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“Beetlejuice…Beetlejuice” – Tim Burton 2024

di Umberto Mentana

Tim is back! Tim Burton è tornato. Quante volte stiamo leggendo e ascoltando questa tagline, in particolare sul web, nelle ultime settimane? Credo che innumerevoli volte sia il numero che più si avvicini. Da parte mia però utilizzerei un  vocabolo  più consono alla natura del regista/artista californiamo: Tim Burton è ri-tornato. È ritornato dove tutto è incominciato, trentasei anni fa e attenzione, non è esclusivamente un discorso di ripresa di un sequel perché, quello di Beetlejuice Beetlejuice è un vero e proprio percorso a ritroso sui propri passi, alla ricerca di un amore, di una firma, quella di sé stesso e del proprio Cinema.

Per Burton, la carriera di amante dei cimiteri incomincia da ragazzino, nel 1982, nei sobborghi californiani di Burbank con il cortometraggio Vincent, utilizzando la sua amata stop-motion e dotando questo piccolo-grande film della voce narrante di un “mostro” sacro come Vincent Price. Il corto è già un manifesto del suo stile e della sua idea di arte, della sua poetica dark e sulla forza emotiva di cui sono portatori i suoi outsider. Poco dopo avviene la sua incursione nel live-action con l’ancora incerto Pee-Wee’s Big Adventure (1985), ma sarà proprio Winter River, con lo “spiritello porcello” Beetlejuice (1988) a dare i natali alla sua inconfondibile firma d’autore  prima addirittura di quel 1990.  Questo decennio in assoluto porterà in  alto il suo nome per una  emotiva generazione, una folta schiera di  ragazzine e ragazzini amanti dell’oscurità e di altri strambi sentimenti. Il 1990 è l’anno di Edward Mani di Forbice e il suo Cinema diventa “burtoniano”, le sue storie dal forte imprinting visivo divengono fiaba, sì dark ma da batticuore. Da lì in poi si sussegue una filmografia distrofica ma allo stesso tempo coerente su vari registri: a volte con più humour, a volte più spettacolare…prima del grande buio avvenuto a tratti negli ultimi anni con opere decisamente minori dove una flebile voce sussurra al suo orecchio ricordando chi e cosa faceva Tim. Sono gli anni di una sovrabbondanza di CGI, a mio vedere la morte della meraviglia, e per Burton è assolutamente importante questa indicazione poiché per un autore che ha fatto dell’incanto, della reciprocità, del legame, in particolare con l’inconoscibile e del soprannaturale, la sua viscerale identità, “plastificare” tutto con una caterva di effettacci digitali – naturalmente abbinati ad una scrittura e ad uno storytelling visivo modesto – non è che espressione di un allontanamento, e l’allontanamento porta una mancanza di amore. Ed è questo che ha pian piano incominciato a provare il nostro caro poeta del macabro, Tim Burton, nei confronti del Cinema  È stato lui stesso a confermarlo più volte, soprattutto dopo l’insuccesso di Dumbo (2019), un film tronfio di CGI e spento di passione.

            Ma arriviamo a oggi. Non è passata un’eternità dal 2019, eppure, l’universo mediale si è assolutamente trasfigurato nelle forme e nei meccanismi: concluso il picco della parabola dei cinecomics con Avengers: End Game (sempre 2019, dir. Russo brothers), si assiste sempre più spesso a un ritorno,  un viaggiare all’incontrario per ricreare una autenticità perduta, con una certa dose di selvaggia materica. E le piattaforme di streaming on-demand non lasciano aleggiare a lungo questi “movimenti” della società non ascoltandoli, e le migliori storie di questi anni venti puntano tutto sulla nostalgia e sull’ “artigianato” (Stranger Things su tutti da capostipite del filone fin dal 2016).  Quale migliore nostalgia creativa, dunque, se non re-brandizzare e rimettere in pista Tim Burton in un contesto e con  un gusto del pubblico nuovamente più consono e vicino al suo sentire? Con l’uscita di Beetlejuice Beetlejuice (2024), secondo viaggio all’interno della difficile ma esilarante convivenza fra i morti e i vivi, i volti del cast storico hanno dichiarato ironicamente che Tim Burton ha aspettato trentasei anni per fare il secondo film perché doveva nascere Jenna Ortega. E infatti, forse può essere proprio questo il fulcro della sua parabola artistica in piena rinascita. Miss Ortega è infatti più nota al pubblico come Mercoledì Addams, protagonista della serie Netflix Wednesday di enorme ed incalcolabile successo di cui Burton ricopre il ruolo di creatore-ideatore (showrunner) e regista di alcuni episodi (la serie è stata rinnovata ad oggi per altre stagioni). Il mondo narrativo della famiglia Addams è un soggetto che il nostro Tim si portava dietro fin dall’infanzia, da cultore dei mitici fumetti della macabra famiglia creata da Charles Addams. Pertanto sì, Tim Burton è ritornato ad essere sé stesso, dichiarando di essersi innamorato di nuovo dopo l’esperienza seriale di Mercoledì.  Così, trentasei anni dopo, ritorna al Cinema a Winter River dove tutto è incominciato per ritrovarsi in compagnia di coloro che hanno dato avvio alla sua Storia Cinematografica: Winona Ryder, Michael Keaton, Catherine O’Hara, e ovviamente anche Jenna Ortega fautrice ed immagine simulacro di Mercoledì che rappresenta per Tim Burton una personificazione della sua rinascita. Tutto questo è Beetlejuice Beetlejuice, un film dalle sfiancanti e dovute citazioni e connessioni, partendo dalle carrellate iniziali sui luoghi della cittadina che in realtà, come nel primo capitolo, si riduce ad essere un plastico in miniatura della città stessa, quasi a svelare la natura paradossale e fantastica del film. E il tempo a River Winter non sembra essersi arrestato, con la piccola galleria di pittura rossa che viene attraversata in bicicletta non più da Winona Ryder (Lydia Deetz) ma da sua figlia Astrid (Jenna Ortega), in questo film personaggio apparentemente lontano dalle manifestazioni dark della madre. Più del plot mi vorrei concentrare invece a rintracciare questi frammenti dell’universo burtoniano in piena reconquista, e attenzione non è un lavoro di citazionismo fine a sé stesso. Quello che avviene in Beetlejuice Beetlejuice è tutto, a mio vedere, perfettamente incasellato con  un ritmo e una naturalezza che io non ho trovato stucchevole né stanca e ‘marchettata’, come invece era avvenuto spesso nelle sue ultime prove cinematografiche. Le gag di Michael Keaton (l’indemoniato Beetlejuice), coloratissime e spumeggianti, sono degne e vicine alle espressioni più efficaci del Joker burtoniano interpretato da Jack Nicholson (Batman, 1989), Monica Bellucci invece è…letteralmente una Sposa Cadavere (Tim Burton’s Corpse Bride, 2005), celebrata da tagli di cucitura su tutto il corpo visivamente vicini alla Sally de The Nightmare Before Christmas (1993, dir. Henry Selick) mentre la sequenza del racconto di Beetlegeuce – pronunciato Beetlejuice – nel quale illustra in medias res l’angusto incontro con la “succhianime” Delores (Monica Bellucci) è una celebrazione in bianco e nero dell’horror targato Universal – ma anche un po’ del Frankenstein di James Whale, 1931 – nonché, ovviamente, ritroviamo in questo fittissimo bianco e nero un pezzettino del suo, per me, immortale Ed Wood (1994) e del sensibilissimo Frankeenweenie (cortometraggio del 1984 e successivamente lungometraggio animato del 2012). Dunque Beetlejuice Beetlejuice segna un ritorno a quell’artigianato nella tecnica che poc’anzi ho cercato di individuare. Tim Burton accantona questa volta l’esasperazione della computer grafica per riabbracciare la tangibilità delle sue creazioni artistiche e il film ne guadagna esponenzialmente: memorabile è la sequenza in stop-motion incentrata sul povero capofamiglia Deetz de-umanizzato in puppet per l’animazione a passo uno. Infine, come non affezionarsi al tenerissimo ma allo stesso tempo inquietante Bob? Una corpulenta creatura, a capo di uno degli uffici infernali dell’aldilà, dalla testa minuscola la cui sproporzione anatomica fa il verso ai terrificanti alieni di Mars Attacks! (1996),e che riverbera presenze del primo capitolo del film. Insomma, scenari su scenari di riproposizione e di svecchiamento si confondono, si intrecciano, si amalgamano nascosti sotto la sabbia in Beetlejuice Beetlejuice, come gli spaventosi Vermi delle Sabbie, e questa cura maniacale e di puro divertimento di creazione manuale è ben tangibile in ogni angolo del film: le location dell’aldilà già perfettamente in mood con tutto lo “spirito” (battuta infelice ma dovuta!) dell’opera sono ricreate con una cura e con un design scompigliato e curveggiante di perfetta coerenza burtoniana, oltre a far popolare i numerosi ambienti della burocrazia infernale di una numerosissima pluralità di personaggi, caratterizzati da una vivida identità visiva che li fa risultare indimenticabili (e non solo l’ispettore-attore Wolf Jackson, interpretato da Willem Dafoe) anche esclusivamente per la loro presenza on-screen.

Le sequenze più folli di questo corale trip visivo tutte ricadono naturalmente quando è in scena il volgarissimo bio-esorcista Beetlejuice che a suon di scherzetti degni del Jim Carrey di The Mask, cerca in tutti i modi di coronare il suo sogno d’amore con l’antica amata darkettona Lydia Deetz, anche utilizzando gli escamotage del musical, cantando e proponendo canzoni spassosissime.

            Concludendo, dal Festival del Cinema di Venezia 81 dove Beetlejuice Beetlejuice è stato proposto come titolo di apertura, all’exhibition di grande successoThe World of Tim Burton (in Italia al Museo del Cinema di Torino presso la Mole Antonelliana dall’Ottobre 2023 ad Aprile 2024, ci sono stato e l’ho amata profondamente!), alla stella numero duemilasettecentottantotto sulla Hollywood Walk of Fame assegnatagli questo 3 Settembre, si può sinceramente dire che l’amico che costellava le mie giornate da spettatore ispirandomi con mostri e altre sensibilissime creature, quel corvo gracchiante che avevo sulla spalla e che non vedevo da un pezzo è ritornato…divertendosi come un pazzo. Beetlejuice Beetlejuice Beetl! Ops, non converrebbe pronunciarlo una terza volta, o forse sì? Per il momento fermiamoci qui e grazie di tutti questi fantastici orrori.

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“Povere creature!” Il post-umanesimo di Yorgos Lanthimos

di Umberto Mentana

In questa stagione cinematografica ormai in dirittura d’arrivo alla cerimonia degli Academy Awards, il Cinema dei “grandi” sembra essere pienamente in linea con la narrazione televisiva multi strand delle piattaforme digitali e pare segnare un trittico di riflessione esistenziale sull’umano-postumano, un motivo già superficialmente affrontato dall’oscuro Crimes of the Future (2022) di David Cronenberg.

Oppenheimer (dir. C. Nolan, 2023), Barbie (dir. G. Gerwig, 2023) e Poor Things (Povere Creature!, dir. Yorgos Lanthimos, 2023) sembrano tracciare la linea di una vera e propria evoluzione, in senso univoco,  di “creature” sì umane ma non troppo. Ne deriva un’analisi sistematica e ben organizzata sul “frankensteinesimo” e sulla mutazione dei corpi, in un’ottica decisamente attuale, sociologica e in aperta polemica, anche politicamente parlando.

            Abbiamo di fronte tre spaccati, tre punti di vista progressivi sulla faccenda e se Oppenheimer risulta essere il death point da cui non poter più tornare indietro, il momento nel quale l’umano è diventato “Distruttore di Mondi” e su cui bisogna ricostruire partendo dalle sue ceneri e Barbie è il punto d’avvio di un nuovo creazionismo caduto – letteralmente – dal cielo a tinte rosa Mattel. Un voluto rimando all’incipit di 2001: A Space Odissey, di Stanley Kubrick, che auspica un nuovo inizio per la razza umana, decisamente più paritario. Il discorso per Poor Things (Povere Creature! in traduzione) risulta ainvece più complesso e sfaccettato poiché, come recita un celebre meme che gira in questi giorni sulla rete, Poor Things è Barbie per coloro che ascoltano Bjork.

Il film di Lanthimos, già vincitore come Miglior Film all’ultimo Festival di Venezia, ammette una sconfitta e un infinito senso di spaesamento, quello provato dalla fu Victoria Blessington, nella prima immagine del film in cui una sontuosa Emma Stone in blu cobalto decide di buttarsi da un altissimo ponte di una Londra irreale e a tratti steampunk dove un passato di matrice vittoriana dialoga con tecnologie improbabili, macchine volanti e colori sgargianti.

Non sappiamo chi è lei e perché si porta dietro quei lunghissimi capelli neri, quella “insostenibilità dell’esistenza” che sembra rievocare a tratti il celebre quadro di Caspar Friedrich mentre osserva dall’alto quel mare, fatto non di nebbia ma di un blu intenso che avvolge i suoi pensieri e anche il corpo. Questo è solo l’avvio del film perché, come scopriremo, Victoria sarà splendidamente ri-costruita in Bella Baxter dal prometeico e, solo in superficie, inquietante dott. Godwin Baxter (Willem Dafoe), altro personaggio che con la forza della sapienza e della conoscenza empirica, così come Oppenheimer, intende sostituirsi al lavoro della Natura o di un dio creatore ma, come vedremo, animato da un intento e un progetto decisamente differente. Nel laboratorio del dottor Godwin – dl già il suo nome si presta bene a questo felice parallelismo – fanno capolino le specie più insolite di animali mutati: galli-maiali, cani-oche, gatti-capre e così via, ma soprattutto c’è Bella, progenitrice di una nuova stirpe di postumani da cui tutti noi avremmo da imparare su come si può rinascere, soprattutto nell’anima, per cambiare il mondo. Emma Stone, la vera forza del film, retto splendidamente in ogni scena delle circa due ore e mezza di girato, è magnetica, affascinante, robotica, sensuale, gelida, divertente e straziante in questo magnifico ruolo che già le ha fruttato la vittoria ai Golden Globes come miglior attrice e una nomination all’Oscar (il film è candidato in totale a ben 11 statuette), e il suo ingresso come Bella nel film è inizialmente circondato dal puro interesse scientifico da parte del suo padre-creatore Godwin, deforme nel corpo e nel viso, che si accompagnerà per tutta la vicenda da un novello aiutante medico di nome Max McCandles (Ramy Youssef) il cui compito è praticamente annotare i cambiamenti e le evoluzioni della “povera creatura” Bella, della quale cadrà inevitabilmente innamorato, come tutti noi spettatori. Nel susseguirsi dei primi tempi della crescita di Bella, Yorgos Lanthimos opta per un bianco e nero espressionista che ricorda non poco i primi esperimenti teutonici con il cinematografo. Ed è proprio il senso di controllo, di oppressione quello che prova Bella Baxter in questa prima parte del film; ma piano e soprattutto dopo la scoperta di un autoerotismo spensierato e vivacemente vissuto, che comprendiamo quanto lei sia speciale, priva di ipocrisia e armata di una progressiva voglia di conoscere di più il mondo, e noi con lei. Attraverso il suo sguardo sincero e diretto comprendiamo quanto sia sbagliata, in direzione contraria e assurda la nostra esistenza, le scelte che facciamo, la vita che conduciamo. Da questo momento Poor Things si trasforma in un mondo a colori, plumbei, shock, ‘sospesi’ nella visione distorta (di Bella o degli altri e danneggiati esseri umani?) vivacemente espressa dalle inquadrature amplificate e a tratti surreali del film grazie all’ausilio di obiettivi grandangolari estremi, un marchio di fabbrica del Cinema di Lanthimos, già presenti e apprezzabilissimi nel suo precedente La favorita (2018), sempre con una fiammante Emma Stone.

Dunque, il post-umano Bella, in piena enfasi libidica, parte per un viaggio che la condurrà a Lisbona, Alessandria, Parigi, al fianco dal manigoldo Duncan Wedderburn (Mark Ruffalo), avvocato e maschio-alfa per eccellenza, che lei decide di seguire non perché costretta o ammaliata dal fascino del seduttore ma semplicemente perché è in lei il “sangue di esploratrice”, come le dice il dottor Godwin. Wedderburn si mostra in tutto il suo “splendore” colmo di apparenze e vanità e per un periodo Bella resta con lui perché scopre le gioie dei “furiosi sobbalzi” che le danno felicità, è la carnalità del sesso a cui si dedica con piacere e che richiede a volte costantemente al suo momentaneo partner. Però man mano che lo sviluppo e la continua conoscenza del mondo di Bella inizia sempre più a progredire, lei incomincia a guardare all’esterno e Duncan Wedderburn, da apparente Casanova e insensibile ai sentimenti inizia ad essere consapevole di essere soggiogato completamente dal fascino e dalla personalità, ingombrante e, stramba e priva di filtri di Bella. Dal non essere mai uscita di casa ai primi pic-nic sul prato insieme al dottor Godwin e Max al viaggio intrapreso in Europa con Duncan a cui i due medici non si oppongono perché lei “possiede il libero arbitrio”, la sete di conoscenza di Bella Baxter è insaziabile: Duncan Wedderburn arriverà finanche a rinchiuderla in un baule e a portarla lontano in primis da Lisbona – distante dai pericoli della mondanità – su una nave da crociera dove può – secondo lui – controllarla…naturalmente senza successo. La maestria della scrittura del film qui inizia ad essere feconda perché vediamo un completo rovesciamento nei caratteri dei due personaggi dove, la prima conquista sempre più autocontrollo, volubilità, intraprendenza, libertà, respiro e naturalmente autonomia, mentre il secondo diventa e diventerà sempre più patetico, al pari di un bambino capriccioso. Non saranno, infatti, rari i pianti e gli scatti di rabbia di Wedderburn, il suo struggimento dovuto all’impossibilità di controllare e possedere una super-donna forte, indipendente e nuova come Bella. Da bruco a farfalla lei e da leone a scarafaggio lui. È importante ribadire che i comportamenti e il carattere di Bella non sono in alcun modo dettati da una qualsivoglia forma di cattiveria, ambiguità, rivalsa o vendetta: lei è un’anima buona e ad esempio decide di fare sesso con altri e non solo con Duncan perché nella sua innocenza da rinata non riesce a comprendere cosa c’è di sbagliato, la ragazza non è in alcun modo coinvolta intellettualmente sugli usi della “buona società” e dei costrutti sociali – che provengono da una matrice esclusivamente maschile –, lei non li ha appresi, vive in una sorta di innaturale stato di natura vergine, immacolato dalle perturbazioni di facciata che la società del patriarcato ha eretto e predisposto nei singoli individui e a cui il film si rivolge più volte grazie al parallelo anche “visivo” con un setting tra passato e presente, come già precedentemente evidenziato, ambiantato in un’ epoca immaginaria, sospesa tra quella che potremmo definire pseudo vittoriana e uno steampunk popolato da macchine volanti, città sospese e colori lisergici; o quando, in una delle scene più strazianti del film, ambientata in una esotica e surreale Alessandria d’Egitto, Bella decide di prendere ed affidare tutto il danaro di Duncan a due inservienti della nave perché lo diano ai poveri che vivono nei bassifondi della città (gli inservienti lo terranno per loro, in quanto individui che a differenza della ‘splendida’ Bella conoscono l’avidità e il voler approfittare dell’altro). In quella sequenza, la protagonista apprende per la prima volta dal “cinico” Harry (Jerrod Carmichael), come quando una bambina sperimenta il dolore primordiale di una piccola ferita, che il mondo nella quale lei vive non è tutto rose e fiori e le persone non vivono esattamente alla stessa maniera. Bella è sconvolta, per la prima volta la vediamo davvero scoppiare in un pianto disperato di fronte a quella visione, a quella scoperta dopo che Harry le fa toccare con mano “empiricamente” cosa c’è sotto di loro: ambientata sempre sull’enorme e irreale nave da crociera ormeggiata ad Alessandria, sotto esortazione di Harry, Bella attraversa una lunga scalinata in argilla che richiama l’antichità e il passato di quelle terre e, mentre osserva sotto di lei, Bella vede i “poveri” e gli abbandonati della società. Non a caso la messa in scena opta per una struttura piramidale dove in alto ci sono i pochi e in basso i molti. Bella vuole scendere fino in fondo quelle scale ma Harry la ferma con decisione. Le  intenzioni della donna, però, non si fermano di certo lì, vuole e deve fare qualcosa per quelle persone, non accetta un mondo dove si lasciano morire dei bambini e migliaia di persone mentre “al piano di sopra” si beve champagne e si spendono contanti al casinò: raccoglie quindi i soldi vinti al gioco quella notte da Duncan Wedderburn ed è pronta a scendere, la nave però è in procinto di salpare e lei è costretta a darli ai due inservienti che  approfitteranno dei soldi e dell’innocenza di lei.

            Le sequenze ambientate a Parigi sono quelle dove la protagonista matura completamente, sa cosa vuole e sa come ottenerlo – anche diventando con piacere una momentanea prostituta in una casa chiusa gestita tutta al femminile – a differenza di Duncan Wedderburn che è diventato l’ombra di se stesso senza i suoi soldi e senza la sua autorità di maschio alfa, e Bella che in tutti i modi cerca di allontanarlo da sé, nonostante le sue insistenze. Lui non riesce a comprendere come si può vivere senza il danaro, diventa ancor più piccolo e capriccioso, fino ad impazzire, mentre lei afferma con una semplicità disarmante che i soldi “sono una malattia”, e nello scambio di battute della Bella Baxter ormai maturata completamente che si infilano sottopelle tutte le dichiarazioni polemiche del film, dalla critica ad ogni forma di sopruso dovuto alle conseguenze estreme del capitalismo alla ribellione e la lotta al patriarcato, tema costante e attualissimo delle narrazioni cinetelevisive contemporanee, di cui soprattutto nella parte finale del film si presenta in tutta la sua potenza facendo ergere Bella a simbolo e araldo di ri-nascita di una consapevolezza maggiore e bandiera del girl power.

            Lo sguardo di Bella Baxter è uno sguardo di donna autodeterminata, nuova e libera finalmente da qualsivoglia costruzione che si anima esclusivamente di buone intenzioni e conoscenza del mondo per affrontare le brutture di un pianeta “distrutto” dalle ipocrisie e dai comportamenti avidi e presuntuosi dell’uomo. E noi tutti dovremmo avvertire il suo occhio del mondo per guardarlo con distacco in tutti i suoi paradossi: e Yorgos Lanthimos è abile a dotare il film di un punto di vista fondato sull’alterità, Bella attraversa il mondo dall’esterno, conosce persone e corpi estranei al suo ma è parte di una nuova trasformazione identitaria, o meglio mutazione, non è più l’umano che conosciamo, è una nuova forma di intelligenza (artificiale?, creata con l’artificio che non è più il “peccato” di Oppenheimer) forse più sviluppata e di sicuro animata da positive vibes scevre da ogni forma di malvagità. Non potrebbe esserci un occhio esterno migliore e più estraneo del suo. La formazione di un nuovo post-umano e un nuovo post-luogo dopo la distruzione e la deriva conseguita  è l’unica maniera per Lanthimos (e per lo sceneggiatore Tony McNamara che riadatta l’omonimo romanzo di Alasdair Gray del 1992) da cui ripartire per ricalibrare e riparare le brutture insite innanzitutto in noi stesse e in noi stessi. Non è un caso che questa complessa opera cinematografica si chiude con Bella Baxter che afferma di voler diventare un medico come il suo creatore Godwin mentre in tutta la sua definita e luminosa bellezza un primissimo piano la ritrae concentrata a leggere un libro di anatomia medica. Ci affidiamo alla sua sensibilità, alla sua natura ‘meccanica’ e al suo essere-simbolo per un nuovo mito fondativo dell’essere-umani e restare umani, e l’urlo “Povere Creature!” è di conseguenza quello ridondante che echeggia in un mondo osservato dall’alto e dall’al di fuori provando una certa tristezza per la “caduta” inesorabile nella quale siamo approdati.

            Per un approfondimento della filmografia di Yorgos Lanthimos consiglio la lettura del libro di Roberto Lasagna e Benedetta Pallavidino Anestesia di solitudini. Il cinema di Yorgos Lanthimos, edito da Mimesis Edizioni nel 2019.

                                                                                                                     

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Oppenheimer. Visione e cameo di una distruzione

di Francesca Bellucci

Oppenheimer é un film sorprendente, anche per chi crede di aver interiorizzato le dinamiche illusorie, fisiche e metafisiche di Nolan.

É una biografia, pur non essendolo. Non si limita a raccontare la storia dell’inventore della bomba atomica, a tirarne su un’effigie ripulita dal peccato, come spesso avviene nelle produzioni americane, né a demonizzarne eticamente lo sviluppo. Oppenheimer è la storia di un uomo che appartiene a una specifica categoria di esseri umani, casualmente impressi nel flusso di un periodo storico ben determinato che schematizza irreversibilmente la loro vita. Non c’é etica o morale che valga la pena di essere posta in esame sul banco degli imputati, non è ciò che realmente preme a Nolan. É la rappresentazione umana in sé, il peccato di sapersi superiori, a veicolarne maggiormente gli interessi. 

Oppenheimer è un film monolitico, che scopre il velo di un uomo complesso, dannato e condannato. E questa dannazione la manifesta in modo sublime, con la rappresentazione di un corpo, quello di Cillian Murphy, asciutto, inadatto a indossare qualunque divisa che non sia quella del fisico imprigionato dalla fisica stessa, solo apparentemente attratto da qualcosa che non sia dimostrare che i calcoli delle sue visioni sono la realtà quantica di un mondo troppo ottuso per andare oltre la materia concreta di un fuoco che divampa e distrugge parte dell’umanità.

É il corpo fintamente nudo posto a interrogatorio, spogliato, davanti all’amante, dei dettami morali che ha scelto di sposare e che pure mantiene nelle cosce accavallate, nella mano delicata che si poggia sul bracciolo della poltrona.

Oppenheimer é monografia e dialogo, un parlare serrato e inarrestabile, che senza i tempi fermi del punto procede accavallando le frasi, le nozioni dei fisici, le accuse dell’illegittimo processo mosso al protagonista, le risposte repentine e inarrestabili della moglie Kitty, interpretata da Emily Blunt, durante il suo ascolto dei fatti.

Il film può essere scisso in due sezioni principali: la causa e l’effetto.

Le cause della narrazione seguono la strada tracciata da due perpendicolari: la prima è la storia della fisica. Un giovane  Oppenheimer che incontra nel suo percorso di vita le grandi menti del ‘900 con le quali cambierà le sorti della scienza. La seconda è la storia dei popoli mondiali. Lo schermo posto sulla parete su cui sono proiettate guerre, trattati di pace, altre guerre ancora, un incessante correre verso e contro la morte, nella convinzione di poterne controllare il flusso, di avere il diritto di credere quale sia la direzione corretta verso cui piegarla.

Quando il potere materiale dell’uomo fa appello a quello della scienza, le due rette si incontrano, segnando eternamente la Storia. Dal colloquio tra il generale Groves e Oppenheimer il film aumenta il proprio ritmo e le sequenze narrative diventano sempre più incalzanti.

La costruzione di Los Alamos, il reclutamento degli scienziati, le riunioni e i momenti di discussione sono mossi da uno spirito che agli occhi dello spettatore appare puro. La bellezza di menti che vedono oltre il monolite materico del mondo, che sono in grado di scinderlo e da quella “fissione” creare qualcosa di nuovo. É quando la ricerca raggiunge il suo scopo che la narrazione, pur procedendo inarrestabile, si frammenta in visioni e camei, attraverso i quali gli effetti di quell’atto creativo si scatenano nella loro potenza più disarmante.

Visione é l’esplosione, cameo é la fotografia del gruppo di lavoro che si appresta a vedere la sua creazione assumendo la posa di bagnanti indolenti di fronte a una luce dolorosa.

Cameo é l’invocazione da tifoseria fatta ad Oppenheimer dai suoi collaboratori, visione é la brutalità che solo gli occhi del fisico riescono a scorgere in quelle grida di gioia, pronte a consumarsi in corpi putrefatti. Creazione e distruzione, gioia e dolore.

Terminati i flashback in cui si ripercorrono gli eventi legati alla costruzione della bomba e all’esplosione del 6 agosto del ‘45, l’obiettivo cessa la sua corsa alle spalle di Oppenheimer, ma si ferma in un punto, mirando al volto del fisico e di tutti coloro che, mentre lui percorreva la sua retta, hanno lavorato al di sotto di questa. É come se a fissione fosse sottoposta anche la sua vita. Un evento precipita sulla sua storia, provocandone altri e altri ancora. Ma non c’è alcuna epicità, tutto si riduce a qualcosa di piccolo, come gli atomi, ma più infimo: la bassezza dell’uomo, il suo ego, la sua invidia, uniti al senso di colpa e al desiderio di perdono.

La storia si cala nelle mani degli uomini e sono quelle stesse mani a scegliere se rigettare il caso o farne azione irreversibile.

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Gian Piero Brunetta su novant’anni del Festival del Cinema di Venezia – IV e ultima parte

di Umberto Mentana

La storia del divismo continua a svilupparsi a Venezia fino a che con Chiarini si comincia a prendere le distanze da questo fenomeno, poi si faranno tutti gli scongiuri possibili con Gambetti e non si vorrà neanche sentir parlare di questo aspetto che verrà considerato deleterio, ma le presenze divistiche sono importantissime, tra divismo cinematografico e divismo politico.
Il divismo politico prende subito la scena a partire dal ‘35 con la presenza di deputati, ministri o Presidenti del Consiglio dagli anni Cinquanta in poi. In questi stessi anni vengono ospitate anche grandi personalità, come ad esempio lo Scià di Persia e, soprattutto, Winston Churchill che ha una presenza al Lido memorabile per due avvenimenti: sia perché va all’Excelsior e finge di fare il bagno rimanendo in accappatoio, sia perché entrò durante la proiezione di un film inglese (a film iniziato) con qualcuno che cercava di aiutarlo mentre faceva le scale del palazzo, e lui reagisce in modo indispettito dicendo: “Sono ancora giovane!” e, quando finalmente entra in sala, avviene qualcosa che non era mai avvenuto in tutte le edizioni precedenti poiché verrà interrotta la proiezione per applaudirlo. Ebbene, c’è quest’aria di protagonismo, c’è una “dolce vita” che comincia al Lido dal Cinquanta in poi e i lidensi incominciano ad andarvi per vedere questa sfilata di attori, di personaggi piccoli o grandi dall’Excelsior alla Mostra, quando questo però non era ancora un red carpet che verrà poi ‘inventato’ negli anni Duemila. Io ho ancora delle compagne di scuola un po’ più grandi di me o della mia età che ricordano che già a dodici anni facevano la fila per vedere Gina Lollobrigida, Sofia Loren e poi quando apparirà Brigitte Bardot…insomma, a me dispiace ancora di non essere stato alla seduta fotografica che le fecero alla spiaggia dell’Excelsior dove c’era un pubblico grandissimo e una cinquantina di fotografi. È stato allora, nel 1958, un evento importante per il divismo che circolava per il Lido.

Poi dagli anni Sessanta i divi diventano i registi, i giovani registi: da Olmi a Rosi, da Pasolini a Pontecorvo, i fratelli Taviani, Ferreri, Bellocchio; passano per il Lido tutti i grandi registi perché il cinema italiano gode di momenti in cui il Festival serve effettivamente come occasione di lancio, di conoscenza di gente all’esordio che è già da consacrare. Gli anni Sessanta sono trionfali per il cinema italiano, Rosi vince nel ‘63 con Le mani sulla città, nel ‘64 vince Antonioni con Deserto Rosso, nel ‘66 c’è La battaglia di Algeri, nel ‘65 vince Vaghe stelle dell’orsa… di Visconti, che era sempre arrivato secondo proprio per via delle giurie politicamente condizionate e riceve il Leone d’oro per uno dei suoi film meno importanti. Però, appunto, quattro Leoni d’oro di seguito sono un evento straordinario.

    Ho cercato di seguire l’andamento dei pubblici e le loro trasformazioni: dai pubblici in prima fila, tutti vestiti per i grandi eventi come se fosse uno spettacolo al Teatro La Fenice, come se fosse un grande spettacolo teatrale, ma i pubblici cambieranno nel corso del tempo. I pubblici che andranno al Festival nei primi anni Quaranta saranno dei pubblici precettati: per esempio, pubblici di marinaretti, di soldati pronti a partire per la Guerra; invece, i pubblici che più mi emozionano, a parte quelli che vanno per le prime volte sia al Giardino delle fontanelle luminose all’Excelsior (che sarà il luogo adibito per le proiezioni) sono quelli che vanno al palazzo che viene costruito nel ‘37 dall’ingegner Quagliata in pochi mesi. Oggi è impensabile questo, sia il palazzo che il casinò vengono costruiti abbattendo delle costruzioni, un forte ottocentesco, in otto mesi o dodici mesi. Poi, nell’immediato dopoguerra viene costruita l’arena, aperta a milleottocento spettatori, e lì confluirà il pubblico popolare del Lido e di Venezia. La Biennale distribuisce gratuitamente tantissimi biglietti, quindi molti vanno al Festival anche legati dal lavoro in amministrazione pubblica ma cominciano anche ad arrivare giovani interessati al Cinema, e anche questa è una grande storia che vidi cambiare. Negli anni Sessanta si aprono posti anche per studenti universitari e con Lizzani anche i professori vengono invitati. I professori sono otto quindi non ci sono grandi costi per la Mostra ma gli studenti ci andranno con i sacchi a pelo: è una cosa straordinaria per quel periodo in cui Lizzani, con Enzo Ungari, inventa le proiezioni di mezzanotte perché a quelle proiezioni dove tentano di andare tre o quattromila persone, creando situazioni da stadio.

Fin qui, sei storie. E poi c’è anche la storia d’Italia nel mondo che si mescola. Il Lido è un’isola, è vero, ma quando la campana della Storia suona ci sono momenti in cui ci si rende conto che stiamo attraversando il Sessantotto; poi il ‘74 con il Cile, il ‘77 con la “Biennale del Dissenso” e poi vari momenti con il 2005 ed il problema del terrorismo con gli stati di tensione: il Comune di Venezia e il Ministero degli Interni mobilitano forze armate proprio perché temevano atti terroristici.

E sono arrivato ai giorni nostri; negli ultimi quindici anni ho recuperato tutti i film che riuscivo a vedere, appoggiandomi moltissimo ai cataloghi, a ciò che scrivevano i direttori e consultando ciò che scriveva la stampa. Avevo la fortuna di avere tanti ritagli di giornali anche di questo periodo, non guardavo ma conservavo molte cose, avevo notevoli materiali a cui appoggiarmi. Alla fine, quando ho fatto vedere al Direttore Barbera il capitolo a lui dedicato chiedendogli se c’erano degli errori, se avevo dimenticato qualcosa di davvero importante, mi disse che non aveva trovato nulla da rivedere e quindi fui molto contento. Avevo lavorato bene, cercando di mantenere una distanza da degli eventi che erano invece per me vicinissimi. 
L’ultima cosa che vorrei dire riguarda gli archivi che ho cercato di consultare e che non ho stimato per niente per molti anni; dovunque andassi, mi dicevano: “Mah, non so neanche dove possa essere questa annata del ’36!”. Pellicole e documenti non si trovavano e, da un certo momento in poi, hanno anche passato il materiale ad altri  – un po’ hanno ragione per i film infiammabili – ma perché non convertire tutta la cineteca (fatta anche di film in copia unica firmati dal regista) che poi, andando sul mercato, prendeva strade diverse? Invece, l’Archivio della Mostra della Biennale non ha i film. Questa è una cosa che, secondo me, va reintegrata con la crescita dell’archivio. Oggi, invece, è del tutto attiva e hanno messo in rete addirittura centomila foto (https://www.labiennale.org/it/asac/collezioni/fototeca).
    Infine, negli anni Ottanta la disorganizzazione era totale, con gente ammassata e schiacciata per vedere il primo Indiana Jones. Questa disorganizzazione continuerà, prima di tutto perché vengono meno i fondi a partire dagli anni Settanta già con la gestione Carlo Ripa di Meana (1974-1978) con dei tagli da circa un miliardo nel budget di Venezia. Contemporaneamente, però, la Mostra è in crescita, quindi come si fa a gestire tutto questo? Viene data possibilità agli studenti di accedere, io cominciavo a mandare qualcuno dei miei studenti di Cinema a partire dall’ ‘80 in poi però la disorganizzazione era totale, ma niente in confronto al ‘74, ‘75 dove la cosa era molto peggio. Poi, anche con Biraghi ci sono problemi. Infatti, quando Alberto Crespi diventerà critico de L’Unità, Biraghi farà delle rubriche dedicate proprio a cosa non funziona nella Mostra di Venezia. Nei primi anni di Gambetti si era tornati quasi a zero con la critica: il primo anno chiedono solamente trenta giornalisti perché era Novembre, perché non c’era niente di interessante, e poi invece con Lizzani ci sono seicento o settecento persone che chiedono di essere accreditate per l’evento. L’ufficio è lo stesso, il personale è lo stesso e quindi le cose non funzionano e non funzioneranno neanche con Laudadio nel ‘97, ‘98. A partire dagli anni Ottanta, i giornali non mandano più solo il critico che parla dei film e che li guarda tutti, iniziano a mandare le giornaliste che fanno i pezzi ‘di colore’, i giornalisti locali riempiono i pezzi di cose che non vanno e quindi, allargando lo sguardo, si troverà in tutto più o meno alti e bassi dell’andamento del Festival. Poi, le cose comunque vanno avanti, con sempre meno soldi e il problema è anche questo; negli anni Ottanta e Novanta la Mostra viene quasi abbandonata, è la figlia minore della Biennale, occupiamocene, sì, ma molto meno rispetto ad altri settori. 

“Il cinema è entrato, fin dall’adolescenza, da protagonista nel cast delle passioni che mi hanno accompagnato e guidato nel mio romanzo di formazione di veneziano del Lido. Ma è proprio grazie al Festival, all’attrazione fatale esercitata su di me dalle sue memorabili retrospettive, o dalle possibilità di scoperte di nuovi autori e tendenze del cinema contemporaneo, regalatemi dalle edizioni dirette da Luigi Chiarini, che ho avvertito, verso la fine dei miei studi universitari, l’esigenza di diventare, a pieno titolo, un cittadino del cinematografo sul modello di Jean Renoir”.


– Gian Piero Brunetta, dall’Introduzione a
La Mostra Internazionale  d’Arte Cinematografica di Venezia 1932-2022

qui il testo della I parte: https://www.letterazero.it/gian-piero-brunetta-su-novantanni-del-festival-del-cinema-di-venezia-i-parte/

qui il testo della II parte: https://www.letterazero.it/gian-piero-brunetta-su-novantanni-del-festival-del-cinema-di-venezia-ii-parte/

qui il testo della III parte: https://www.letterazero.it/wp-admin/post.php?post=866&action=edit

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Gian Piero Brunetta su novant’anni del Festival del Cinema di Venezia – III parte

di Umberto Mentana

Ho deciso di scrivere definitamente di ciò tuffandomi ventiquattro ore su ventiquattro quando ho visto i presidenti Cicutto e Barbera inaugurare l’edizione del 2020 con otto direttori di altri festival internazionali venuti a Venezia, ma che non avevano avuto il coraggio di iniziare un programma. Era l’unico festival che, con limitazioni e difficoltà, faceva questo atto di fiducia riguardo al futuro. Proprio questa mi è sembrata una cosa di cui essere molto orgoglioso e da cui partire per tentare di raccontare questa storia; una storia che, essendo molto complessa, doveva essere pensata anche nella sua singolare modularità: stiamo parlando di diciottomila film che passano per Venezia, novanta giurie e premi. Cosa racconto intanto di questo? Devo selezionare delle cose, però alcune cose sono obbligate. La giuria di quell’anno va in qualche modo definita perché, anche se pessima, deve essere ricordata: ha fatto male il suo mestiere, era manovrata, era eterodiretta e voglio che il mio lettore lo sappia. Le Coppe Volpi e i Leoni d’oro vanno messi, ci sono appunto dei passaggi obbligati. E da un certo momento in poi la Mostra non ha solo il concorso, ha altre cose che si aggiungono e nel corso del tempo i direttori arricchiscono con la loro creatività. Da subito, per esempio, c’è il lavoro di Francesco Pasinetti (1911-1949) che era un giovinetto di ventuno anni che, quando vede la sua prima Mostra, scrive tutti i giorni un articolo per sette giornali contemporaneamente. E lo fa per tutta la Mostra, seguendola, non solo facendo la cronaca giornalistica e inventando ogni giorno qualcosa, ma anche consigliando cosa non va bene e cosa si dovrebbe fare. Pasinetti è il primo laureato in Storia del Cinema: la sua è la prima tesi di Storia del Cinema italiano redatta a Padova, quindi ha avuto un ruolo importante. 

    E quali sono i protagonisti del mio racconto? Come li ho scomposti e poi ricomposti insieme? Intanto, i presidenti e i direttori. Per ognuno ho cercato di delineare a tratti le caratteristiche, dando notevole riconoscimento al Conte Volpi ma anche ai suoi collaboratori; sono dell’idea che grandi meriti debbano essere riconosciuti a De Feo che dirigeva e aveva ideato il Luce in quegli anni (Istituto Luce, ndr) e aveva ideato una rivista di spirito internazionale, la Rivista del Cinema Educatore [La rivista internazionale del cinema educatore, 1929, sic]. Grazie a questa, aveva già stabilito rapporti internazionali: era andato in Russia, aveva visto dei film, aveva instaurato rapporti con registi sovietici. Però, rispetto a ciò che avverrà in seguito in base ai vincoli che la Mostra avrà dal 1935 in poi, si pensa a qualcosa che dia l’impressione al mondo (dal punto di vista diplomatico) che si possa creare un luogo aperto, con minimi condizionamenti religiosi e di censura. Dove non ci sono censure, il pubblico che va a Venezia per i primi anni, e soprattutto il primo anno, ha la possibilità di applaudire un treno sovietico in cui ci sono le bandiere che sventolano, e già nel ‘32 ha la possibilità di vedere un amore tra donne in Ragazze in uniforme (1931), un film tedesco con un amore tra ragazze, nel ‘34 ha la possibilità di vedere Estasi (1933), con un nudo di Hedy Lamarr e una scena di sesso, Lamarr che fa il bagno nuda, che corre nuda tra i boschi e tra i prati. Nei primi anni c’è dunque questa libertà che il pubblico percepisce; dal 1935 in poi c’è un maggior controllo con l’istituzione del Ministero della Cultura fascista, con Luigi Freddi che vorrà avere un controllo sulla Mostra. Dal 1938 in poi, le alleanze con i nazisti si faranno sentire, a partire dalla presenza costante di Joseph Goebbels che viene applaudito più volte negli anni dal ‘37 al ‘38 e ‘42. Abbiamo questo tipo d’insieme di protagonisti; poi, a ruota, ne seguiranno diciotto, diciannove con carature diverse, a cui ho cercato di attribuire meriti e limiti nelle Direzioni. Il direttore che ho stimato più (perché ne ho vissuto l’intensità di presenza a Venezia dal 1963 al 1968) è Luigi Chiarini, non solo perché poi ho dedicato la mia tesi a Barbaro (Umberto Barbaro, ndr) e a lui. Mi sono laureato con una tesi su di lui nel ’66, nello splendore della sua Direzione durante la quale faceva scoprire il nuovo cinema di tutto il mondo e facendo incontrare con conferenze stampe ed incontri i grandi registi, come Dreyer o Bresson, Buñuel o Buster Keaton; lui ha dato l’impressione da subito di prendersi carico del cinema italiano, tanto è vero che nei suoi cinque anni di Direzione, per quattro volte, il cinema italiano ottiene il Leone d’oro, cosa non semplice, se non ci rifacciamo ai tempi del fascismo. 

    Dunque, storia dei direttori, storia dei film e storia dell’evoluzione tecnologica. Diciottomila film che mostrano tutta la sua evoluzione dal momento del sonoro – la Mostra ha la fortuna di nascere all’indomani circa dell’invenzione del sonoro – e quindi di captare da quel momento tutte le grandi trasformazioni tecnologiche: già nel 1936-1937 ci sono i primi esperimenti di cinema a colori e poi di 3D. Memorabile l’articolo di Irene Brin che parla delle meraviglie del 3D, di cosa si vede nel ‘38; poi Cinemascope fino alla Realtà Virtuale nell’Isola del Lazzaretto iniziata da Barbera qualche anno fa. Quindi la Mostra di Venezia partecipa ed è testimone dell’invenzione tecnologica, e la sua intelligenza rispetto anche ad altri Festival è quella di aver aperto anche alle piattaforme; non solo sono entrati in concorso alcuni film nati per le piattaforme ma anche hanno vinto, addirittura, il Leone d’oro. Gli ultimi due direttori sono quelli che, a mio parere, hanno rimesso in corsa il Festival per la riconquista del suo diritto di essere il leader tra i Festival. Oggi come oggi non considero Venezia seconda a nessuno, ha riconquistato in pieno il suo potenziale e quello che è curioso è che il luogo in sé è costituito, in grandezza, da quattro campi da calcio, un luogo minimo. Forse, proprio grazie a questa ristrettezza tutto si svolge tra l’albergo Excelsior, il palazzo e adesso anche il casinò; un tempo, si svolgeva tutto dentro l’albergo Excelsior.

La storia del giornalismo a Venezia parte con venti o trenta giornalisti, anche questa è una storia che cerco di raccontare. Oggi ha più di duemila giornalisti iscritti tra tutte le testate, chi ha giornali in rete, chi organizza festival; all’inizio i “padri pellegrini” che sbarcarono a Venezia furono venti, era presente anche una donna che scrive per Il Lavoro di Genova, si chiamava Guglielmina Setti. Io ho anche privilegiato negli anni alcuni critici per la loro intelligenza, per la passione, per troppa libertà anche che volevano apertamente manifestare negli anni del fascismo fino ai primi anni ‘40. Poi la Guerra Fredda ha diviso la critica e quindi ho studiato le critiche del dopoguerra tenendo conto anche delle divisioni ideologiche, ad esempio: se scrivevi per una testata comunista non potevi dire troppo bene per un film americano che ti era piaciuto e viceversa, i film sovietici venivano duramente stroncati da gran parte della critica, ma non dalla critica comunista che -anzi- accusava critica e pubblico di essere ciechi e sordi di fronte alla bellezza dell’ultimo film di Pudovkin o di altri film che arrivavano a Venezia. Quindi la critica cambia acquisendo strumenti nuovi, adattandosi ai tempi e subendo molti condizionamenti: ho potuto raccontare questo anche grazie a Rondi che era come il Dottor Jekyll e Mr. Hyde, era cioè sdoppiato in due. Il suo compito era quello di scrivere delle recensioni, ma alle volte confidava al suo diario che era costretto a scrivere per il suo datore di lavoro e non ne era completamente convinto. Inoltre, la critica cattolica si irrigidisce moltissimo ma lo fa già negli anni Trenta, poi invece ha delle aperture straordinarie negli anni Sessanta: alcuni critici sembrano imbracciare le armi e le bandiere della Rivoluzione con posizioni più a sinistra della sinistra in certi critici cattolici. Ma poi entra in ballo la Semiologia, lo Strutturalismo, ed ovviamente – ed è il padre di tanta critica – Benedetto Croce, poi entrerà in ballo la Sociologia e i critici cresceranno in misura costante: molto presto cominciano ad arrivare i critici stranieri contestualmente ad un parterre di divi dal ’34, i divi dall’America e dagli altri Paesi.
Dal 1934 al 1938 c’è una forte presenza di divismo americano, mentre la presenza di divismo italiano si accentua dopo Cinecittà e lo vedremo lungo gli anni di Guerra. Questo periodo consente ai divi italiani come Luisa Ferida o Alida Valli di essere presenti, così come qualche regista italiano che viene premiato e riceve appunto il premio per meriti ideologici: la Coppa Mussolini. 

qui il testo della I parte: https://www.letterazero.it/gian-piero-brunetta-su-novantanni-del-festival-del-cinema-di-venezia-i-parte/

qui il testo della II parte: https://www.letterazero.it/gian-piero-brunetta-su-novantanni-del-festival-del-cinema-di-venezia-ii-parte/

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Gian Piero Brunetta su novant’anni del Festival del Cinema di Venezia – II parte

di Umberto Mentana

Il fatto che i vari materiali siano oggi sistemati consente finalmente dei reperimenti che non sono delle “truaie”, tra cui quello delle lettere di Kubrick che per me, kubrickiano di ferro, è stata una vera scoperta perché negavo che ci fosse qualsiasi segno del passaggio di Kubrick per Venezia. Riccardo Triolo, il dottorando in questione, fece un bel lavoro, ma si fermò nel momento in cui bisognava passare da un’attività descrittiva dei materiali che aveva selezionato ad uno sguardo più generale. Perciò si trattava di decidere cosa fare ed organizzarmi, sapendo che recarmi negli archivi che intendevo visitare era impossibile. 

Come sostituire, come trovare delle alternative che rendessero questo lavoro egualmente soddisfacente e motivabile? Intanto mi accordo sulla disponibilità dell’archivio della Biennale, dalla quale mi riferiscono che avrei avuto disponibilità soltanto dopo qualche mese. Passarono i mesi, io costruisco il libro e mi servirò degli archivi per coprire i vuoti, un po’ perché nella tesi di dottorato di Triolo c’erano cinque o sei documenti che erano quelli che cercavo e non conoscevo, e che mi sono stati utili perché andavano dagli anni ‘30 al’68, poi perché ho avuto degli aiuti esterni, disperati, immediati, al di là delle mie attese e previsioni. Uno di questi mi è arrivato dall’archivio della Cineteca Lucana di Gaetano Martino. Avrei voluto recarmi alla Cineteca Lucana perché aveva due archivi importanti: uno di Giacomo Gambetti che è stato direttore della Mostra negli anni peggiori e che ha contribuito ad allontanare la Mostra dal Lido e a precipitarla in una sorta di buco nero per qualche anno; l’altro, l’archivio di Rondi (Gianluigi Rondi, ndr), da cui, imprevedibilmente, Gaetano Martino mi ha mandato oltre che una quantità enorme di materiale spedendoli direttamente a casa mia, circa settantacinque chili di roba. Rondi conservava tutto sia negli anni in cui ha fatto il critico, sia degli anni in cui è stato commissario e poi Direttore Presidente. Quindi un archivio straordinario perché dal momento in cui è arrivato a Venezia giovanissimo è sembrato subito predisposto nel compiere questa sua ascensus sonorum anno dopo anno. Un anno dopo, forse grazie alla sua amicizia con Andreotti, era già parte della giuria ed è rimasto per tre anni.

Successivamente ho chiesto aiuto ad altre cineteche come la Cineteca di Bologna ed infine conoscevo l’archivio di Lizzani che era stato dato alla Lily Library di Bloomington: l’avevo consultato e avevo avuto la fortuna di leggere tre o quattro sue lettere del periodo in cui era stato direttore alla Mostra, e poi c’era il suo libro. Insomma, il periodo mancante erano questi ultimi quindici anni, perciò telefono all’Archivio della Biennale e la direttrice dell’Archivio mi dice: “Ma di cosa ha bisogno?”, e io: “Guardate, io ho tutti i cataloghi della Mostra, da quando hanno iniziati a farli fino al 2002, 2003. Me ne manca uno e poi non li ho più, dal 2003 ad oggi”. Esattamente due giorni dopo avevo tutti i cataloghi della Mostra, una ventina di cataloghi dal 2003 al 2019. A quel punto diventò difficile trovare delle scuse con me stesso per non andare avanti e mi sono tuffato. Ho avuto anche spinte da amici che mi dicevano continuamente che dovevo fare questo lavoro e poi, dentro di me, la presi soprattutto anche come una chiamata, un atto di amore e di riconoscenza verso un posto che è stato importante per la mia formazione e che mi ha indicato la strada da prendere nella vita. 

    Ho cercato fin da subito di pensare al luogo tenendo dentro la mia ego-storia che tuttavia non trapela fino in fondo in quei momenti in cui la mescolo, ma essa c’è, e quindi nella scrittura di questo libro sono molto coinvolto autobiograficamente perché ancora oggi, a cinquanta o sessant’anni di distanza, ascoltare in questa sede una delle dottorande che si occupa di Pasolini è bello; io sono diventato amico di Pasolini col tempo, ho avuto varie occasioni di incontrarlo, di presentare i suoi libri, ma i primi veri traumi che ho avuto da spettatore fu vedere come era accolto all’arena del Lido: sentire il pubblico che al solo nome di un film di Pasolini iniziava a fischiare perché c’erano pubblici già costituiti. Quindi anche questo, il pubblico, lo voglio assolutamente raccontare e allora, quando ho iniziato a pensare a questo libro, mi son detto: “Va bene, vado avanti, ma come costruisco questa storia? Come la articolo?” 

È entusiasmante quella fase confusionale in cui, non sapendo quale strada intraprendere, ti senti facilmente perso nei materiali e ti ritrovi a pensare: “Beh, che storia racconto?”. Da veneziano, avevo anche una discreta fortuna per aver avuto in mente un modello che mi piaceva molto: quello di pensare a dei capitoli che fossero perfettamente autonomi come I teleri di Tintoretto, in cui quaranta teleri raccontano una storia unica, sono tra loro indipendenti ma pur sempre connessi. 

L’altra cosa che volevo far avvertire al lettore è la sacralità del luogo. Il Lido ha avuto questa fortuna: ha alle spalle Venezia e questa è la sua forza (rispetto anche a Cannes, che alle spalle non ha niente); la Mostra del Cinema di Venezia ha alle spalle la Biennale, la più grande manifestazione culturale italiana, ed ha avuto la fortuna di essere chiamata “Mostra d’Arte Cinematografica” dai suoi padri ideatori, i quali le hanno attribuito sin da da subito la connotazione di arte (cosa che nel 1932 non era così ovvia) in un luogo che all’inizio che non era nemmeno deputato al Cinema: è questo albergo nato nel 1907 che era diventato, negli anni di Guerra e subito dopo, un luogo d’attrazione per le élite internazionali. Il Lido attraeva la grande aristocrazia ma anche i magnati americani, Ford era amico di Volpi e gli chiese: “Ma come? Sono andato al Lido con le mazze da golf e non c’è un campo da golf?”, e Volpi gli farà un campo da golf un anno dopo. Il Lido cresce dentro questa grande logica di Giuseppe Volpi di Misurata di far diventare Venezia di nuovo città capitale della modernità e affermarsi anche come luogo di diplomazia culturale. I suoi padri fondatori sono persone che pensano con uno sguardo internazionale fin da subito e ciò è curioso, visto che la Mostra è nata e ospitata in questo luogo che è molto amato dall’élite, ma le proiezioni avverranno nella terrazza dell’Excelsior e la prima edizione registra venticinquemila persone. Anche facendo l’elenco di tutte le teste coronate, di tutti i nobili, di tutti i ricchi e gli imprenditori, non si raggiungono i venticinquemila spettatori. Quel pubblico di venticinquemila spettatori è anche un pubblico di persone qualunque, che non vestono in smoking ma con abiti di tutti i giorni. E dunque è vero che il pubblico che attrae, il pubblico che fa notizia, il pubblico che è il vero protagonista sono questi personaggi importanti, ma sin da subito ho percepito che la gente di Venezia c’è, ed è anche un pubblico incuriosito: si crea perciò un rito sulla terrazza dell’Excelsior, con un proiettore mobile dentro un capannino dell’albergo perché, se piove, ci si sposta rapidamente nello showroom. Ciò che voglio dire è che sin dal primo anno questo luogo acquista sacralità e ritualità poiché chi ci è stato desidera tornarci; è un luogo definito da Tullio Kezich come: “Un’isola ad alto potenziale di utopia” perché la gente va per coltivare sogni, visto che da subito i suoi tre ideatori Volpi, Antonio Maraini (segretario) e Luciano De Feo (organizzatore-direttore culturale), riescono in pochi mesi ad organizzare questo programma con quindici, sedici, diciassette nazioni che vi partecipano. E partecipano dagli Stati Uniti all’Unione Sovietica con i propri rappresentanti, con un messaggio di auguri di Auguste Lumière che si trova nell’Archivio, ed è una delle cose che l’Archivio regala e che questo luogo mantiene nel tempo.

(qui il testo della I parte: https://www.letterazero.it/gian-piero-brunetta-su-novantanni-del-festival-del-cinema-di-venezia-i-parte/)

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Gian Piero Brunetta su novant’anni del Festival del Cinema di Venezia – I parte

di Umberto Mentana

In occasione dei seminari di dottorato Film and Media Studies dell’a.a. 2022/2023 dell’Università degli Studi di Bari “A. Moro” a cura dei Proff. Federico Zecca, Angela Bianca Saponari e ricercatori Andrea Gelardi, Gabriele Landrini, ho avuto la possibilità di partecipare all’incontro con Gian Piero Brunetta (Università degli studi di Padova) che ha tenuto una vera e propria masterclass-presentazione della sua ultima pubblicazione dedicata ai Novant’anni del Festival del Cinema di Venezia per i tipi di Marsilio (https://www.marsilioeditori.it/libri/scheda-libro/2971504/la-mostra-internazionale-d-arte-cinematografica-di-venezia-1932-2022), un viaggio monumentale di oltre mille pagine tra ricerca storica, archivi e memorie da parte di uno dei più importanti storici del cinema attualmente viventi. 

Quello che segue è il resoconto dell’incontro, tenutosi online il 5 Maggio 2023.

“Questa monumentale storia della Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia (una coedizione La Biennale di Venezia – Marsilio), che vede la luce in concomitanza con le celebrazioni per il suo novantesimo anniversario e, in maniera un po’ paradossale, grazie alla lunga pausa indotta dal confinamento imposto dal perdurare della recente pandemia, è di gran lunga la riflessione più articolata, ampia ed esaustiva mai tentata sinora. Un tentativo di riordinare i ricordi, dare un senso compiuto all’infinità di suggestioni e stimoli suscitati dal susseguirsi implacabile e nondimeno caotico delle edizioni, riportare alla luce fatti, personaggi e soprattutto film di cui si era persa la memoria […] Un atto d’amore, infine, da parte di Gian Piero Brunetta che della Mostra è stato per moltissimi anni spettatore assiduo e, a tratti, protagonista: consapevole della grandezza dell’impresa avviata in quel lontano agosto di molti anni fa, […] Di certo, chiunque si accinga in futuro a ritentare l’impresa, non potrà non avere come punto di riferimento il lavoro, d’ora in avanti imprescindibile, di Gian Piero Brunetta”.

– Roberto Cicutto, Alberto Barbera, dalla Prefazione de La Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia 1932-2022.

    Il prossimo anno si festeggeranno i novant’anni della Mostra di Venezia e nessuno ne ha mai scritto.

Avrei sempre desiderato guidare un gruppo di laureandi nello scrivere questa storia e mobilitarli in vari archivi: non ci sono mai riuscito perché fino ai primi anni del Duemila l’archivio della Biennale era qualcosa di disastroso. Io ci ho lavorato per la Mostra “Cinetesori della Biennale” del 1996 e dopo aver realizzato questa retrospettiva, dopo aver visto tutti i film della Mostra, dopo aver avuto vari contatti con l’archivio, mi ero ripromesso che mai più sarei entrato negli archivi della Biennale, tanto erano disorganizzati e impossibili da consultare. Per fortuna le cose sono cambiate col tempo e, proprio durante il Covid, quando ero incerto sul parto o non parto, sul ‘chi me lo fa fare’ e così via, ho capito di aver fatto sempre passi più lunghi della mia gamba. Quando, ad esempio, ho scritto la Storia del Cinema Italiano non c’era niente di simile e sono andato in giro per gli archivi del mondo a cercare, a vedere i film muti e gli archivi dei rapporti diplomatici tra Stati Uniti e Italia; quando ho pensato alla storia dello spettatore (Buio in sala. Cent’anni di passione dello spettatore cinematografico, Marsilio, Venezia 1997, ndr) nessuno si era mai avventurato in questo tipo di storie. Allo stesso modo, quando ho incominciato a viaggiare sulla storia dell’icononauta (Il viaggio dell’icononauta. Dalla camera oscura di Leonardo alla luce dei Lumière, Marsilio, Venezia 2009, ndr).

Quindi mi son detto: del tempo c’è, tutto è difficile, però proviamoci. Cos’ho di favorevole da parte mia? Ho tenuto numerosi corsi sulla Mostra del Cinema nel corso del tempo, ho scritto un sacco di articoli e saggi, quindi nell’insieme, salvo gli ultimi quindici anni, ne ho scritto e qualcosa ne ho detto. Infine, io sono lidense e sono cresciuto accanto alla Mostra con una casa a cinquecento metri da essa, e ad un certo punto della mia vita ho abbandonato il campo da calcio in spiaggia e ho cominciato ad entrarvi. I ragazzi lidensi per principio decidevano tutti insieme che si entrava gratuitamente alla Mostra, non si doveva pagare, e quindi con i miei amici ho incominciato a frequentare la Mostra dal ‘58. I primi momenti in cui ricordo di volervi entrare per vedere un film di Erich Von Stroheim erano prima dei miei diciott’anni, ma i primi veri ricordi incominciano nel ‘60 quando c’erano i film dei grandi registi italiani e, a seguire, le retrospettive. Dunque, dal Sessanta in poi ho cercato in tutti i modi e con tutti i mezzi di seguire tutto, proprio perché in quei quindici giorni la Mostra prendeva me ed alcuni miei compagni di scuola come una specie di febbre; facevamo anche un giornaletto locale in cui ci battevamo affinché la popolazione lidense fosse più coinvolta nella storia della Mostra. Quindi avevo un’esperienza personale di vari anni in cui avevo visto tutto, poi quaranta-quarantacinque anni di esperienza sulle retrospettive, ne scrivevo su Repubblica ma poi ho smesso.

Come mai ad un certo punto ho smesso di andare alla Mostra? Con gli attentati del 2005 sono comparse delle guardie armate sul tetto del casinò e la mostra si è militarizzata: questo non mi è più piaciuto, così come non mi è più piaciuto il fatto che per poter entrare dovevo passare, come negli aeroporti, attraverso le scannerizzazioni; in più, poco tempo dopo è stato praticato un buco per avviare la costruzione di un nuovo palazzo. Ci fu una gara tra architetti con la proclamazione di un vincitore, ma questo palazzo non è mai stato costruito perché una volta iniziati i lavori fu trovato dell’amianto, una quantità di amianto spaventosa che era poi l’amianto di cui tutti i lidensi erano a conoscenza, quell’amianto buttato dalle tettoie delle capanne di tutti gli stabilimenti dopo la grande alluvione del ‘66. E su questo fu strano che non ci fosse memoria, si doveva sapere, e perciò quando si è trovato l’amianto si vide che i costi di pulizia erano enormi e quindi per sette anni questo buco non venne chiuso.

Poi, il problema che si poneva era il seguente: io ne so poco del Festival di Venezia dal 2005 al 2020. Pensai che avrei potuto scrivere fino al 2000, fino alla nascita della Fondazione e poi finire rapidamente. Insomma, quando ho cominciato a pensare a questa storia ho iniziato a capire cosa possedessi di pratico, e di sicuro avevo nella mia memoria molto materiale: sapevo di avere raccolto – non sapevo in che misura – tanti ritagli di giornali degli anni Sessanta, sapevo che oltre ad averne scritto in varie sedi e aver seguito varie tesi, inclusa una tesi di dottorato di uno studente che dentro di me avevo eletto come ideale scrittore di questa storia con me affianco come guida. Lui fece un bel lavoro, però ha cercato di sistemare l’archivio nella fase ancora molto difficile in cui i materiali non erano ben schedati, quindi ha perso tanto tempo cercando di dare una mano nella sistemazione.  

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SPECIALE HALLOWEEN. TIM BURTON presenta al Lucca Comics & Games 2022 in anteprima europea la serie TV Mercoledì.

di Umberto Mentana

Quale migliore occasione se non la Notte di Halloween per chiacchierare con l’esponente forse più emblematico della notte più misteriosa dell’anno, ossia Tim Burton?

In occasione del Lucca Comics & Games 2022 il regista de Il mistero di Sleepy Hollow, Batman, La sposa cadavere, Edward Mani di Forbice ha presentato in anteprima europea la serie TV Mercoledì, un progetto ambizioso in otto episodi incentrati sull’iconica Famiglia Addams e in particolare sulla primogenita Mercoledì. Lo show sarà disponibile a partire dal 23 Novembre sulla piattaforma Video On-Demand Netflix.

Domanda: Il personaggio di Mercoledì Addams è al centro di una famiglia, questa serie la possiamo considerare una mystery con toni investigativi che ripercorre gli anni

di Mercoledì come studentessa all’interno della Nevermore Academy.

Quindi, Tim, come sei arrivato a lavorare su Mercoledì?

Tim Burton: Io sono cresciuto guardando la serie tv della Famiglia Addams anche se in realtà sono partito dai fumetti, sono a prescindere sempre stato un grande fan di questa famiglia.

Devo dire che Mercoledì è sempre stato il personaggio che mi ha interessato di più perché io mi sono sempre sentito come Mercoledì fin da quando ero ragazzino, sin da quando ero adolescente.

Sono un ragazzo ma sicuramente avrei potuto benissimo essere lei, condividiamo lo stesso punto di vista in “bianco e nero”, direi.

Lei in passato è stata sempre stata rappresentata come una bambina ma mi è sempre piaciuto sapere come poteva essere a scuola, come avrebbe potuto reagire alla propria famiglia, agli insegnanti…e da lì è partito il progetto.

D: Cosa pensi che renda la Famiglia Addams così amata ancora oggi? Perché dopo così tanti anni è ancora attuale?

T.B.: Io credo perché loro sono per definizione la weird family.

Nella realtà la maggior parte delle famiglie o almeno alcuni componenti che ne fanno parte sono propri di questa categoria. E quindi, in un certo senso, nella Famiglia Addams loro ci vedono un modo per identificarsi,fondamentalmente è questa la ragione del suo successo.

La maggior parte dei ragazzini che conosco si sentono imbarazzati dai propri genitori…immaginate avere Morticia come madre, che imbarazzo!

D: Come pensi che Jenna (Jenna Ortega, l’attrice che interpreta Mercoledì nella serie TV, ndr)abbia contribuito a dare vita a questa Mercoledì? Perché la sua è diversa da tutte le altre.

T.B.: Assolutamente vero, Mercoledì è un personaggio iconico.

Quindi era molto difficile trovare un’attrice che lo potesse interpretare, senza Jenna per me non ci sarebbe stata la serie perchè non era assolutamente facile trovare chi potesse impersonarla in quella maniera. È vero sono i suoi occhi, moltissimo, bellissimi e la sua forza di carattere a darle quel tono

perché Mercoledì è un personaggio forte, ed è quello di cui aveva bisogno per il nostro personaggio.

Il lavoro che Jenna ha dovuto fare fare è stato quello di trasferire, trasmettere questo personaggio in bianco e nero che però qui e lì lascia intravedere qualche sfumatura di un qualsivoglia lato umano senza tradire quel nucleo fondamentale insito in Mercoledì.

D: Per Mercoledì i social sono un buco nero di gratificazioni mentre per Enid (Emma Myers), la compagna di stanza di Mercoledì, è completamente diverso.

Mercoledì usa macchina da scrivere e violoncello, per Enid le emoji servono a trasmettere le emozioni che non sa esprimere. Si dice che Mercoledì esprime la tua visione del mondo, tramite lei vediamo anche quello che Tim Burton pensa. Cosa pensi quindi del rapporto tra i social e il mondo reale?

T.B.: Per quello che mi riguarda io ho paura di internet e ovviamente ogni volta che navigo su internet per cercare qualcosa mi ritrovo in qualche buco nero e qualche video strano di gatti.

Sicuramente in partenza queste cose erano pensate per fare qualcosa di bello, di fare del bene, ma poi finiscono per utilizzate per qualcosa di male.

Naturalmente io sono un po’ come Mercoledì, condivido il suo modo di pensare al mondo.

D: Ci puoi raccontare come il personaggio Mano è stato realizzato per lo schermo?

T.B.: Essendo un personaggio particolare gli volevo conferire una vita anche un po’ più ampia rispetto alle versioni precedenti, dargli un’esperienza più vissuta.

Il personaggio mi piaceva comunque anche nelle versioni precedenti, aveva quell’aspetto di vecchi film dell’orrore, io però gli ho voluto dare anche un passato che fosse abbastanza particolare.

La possiamo definire il Dustin Hoffman delle mani.

D: Con Mercoledì tu ci racconti come anche in passato hai fatto in molti dei tuoi film, di aspetti quali l’emarginazione, il sentirsi non accettati, di essere degli outkast. Vuoi per difetti fisici, psicologici, sociali. Ce ne parli in relazione al personaggio di Mercoledì?

T.B.: Capisco benissimo questo tema avendo avuto problemi di salute mentale per metà della mia vita. Ed è ovviamente questo perché amo il personaggio di Mercoledì, mi identifico con lei.

Lei è fonte di ispirazione, è sempre molto chiara, dice quello che pensa, quello che prova.

A volte però questo ti mette nei guai nei confronti degli altri ma lei è un simbolo, è simbolica per  tutto questo. Lei ha anche quella forza semplice e silenziosa che trovo molto importante.

D: Nella scuola, la Nevermore Academy tu racconti che l’hanno frequentata importanti figure storiche, come Edgar Allan Poe. Quali altre figure storiche immagini che abbiano frequentato o insegnato in questa scuola?

T.B.: Devo dire che questo è uno dei motivi perché la serie mi piace ed è buffo, Mercoledì lei va in una scuola per reietti e si sente una reietta tra i reietti. Ed è quello che io ho provato e sentito per tutta la mia vita nei confronti della scuola, dei genitori e degli altri. È il motivo perchè lei fondamentalmente mi piace.

D: Anche per Mercoledì si è rinnovato il sodalizio artistico con Denny Elfman. Come avete lavorato sul tema musicale forse più celebre della storia della TV?

T.B.: Io e Danny siamo amici da una vita, abbiamo entrambi un passato lungo di collaborazioni.

E questo perché condividiamo gli stessi gusti, amiamo gli stessi film, abbiamo un rapporto molto stretto in questo senso ed è molto facile lavorare con lui proprio per queste ragioni, peraltro io lo considero come un altro personaggio del film, come un attore, lo tratto come tale perché secondo me la musica è un altro personaggio nei film.

Ed è stato fantastico che lui abbia accettato di lavorare e di scrivere le musiche per questo nuovo lavoro, lui è ritornato ad essere una rockstar ed è stato bello che abbia trovato del tempo da dedicare a Mercoledì.

D: I costumi di Colleen Atwood svolgono come le musiche di Danny Elfman un ruolo fondamentale per contrassegnare e caratterizzare i personaggi. Ce ne parli?

T.B.: Allo stesso modo, la collaborazione con Colleen è stata una partnership che va avanti da tantissimi anni, abbiamo collaborato insieme per tantissime produzioni, tantissimi film.

Ed è stata importante la sua visione perché Mercoledì aveva un solo look ed era importante trovare uno stratagemma per conferirle look diversi pur distinguendola da tutti gli altri studenti della Nevermore dove anche loro hanno un aspetto da “diversi” che li distingue dagli altri ragazzi in generale. Per me è fondamentale che sia visibile il mondo, questo mondo e che risulti diverso rispetto agli altri a prescindere da quello che è.

D: Se c’è stata, quali sono state le difficoltà di affrontare una serie ad episodi? Il cinema rimane sempre il suo vero amore oppure affronterà nuovamente la serialità in futuro?

T.B.: Lavorare ad una serie televisiva significa lavorare ad un ritmo diverso, una specie di cottura un po’ più lenta rispetto ad un film ma il Cinema continua a rimanere ovviamente il mio primo amore e credo che comunque  oggigiorno ci sia ancora spazio per i film, per il Cinema.

D: Il regista in una serie tv è come un ammiraglio di una flotta perché come sappiamo anche in Mercoledì c’è stata una vera e propria collaborazione anche con altri registi per co-creare il prodotto (Tim Burton ha diretto 4 episodi su 8 dell’intera stagione, ndr). Come è stato per Tim Burton il rapporto con gli altri registi per mantenere consistenza e visione?

T.B.:Intanto, l’ho trovato interessante a prescindere da quello che è e si fa, io ho assoluto rispetto per le altre persone, conosco questo tipo di lavoro e so la fatica che c’è dietro.

È stata una sensazione molto bella, molto positiva perché noi ideatori abbiamo stabilito in un certo senso qual era il tono poi gli altri registi lo hanno ripreso, lo hanno rielaborato in base al proprio stile, hanno fatto la regia a modo loro però hanno seguito in un certo senso questo tono.

Io lo trovo estremamente importante poiché io traggo ispirazione dagli altri, è un dare e avere, io do qualcosa e questo qualcosa poi ti ritorna indietro. Quindi sei tu una fonte di ispirazione e gli altri lo sono per te.

La realizzazione di una serie, così come la realizzazione di un film, è sempre composta da una famiglia un po’ strana, magari nella TV ha delle caratteristiche un po’ diverse ma non sono dissimili come lavori.

D: Qual è il segno, l’eredità che ti hanno lasciato i comic books? E se ci sono quali sono

quelli che hai amato di più?

T.B.: Ho fatto Batman quindi ad un certo punto qualche comic book devo averlo letto e incontrato.

Tra parentesi io disegno, amo disegnare e amo tutto quello che ha a che vedere con l’arte.

Da ragazzino ho sempre avuto problemi nel leggere le didascalie nei comics perché non so mai a quale riquadro, a quale disegno si riferisce. Comunque il disegno, questo tipo d’arte la trovo fantastica ed è questo il motivo perché è bellissimo essere qui.

In mdp

“Stranger Things”: risospinti senza posa nel passato

di Giovanni Morese

Se in futuro qualche pittore dovesse mai decidere di realizzare un quadro sulle condizioni della Settima Arte nel 2022, non stupirebbe certo se ci ritrovassimo ad ammirare il ritratto di un uomo con uno sguardo assuefatto, rivolto ad un panorama cinetelevisivo che non esiste più. Non a caso, ad inaugurare il nuovo anno al cinema è stato Matrix – Resurrections, regia di una solitaria sorella Wachowski. Lana, la “sentimentale” di questo duo rivoluzionario della storia del cinema di fine anni Novanta, ci aveva proposto un distopico all’epoca sfacciato e dissacrante, una pietra miliare difficile da dimenticare ed impossibile da emulare. Una storia, quella di Matrix, consapevolmente destrutturata e malauguratamente banalizzata da due sequel Reloaded e Revolutions – trainati da un successo pericoloso ed opprimente ma che, a giochi fatti, erano riusciti a porre la parola fine. Eppure, Matrix è resuscitato e ciò non ha sorpreso né smosso nessuno. Perché Matrix doveva resuscitare: è ciò che avviene a tutti i franchise di un passato perduto, di un mondo fitzgeraldiano in cui «così continuiamo a remare, barche contro corrente, risospinti senza posa nel passato». E così ci siamo ritrovati a Matrix pur non essendo davvero lì. Abbiamo guardato il grande schermo con la speranza di riottenere ciò che avevamo perso da tempo, constatando col senno di poi che però ciò non sarebbe mai potuto accadere. Questo perché quando il protagonista Neo si è specchiato durante i primi minuti della pellicola, attraversando la parete per raggiungere un luogo conservato solo nei meandri dei suoi ricordi, ci siamo ritrovati in realtà di fronte Lana, l’artista costretta a rinnovare un mondo privo di linfa vitale solo perché, in caso contrario, lo avrebbe comunque fatto qualcun altro al posto suo. Gli urli della dolorosa visione di questa irriverente pellicola sono diventati, così, moniti di un primo anno di cinema post-covid costellato di profetizzate presenze spettrali. Tra un autoreferenziale, nostalgico ed ennesimo Scream ed un terzo capitolo della saga spin-off di Harry Potter pronto ad ingannare un pubblico ancora assetato della magia di Hogwarts che non ritroveranno probabilmente mai più, anche il Marvel Cinematic Universe ha iniziato a seguire la via della nostalgia introducendo versioni del passato di personaggi entrati ormai nell’immaginario collettivo attraverso l’escamotage narrativo del multiverso. All’interno di questo vortice vizioso, il settore seriale si è collocato in una posizione intermediaria, figlia di un entertainment contemporaneo basato sempre di più sulla creazione di esperienze di fruizione unificate e trasversali. Si passa da sperimentazioni di reboot di show di passate generazioni come Gossip Girl, Pretty Little Liars ed addirittura una versione âgée di Sex and the City, tutte prodotte dalla recente piattaforma streaming HBO Max – particolarmente attenta a cavalcare l’onda del passato anche attraverso le smielate reunion di Friends e del cast del maghetto della Rowling – a show di Prime Video rivoluzionari e peculiari come The Boys, satira intelligente del mainstream supereroistico messo in piedi dal colosso rivale Disney Plus. E poi c’è Stranger Things, l’emblema dello sguardo rivolto al passato, ma allo stesso modo quanto di più lontano dai tragici esempi sopracitati. Perché il quarto atto di Stranger Things – atteso e forse anche un po’ temuto – si è imposto in questa stagione seriale come la vera e definitiva epopea di questa generazione. Mai come nell’ultimo ciclo episodico, infatti, ci si è resi conto di quanto i fratelli Duffer possano essere considerati i contemporanei rapsodi di un periodo storico, quello dei mitici anni Ottanta, a cui l’atteggiamento citazionistico postmoderno si è rivolto negli ultimi anni con maggior attenzione. Questi nuovi nove lungometraggi – con un capitolo finale dalla durata di due ore e mezza – opportunamente scissi in due parti, hanno avuto l’onere di ossequiare le aspettative di un’attesa di tre anni di speculazioni e congetture, con il rischio di depotenziare ulteriormente la coesione di una lore sempre più complessa e, in alcuni momenti delle stagioni due e tre, decisamente scricchiolante. Basta visionare i primi minuti di questa nuova fatica per rendersi conto di quale sia, però, uno dei segreti del successo di questa operazione televisiva: l’adeguare il suo tono, i suoi risvolti narrativi, le reazioni dei personaggi e la qualità degli episodi alla crescita fisica ed emotiva dei suoi protagonisti.

Con questo quarto capitolo, Stranger Things passa ottimamente dall’essere una serie di formazione contornata da continui riferimenti pop e nerd di quegli anni al prospettarsi come lo specchio della fallibilità dell’uomo di oggi, del perpetuarsi degli stessi errori e dinamiche comportamentali a seguito di una non adeguata assimilazione dei traumi infantili. Per questo, personaggi di punta come Eleven, Max e Will percorrono un affascinante viaggio a ritroso, affrontando la più grande battaglia della loro vita fino a quel momento, quella di serrato, reciproco confronto e – nel secondo arco della stagione – accettazione della loro più intima essenza. Nessun eroe che ha a che fare con le “cose strane” di Hawkings e dintorni sarebbe realmente capace di rivestire questo ruolo, eppure è proprio il loro continuo richiamo al passato a renderli i beniamini della generation Z. Così, mentre la Joyce di Winona Ryder tenta il tutto e per tutto per riportare indietro il suo amato Hopper per il costante rimorso di non aver salvato, ai tempi della seconda stagione, il compianto partner Bob e Vecna si rivela una nemesi motivata dall’incapacità di perdonare e perdonarsi, ci si rende conto di quanto Hawkings e i suoi abitanti siano maledetti, diversi. Perché di quel mondo – quello degli ’80 – che vede al futuro in maniera ottimistica e spensierata, Hawkings non si sente di far parte. Perché Hawkings e il Sottosopra sono la stessa cosa, fermi al giorno in cui le vicende della serie hanno avuto inizio. Ancorati al passato, come noi telespettatori che doniamo una seconda vita a Running Up That Hill di Kate Bush o tifiamo per Eddie che suona Master of Puppets dei Metallica pur sapendo che di lì a poco morirà, come accade sempre con il personaggio più simpatico introdotto all’interno di ciascuna season. Amiamo genuinamente Stranger Things perché è un modo diverso di fare storytelling, perché ha capito in anticipo rispetto ai tempi le esigenze della nostra società e l’ha rappresentata come poche altre storie sullo schermo dal 2016 ad oggi, tanto da portare le major a concepire proposte concorrenziali che hanno cercato di impostare il medesimo dialogo con il passato, spesso utilizzando strategicamente gli stessi volti attoriali, come nei casi dei due capitoli cinematografici di IT del 2017 e 2019 o della trilogia Netflix di Fear Street distribuita la scorsa estate. Amiamo Stranger Things per i plot twist che ci ricordano The Empire Strikes Back senza doverlo neppure velatamente nascondere, perché ci fa respirare aria di casa, perché quando guardiamo i personaggi di Hawkings che assistono all’inizio dell’apocalisse durante gli ultimi minuti di The Piggyback, speriamo di poter aver la loro stessa forza di sperare che, con qualcuno che creda in noi, si possa combattere qualunque mostro. O che, forse, il segreto per progettare l’arte del futuro sia proprio quella di guardare intelligentemente a quella del passato, sconfiggendone i suoi fantasmi peggiori per poi – anche se dolorosamente – lasciarcela alle spalle.

In mdp

Settimana Pasolini – Lili Reynaud Dewar vince il Premio “Marcel Duchamp” 2021 con “Far rivivere Pasolini”

di Noemi Narducci

Lili Reynaud Dewar ha ricevuto lunedì 18 ottobre il premio Marcel Duchamp per la sua
installazione video corale in omaggio a Pier Paolo Pasolini (1922-1975). Il progetto Rome, 1er et 2
Novembre 1975, iniziato come residente a Villa Medici, ripercorre gli ultimi giorni di Pasolini, dalla
sua ultima intervista al suo assassinio. Come spiega infatti la giovane artista, in un’intervista
rilasciata all’emittente radiofonico RFI, l’idea è stata quella di creare un’installazione video corale,
un impianto immersivo costruito attorno allo spettatore, in cui una ventina di attori e attrici
incarnano la figura di Pasolini, nonché quella del giovane Giuseppe Pelosi, presunto assassino. In
questo modo l’istallazione video riesce ad evocare gli ultimi giorni di vita del poeta scivolando dal
destino del regista al percorso di coloro che gli danno oggi corpo.

La sfida di Lili Reynaud Dewar non nasce però dalla volontà di trovare una verità sugli ultimi
istanti di vita di Pasolini. Per l’artista la questione più importante è quella di creare un gruppo, una
comunità di persone in grado di far rivivere la grandezza e la contemporaneità dello scrittore e
cineasta, una figura fondamentale per il pensiero contemporaneo. Si è dunque trattato di mettere in
scena i suoi ultimi momenti di vita al fine di reinserire il cineasta e scrittore nel tempo presente, non
come figura storica congelata, ma come figura vivente.
Gli scritti di Pasolini, i suoi lungometraggi e le sue testimonianze diventano un abile strumento di
lettura della realtà, un mezzo per comprendere il quotidiano e cercare di affrontare la complessità
dei fenomeni sociali. Per Reynaud Dewar infatti: “È sempre attraverso le opere degli altri che ci si
forma, verso di esse che ci si posiziona dal momento che non si è mai soli.”

Nata nel 1975 a La Rochelle, Lili Reynaud Dewar è un artista visiva che vive e lavora a Grenoble.
Dopo aver studiato diritto pubblico alla Sorbona e dopo essere entrata a far parte della Scuola
Regionale di Belle Arti di Nantes, Lili Reynaud Dewar si è dedicata interamente al mondo dell’arte
e dell’insegnamento, lavorando come docente di arti visive all’Alta scuola di Arte e di Design di
Ginevra.
È proprio nell’insegnamento e nella trasmissione del sapere che l’artista identifica una delle funzioni
proprie dell’arte. Come afferma infatti in un’intervista rilasciata al «Magazine – Centre Pompidou»
la sua idea di insegnamento si basa sulla creazione di metodologie didattiche dinamiche e inclusive.
Nelle sue lezioni cerca dunque di creare vitalità, vita, relazioni che possano stimolare e incentivare
la creatività.
Anche in questo contesto l’artista si serve della grandezza del pensiero pasoliniano proponendo un
percorso didattico dedicato all’universo poetico, estetico e culturale del grande artista.
Con i suoi studenti sta attualmente lavorando al progetto Gruppo Petrolio, un film di circa quindici
ore diviso in diversi episodi che mette in scena gruppi di giovani impegnati a preparare azioni
contro emblemi del capitalismo, in particolare nel campo industriale e tecnologico. L’inesperienza e
gli insuccessi di questi personaggi sono una molla comica del film, sebbene tutto ciò porti spesso ad
ambientazioni opache se non esoteriche. Nel film si vedono dunque i protagonisti affrontare la
lettura di Petrolio che in questo contesto diventa l’annunciatore delle attuali lotte sull’ecologia.
Come ricorda Fabrizio Sinisi nel suo articolo Come Petrolio ha anticipato l’evoluzione del nostro
mondo
(Sinisi, in “Domani”, 16 giugno 2021) Pasolini è stato in grado di mostrare la metamorfosi di un potere che da 1 statale e nazionale è
diventato finanziario e internazionale e lo ha fatto cercando di indicare quelle matrici che ancora
oggi trasformano il mondo. Per Lili Reynaud Dewar Petrolio diventa quindi un raro esempio di
opera performativa, un libro in grado di mescolare tutti i generi, di confondere l’invenzione con la
realtà e di alternare la trama narrativa con registri linguistici diversificati. Petrolio diventa dunque
un mezzo per far conoscere agli studenti un Pasolini che ha voglia di rischiare, mettendosi in gioco
totalmente, andando al di fuori di ogni galateo di mondanità culturale (Ibid.), un Pasolini profeta,
anticipatore di nefandezze italiche, fustigatore di vizi etici (Berthoud-Elderkin, 2016).

Testi citati:

Fabrizio Sinisi, Come Petrolio ha anticipato l’evoluzione del nostro mondo, Domani, 16/06/2021

Ella Berthoud-Susan Elderkin, Curarsi con i libri. rimedi letterari per ogni malanno, Palermo, Sellerio, 2016.