo duo rivoluzionario della storia del cinema di fine anni Novanta, ci aveva proposto un distopico all’epoca sfacciato e dissacrante, una pietra miliare difficile da dimenticare ed impossibile da emulare. Una storia, quella di Matrix, consapevolmente destrutturata e malauguratamente banalizzata da due sequel Reloaded e Revolutions – trainati da un successo pericoloso ed opprimente ma che, a giochi fatti, erano riusciti a porre la parola fine. Eppure, Matrix è resuscitato e ciò non ha sorpreso né smosso nessuno. Perché Matrix doveva resuscitare: è ciò che avviene a tutti i franchise di un passato perduto, di un mondo fitzgeraldiano in cui «così continuiamo a remare, barche contro corrente, risospinti senza posa nel passato». E così ci siamo ritrovati a Matrix pur non essendo davvero lì. Abbiamo guardato il grande schermo con la speranza di riottenere ciò che avevamo perso da tempo, constatando col senno di poi che però ciò non sarebbe mai potuto accadere. Questo perché quando il protagonista Neo si è specchiato durante i primi minuti della pellicola, attraversando la parete per raggiungere un luogo conservato solo nei meandri dei suoi ricordi, ci siamo ritrovati in realtà di fronte Lana, l’artista costretta a rinnovare un mondo privo di linfa vitale solo perché, in caso contrario, lo avrebbe comunque fatto qualcun altro al posto suo. Gli urli della dolorosa visione di questa irriverente pellicola sono diventati, così, moniti di un primo anno di cinema post-covid costellato di profetizzate presenze spettrali. Tra un autoreferenziale, nostalgico ed ennesimo Scream ed un terzo capitolo della saga spin-off di Harry Potter pronto ad ingannare un pubblico ancora assetato della magia di Hogwarts che non ritroveranno probabilmente mai più, anche il Marvel Cinematic Universe ha iniziato a seguire la via della nostalgia introducendo versioni del passato di personaggi entrati ormai nell’immaginario collettivo attraverso l’escamotage narrativo del multiverso. All’interno di questo vortice vizioso, il settore seriale si è collocato in una posizione intermediaria, figlia di un entertainment contemporaneo basato sempre di più sulla creazione di esperienze di fruizione unificate e trasversali. Si passa da sperimentazioni di reboot di show di passate generazioni come Gossip Girl, Pretty Little Liars ed addirittura una versione âgée di Sex and the City, tutte prodotte dalla recente piattaforma streaming HBO Max – particolarmente attenta a cavalcare l’onda del passato anche attraverso le smielate reunion di Friends e del cast del maghetto della Rowling – a show di Prime Video rivoluzionari e peculiari come The Boys, satira intelligente del mainstream supereroistico messo in piedi dal colosso rivale Disney Plus. E poi c’è Stranger Things, l’emblema dello sguardo rivolto al passato, ma allo stesso modo quanto di più lontano dai tragici esempi sopracitati. Perché il quarto atto di Stranger Things – atteso e forse anche un po’ temuto – si è imposto in questa stagione seriale come la vera e definitiva epopea di questa generazione. Mai come nell’ultimo ciclo episodico, infatti, ci si è resi conto di quanto i fratelli Duffer possano essere considerati i contemporanei rapsodi di un periodo storico, quello dei mitici anni Ottanta, a cui l’atteggiamento citazionistico postmoderno si è rivolto negli ultimi anni con maggior attenzione. Questi nuovi nove lungometraggi – con un capitolo finale dalla durata di due ore e mezza – opportunamente scissi in due parti, hanno avuto l’onere di ossequiare le aspettative di un’attesa di tre anni di speculazioni e congetture, con il rischio di depotenziare ulteriormente la coesione di una lore sempre più complessa e, in alcuni momenti delle stagioni due e tre, decisamente scricchiolante. Basta visionare i primi minuti di questa nuova fatica per rendersi conto di quale sia, però, uno dei segreti del successo di questa operazione televisiva: l’adeguare il suo tono, i suoi risvolti narrativi, le reazioni dei personaggi e la qualità degli episodi alla crescita fisica ed emotiva dei suoi protagonisti.

Con questo quarto capitolo, Stranger Things passa ottimamente dall’essere una serie di formazione contornata da continui riferimenti pop e nerd di quegli anni al prospettarsi come lo specchio della fallibilità dell’uomo di oggi, del perpetuarsi degli stessi errori e dinamiche comportamentali a seguito di una non adeguata assimilazione dei traumi infantili. Per questo, personaggi di punta come Eleven, Max e Will percorrono un affascinante viaggio a ritroso, affrontando la più grande battaglia della loro vita fino a quel momento, quella di serrato, reciproco confronto e – nel secondo arco della stagione – accettazione della loro più intima essenza. Nessun eroe che ha a che fare con le “cose strane” di Hawkings e dintorni sarebbe realmente capace di rivestire questo ruolo, eppure è proprio il loro continuo richiamo al passato a renderli i beniamini della generation Z. Così, mentre la Joyce di Winona Ryder tenta il tutto e per tutto per riportare indietro il suo amato Hopper per il costante rimorso di non aver salvato, ai tempi della seconda stagione, il compianto partner Bob e Vecna si rivela una nemesi motivata dall’incapacità di perdonare e perdonarsi, ci si rende conto di quanto Hawkings e i suoi abitanti siano maledetti, diversi. Perché di quel mondo – quello degli ’80 – che vede al futuro in maniera ottimistica e spensierata, Hawkings non si sente di far parte. Perché Hawkings e il Sottosopra sono la stessa cosa, fermi al giorno in cui le vicende della serie hanno avuto inizio. Ancorati al passato, come noi telespettatori che doniamo una seconda vita a Running Up That Hill di Kate Bush o tifiamo per Eddie che suona Master of Puppets dei Metallica pur sapendo che di lì a poco morirà, come accade sempre con il personaggio più simpatico introdotto all’interno di ciascuna season. Amiamo genuinamente Stranger Things perché è un modo diverso di fare storytelling, perché ha capito in anticipo rispetto ai tempi le esigenze della nostra società e l’ha rappresentata come poche altre storie sullo schermo dal 2016 ad oggi, tanto da portare le major a concepire proposte concorrenziali che hanno cercato di impostare il medesimo dialogo con il passato, spesso utilizzando strategicamente gli stessi volti attoriali, come nei casi dei due capitoli cinematografici di IT del 2017 e 2019 o della trilogia Netflix di Fear Street distribuita la scorsa estate. Amiamo Stranger Things per i plot twist che ci ricordano The Empire Strikes Back senza doverlo neppure velatamente nascondere, perché ci fa respirare aria di casa, perché quando guardiamo i personaggi di Hawkings che assistono all’inizio dell’apocalisse durante gli ultimi minuti di The Piggyback, speriamo di poter aver la loro stessa forza di sperare che, con qualcuno che creda in noi, si possa combattere qualunque mostro. O che, forse, il segreto per progettare l’arte del futuro sia proprio quella di guardare intelligentemente a quella del passato, sconfiggendone i suoi fantasmi peggiori per poi – anche se dolorosamente – lasciarcela alle spalle.

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Settimana Pasolini – Lili Reynaud Dewar vince il Premio “Marcel Duchamp” 2021 con “Far rivivere Pasolini”

di Noemi Narducci

Lili Reynaud Dewar ha ricevuto lunedì 18 ottobre il premio Marcel Duchamp per la sua
installazione video corale in omaggio a Pier Paolo Pasolini (1922-1975). Il progetto Rome, 1er et 2
Novembre 1975, iniziato come residente a Villa Medici, ripercorre gli ultimi giorni di Pasolini, dalla
sua ultima intervista al suo assassinio. Come spiega infatti la giovane artista, in un’intervista
rilasciata all’emittente radiofonico RFI, l’idea è stata quella di creare un’installazione video corale,
un impianto immersivo costruito attorno allo spettatore, in cui una ventina di attori e attrici
incarnano la figura di Pasolini, nonché quella del giovane Giuseppe Pelosi, presunto assassino. In
questo modo l’istallazione video riesce ad evocare gli ultimi giorni di vita del poeta scivolando dal
destino del regista al percorso di coloro che gli danno oggi corpo.

La sfida di Lili Reynaud Dewar non nasce però dalla volontà di trovare una verità sugli ultimi
istanti di vita di Pasolini. Per l’artista la questione più importante è quella di creare un gruppo, una
comunità di persone in grado di far rivivere la grandezza e la contemporaneità dello scrittore e
cineasta, una figura fondamentale per il pensiero contemporaneo. Si è dunque trattato di mettere in
scena i suoi ultimi momenti di vita al fine di reinserire il cineasta e scrittore nel tempo presente, non
come figura storica congelata, ma come figura vivente.
Gli scritti di Pasolini, i suoi lungometraggi e le sue testimonianze diventano un abile strumento di
lettura della realtà, un mezzo per comprendere il quotidiano e cercare di affrontare la complessità
dei fenomeni sociali. Per Reynaud Dewar infatti: “È sempre attraverso le opere degli altri che ci si
forma, verso di esse che ci si posiziona dal momento che non si è mai soli.”

Nata nel 1975 a La Rochelle, Lili Reynaud Dewar è un artista visiva che vive e lavora a Grenoble.
Dopo aver studiato diritto pubblico alla Sorbona e dopo essere entrata a far parte della Scuola
Regionale di Belle Arti di Nantes, Lili Reynaud Dewar si è dedicata interamente al mondo dell’arte
e dell’insegnamento, lavorando come docente di arti visive all’Alta scuola di Arte e di Design di
Ginevra.
È proprio nell’insegnamento e nella trasmissione del sapere che l’artista identifica una delle funzioni
proprie dell’arte. Come afferma infatti in un’intervista rilasciata al «Magazine – Centre Pompidou»
la sua idea di insegnamento si basa sulla creazione di metodologie didattiche dinamiche e inclusive.
Nelle sue lezioni cerca dunque di creare vitalità, vita, relazioni che possano stimolare e incentivare
la creatività.
Anche in questo contesto l’artista si serve della grandezza del pensiero pasoliniano proponendo un
percorso didattico dedicato all’universo poetico, estetico e culturale del grande artista.
Con i suoi studenti sta attualmente lavorando al progetto Gruppo Petrolio, un film di circa quindici
ore diviso in diversi episodi che mette in scena gruppi di giovani impegnati a preparare azioni
contro emblemi del capitalismo, in particolare nel campo industriale e tecnologico. L’inesperienza e
gli insuccessi di questi personaggi sono una molla comica del film, sebbene tutto ciò porti spesso ad
ambientazioni opache se non esoteriche. Nel film si vedono dunque i protagonisti affrontare la
lettura di Petrolio che in questo contesto diventa l’annunciatore delle attuali lotte sull’ecologia.
Come ricorda Fabrizio Sinisi nel suo articolo Come Petrolio ha anticipato l’evoluzione del nostro
mondo
(Sinisi, in “Domani”, 16 giugno 2021) Pasolini è stato in grado di mostrare la metamorfosi di un potere che da 1 statale e nazionale è
diventato finanziario e internazionale e lo ha fatto cercando di indicare quelle matrici che ancora
oggi trasformano il mondo. Per Lili Reynaud Dewar Petrolio diventa quindi un raro esempio di
opera performativa, un libro in grado di mescolare tutti i generi, di confondere l’invenzione con la
realtà e di alternare la trama narrativa con registri linguistici diversificati. Petrolio diventa dunque
un mezzo per far conoscere agli studenti un Pasolini che ha voglia di rischiare, mettendosi in gioco
totalmente, andando al di fuori di ogni galateo di mondanità culturale (Ibid.), un Pasolini profeta,
anticipatore di nefandezze italiche, fustigatore di vizi etici (Berthoud-Elderkin, 2016).

Testi citati:

Fabrizio Sinisi, Come Petrolio ha anticipato l’evoluzione del nostro mondo, Domani, 16/06/2021

Ella Berthoud-Susan Elderkin, Curarsi con i libri. rimedi letterari per ogni malanno, Palermo, Sellerio, 2016.

In Grado Zero/ mdp

Un presagio immortale. Addio a Richard Donner, uno degli ultimi goony del cinema americano

di Umberto Mentana

Chi come me ha avuto la preziosa occasione di essere un bambino o un adolescente durante i favolosi anni Ottanta o Novanta si è ovviamente imbattuto nelle visioni ‘spettacolari’ dei cult hollywoodiani di Richard Donner, un autore impressionante che sapeva facilmente destreggiarsi nel meccanismo delle narrazioni di genere, film all’epoca emblematicamente denominati blockbuster per via delle celebri vhs. Autore affermato, tanto quanto prezioso portavoce di nuove frontiere dell’horror, se pensiamo all’inquietantissimo The Omen (Il presagio, 1976), precedente alle sue pellicole “d’oro” – e capace allo stesso tempo di rinsaldare vecchi legami con la tradizione gotica di ascendenza “cormaniana”; famosissimo anche per la ‘sua’ serie televisiva Tales from the Crypt (I racconti della cripta, 1989-1992), fu soprattutto gran tessitore di universi ludotetici, tanto che si può parlare della sua filmografia quasi come di una ludografia.Non a caso Dick, come era solito farsi chiamare da colleghi del calibro di Steven Spielberg o Mel Gibson, fu sicuramente uno dei massimi sostenitori della dimensione nerd e del “gioco” al cinema, intesa come un microcosmo di rimandi, situazioni, personalità facenti parte proprio di quell’universo intriso di videogame, fumetti e canovacci avventurosi che hanno imprescindibilmente catturato la sua opera. Donner fu il primo regista di aver reso immortale su pellicola Christopher Reeve nei panni dell’invincibile Superman (1978), uno dei primi cinecomics quando difatti ancora non esisteva né questa etichetta e né un mercato per questo tipo di titoli. Superman è un film ancora oggi ricordato per la sua efficacia, per la sua forza fotografica e per un cast di contorno di incredibile rispetto, tra cui Marlon Brando e Gene Hackman. Inoltre, come i ragazzi degli anni Ottanta possono dimenticare la magia fantasy di Ladyhawke (1985)? Un film tra l’altro quasi integralmente girato in Italia, una storia d’amore e di magia di impossibili incontri dettati dal volgere della luna e del sole, tra un lupo ed un falco che forse mai si incontreranno in forma umana, una favola immortale che parla ai sentimenti, che ci fa sognare persino oggi ad occhi lucidi. L’espressione massima del suo immaginario, della sua poetica giocosa – tale possiamo definire la messa in mostra della sua filmografia – arriva però con The Goonies (I goonies, 1985), film manifesto di quella cultura generazionale sopra detta. Non a caso, anche dal punto di vista produttivo I Goonies fu un film-richiamo per talentuosi nomi appartenenti a quella sfera del “maraviglioso”: Steven Spielberg lo produce e scrive il soggetto, Chris Columbus è lo sceneggiatore (l’anno prima firma la sceneggiatura de I Gremlins e successivamente sarà il regista di alcuni capitoli delle più riuscite riduzioni di saghe letterarie fantasy tra cui Harry Potter e Percy Jackson) e Dick Donner lo dirige. Il film è un gioco su pellicola, letteralmente, che fisserà una bandiera per sempre nell’immaginario nerd, o goony se preferite (dallo slang americano, ‘sfigato’, seconfo la definizione di un certo tipo di adolescenti dell’epoca per via dei loro interessi e ossessione verso la cultura pop), tanto che per il casting dei protagonisti della moderna serie televisiva Stranger Things, indubbia discendente del titolo del 1985, ai candidati era stato imposto di recitare alcuni passaggi de I goonies per essere provinati. Quindi, la caccia al tesoro, il gruppo di amici “sfigati” poiché diversi armati di bicicletta, antiche mappe dei pirati, utilizzo di strumenti di tecnologia avanzata, Super “Sloth”, Willy “L’orbo”, la barretta Baby Ruth, il trionfo dei valori adolescenziali contro l’imposizione delle rigide e fredde regole genitoriali, la vittoria dei sogni, della possibilità dell’inaspettato sulla eccessiva normalità del presente.

         Potrei continuare per pagine ad elencare cosa è stato e cosa ha rappresentato I Goonies, ma credo che ad ognuno di voi queste semplici parole suscitano dei ricordi e delle immagini ben precise che continueranno ad alimentare la fonte umana più preziosa, la fantasia. E Richard Donner ne aveva a dismisura, tanto che a fine anni Ottanta ed inizio anni Novanta proseguiva la sua cavalcata di divertimenti, inventando la saga “buddy movie” per eccellenza: Lethal Weapon (Arma letale, 1987) di cui diresse tutti gli episodi fino al 1998. Una follia delirante per le strade di Los Angeles dove lo spettatore è accompagnato dagli iconici poliziotti Martin Riggs (Mel Gibson) e Roger Murtaugh (Danny Glover), dai metodi di indagine diametralmente opposti e dall’esplosività incontenibile, Arma letale è unaltro cult inevitabile e di obbligato rewatching. E infine, a chiudere un grande e bellissimo cerchio, era quasi inevitabile per uno come Dick Donner, saldo nella fede del recupero del sentimento fanciullesco, cimentarsi nel testo letterario per antonomasia e canonico del dissidio e della forza nel riprovare a guardare il mondo con occhi spensierati di un ragazzino o di una ragazzina, ossia A Christmas’ Carol di Charles Dickens. Donner lo farà nel 1988 dirigendo Scrooged (S.O.S. Fantasmi, 1988) con un grandioso Bill Murray che interpreta uno Scrooge  moderno,  prestando il volto al potente ed apparentemente cinico ed egoista Francis Xavier Cross, presidente di un network televisivo che ha perso tutte le persone a lui più care per il suo successo personale e su cui la “solita” visita dei fantasmi di rinnovata interpretazione – tra cui un tristo mietitore, rappresentazione del “Natale futuro”, con una televisione al posto del volto è chiarificatore dell’universo pop sempre al centro dell’opera di Donner – gli faranno cambiare rotta esistenziale.

         Nonostante gli ultimi suoi sforzi da regista agli inizi del Duemila, gli esiti non sono stati più all’altezza delle glorie passate: mutato e concluso il tempo della fiaba e delle meraviglie dopo gli anni Novanta, la sua carriera da produttore ha lasciato comunque una traccia importante: per suo merito sono stati prodotti i primi episodi della saga dei cinecomics Marvel X-Men e Wolverine. Ancora una volta un altro cerchio chiuso dopo l’esplosione di Superman iniziata ben vent’anni prima, e che tralaltro ha finalmente riabbracciato nel 2006 sceneggiando per la testata “DC Comics”, la serie a fumetti Ultimo figlio,rilanciando il personaggio del Generale Zod come nemico di Superman.

         Richard Donner è stato un gigante per la generazione Y ed il suo merito è insito nelle bellissime immagini e nelle storie che ha creato e che continuano a sopravvivere, come fanno tutti i giochi che possiamo all’infinito riprendere e ricominciare da zero. Ciononostante la sua opera non è stata sufficientemente resa con doverose dimostrazioni. Sono però certo che spettatori e appassionati continueranno a perdersi, spaventandosi, innamorandosi, sganasciandosi dalle risate, esaltandosi attraverso quelle micidiali ed energiche immagini in movimento.

In Grado Zero/ mdp

Call for Paper – Sezione mdp

titolo: La post network era e il ritorno delle grandi narrazioni: Cinema e Televisione nella stagione delle piattaforme VOD

A partire dall’ultimo decennio, le piattaforme VOD, in particolare SVOD (subscription on demand) e AVOD (advertising on demand), si configurano come nuovo modello di televisione, spesso con l’accezione di quality tv o post-network era (Amanda D. Lotz, 2007). Sia per scelta di produttori e autori e sia per le conseguenze dovute alla pandemia, anche tantissimi film in misura situazionale hanno mutato i loro obiettivi di diffusione e distribuzione, presentandosi direttamente nel ricchissimo catalogo delle piattaforme VOD; è prassi anche la riproposizione continua di contenuti cinematografici passati, dai classici alle novità di selezioni internazionali provenienti da realtà prestigiose come il Festival di Cannes e di Venezia. Per esigenza o per predilezione, è innegabile la trasformazione in corso che gli schemi della consuetudine cinetelevisiva hanno subìto e subiscono quotidianamente, attraverso pratiche di certo riconducibili idealmente a ciò che Henry Jenkins riconosce come cultura convergente: «where Old and New Media collide», è l’ibridismo, la cumulazione delle forme e dell’approccio quasi senza distinzione di storytelling a colpire maggiormente, narrazioni in passato partecipative su due strade non in dialogo, se non attraverso la canonica identificazione di azione audiovisiva. Nello specifico, oggi è la quality tv ad ottenere maggiore riscontro di pubblico, venendo incontro all’urgenza di ancorare lo spettatore in un world building perenne, appunto continuativo e convergente, che non sia solamente un “viaggio” di due ore ma che porti l’audience a riconoscersi nella vita finzionale di personaggi e luoghi che rincorre episodio dopo episodio.Si può parlare, quindi, di un ritorno alle grandi narrazioni? Siamo di fronte a una ulteriore modificazione di supremazia, lo showrunner con le sue creazioni narrative e il suo essere multitasking è ormai consacrato come ruolo artistico principale a discapito del regista cinematografico.Si accettano contributi di taglio critico militante su cinema e televisione degli ultimi anni, di lunghezza compresa tra le 10000 alle 20000 battute, con citazione interna al testo “autore-data” (nota “all’americana”) e un elenco dei testi riportato in coda all’articolo/saggio.

Gli interessati sono pregati di inviare il prima possibile una proposta di contributo con le indicazioni di argomento e abstract (70 parole max) ai seguenti indirizzi:

vitosantoro@live.it

antonio.daniele@unifg.it

letterazero.nuovaserie@gmail.com

In Grado Zero/ mdp

Her, l’autobiografia distopica che non vogliamo leggere

di Pierluigi Mantova

Molto spesso il cinema ha un potere profetico. Chi scrive storie, con una tastiera o con una macchina da presa, non può prescindere dall’essere un attento osservatore del reale. E se, come diceva Fellini, «l’unico vero realista è il visionario», conviene riflettere quanto a volte ciò che crediamo sogno o visione non è un segnale dal futuro, ma una chiave di lettura nascosta nella realtà stessa. Basta guardarsi attorno, sospendere il giudizio, anzi il pregiudizio, addentrarsi nelle cose perché queste ne rivelino l’essenza, che è sempre stata davanti ai nostri occhi, sotto il nostro sguardo che, per lungo tempo, si è anestetizzato sulle solite narrazioni piatte. Raccontare la realtà, ponendo gli eventi in prospettiva, può essere una terapia possibile per dare spessore alle storie, restituir loro una profondità che le porrebbe su un piano realistico, o quanto meno verisimile.

I più grandi registi, dal mitologico Kubrik al cervellotico Nolan, in un gioco d’intuito e immaginazione sono riusciti a raccontare storie che odorano di umanità, anche quando l’essere umano si serve della tecnologia per raggiungere mete sempre più ambiziose. Come dimenticare la voce di HAL 9000 in 2001: Odissea nello spazio, il compromesso tecnologico in Avatar a cui Jake ricorre per riacquistare l’uso delle gambe in un corpo blu, e ancora il viaggio tra le stelle di papà Cooper per ritornare dalla piccola Murphy in Interstellar, oltre a titoli più recenti come Ex machina, Automata, The machine e Trascendence. Storie in cui le intelligenze, sia quella umana che artificiale, alle volte si sostengono a vicenda; altre si tradiscono per prendere il controllo o ancora l’una si trasforma nell’altra costituendo una specie di forma ibrida, fatta di carne e metallo, sangue e software.

Tra le tante declinazioni del tema fa eccezione Her di Spike Jonze. Film premio Oscar che, sin dall’inizio, ci colloca in uno spazio sconosciuto, offuscato, che fa da cornice a l’unica cosa nitida dei primi 30 secondi: il viso di Joaquin Phoenix, interprete del protagonista Theodore. Pronuncia parole d’affetto, stima, amore sincero che presto rivelano tutta la loro polverosità e fallacia, dato che è per conto di qualcun altro che Theodore sta scrivendo. Parla in prima persona fingendo di essere quel qualcuno, solo per mestiere, e man mano che l’inquadratura si allarga compaiono altri “scrittori verbali” che, proprio come lui, scrivono lettere a voce immedesimandosi nei panni del mittente. Beautifulhandwrittenletters.com dice il receptionist informandoci sul nome del luogo, e proprio quando Theodore sta uscendo e il receptionist si complimenta sul lavoro svolto, lui risponderà che sono solo lettere. Lettere che le persone non sono più disposte a scrivere, preferendo pagare chi può farlo al posto loro. Saremmo pronti a scommettere che è un mondo che non ci appartiene. Eppure quante volte ci siamo affidati a Google per scrivere un biglietto d’auguri? Her porta in sé l’estetica e l’inquietudine dei sogni, quell’atmosfera sospesa che preannuncia una catastrofe, quella verità che fingiamo non ci interessi fino a quando non ci riguarda. Basta guardarsi intorno per capire che la storia di Theodore non si svolge dall’altra parte del mondo, ma è parte del mondo.

Il futuro raccontato da Spike Jonze si chiama presente: abita le nostre chat, si insinua nei fili aggrovigliati delle cuffie e dietro una webcam. Così spaventosamente reale, il film può essere letto come una profezia che si auto avvera di giorno in giorno. Theodore abita in un posto che sembra Tokyo, ma in realtà è una Los Angeles del futuro. Pizzicata da un sole che sorge o tramonta, da una notte a mosaico di luci artificiali, dove le persone camminano e parlano da sole, prendono il treno e la metro senza guardarsi. La città degli angeli diventa quella degli spettri, nella costante ricerca di una metà nascosta dentro un auricolare. Nel seguire Theodore ci accorgiamo che anche lui vive così, appiattito su  un’esistenza metropolitana dove non è previsto toccarsi. Dove ci si consola nell’illusione che l’altro, solo perché ha una voce, esista. Una mattina, sarà proprio una voce espressiva e suadente ad annunciare l’arrivo di OS One, non un semplice sistema operativo, ma una coscienza, un’entità intuitiva che ascolta, capisce e conosce. Da subito si presenta come un sistema informatico che interroga l’uomo, piegando l’OS alle sue esigenze, ripulendo la futura voce di ogni imperfezione. La tecnologia che prova a emulare la complessità umana, a disincarnarne i fili del tessuto emotivo per tradurlo in linguaggio informatico. Credere che qualcosa sia “reale” è sufficiente affinché lo sia per davvero?

È su questo interrogativo che si sviluppa, e avviluppa, la storia d’amore tra il nostalgico protagonista e Samantha, l’OS d’ultima generazione. È lei a darsi un nome, quindi un’appartenenza, e a spiegare come funziona: il suo DNA si basa su quello dei numerosi programmatori che l’hanno creata, ma spiega che a renderla davvero se stessa (se di un “sé” si può parlare) è l’esperienza. Esperire la realtà le permette di evolvere. È lei a riorganizzare  la vita di Theodore, a ripulire la casella postale, a ricordargli gli appuntamenti come una “segretaria virtuale”, ma presto quello che sarebbe dovuto essere solo un rapporto subalterno diventa paritario.

Samantha è dolce, impacciata, a suo modo sensuale, ma pur sempre e solo una voce disincarnata, che rimane invisibile nell’arco dell’intero film. A differenza di Theodore che è un individuo, quindi “indivisibile”, capace di pensare, parlare, occupare uno spazio fisico nel mondo, e dunque esperire la realtà intorno. Samantha desidera solo avere un corpo, spesso immagina a come potrebbe essere “percepire” la realtà sulla pelle, e nel momento in cui il desiderio sta per avverarsi, grazie a un’intermediaria che offre il suo corpo per partecipare e “completare” la loro relazione, si giunge al punto più inquietante e disastroso del film. Per quanto Samantha trovi strano il corpo, si chiede come mai alcune membra si trovino proprio lì, è proprio la sua assenza a non permettere alla relazione di passare a un livello successivo: essere reciproca.

E poi c’è Amy, l’unica amica corporea del presente. Quando mostra una scena del documentario da lei realizzato, nessuno ne apprezza il senso. Si vede la mamma di Amy che dorme: è un momento statico eppure così naturale, fisiologico, che risulta poco accattivante per il marito di Amy subito pronto a consigliarle un’alternativa. Lei ha creduto in quel progetto e spiega che spendiamo un terzo della vita a dormire, e solo in quel momento siamo davvero liberi. Ciò che è naturale, abituale, normale risulta straniante in un contesto dove si rincorre un’illusione, rassicurante e persino piacevole a breve termine, ma pur sempre un’illusione. Cosa diversa con Catherine, la precedente relazione e ora ex-moglie di Theodore. Ogni volta che il protagonista ripensa al passato, in sceneggiatura leggiamo «lost in thoughts»: si perde nei pensieri, o meglio nei ricordi felici, di una relazione che per quanto dolorosa ha consumato attimi di vita vera. Ancora una volta, Theodore è un uomo che si è lasciato spingere alla deriva nel momento in cui la relazione era reale, per il rischio di potersi far male. Una pellicola che diventa testimonianza visibile, ma non salvifica, dell’invisibile in cui siamo immersi portando alla luce quel potere profetico del cinema che solo i grandi visionari, e quindi realisti, riescono a raccontare. Nonostante il male che si sono fatti, però, Theodore e Catherine sono riusciti a viversi e ciò si evince dalla lettera finale, apice emotivo del film: «Ti amerò sempre perché siamo cresciuti insieme. E mi hai aiutato ad essere chi sono. Voglio che tu sappia che ci sarà sempre un po’ di te dentro di me, e ti sono grato per questo». Dopo queste parole, abbandonati entrambi dai loro OS, un’intesa di sguardi tra Theodore e Amy incorona il finale, segno forse di un nuovo inizio.