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Grado Zero

In Sesto Potere

E a te, se sei rimasto con Harry fin proprio alla fine: sulla riscrittura seriale del maghetto di J.K. Rowling

di Giovanni Morese

“After all this time?”

“Always”.

L’iconico Hedwig’s Theme di John Williams risuona, le nuvole si addensano. Un castello illuminato dal tramonto settembrino si intravede dietro ad un logo scintillante, inconfondibile. È il logo del reboot seriale di casa Hbo Max – rinominata, in occasione dell’unione tra Warner Bros. Television e Discovery, semplicemente Max – di Harry Potter.

Harry è tornato. Esattamente come aveva fatto la sua nemesi, letteraria prima e cinematografica poi. Eppure, in questi dodici anni di assenza dal grande schermo, il suo nome lo abbiamo sentito pronunciare, senza timore alcuno, in ambito cinematografico, ludico, letterario, teatrale, perfino sociale. La fame di Harry Potter i fan della generation Z l’hanno trasferita a quella Alpha senza che ci fosse bisogno di reinterpretazioni, riscritture o rivisitazioni. La storia del maghetto di Hogwarts ha semplicemente continuato ad appassionare grandi e piccoli con l’ausilio di tutti i media di cui usufruisce. Tutti, è fondamentale precisarlo, figli di un franchise che ha fatto dell’iconografia cinematografica il motivo del suo successo tanto quanto, e osiamo dire ancor di più, della controparte letteraria. Non a caso il progetto di Fantastic Beasts, nato come uno spin-off e proseguito fallimentarmente trasformandosi in uno strampalato prequel, ha avuto come obiettivo quello di proseguire le storie del rinomato Wizarding World attraverso cineprese ed effetti speciali, lasciando così in disparte la carta e l’inchiostro. E questo, la Warner lo sa benissimo. Lo sa talmente bene da scegliere l’estetica dei film per presentare una storia serializzata che dovrebbe sostituirsi alla sua trasposizione precedente. Una storia, quella della Rowling, che in realtà ben si presta alla narrazione televisiva. Si potrebbe dire, addirittura, che il piccolo schermo sarebbe stato fin dall’inizio il medium più adatto a riscrivere in maniera efficace la complessa trama intessuta dalla scrittrice inglese dai primi anni Novanta a fine anni Duemila. In fondo, ricordiamo ancora lucidamente – e forse con un barlume di dolce infantilità – le ingiurie verso il regista “mestierante” delle ultime pellicole David Yates, oppure la superficialità con cui il capitolo dell’oggi pluripremiato Cuarón ha trattato la storyline incentrata sui Malandrini, per non parlare delle deludenti svolte teen di un Half-Blood Prince che tutto sembra voler fare fuorché trasporre attraverso l’audio-visivo il cuore pulsante di uno dei volumi più riusciti della saga libresca. Eppure no, questo non basta per giustificare la visione e l’intento di questo nuovo progetto decennale. Soprattutto – è importante sottolinearlo – se vincolato dal peso di un immaginario che limiterà la libertà artistica di chi dovrà occuparsi di convertire in series un fenomeno editoriale ancora nel pieno della sua fioritura e da sempre affiancato da un blockbuster capace di risollevare perfino le sorti del cinema post-covid con l’ennesima distribuzione del suo primo film targato 2001. Con tutte le modalità e i linguaggi a nostra disposizione per poter godere della magia potteriana, una struttura seriale basata sull’emulazione del passato non solo rischia di risultare povera dal punto di vista strutturale, bensì di ingannare anche chi queste vicende ha amato leggerle ed ammirarle sul grande schermo. Per quanto dare giustizia alla vera origin story di Tom Riddle possa, quindi, far sognare ad occhi aperti i fan più puristi, non possiamo dopotutto non giungere alla conclusione che tale esperimento contraddica i principi fondanti della serialità. In cosa trasformeremo le serie tv, se queste non potranno più nutrirsi di plot twist inaspettati e dell’hype crescente verso il season finale? Crediamo davvero che quella che già sembra essere diventata una nuova tendenza di chi detiene i diritti di saghe che solo fino a qualche anno fa si sono scontrate al box office sia il giusto modo di riportare in auge universi narrativi amati così incondizionatamente ancora oggi? Noi, che siamo già rimasti con Harry fin proprio alla fine, saremo pertanto disposti a farlo di nuovo? Lo scopriremo, quando miriadi di gufi giungeranno a Privet Drive, un ragazzino occhialuto incontrerà un gigante buono con una magica lettera in mano e la lotta tra the boy who lived e colui-che-non-deve-essere-nominato sarà pronta per essere raccontata, ancora una volta.

In Sesto Potere

Format “Scrivere le Serie TV”. Incontro con Cristiana Farina, headwriter di “Mare fuori”

a cura di Umberto Mentana

Come si scrive una grande storia è una scuola di scrittura creativa basata sulla solidarietà fondata dallo scrittore e sceneggiatore romano Francesco Trento che nel 2020 decide di spostare online e che offre settimanalmente lezioni gratuite in cambio di volontariato. Ad oggi gli introiti per le numerose associazioni coinvolte dalla scuola ha generato donazioni per oltre 115.000 euro (https://francescotrento.it/).

         All’interno del ricchissimo programma di seminari, a partire da Novembre 2022, viene presentato il format Scrivere le serie TV, curato da Marina Pierri (autrice, critica televisiva e direttrice artistica del FeST – Il Festival delle Serie TV di Milano) e Mary Stella Brugati, sceneggiatrice. Tra i numerosi incontri con le personalità più importanti della serialità televisiva italiana (https://francescotrento.it/blog/corso/moduli/scrivere-le-serie-tv/) venerdì 17 Marzo 2023 si è svolto tramite la piattaforma Zoom l’incontro con Cristiana Farina, headwriter e ideatrice di Mare Fuori (Rai 2020 – in produzione), lo show che soprattutto in questi ultimi mesi è diventato un vero e proprio fenomeno di massa, è sulla bocca di tutte e tutti, e non solo tra gli adolescenti. Quello che segue è il resoconto dell’incontro con Cristiana Farina, a cui ho partecipato personalmente.

Cristiana Farina Le aspettative sono state più che superate, è stato uno tsunami più che un Mare Fuori. Questa è una storia che mi porto dietro da tanti anni, dalla prima volta che sono entrata nel carcere minorile di Nisida (Napoli), sono passati vent’anni da allora ed è stato amore a prima vista.

         Io ero lì perché fui chiamata per un seminario e avevo ovviamente un immaginario molto distante da quello che poi in realtà ho scoperto; i ragazzi che erano detenuti scontavano dei reati molto gravi, anche feroci, e quindi mi aspettavo di trovare più degli uomini che dei ragazzi. In realtà poi mi sono confrontata con dei ragazzi, con degli adolescenti che ancora cercavano un’approvazione da parte degli adulti, da chi è un riferimento per loro a quell’età.

         Quindi Mare Fuori è stato un progetto fin dall’inizio pieno d’amore, perché era come se quella dimensione della detenzione fosse davvero un’occasione per aprire una finestra che non avevano mai aperto. Ed erano curiosi, erano instabili, come tutti i ragazzi a quell’età, e dunque quest’alternanza di sentimenti forti ed opposti, espressi anche in maniera così violenta è arrivata con tutta la sua forza.

         L’immagine che ho avuto entrando all’IPM (Istituti Penali per Minorenni, ndr) di Nisida per la prima volta fu durante un saggio, c’era un saggio teatrale. Quella di Nisida è una location particolarmente bella, si trova sulla cima di questa penisola, appunto Nisida, e si affaccia sul Golfo di Napoli. C’è tutta una salita, che una volta che si chiude il cancello, passa attraverso diversi edifici e io ero in cima alla salita insieme ad un pubblico perché stava avvenire quest’happening messo su da una compagnia teatrale e vedo arrivare due ragazze altissime, vestite di celeste, erano su dei trampoli. Fu una visione quasi angelica, queste due figure altissime che passeggiavano sopra le nostre teste. Erano due ragazze bellissime: una era quella che oggi è diventata nella serie Viola e l’altra era quella che è diventata Naditza, una zingara e una ragazza psicopatica, fondamentalmente. Lei aveva realmente un problema mentale.

         Uno dei problemi dell’IPM è proprio questo, molto spesso ci finiscono ragazzi minorenni con problemi psichiatrici. Ora però finalmente si parla di reati minorili, di salute mentale proprio cavalcando l’onda di Mare Fuori, anche le notizie sul Beccaria, ad esempio. Prima le evasioni sono sempre accadute nel minorile perché il minorile non è un istituto di massima sicurezza, è un istituto detentivo ma i ragazzi escono con il permesso, non stanno chiusi nelle celle con un’ora d’aria al giorno. Stanno sempre in cortile quindi volendo riescono a scappare, e difatti succede soprattutto durante i permessi che capita che non rientrano. Ma nessuno non se ne è mai occupato del problema a livello nazionale, sulle prime pagine dei giornali, invece adesso l’attenzione comincia ad esserci. Il passo successivo, spero, che ci sia qualcuno che si preoccupi di creare un link tra il dentro e il fuori perché pur se lì dentro ci siano persone per quanto illuminate, capaci a recuperare quei ragazzi o comunque a dar loro un punto di vista diverso sul mondo, una volta però che valicano quel portone non c’è più nessuno, non c’è un pensiero, un progetto che possa accompagnarli anche fuori. Alla fine vengono riconsegnati al territorio, alle loro famiglie che spesso sono il problema di partenza e quindi non c’è nessun progetto di recupero e questo dispiace.

         Il successo di Mare Fuori ci fa ovviamente sentire ancor più responsabili perché se uno scrive una cosa tanto per riempire la pagina e trovare un momento di svolta che possa agganciare lo spettatore è un discorso, ora invece tanti giovani veramente lo stanno considerando qualcosa di grande, ed è decisamente una cosa diversa. Persone che ti scrivono cose del tipo: “Mi ha salvato la vita”, ti accorgi quindi che c’è proprio bisogno di una guida. Mare Fuori ha acquisito, volente o nolente, questo ruolo di faro, di faro nel buio. E di conseguenza bisogna essere molto responsabili perché la presa è tanta e nel nostro piccolo dobbiamo cercare anche eticamente di essere corretti e di attribuirgli un valore effettivamente positivo che possa dare speranza, perché il messaggio credo abbia in qualche modo perforato il tessuto degli adolescenti che molto spesso sono in difesa, hanno una barriera protettiva rispetto al mondo degli adulti, soprattutto. Mare Fuori è riuscito a sfondare questa barriera perché ha dato a tutti una possibilità di speranza. Anche dietro lo sbaglio più grave c’è la possibilità di una nuova vita se si guarda nella direzione giusta, se si affronta con responsabilità la propria responsabilità, perché non voglio parlare di colpa, e se si capisce quanto si è responsabili di quello che si è fatto poi si può tranquillamente ricominciare se c’è qualcuno che non ti giudica ma ti tende la mano e cerca di tirare fuori il bello che c’è in te.

            Per tutta questa serie di motivi, quindi, tutte queste storie in qualche modo sono rientrate dentro Mare Fuori proprio perché partivano da realtà non universali ma sicuramente molto più larghe di quello che si pensi. La cosa di cui mi sono appassionata particolarmente è la possibilità di recupero effettiva che c’è all’interno dell’IPM, una possibilità di recupero però che è molto delegata all’iniziativa personale di chi ci lavora.

La genesi di Mare Fuori: gli step di scrittura della serie

            Cristiana Farina È iniziato tutto quanto con questa presentazione alla Rai del progetto, un conceptdi dieci pagine e a loro è interessata molto l’idea dopodiché per lavorarci mi sono affiancata a Maurizio Careddu, con lui abbiamo strutturato diversi soggetti di serie e dalla seconda stagione facciamo anche insieme gli headwriters, perché è un lavoro decisamente impegnativo. Abbiamo fatto tantissima ricerca, siamo andati tante volte a Nisida, abbiamo conosciuto molteplici realtà locali che organizzano attività per i detenuti anche all’esterno del carcere, come la “Pizzeria dell’Impossibile”: si tratta di un’associazione che praticamente si occupa di insegnare ai ragazzi di Nisida ma anche di altre comunità, di Airola e di altri istituti campani, di fare la pizza. E in questa pizzeria, che sta ai Decumani, proprio al centro di Napoli, loro offrono la pizza a chi non può pagarla. Si può andare lì, prendere una pizza e una Fanta senza pagare, e questo succede a pranzo tre, quattro volte a settimana e i ragazzi imparano un mestiere, fondamentalmente. Ho conosciuto lì tanti ragazzi e ho avuto modo di parlare con loro in maniera libera, forse anche più libera che all’interno dell’istituto. Da tutti questi racconti, io e Maurizio abbiamo raccolto molte idee e anche molti modi di pensare che sono poi naturalmente confluiti dentro Mare Fuori.

         Con Maurizio, quindi, abbiamo fatto prima il soggetto di serie, dopodiché ci dividiamo i soggetti di puntata e sviluppiamo un soggetto io e un soggetto lui, poi lui passa a me quello che ha fatto lui e viceversa, ci scambiamo, ci rimpalliamo continuamente il lavoro e, una volta scritti, i dodici soggetti vengono spediti alla produzione della Rai che ci dà il feedback in base a quello che a livello produttivo si può ottimizzare piuttosto che a livello di contenuto migliorare; abbiamo un referente, un capostruttura Rai che si chiama Michele Zatta il quale anche lui si è calato in questo progetto con tutto se stesso e quindi insieme si fa un vero e proprio lavoro di gruppo. Poi, dopo i soggetti si passa alle scalette, che scriviamo sempre io e Maurizio, dove le nostre scalette sono in realtà dei trattamenti, noi scriviamo scena per scena e consegniamo scalette di trenta pagine per un episodio da 50’, quindi sono molto dettagliate. Successivamente io e Maurizio scriviamo quattro sceneggiature ciascuno e quattro di anno in anno vengono assegnate a diversi sceneggiatori. Dal primo anno c’è Luca Monesi, per le altre invece ogni anno sperimentiamo qualcuno di diverso. Poi ritorna tutto a noi e rileggiamo tutto io e Maurizio e diamo una continuità finale. È un lavoro a step: soggetto di serie, soggetti di puntata, scaletta di puntata e sceneggiatura, e poi c’è l’edizione finale. Per fare un esempio attuale, ad oggi siamo in fase di sceneggiatura ed entro metà Aprile dovremmo consegnare tutto per poter poi iniziare a girare a metà Maggio.

La genesi di Mare Fuori: il cast

            Cristiana Farina Il merito di questo cast è innanzitutto del primo regista, perché i registi si sono alternati mentre  noi siamo rimasti sempre. Il primo regista, Carmine Elia ha fatto un lavoro di casting insieme a Marita D’Elia (casting director, ndr)straordinario. Marita ha fatto un lavoro di cast incredibile perché è riuscita in ogni caso, anche essendo ragazzi molto giovani, a trovare dei professionisti. Non ci sono improvvisati tra di loro: sono tutti giovani attori e che comunque c’è chi ha fatto il Centro Sperimentale, chi aveva già fatto qualche film, chi veniva dal teatro, chi da una famiglia di teatranti, avevano tutti già studiato e sono tutte persone molto preparate e anche intellettualmente molto sensibili e argute rispetto alle tematiche trattate.

         Io a volte rimango molto affascinata dall’ascoltarli perché dicono cose che travalicano e che superano anche le intenzione delle parole scritte. Fanno delle analisi sui loro personaggi che lasciano veramente a bocca aperta me per prima, che ho scritto il personaggio. E questa è una ricchezza aggiunta   sicuramente all’idea originale innegabile ed è una sorta di alchimia fortunata quella di Mare Fuori, perché questi ragazzi tra di loro poi hanno sviluppato anche un’amicizia, una collaborazione, sono diventati proprio una famiglia. E tutta questa passione, tutto questo amore, tutta quest’anima alla fine ha dato corpo a qualcosa di unico.

            Nella serie, poi, naturalmente ci sono anche personaggi, come quello di Carolina Crescentini, che poi avvertono l’esigenza di uscire da quel ruolo, è una serie lunga perciò magari un attore ad un certo punto ha altri interessi e altre proposte e dunque dobbiamo trovare un modo per farli uscire, è un mix di tutto questo e non dipende perciò solo da noi, da semplici scelte narrative. Penso anche ai personaggi di Filippo (Nicolas Maupas) e Naditza (Valentina Romani) che poi hanno avuto altre proposte e hanno pensato che il loro contributo a Mare Fuori fosse terminato, ed è rispettabile alla loro età perché chiudersi in un ruolo può cominciare a diventare stretto.

La genesi di Mare Fuori: i riferimenti

            Cristiana Farina Le storie in sé presenti in Mare Fuori non provengono guardando altri prodotti ma la struttura e il genere ovviamente sì: Orange is the New Black, Oz, Vis-a-vis, io ho sempre avuto il pallino del carcere. È un luogo che evidentemente da bambina mi porto dietro. La Rai, ricordo, faceva dei film la mattina tipo di Sabato o di Domenica e io li guardavo tutti e tra questi c’era Sciuscià di De Sica che mi colpì proprio al cuore, perché forse la libertà negata su un bambino era per me l’innocenza violata per antonomasia. Ed è una cosa che mi ha sempre colpito nel profondo proprio perché mi spaventava e in qualche modo la indagavo. E sicuramente il carcere è sempre stato un ambito che mi ha affascinato, quindi me le sono viste tutte quelle serie, dalla prima ora. Detto questo, poi si tratta di serie corali e anche questo è ricorrente in Mare Fuori, però le storie, come dicevo, si sono sviluppate molto autonomamente, anche a livello strutturale, come l’idea dei flashback, dei personaggi, perché noi del reato fondamentalmente non parliamo mai, ne parliamo solo nel flashback dove questi hanno sempre un intento salvifico, cioè cercano in qualche modo di far capire cosa c’è dietro quel reato, e ti fa chiudere alla fine il cerchio su quel dato personaggio che fino a quel momento non avevi ancora inquadrato perfettamente o lo avevi inquadrato in un’altra direzione.

            Un’altra considerazione che non è solita come abitudine seriale è quella di compiere gli archi narrativi, cioè noi abbiamo come regola la seguente: abbiamo chi sbaglia e decide di sbagliare e fa una scelta, compie una scelta e quindi non ha nessuna possibilità di recupero perché non si responsabilizza e per noi chi ha scelto di essere un criminale è già un adulto, non è più un ragazzo ed è una persona che con questa scelta è già al di fuori del nostro raggio. E a quel punto se continui a perpetuare il male non c’è possibilità di salvezza, per cui un Ciro Ricci muore. Se invece c’è qualcosa dentro di te che si è acceso, allora ci lavoriamo e continuiamo su questa direzione. E ci sono stati anche addii, tipo quello di Viola (Serena de Ferrari) che soltanto sul finale noi capiamo chi era e perché. Fino a quel momento era odiatissima Viola perché era un personaggio psicopatico che aveva ucciso senza un motivo comprensibile e che continuava a comportarsi in maniera provocatoria verso tutte e tutti e non provava empatia e, di conseguenza, era un personaggio respingente. Ma io Viola l’ho sempre amata perché l’ho conosciuta e so da dove proveniva quella mancanza di empatia, non perché conoscessi la sua storia ma perché conoscevo lei e quindi avevo accettato questa sua diversità in qualche modo. E proprio perché c’era una diversità diventava per me fonte di interesse, perché tutto quello che non capisco mi appassiona molto di più di quello che invece già conosco. E il finale di Viola per quanto sia straziante è anche in un certo senso rivelatore, proprio in quel momento infatti lei prende coscienza di chi è e che cosa ha fatto.

            La serie è iniziata al maschile perché le storie di entrata sono quelle di Carmine (Massimiliano Caiazzo) e Filippo e, di conseguenza, con loro e con la loro amicizia speculare, entriamo dentro l’IPM e parliamo più che altro al maschile perché loro sono al maschile. Le ragazze sono personaggi sì interessanti ma solo sullo sfondo, diciamo che nella prima stagione sicuramente emerge Naditza. Lei è un vero portento sia come attrice che come personaggio, rompe proprio le righe con la sua vitalità eccessiva che fa saltare tutti gli schemi. Nella prima stagione, dunque, i personaggi femminili erano presenti ma sicuramente le storie portanti erano quelle del maschile.

         Il momento in cui Ciro (Giacomo Giorgio) viene a mancare si avverte la sua mancanza, la proviamo anche noi proprio perché era un antagonista meraviglioso ma noi tuttavia non volevamo fare una storia incentrata soltanto sull’antagonismo e sulle forze camorriste, per cui quando Ciro viene a mancare ci siamo detti: che cosa c’è di meglio se non ricalcare un archetipo che conosciamo tutti, come è quello di Romeo e Giulietta? E perciò abbiamo i Di Salvo contro i Ricci e quindi arriva Rosa (Maria Esposito) che si innamora del Di Salvo, anzi viceversa, è lui che prima ancor di lei mostra interesse perché l’intento di Carmine, molto più consapevole da sempre, è quello di disinnescare questa lotta, questa guerra, questo odio, questa violenza con cui è cresciuto ed è l’origine di tutti i mali. Per cui dice: l’amore è sicuramente la cosa che potrebbe far finire tutto questo, e ci prova disperatamente.

La genesi di Mare Fuori: i processi produttivi e l’importanza dello showrunner

            Cristiana Farina Io non faccio differenze tra serie e fiction, essendo che poi la fiction si basa su diversi generi e sottogeneri che possiamo poi chiamare soap, drama, comedy, comedy-drama, avventura però di fatto sempre di fiction si tratta. Nel senso che nel momento in cui fai recitare qualcuno e scrivi un testo da far recitare diventa una fiction, non è che può essere un’altra cosa. Altro discorso è una docuserie, lì prendi dei ragazzi magari in base a degli archetipi e li metti in una stanza e li fai interagire tra di loro senza uno script di riferimento.

            Per quanto riguarda le serie italiane, in particolare, c’è molto da dire secondo me perché in Italia la vera serialità è trattata in maniera diversa da come si produce nei Paesi che ne hanno fatto un mercato anche redditizio, come negli Stati Uniti, lì è di carattere industriale in qualche modo. Anche quando è autoriale ha dei sistemi di preparazione, produzione e postproduzione che sono dettati da un calendario che rende tutto verificabile e ciascun momento è imputabile ad un ruolo preciso. Un ruolo preciso che ha un compito in un tempo preciso. Qui in Italia, invece, è diverso, nel senso che sembra che ancora oggi si producano le fiction, e quindi le serie TV, con le modalità e un piano di produzione di stampo cinematografico, non seriale. E su questo ci scontriamo anche noi autori perché anche nel caso di Mare Fuori, una serie di cui siamo ovviamente tutti orgogliosi, però di fatto per noi autori a volte è frustrante poiché nel momento in cui tu interrompi la comunicazione perché appunto la produzione non ha questo tipo di impostazione, ed interrompi la comunicazione tra scrittura e regia, tra regia e montaggio, crei un danno perché la continuità di una serie non ce l’ha in mano il regista che non l’ha scritta, non ce l’ha in mano l’attore che improvvisa. Possono avere un ruolo autoriale tutte queste figure ma si deve avere un controllo editoriale dal minuto uno alla fine. Perché infatti esiste in America la figura dello showrunner, del producer creativo, in generale del creatore della serie che è presente in tutti gli step di produzione perché deve controllare la continuità, l’anima. In qualche modo è il termometro della serie, proprio perché ha più stagioni e non è scritta dall’inizio per più stagioni, la direzione la deve avere una persona. E comunque la deve avere la scrittura, perché la scrittura è quel processo che guarda più lontano. Poi l’approfondimento lo può avere in mano in regista, lo può avere in mano l’attore perché magari l’approfondimento del personaggio sicuramente non si può pensare che non sia delegato all’attore, perché l’attore ha una visione solo del suo personaggio e può andare solo che a fondo rispetto alla scrittura, però tutto questo deve essere verificato e valutato da chi ha in mano la scrittura della serie.

E questo non è semplice da attuare in Italia, non è semplice affatto. Io ho avuto fortuna perché in Amiche mie (2008, ndr), un’altra serie che ho fatto ho avuto questo specifico ruolo, in Mare Fuori invece non è stato così, però di fatto tra una cosa e l’altra alla fine siamo riusciti anche con il montaggio a rimettere a pari un po’ di pasticci che erano accaduti durante la fase di registrazione rispetto a quello che era stato scritto. È tutto un po’ più pasticciato, meno codificato. Io ho lavorato con gli inglesi, con gli americani, con gli australiani e non c’è questo margine di sbaglio, non è proprio possibile perché ci sono dei sistemi di verifica che permettono di scrivere e ad andare in onda con uno scarto minimo. Addirittura lì si va in onda con episodi ancor quando si sta scrivendo: ad esempio io sono in onda con l’episodio 4 e sto scrivendo l’episodio 8, per cui riesco anche a cambiare le cose – questo succede in America – in funzione del feedback che mi torna dalla registrazione e anche dal pubblico. È un sistema molto più evoluto di come invece noi lo stiamo intendendo.

La genesi di Mare Fuori: storylines multiple e il confronto con Gomorra     

            Cristiana Farina Ho lavorato a Un posto al sole quando ero una ragazzina, era il 1997 e conosco bene come far ruotare bene più personaggi e più storytelling all’interno di un episodio. Detto questo, il consiglio che posso dare ai giovani scrittori e scrittrici se si hanno diverse linee narrative è scrivere sempre intorno ad un tema. Ad esempio, tutte e tre le storylines dovrebbero ruotare tutte intorno allo stesso tema: se il tema è la vendetta piuttosto che la gelosia, adesso io vi parlo di grandi sentimenti, tutte e tre le storie ruoteranno intorno a questo tema. Per cui pur se non si incrociano, risuonano nel pubblico perché è come se tu costruissi un prisma, ogni faccia ti restituisce una luce dello stesso argomento, un aspetto.             Il confronto con Gomorra può venire molto naturale parlando di Mare Fuori, nonostante non sono assolutamente io a dare le definizioni e a fare paragoni, ma si tratta di storie e di serie molto diverse. Io parlo proprio di tecnica del racconto: Gomorra ha un punto di vista unico, è un punto di vista che non prevede il bene e il male ma prevede solo il male. C’è solo un racconto ed è un racconto senza speranza. L’intento penso di chi l’ha scritto è proprio questo, ossia quello di dire che se prendi quella strada, se fai quello che fanno loro è la fine, non è che ce ne sia un’altra di possibilità. O finisci in galera o finisci ammazzato. Puoi essere ricco per un giorno, per un anno, per dieci anni ma poi alla fine il nodo arriva al pettine e quindi non c’è speranza, è un racconto senza speranza quello di Gomorra. Invece in Mare Fuori i punti di vista ne sono tanti, non ce ne è solo uno, non sono neanche due, sono molti ed è anche contraddittorio molto spesso. Mentre Gomorra è come un Far West, un po’ bidimensionale, anche come regia, come impianto tecnico, è tutto molto bidimensionale, ci sono queste inquadrature molto statiche, tutto molto studiato, precisissimo. È un gran lavoro, io sono una fan di Gomorra. In Mare Fuori, invece, è tutto molto scombinato: è anima, magma, pancia, è una roba più che si ride e si piange. Lo stesso ragazzo che ha compiuto un delitto lo puoi veder piangere perché ha fame o perché non gli va di svegliarsi alle sette di mattina, è un po’ così: è il racconto di un’umanità molto più complessa e che non ha fatto una scelta come in Gomorra ma che si ritrova in prigione per pagare per degli sbagli che ha fatto senza neanche pensarci più di tanto perché è un ragazzino e perché a quell’età si sbaglia e si deve sbagliare perché dagli sbagli si impara…anche se li hanno fatti un po’ grossi

In Sesto Potere

Su The Mandalorian, The Book of Boba Fett e la riscrittura del concetto di spin-off nel panorama trans-mediale contemporaneo

di Giovanni Morese

This Is The Way”

Mai citazione fu più profetica. Parliamo di The Mandalorian, prodotto live-action di punta della piattaforma streaming Disney+ fin dal suo lancio sul mercato internazionale, giunto il 1° marzo al terzo ciclo di programmazione con il rilascio dell’attesissima premiere. Oltre all’indubbia bellezza di un episodio che riporta la qualità in queste storie dopo lo scricchiolante esperimento di Obi Wan Kenobi, ciò che salta immediatamente agli occhi dello spettatore è la conferma di una tendenza rivoluzionaria nella costruzione della lore ultra-quarantennale dell’universo Star Wars. Difatti la puntata, denominata Chapter 17, non figura minimamente come il naturale proseguimento del capitolo precedente. Chi credeva di ritrovarsi dinnanzi allo status quo del finale – andato in onda il 18 dicembre 2020 – che vedeva il Mandaloriano protagonista separarsi apparentemente per sempre dal suo fido amico Grogu, non solo rimarrà sorpreso, bensì anche profondamente perplesso e disorientato. Questo perché la storyline orizzontale della serie è proseguita ed ha anche avuto risvolti narrativi di fondamentale importanza all’interno dello spin-off The Book Of Boba Fett, show andato in onda lo scorso anno, proprio a cavallo tra Season Two e Season Three. La trama, incentrata sul personaggio incontrato per la prima volta in The Empire Strikes Back del 1980 e interpreto sul piccolo schermo da Temuera Morrison a partire dal 2020, ha di fatto riscritto il concetto di serial storytelling, fungendo sia da contenitore delle vicende di questo personaggio che da diretto sequel del Mandaloriano. Se i primi quattro episodi avevano posto quindi le basi per una storia in salsa western focalizzata sui giochi di potere relativi alla gestione del noto pianeta desertico Tatooine da parte del cacciatore di taglie e della mercenaria Fennec Shand, a partire dal quinto non solo ci siamo ritrovati di fronte ad un prodotto totalmente diverso, in cui il protagonista viene da un momento all’altro messo da parte a favore di personaggi che, al massimo, avrebbero dovuto fare un’apparizione crossover in funzione della trama della serie, bensì ad una storia che nel Season Finale non fa assolutamente brillare il suo lead character, a favore di un Grogu deus ex machina che si sostituisce prepotentemente e insensatamente sulla scena. Emblematica anche l’ultima scena, che non vede la presenza di Boba ma del duo della serie principale riuniti per nuove avventure, collegandosi ad un opener episode della terza stagione che evita così di fornire al teleutente un doveroso recap di quanto accaduto ai due all’interno di un prodotto diverso che si dà, quindi, per scontato essere stato seguito. E la situazione non potrà che peggiorare, con le nuove serie tv spin-off Ahsoka e Skleton Crew in arrivo tra questo e il prossimo anno. Che cosa stiamo guardando, quindi? A cosa sta andando incontro esattamente il panorama trans-mediale contemporaneo? Siamo di fronte ad un nuovo format che presto riusciremo a collocare in maniera puntuale all’interno dei complessi e mutevoli linguaggi cine-televisivi? Effettivamente il messaggio della major parla chiaro, considerando anche il caso Marvel di Doctor Strange – In the Multiverse of Madness, film uscito a maggio dello scorso anno e sostanziale sequel non del primo capitolo sul personaggio, bensì della serie televisiva Wanda Vision del 2021, senza la quale la visione di questo prodotto risulta alquanto incomprensibile: questa nuova modalità di interconnessione mediale pare non tener conto della nostra libertà in qualità di fruitori di storie. E così, schiavi di strategie di marketing che ledono la narrativa seriale e cinematografica attraverso la creazione di micro-universi frammentari e mutilati, potremo decidere se impelagarci sempre di più nella visione di percorsi quasi orgogliosamente privi di una loro identità o se, forse in maniera più dignitosa, decidere di premere il tasto play altrove.

In Sesto Potere

Audiolibri: i pro e i contro di questo nuovo modo di fruire la lettura

di Ilaria Orzo

Come abbiamo già potuto vedere, gli audiolibri sono ormai più che diffusi. Nonostante questo, non tutti sono ancora realmente convinti che utilizzarli possa essere vantaggioso. Infatti, sebbene siano sempre di più i lettori che si affidano a piattaforme come Storytell e Audible, per citare le più famose, sono tanti anche quelli che continuano ad accostarsi a questa modalità di lettura con diffidenza e, talvolta, ostilità.

Da che parte sta la ragione? Ovviamente, non può esistere una risposta valida in termini assoluti: le esperienze di lettura sono assolutamente personali e individuali. Possiamo, però, provare a individuare i pro e i contro della “lettura ascoltata” per avere un quadro generale più completo e capire se può fare al caso nostro o no.

Indubbiamente, i vantaggi che si traggono dall’audiolettura sono numerosi e molto significativi.

Per prima cosa, sfruttare gli audiolibri significa ottenere un notevole risparmio da due punti di vista: lo spazio e il denaro. Materialmente parlando, gli audiolibri non sono voluminosi, tutto ciò che occupano è una parte di memoria dello smartphone o tablet, su cui è necessario scaricare l’applicazione associata alla piattaforma. Dunque, non si corre il rischio di ritrovarsi sepolti in casa a furia di comprare libri; siate onesti: sebbene il sogno di tutti i più accaniti lettori sia quello di avere una casa che ricordi anche solo vagamente quella di Umberto Eco, la realtà può essere ben diversa. Ma anche dal punto di vista economico il risparmio è palese: un abbonamento mensile ad una piattaforma per audiolibri ha, in media, il costo di un libro cartaceo in versione economica. Allo stesso prezzo, quindi, si potrà accedere ad un numero infinitamente superiore di titoli: non male.

Ma non è tutto. Gli audiolibri consentono di leggere in qualsiasi momento e in qualsiasi luogo, come si fa quando si ascolta la radio o un album musicale: che ci si trovi a letto, ai fornelli, in auto, sull’autobus, al parco o sotto la doccia, non è importante. Questo punto a favore convince soprattutto i pendolari e coloro che, per un motivo o per un altro, non riescono a fermarsi se non alla fine della giornata, quando ormai sono troppo stanchi per leggere e possono dire addio ai libri abbandonati per mesi e mesi sul comodino prima di essere conclusi.

C’è poi un vantaggio assai pratico. Quando si hanno uno spazio limitato a disposizione e un portafoglio con cui dover fare i conti, si è costretti a scegliere quali volumi acquistare e quali no. Potendo accedere a una libreria virtuale molto vasta e potendolo fare ad un costo fisso, invece, ci si può concedere di ascoltare anche quei libri che sappiamo destinati a non stravolgere i nostri interessi e non avranno un posto speciale nel nostro cuore, ma che comunque suscitano la nostra curiosità: l’abbonamento è comunque pagato, tanto vale approfittarne.

L’ultimo vantaggio che abbiamo individuato, invece, colpirà sicuramente i lettori più romantici e sognatori. Se è vero che c’è un libro giusto per ogni umore e ogni situazione, infatti, è anche vero che non è possibile avere la propria libreria fisicamente sempre con sé e, quindi, ci sono delle situazioni in cui la lettura da fare potrebbe rivelarsi obbligata e, per questo, poco piacevole e partecipata. Pensiamo, ad esempio, ad un viaggio: la scelta delle letture da portare con sé viene fatta con anticipo, ma chi ci assicura che i libri che al momento del fare la valigia ci sembrano interessanti e adatti siano gli stessi che vorremo leggere anche una volta giunti a destinazione? Certo, si può sempre correre ai ripari provando a raggiungere una libreria e comprando qualcosa di nuovo, ma non è detto che questo sia possibile. Sfruttando gli audiolibri, invece, il problema non si pone: basterà sfogliare il catalogo e scegliere la lettura che ispira il momento, senza neanche il rammarico di aver occupato invano spazio in valigia.

Insomma, i punti a favore sono davvero tanti e tutti molto importanti. Ma, se qualcuno non è ancora del tutto convinto, un motivo forse c’è. Anzi, più di un motivo.

I primi “contro” individuati sono di carattere pratico. Innanzitutto, bisogna tenere conto del fatto che il telefonino e il tablet possono scaricarsi in qualsiasi momento, e non è detto che si sia nelle condizioni di poter ricaricare il dispositivo; in quel caso, si dovrebbe forzatamente interrompere la lettura in ascolto, magari proprio sul più bello. Un libro cartaceo, invece, è sempre pronto all’uso.

Inoltre, mentre con un volume tra le mani è semplice ritrovare l’eventuale segno perso o una frase che ha colpito particolarmente, con un audiolibro è un qualcosa di meno immediato; non impossibile, certo, ma meno immediato. Anche rimandando indietro l’audio, infatti, ci potrebbe volere un po’ di tempo prima di individuare il punto esatto che si sta cercando: questo significa che la soglia dell’attenzione durante l’ascolto deve essere sempre alta.

Le altre perplessità, invece, sono più “romantiche” e legate al valore che l’esperienza della lettura ha per ciascun individuo.

Un audiolibro non permette di sottolineare le citazioni più belle e i passaggi che si ritengono più significativi. Tra i lettori, quella della sottolineatura è una pratica molto comune e spontanea, l’espressione di un legame con il libro che si ha tra le mani e del processo di empatia. E questa, per qualcuno, è una pecca da non poter ignorare.

Altri, invece, puntano il dito contro l’influenza che si può subire concentrandosi sul tono di voce del lettore. Chi legge il libro conosce già la storia che sta per raccontare e, dunque, adegua il tono di voce non solo al personaggio che interpreta, ma anche ai fatti narrati. Questo, sebbene aiuti a sentirsi coinvolti, a volte può fungere da rivelazione circa ciò che sta per accadere: un tono di voce che diventa improvvisamente più grave, ad esempio, non lascia presagire nulla di buono. Insomma, più che una lettura, ci si sente quasi di fronte ad film di cui si può ascoltare solo l’audio.

Infine, quello di cui i lettori più incalliti sentono più la mancanza quando approcciano agli audiolibri è la possibilità di vivere in prima persona i loro amici più preziosi: l’odore della carta, la delicatezza delle pagine a contatto con i polpastrelli, il vedere i volumi posizionati l’uno accanto all’altro in quell’ordine che si è scelto con tanta cura e quella sensazione di sicurezza che riescono a trasmettere sanno essere insostituibili.

Come dicevamo all’inizio, è impossibile schierarsi da una parte o dall’altra: tutte le motivazioni per apprezzare o disdegnare gli audiolibri sono valide e assolutamente soggettive, proprio perché soggettiva è l’esperienza della lettura. E, comunque, è bene tenere a mente che una cosa non esclude l’altra: i cartacei e gli audiolibri possono essere alternati in base alle necessità e alle voglie del momento, nessuno ci obbliga a fare una scelta. L’importante è leggere, in qualsiasi modo si preferisca farlo.

In Sesto Potere

Siamo ancora nazionalpopolari (ma Gramsci non c’entra: c’entra Pippo Baudo) – II e ultima parte

di Antonio R. Daniele

Con gli ultimi mondiali Mamma Rai ha tentato di giocarsi il jolly, anzi due, e ha portato al microfono e dietro le telecamere due prodotti eccentrici rispetto alla tradizione, nella persuasione – evidentemente – che ormai il racconto del calcio debba andare in una certa direzione. Ed ecco Daniele Adani e la BoboTV, il primo portabandiera della narrazione da bar sport (per quanto mescolata a un atteggiamento da nerd della materia), la seconda frutto dell’autogestione nella giungla della rete che, come tutte le giungle, ha la propria scimmia urlatrice e sulla quale parole non ci appulcro. Quanto ad Adani, invece, è accaduto qualcosa di strano, ma fino a un certo punto: l’Italia calcistica e non solo lo ha messo sotto processo, rimproverandogli il fanatismo del calcio sudamericano, soprattutto quello di lingua ispanica, nell’incrocio tra Argentina e Uruguay. Il neopaganesimo adanico – lo sappiamo – si traduce nella commossa idolatria per Messi e per tutto quel che con lui ha a che fare. Più estesamente, con tutto ciò che viene dall’altezza cosmogonica del Rio de la Plata. E così, ad ogni alito platense, si udiva al microfono il ruggito del nostro eroe, nelle pasticciate (e spesso inventate) catene semantiche di una millantata e improbabilissima cultura argentino-uruguaiana (“uruguagia!”, mi rimbrotterebbe Danielito da Correggio, dall’alto del suo culatello della Pampa). E, per quella approssimazione che solo i governativi della tv sanno avere, gli strepiti virulenti e naïf di Adani sono stati accostati alla sobrietà asburgica del bolzanino Bizzotto, il quale ha dovuto sacrificare la sua notevole competenza nell’arte della telecronaca per non apparire troppo fuori luogo rispetto ai fragori di Adani che intanto latrava dalla sua cabina-barrio. Dopo le prime telecronache, è scoppiata la polemica: Adani è inascoltabile, è troppo “tifoso”; è inaccettabile che faccia telecronache sulla rete di Stato, ha sentenziato il popolo del web, tra un post e l’altro. Cosa davvero curiosa, a pensarci. Prima di tutto perché l’Adani che i nostri timpani hanno udito nelle settimane passate è lo stesso Adani che ha imperversato su Sky per anni e anni; in secondo luogo perché il popolo del web – che si presume non avere l’età media di coloro che sono nati alla tv con Pippo Baudo e Mike Bongiorno – non solo dovrebbe conoscere i vezzi di certi commentatori, ma con buona probabilità ha un abbonamento a una delle piattaforme dello sport a pagamento. Dunque, da dove vengono tanta meraviglia e tanta insofferenza?

Forse il popolo del web non è poi così piegato alle regole dell’odierno calcio mediatico e, magari, nonostante la passione, dovendo scegliere preferisce comprare un maglione in più ai propri figli che pagare per vedere pettinatissimi damerini appresso a un pallone; forse c’è chi pensa che quel che vale in un contesto non possa o non debba valere in un altro e si reagisce come con l’amico compagnone che in casa di estranei condivide le stesse gag che usa con i suoi amici di sempre: scatta la gelosia e se ne parla male. Forse c’è ancora una discreta fetta di pubblico legata alla tv di Pippo Baudo o cresciuta sulla base di certi fenomeni culturali: sono quelli che passano più tempo davanti al teleschermo, che affondano col corpo nella poltrona e cercano il telecomando che si è andato a infilare tra il cuscino e la mantella. Ed è accaduto che una delle più note voci del commento tecnico italiano – a torto o a ragione –, uno dei nomi mediaticamente più sfruttati e celebrati, è stato ripudiato dal pubblico della tv in chiaro, che è ancora quello che genera “l’opinione pubblica”, perché non è volatile e liquido come quello che paga gli abbonamenti o smanetta in rete. Il pubblico dei ballerini sotto le stelle e delle cronache in diretta, degli “accendiamo”, dei pacchi, doppi pacchi e delle ghigliottine è ancora vasto. Ed è ancora quello che decreta i destini di dirigenti e direttori di rete. E non è bastato il clamore sorto attorno a certe telecronache per far sì che le ragioni del richiamo reclamistico (“chissà cosa dirà Adani in finale commentando Messi”, si chiedevano in molti) avessero la meglio sul profilo dell’azienda e sugli accordi fatti a monte: nessuno se l’è sentita di negare ad Alberto Rimedio e Antonio Di Gennaro la telecronaca della finale per promuovere i ringhiosi rintroni di Adani, specie dopo che i due dovettero dare forfait per quella degli europei, vittime del Covid proprio alla vigilia. Certo, altrove se ne sarebbero infischiati. Anzi, altrove Rimedio e Di Gennaro non potrebbero sperare di commentare nemmeno la finale di un torneo di scopetta. Non ce ne vogliano: Adani è certamente improponibile nelle sue arringhe calienti ad ogni mossetta di Messi, ma la coppia di punta della Rai è coinvolgente quanto due cacciatori di iceberg. Sta di fatto che certi fenomeni non sfondano sulla tv di Stato, dove va ancora molto di moda il “popolare” inteso esattamente come quello che Enrico Manca credette di rimproverare agli italiani più di trent’anni fa, quando si lamentava del fatto che amassero Baudo e la Carrà. Chiamò “nazionalpopolare” quel fenomeno (scatenando le ire del presentatore siciliano) e qualcuno pensò a Gramsci, a finissime analisi di ordine socio-storico. No: era solo la constatazione che la fiamma resta più facilmente accesa quando è lenta ma costante, piuttosto che alta e guizzante. Che il modello Baudo tira ancora più di Adani: appiattire, modellare, livellare su comode certezze, rassicuranti come una balia. In barba a tutte le garre charrue e a tutti i cammelli dribblati nel deserto.

(qui la I parte: https://www.letterazero.it/siamo-ancora-nazionalpopolari-ma-gramsci-non-centra-centra-pippo-baudo/

In Sesto Potere

Siamo ancora nazionalpopolari (ma Gramsci non c’entra: c’entra Pippo Baudo) – I parte –

di Antonio R. Daniele

Mentre al cospetto di un emiro sbalordito non più che compiaciuto Emiliano Martínez compiva le sue prodezze priapee (Mérimée diceva che “la storia, come un idiota, meccanicamente si ripete”: ecco, se Messi è il predestinato come Maradona, di questa massima il portiere argentino è solo l’idiota), pensavo che quasi trent’anni di tentata rivoluzione mediatica, di sconvolgimenti televisivi, di albe di nuovi giorni, in Italia non sono serviti a nulla: dalle nostre parti è ancora la terna poltrona-pantofola-telecomando a dettare legge. E il telecomando che va per la maggiore è ancora quello cantato da Arbore molti anni fa. Il “popolare” sta ancora lì: tra il telegiornale e il quiz. E tutto quello che prova a mettersi in mezzo finisce come nelle crisi di rigetto di una operazione chirurgica mal riuscita. I recenti mondiali televisivi Rai ne sono stati l’ultima e, forse, definitiva conferma (per inciso, avrete notato che, quando l’Italia non si qualifica, Mamma Rai ci offre il pacchetto intero; altrimenti un malloppetto di partite scelte, chiaramente le più noiose, tra le quali quelle della Nazionale. Tuttavia, c’è di buono che, con questi chiari di luna, possiamo legittimamente sperare nella All Inclusive anche per il 2026). Siamo televisivamente conservativi, anzi retrogradi. E lo siamo con un certo grado di orgogliosa fierezza. Quando nella primavera del 2012 il Digitale Terrestre si spalmò su tutto il territorio nazionale, completammo il celebre “switch-off” con soddisfatto slancio tecnologico: mai più interferenze, una offerta molto più ampia, un palinsesto infinito. Soprattutto, giungeva la grande novità del canale tematico: chi ama il cinema avrà i suoi canali, chi ha bimbi in casa (anche di 40 anni) ne avrà altri e i fanatici dello sport potranno passare 24 ore al giorno su spazi televisivi appositamente dedicati. E così la Rai, che misurava il polso del Paese e sapeva che siamo un popolo di poeti, di navigatori, di santi, di eroi ma anche di lettori della Gazzetta dello Sport che fingono di leggere Proust, aprì non uno ma due canali per lo sport, al 57 e al 58 del Digitale Terrestre. E sembrò a tutti l’inizio di un’altra era: finalmente coloro che consideravano una seccatura dover aspettare un film, un varietà, un quiz, le previsioni del tempo e il telegiornale prima di vedere il grande evento sportivo avevano non uno ma addirittura due canali sui quali la nostra tv di Stato ci avrebbe garantito tutto lo sport in diretta e in chiaro. Quello che vedevamo a spizzichi e bocconi tra un canale e l’altro, quello che intercettavamo tra le pieghe del palinsesto stantio della vecchia tv generalista sarebbe stato spazzato via dalla mirabolante offerta televisiva del 57 e del 58. Ebbene, a dieci anni di distanza si può dire che la rivoluzione è stata mancata. Del tutto. E non soltanto perché coloro che ingenuamente credevano che il 57 e il 58 sarebbero stati il faro di fatti sportivi destinati ad entrare nella storia hanno ben presto capito che la maggior parte del palinsesto sarebbe stato occupato dal curling, dal biliardo (nelle funamboliche varianti della carambola o del pool o dello snooker) e dalle repliche della Domenica Sportiva dei tempi di Alfredo Pigna, ma anche perché gli eventi di maggior richiamo avrebbero riguardato al massimo il calcio della serie C e, quando andava di lusso, un po’ di pallavolo e di pallacanestro. E soprattutto, perché i dati Auditel dicevano che gli italiani non si abituavano e non si volevano abituare al criterio del canale tematico, che riscuoteva un successo modesto, tanto che un paio di anni fa Rai Storia, Rai Movie e Rai Premium hanno rischiato il taglio. Quanto allo sport, lo scarso appeal dei nuovi canali ha riguardato non soltanto il tempo, diciamo così, “ordinario”, ma anche le occasioni dei grandi appuntamenti sportivi. Da quando esiste il DT, abbiamo avuto – solo per restare al calcio – tre campionati del mondo e tre campionati europei: nessuno di essi è stato trasmesso sui canali tematici. La Rai ha preferito offrirli sulle reti ammiraglie/generaliste. O, forse, col tempo ha compreso che i suoi utenti più fedeli, quelli che garantiscono gli ascolti e, quindi, gli inserzionisti che pagano meglio, non stanno sul 57 e sul 58, ma ancora sul “primo” e sul “secondo”. E anche un po’ sul “terzo”. Col risultato, però, che con gli anni Rai Sport 2 è diventato il canale SD rispetto all’altro, passato in alta definizione, fin quando è servito soltanto come riempitivo, per repliche di repliche o per il freestyle e il ciclocross (con tutto il rispetto che si deve, non proprio eventi di portata mondiale) e ora non esiste più: nel piano di riorganizzazione, l’azienda ha dovuto alzare bandiera bianca e riconoscere che quei due canali tematici per lo sport, nati dal convincimento di poter sollecitare la passionaccia degli italiani, creduti esperti di pallone come di polo e di cricket, erano troppi ed erano una spesa inutile. Per cui ora ne abbiamo uno solo che, nel momento in cui scrivo (e da stamattina), sta trasmettendo in esclusiva le repliche del mondiale senza soluzione di continuità. Naturalmente in tutto questo hanno pesato trent’anni di pay tv, da Tele+ a Sky a Dazn, che hanno inciso sia sulle dinamiche di fruizione dello sport più popolare sia sulla sua narrazione. Hanno inciso anche su alcune abitudini degli italiani che parevano eterne: se oggi un ventenne non sa e non è in grado nemmeno di immaginare cosa sia stato il Totocalcio e la “schedina”, cosa volesse dire “montepremi” e fare un “tredici”, lo si deve al fatto che i diritti televisivi ci hanno privato di uno dei cardini della storia mediatica del nostro calcio, ossia la simultaneità dell’intera giornata di campionato. Il 29 agosto del 1993 il primo posticipo ci parve un po’ una bestemmia, un po’ un fenomeno destinato a non durare e al massimo la concessione fatta dalla intoccabile domenica pomeriggio. Fu, invece, uno scisma. Perché a quel primo dogma infranto seguirono molti altri fino alla situazione attuale in cui praticamente si gioca tutti i giorni e a tutti gli orari tranne la domenica pomeriggio. Così il Totocalcio, che fondava la sua fortuna sulla possibilità di incolonnare 13 pronostici esatti fino al sabato sera e all’ultima ricevitoria aperta, è affogato nello spezzatino delle piattaforme. E sono sparite (o sono in forte declino o si sono dovute “ripensare” se non proprio rivoluzionare) anche storiche trasmissioni. “Quelli che il calcio” ha resistito finché ha potuto: già molto cambiata rispetto alla rutilante versione di Fazio (indubbiamente la migliore) e passata a essere un varietà in cui il calcio era un pretesto (ma in cui il calcio esisteva ancora), è diventato un programma non più collocabile nel palinsesto perché anche quel minimo pretesto (almeno tre o quattro partite in programma la domenica pomeriggio) è venuto meno. “90° minuto” da tempo non è più il programma che dava le prime immagini e le prime trepidazioni agli italiani. Anche Mediaset ha dovuto rinunciare alla simpatica “corrida” di Piccinini e Mughini perché ben presto non ha avuto più senso allestire un salotto per parlare di partite giocate tre giorni prima e sulle quali avevano già detto tutto Caressa e i suoi accoliti, con giacca e senza giacca. E poi Mangiante, Trevisani, Marchegiani, Adani. E tutta la corte dei miracoli dei “Dilettanti” Dazn (intesi come Diletta e i suoi colleghi, ça va sans dire…), tra una storia e un reel.

(qui la II parte: https://www.letterazero.it/siamo-ancora-nazionalpopolari-ma-gramsci-non-centra-centra-pippo-baudo-ii-e-ultima-parte/)

In Balloon

Lo strano caso dell’invisibilità dello scrittore di fumetti: “L’Uomo con la faccia in ombra” – Tito Faraci (Feltrinelli Comics, 2022)

di Umberto Mentana

Era il 1983 quando Alfredo Castelli, dominus per eccellenza del fumetto seriale italiano portava in stampa con la collaborazione di Gianni Bono e Silver – il “papà” di Lupo Alberto – un agile manualetto intitolato emblematicamente Come si diventa autore di fumetti, allegato alla storica rivista Eureka della Editoriale Corno. In quelle snelle ma intense circa sessanta pagine veniva per la prima volta messo in chiaro un concetto che sembrava e tuttora sembra essere scontato ma che ancora non riesce a fare breccia nel lettore-fumettaro: dietro ad ogni storia a fumetti c’è qualcuno che scrive e sceneggia una storia, e non per forza questo qualcuno (o qualcuna) è capace o semplicemente non vuole e non è suo compito disegnarla! Castelli, onnivoro sceneggiatore e soggettista delle testate più note del fumetto seriale italiano, da Martin Mystére a tantissimi altri, non per ultimo Diabolik – di sua firma è infatti l’idea di base dell’inedita “trilogia” sceneggiata da Tito Faraci di cui è protagonista il “Re del Terrore” conclusasi proprio questo Novembre in occasione del sessantesimo compleanno del personaggio creato da Angela e Luciana Giussani –, nel suo libriccino dedicava finalmente spazio alla figura e al ruolo dello “scrittore per immagini”, anzi per vignette, cosa mai accaduta prima di allora nel panorama culturale italiano, arrivando appunto anche a proporre come trasformare un soggetto puramente letterario in un testo “atto ad essere illustrato”. Dicevo, ne sono passati decenni, e la lezione di Castelli-Bono-Silver, nonostante abbia aperto più di una porta è purtroppo tutt’oggi ancora per lo più confinata agli addetti ai lavori, ed è invece per riflesso lo stereotipo che vige e domina il microuniverso fumettistico: “Come dici, scrivi fumetti? Quindi sai disegnare!”, siamo ancora ben fissati a questo punto, anche se qualcosa si muove almeno per quanto riguarda la considerazione del fumetto su scala nazionale. Fenomeni letterari come Zero Calcare, Gipi, Fumetti Brutti e la triste nomenclatura che è stata affibbiata loro di “autori completi”, visto che sia scrivono che disegnano le loro storie (come se i “soli” disegnatori o sceneggiatori non fossero completati a loro volta) hanno per certi versi scardinato nel nostro territorio tanto indisponente sul fumetto quel sistema di analisi del medium fumettistico come letteratura di serie B –  roba che in Francia sarebbe impensabile, vista l’alta considerazione che ha sempre avuto la bande dessinnée – proprio per i contenuti profondi e stimolanti delle loro storie e assecondando l’assurdo compromesso della tanto dibattuta dicitura “Graphic Novel” per i loro libri, tanto comoda al mercato editoriale ma che sempre fumetto rimane (ricordatelo!). Perlomeno  oggigiorno non c’è libreria italiana che non abbia una sezione fumetto, nonostante siamo tradizionalmente il Paese di geni artistici riconosciuti unanimemente come Andrea Pazienza, Magnus, Milo Manara, Hugo Pratt; è decisamente un passo in avanti per quanto riguarda la divulgazione della Nona Arte ma il lettore è ancora lì, a dibattere che non ci può essere una figura professionale che si occupa solamente di scrivere la storia e di “metterla in scena” per poi consegnarla al disegnatore o alla disegnatrice di turno.

            Tito Faraci è sicuramente uno dei nomi più noti se parliamo di scrittura nell’ambito del fumetto, è un autore camaleontico, ci continua a portare quasi ogni mesi da ormai qualche decennio in universi su carta molto differenti tra loro, in storie ugualmente accattivanti che hanno in comune, solo apparentemente dietro le quinte, la firma de L’uomo con la faccia in ombra. Ed è infatti proprio questo il titolo dell’ultimo lavoro di Faraci per, possiamo definirla una major (aggiungo, finalmente!) Feltrinelli Comics, collana da lui stesso curata, e questa volta non è un fumetto ma qualcosa di meglio: è la posizione perfetta da cui spiare e osservare come effettivamente si fa un fumetto, ovvero come si scrive una storia per la Nona Arte, posizionando finalmente al centro e non più in “ombra” lo sceneggiatore di fumetti. Faraci è abile ed è un appassionante insegnante non restio a svelare i segreti del suo “metodo” di scrittura, ci racconta come delineare tutti gli aspetti della stesura di una storia per immagini in particolare per il fumetto seriale, dalla “forma” archetipica e anatomica alle definizioni e alle componenti di una visual grammar di base, così passando in rassegna la scelta delle inquadrature, la “recitazione” dei personaggi e consigli direttamente maturati da casa Diabolik, Dylan Dog, Tex e Topolino non mancando di presentarci integralmente alcune delle sue pagine di sceneggiatura. Il libro, accompagnandosi con le efficaci illustrazioni di Paolo Castaldi è una miscellanea, è un manuale e anche un’autobiografia dove l’esperienza non solo professionale ma anche interamente umana di Luca “Tito” Faraci si riflette nel suo metodo, nel suo sentire carnalmente quelle storie che noi tutti amiamo tanto leggere come ci racconta nell’incipit del libro: “Faccio fumetti per vivere. Mi piace dirlo. Non lo trovo svilente. Perché dovrebbe? Significa affermare un rapporto di intimità e necessità con il fumetto”, e noi tutti siamo grati a Tito per aver finalmente sviscerato con questo libro tramite tutte le sue sensibilità l’importanza dello sceneggiatore di fumetti…perché un fumetto non lo realizza solo chi sa disegnare, anzi!

Tito Faraci

L’uomo con la faccia in ombra

Feltrinelli Comics, 2022, pp. 224

In mdp

SPECIALE HALLOWEEN. TIM BURTON presenta al Lucca Comics & Games 2022 in anteprima europea la serie TV Mercoledì.

di Umberto Mentana

Quale migliore occasione se non la Notte di Halloween per chiacchierare con l’esponente forse più emblematico della notte più misteriosa dell’anno, ossia Tim Burton?

In occasione del Lucca Comics & Games 2022 il regista de Il mistero di Sleepy Hollow, Batman, La sposa cadavere, Edward Mani di Forbice ha presentato in anteprima europea la serie TV Mercoledì, un progetto ambizioso in otto episodi incentrati sull’iconica Famiglia Addams e in particolare sulla primogenita Mercoledì. Lo show sarà disponibile a partire dal 23 Novembre sulla piattaforma Video On-Demand Netflix.

Domanda: Il personaggio di Mercoledì Addams è al centro di una famiglia, questa serie la possiamo considerare una mystery con toni investigativi che ripercorre gli anni

di Mercoledì come studentessa all’interno della Nevermore Academy.

Quindi, Tim, come sei arrivato a lavorare su Mercoledì?

Tim Burton: Io sono cresciuto guardando la serie tv della Famiglia Addams anche se in realtà sono partito dai fumetti, sono a prescindere sempre stato un grande fan di questa famiglia.

Devo dire che Mercoledì è sempre stato il personaggio che mi ha interessato di più perché io mi sono sempre sentito come Mercoledì fin da quando ero ragazzino, sin da quando ero adolescente.

Sono un ragazzo ma sicuramente avrei potuto benissimo essere lei, condividiamo lo stesso punto di vista in “bianco e nero”, direi.

Lei in passato è stata sempre stata rappresentata come una bambina ma mi è sempre piaciuto sapere come poteva essere a scuola, come avrebbe potuto reagire alla propria famiglia, agli insegnanti…e da lì è partito il progetto.

D: Cosa pensi che renda la Famiglia Addams così amata ancora oggi? Perché dopo così tanti anni è ancora attuale?

T.B.: Io credo perché loro sono per definizione la weird family.

Nella realtà la maggior parte delle famiglie o almeno alcuni componenti che ne fanno parte sono propri di questa categoria. E quindi, in un certo senso, nella Famiglia Addams loro ci vedono un modo per identificarsi,fondamentalmente è questa la ragione del suo successo.

La maggior parte dei ragazzini che conosco si sentono imbarazzati dai propri genitori…immaginate avere Morticia come madre, che imbarazzo!

D: Come pensi che Jenna (Jenna Ortega, l’attrice che interpreta Mercoledì nella serie TV, ndr)abbia contribuito a dare vita a questa Mercoledì? Perché la sua è diversa da tutte le altre.

T.B.: Assolutamente vero, Mercoledì è un personaggio iconico.

Quindi era molto difficile trovare un’attrice che lo potesse interpretare, senza Jenna per me non ci sarebbe stata la serie perchè non era assolutamente facile trovare chi potesse impersonarla in quella maniera. È vero sono i suoi occhi, moltissimo, bellissimi e la sua forza di carattere a darle quel tono

perché Mercoledì è un personaggio forte, ed è quello di cui aveva bisogno per il nostro personaggio.

Il lavoro che Jenna ha dovuto fare fare è stato quello di trasferire, trasmettere questo personaggio in bianco e nero che però qui e lì lascia intravedere qualche sfumatura di un qualsivoglia lato umano senza tradire quel nucleo fondamentale insito in Mercoledì.

D: Per Mercoledì i social sono un buco nero di gratificazioni mentre per Enid (Emma Myers), la compagna di stanza di Mercoledì, è completamente diverso.

Mercoledì usa macchina da scrivere e violoncello, per Enid le emoji servono a trasmettere le emozioni che non sa esprimere. Si dice che Mercoledì esprime la tua visione del mondo, tramite lei vediamo anche quello che Tim Burton pensa. Cosa pensi quindi del rapporto tra i social e il mondo reale?

T.B.: Per quello che mi riguarda io ho paura di internet e ovviamente ogni volta che navigo su internet per cercare qualcosa mi ritrovo in qualche buco nero e qualche video strano di gatti.

Sicuramente in partenza queste cose erano pensate per fare qualcosa di bello, di fare del bene, ma poi finiscono per utilizzate per qualcosa di male.

Naturalmente io sono un po’ come Mercoledì, condivido il suo modo di pensare al mondo.

D: Ci puoi raccontare come il personaggio Mano è stato realizzato per lo schermo?

T.B.: Essendo un personaggio particolare gli volevo conferire una vita anche un po’ più ampia rispetto alle versioni precedenti, dargli un’esperienza più vissuta.

Il personaggio mi piaceva comunque anche nelle versioni precedenti, aveva quell’aspetto di vecchi film dell’orrore, io però gli ho voluto dare anche un passato che fosse abbastanza particolare.

La possiamo definire il Dustin Hoffman delle mani.

D: Con Mercoledì tu ci racconti come anche in passato hai fatto in molti dei tuoi film, di aspetti quali l’emarginazione, il sentirsi non accettati, di essere degli outkast. Vuoi per difetti fisici, psicologici, sociali. Ce ne parli in relazione al personaggio di Mercoledì?

T.B.: Capisco benissimo questo tema avendo avuto problemi di salute mentale per metà della mia vita. Ed è ovviamente questo perché amo il personaggio di Mercoledì, mi identifico con lei.

Lei è fonte di ispirazione, è sempre molto chiara, dice quello che pensa, quello che prova.

A volte però questo ti mette nei guai nei confronti degli altri ma lei è un simbolo, è simbolica per  tutto questo. Lei ha anche quella forza semplice e silenziosa che trovo molto importante.

D: Nella scuola, la Nevermore Academy tu racconti che l’hanno frequentata importanti figure storiche, come Edgar Allan Poe. Quali altre figure storiche immagini che abbiano frequentato o insegnato in questa scuola?

T.B.: Devo dire che questo è uno dei motivi perché la serie mi piace ed è buffo, Mercoledì lei va in una scuola per reietti e si sente una reietta tra i reietti. Ed è quello che io ho provato e sentito per tutta la mia vita nei confronti della scuola, dei genitori e degli altri. È il motivo perchè lei fondamentalmente mi piace.

D: Anche per Mercoledì si è rinnovato il sodalizio artistico con Denny Elfman. Come avete lavorato sul tema musicale forse più celebre della storia della TV?

T.B.: Io e Danny siamo amici da una vita, abbiamo entrambi un passato lungo di collaborazioni.

E questo perché condividiamo gli stessi gusti, amiamo gli stessi film, abbiamo un rapporto molto stretto in questo senso ed è molto facile lavorare con lui proprio per queste ragioni, peraltro io lo considero come un altro personaggio del film, come un attore, lo tratto come tale perché secondo me la musica è un altro personaggio nei film.

Ed è stato fantastico che lui abbia accettato di lavorare e di scrivere le musiche per questo nuovo lavoro, lui è ritornato ad essere una rockstar ed è stato bello che abbia trovato del tempo da dedicare a Mercoledì.

D: I costumi di Colleen Atwood svolgono come le musiche di Danny Elfman un ruolo fondamentale per contrassegnare e caratterizzare i personaggi. Ce ne parli?

T.B.: Allo stesso modo, la collaborazione con Colleen è stata una partnership che va avanti da tantissimi anni, abbiamo collaborato insieme per tantissime produzioni, tantissimi film.

Ed è stata importante la sua visione perché Mercoledì aveva un solo look ed era importante trovare uno stratagemma per conferirle look diversi pur distinguendola da tutti gli altri studenti della Nevermore dove anche loro hanno un aspetto da “diversi” che li distingue dagli altri ragazzi in generale. Per me è fondamentale che sia visibile il mondo, questo mondo e che risulti diverso rispetto agli altri a prescindere da quello che è.

D: Se c’è stata, quali sono state le difficoltà di affrontare una serie ad episodi? Il cinema rimane sempre il suo vero amore oppure affronterà nuovamente la serialità in futuro?

T.B.: Lavorare ad una serie televisiva significa lavorare ad un ritmo diverso, una specie di cottura un po’ più lenta rispetto ad un film ma il Cinema continua a rimanere ovviamente il mio primo amore e credo che comunque  oggigiorno ci sia ancora spazio per i film, per il Cinema.

D: Il regista in una serie tv è come un ammiraglio di una flotta perché come sappiamo anche in Mercoledì c’è stata una vera e propria collaborazione anche con altri registi per co-creare il prodotto (Tim Burton ha diretto 4 episodi su 8 dell’intera stagione, ndr). Come è stato per Tim Burton il rapporto con gli altri registi per mantenere consistenza e visione?

T.B.:Intanto, l’ho trovato interessante a prescindere da quello che è e si fa, io ho assoluto rispetto per le altre persone, conosco questo tipo di lavoro e so la fatica che c’è dietro.

È stata una sensazione molto bella, molto positiva perché noi ideatori abbiamo stabilito in un certo senso qual era il tono poi gli altri registi lo hanno ripreso, lo hanno rielaborato in base al proprio stile, hanno fatto la regia a modo loro però hanno seguito in un certo senso questo tono.

Io lo trovo estremamente importante poiché io traggo ispirazione dagli altri, è un dare e avere, io do qualcosa e questo qualcosa poi ti ritorna indietro. Quindi sei tu una fonte di ispirazione e gli altri lo sono per te.

La realizzazione di una serie, così come la realizzazione di un film, è sempre composta da una famiglia un po’ strana, magari nella TV ha delle caratteristiche un po’ diverse ma non sono dissimili come lavori.

D: Qual è il segno, l’eredità che ti hanno lasciato i comic books? E se ci sono quali sono

quelli che hai amato di più?

T.B.: Ho fatto Batman quindi ad un certo punto qualche comic book devo averlo letto e incontrato.

Tra parentesi io disegno, amo disegnare e amo tutto quello che ha a che vedere con l’arte.

Da ragazzino ho sempre avuto problemi nel leggere le didascalie nei comics perché non so mai a quale riquadro, a quale disegno si riferisce. Comunque il disegno, questo tipo d’arte la trovo fantastica ed è questo il motivo perché è bellissimo essere qui.

In Sesto Potere

Audiolibri: nascita, sviluppo e fortuna della lettura da ascoltare

di Ilaria Orzo

È ormai qualche anno che gli audiolibri sono ufficialmente entrati nel quotidiano dei lettori: questo nuovo modo di fruire il testo scritto prevede la lettura ad alta voce da parte di uno o più speakers oppure tramite un motore di sintesi vocale. I software più evoluti permettono di usufruire anche dei Digital Talking Book: in questo caso, l’audio viene sincronizzato al testo, permettendo di leggere e ascoltare in contemporanea.

Il termine audiolibro fu riconosciuto ufficialmente nel 1994 dall’Audio Publishers Association, l’organizzazione statunitense nata senza scopo di lucro a difesa dei diritti di questa nuova forma di lettura nel 1986.

Al giorno d’oggi, numerose sono le piattaforme che ci consentono di scaricare il libro in formato mp3 e ascoltarlo come fosse un podcast o una canzone in qualsiasi situazione: durante le faccende domestiche, in macchina, sull’autobus e persino sotto la doccia.

Ma siamo sicuri si possa parlare davvero di “nuovo modo di fruire il testo scritto”? Perché, in realtà, gli audiolibri hanno circa un secolo e mezzo di vita.

Era il 1877 quando Thomas Edison mise a punto i primi esperimenti di registrazione sui cilindri fonografici; il suo scopo era quello di rendere la lettura possibile anche per i ciechi. La sua prima prova consistette nel registrare un pezzo della filastrocca Mary had a little lamb, molto conosciuta in America. Vent’anni dopo, nel 1897, lo scrittore statunitensse Sylvanus Stall incise su dei cilindri fonografici What a Young Boy Ought to Know, il suo più grande best seller: l’esperimento ebbe grande successo.

Il più grande limite della registrazione su cilindri fonografici, però, riguardava la durata: ogni cilindro poteva supportare solo pochi minuti di audio. Le prime tracce audio erano lunghe circa 4-6 minuti e si riuscì ad arrivare a non più di 20 minuti.

Negli anni Trenta del Novecento, l’American Foundation for the Blind istituì il Talking Books Program, allo scopo di aiutare nella lettura non solo i ciechi, ma anche i feriti di guerra. Il catalogo comprendeva le opere di Shakespeare e alcuni tra i più grandi successi letterari americani dell’epoca; le registrazioni erano fatte sui dischi in vinile, che nel frattempo avevano fatto il loro ingresso nel panorama musicale e si erano ormai diffusi. In quegli stessi anni, in Inghilterra, anche il Royal National Institute of Blind People cominciò a produrre audiolibri a favore dei reduci di guerra.

In Italia, invece, le prime registrazioni di audiolibri su vinile risalgono al 1966: il riferimento è alle Fiabe sonore dei Fratelli Fabbri. La collana andò avanti per quattro anni; ogni numero comprendeva un disco con musiche e storia da ascoltare e un libro illustrato su cui seguire il racconto. I bambini degli anni Novanta, invece, ricorderanno con affetto le musicassette Disney, vendute in edicola insieme ad un libro illustrato e uno dei personaggi della storia in miniatura. Le prime case di registrazione di audiolibri italiane in assoluto sono state IlNarratore e GOODmood Audiolibri, molto attive ancora oggi.

Nel caso dei dischi in vinile, però, i problemi principali erano due. Il primo riguardava anche in questo caso il tempo di registrazione, che non poteva superare i quindici minuti per lato. Il secondo era legato al copyright: quelli che erano e sono conosciuti come i Libri Parlanti sono nati con scopo benefico e a titolo gratuito, sono accessibili solo ai non vedenti e non sono legati alla filiera editoriale.

La vera svolta per quelli che oggi chiamiamo audiolibri arrivò tra gli anni Settanta e Ottanta, con l’avvento delle musicassette e del walkman. Grazie a questo dispositivo tecnologico, si fece sempre più spazio il concetto dell’ascolto in movimento: se era ormai possibile ascoltare musica, in auto o camminando, perché non avrebbe dovuto essere possibile ascoltare storie, racconti, romanzi? È in questo periodo che nascono quelle che ancora oggi sono le più solide catene di distribuzione di audiolibri; tra tutte, ricordiamo la Books in Motion e la Recorded Books.

Negli anni a seguire, la tecnologia avanzò rapidamente e, di conseguenza, anche la fruibilità degli audiolibri fu sempre più facile. Alla fine degli anni Novanta divenne particolarmente popolare l’Audible Player, un dispositivo portatile – precursore dell’mp3 e dell’iPod della Apple che sarebbero usciti qualche anno dopo – dedicato solo al download di file audio contenenti libri.

E se nei primi anni del Nuovo Millennio, con l’avvento degli iPhone, l’iTunes Store rendeva possibile la creazione di una propria libreria virtuale formato audio per la prima volta, la vera rivoluzione l’hanno fatta gli smartphone, che hanno reso possibile rendere disponibili delle applicazioni specifiche attraverso cui dedicarsi all’ascolto online e offline di cataloghi molto vasti – che comprendono ormai anche podcast – pagando un piccolo abbonamento mensile. Tra le piattaforme che offrono maggiore scelta vi segnaliamo Storytell e Audible, ma, ormai, sono sempre di più le case editrici che scelgono di mettere in piedi dei propri studi di registrazione, cedendo i diritti per la diffusione dell’audiolibro a terze piattaforme solo successivamente. Molti grandi classici della letteratura italiana e non sono disponibili in Ad alta voce, la sezione di audiolibri messa a punto dalla Rai e su YouTube, la piattaforma su cui video di lettura ad alta voce sono caricabili in maniera gratuita.  

Inoltre, vale la pena segnalare l’esistenza di LibriVox, un’associazione che raccoglie un gruppo di volontari che leggono e registrano libri ormai privi di copyright, rendendoli poi disponibili per l’ascolto e per il download sul loro sito e su alcune biblioteche virtuali con cui collaborano. Ad oggi, il loro catalogo conta più di 15000 testi, di cui molti in inglese. L’iniziativa ha preso piede da una discussione nata sul blog di Hugh McGuire, scrittore statunitense, nel 2005. Il primo libro da loro registrato è L’agente segreto di Joseph Conrad.

Ad oggi, secondo le statistiche della ricerca di NielsenIQ per Audible del 2021, sono più di 10 milioni gli italiani – dagli adolescenti agli adulti – che hanno contratto l’abbonamento ad almeno una delle piattaforme di audiolibri disponibili e si prospetta che il dato sia destinato ad aumentare.

Insomma, ormai, tanto quanto è scontato che di un libro troverete la sua versione ebook, è quasi certo che ne troverete la versione audiolibro. Non dovete fare altro che scegliere il catalogo che più si avvicina ai vostri gusti; o, perché, no, provare tutte le piattaforme e non rinunciare all’ascolto di nessun titolo. Non avete idea di quale libro valga la pena ascoltare? Se siete al primo approccio, in effetti, la vasta scelta potrebbe portarvi in confusione. Per capire se questa lettura alternativa fa al caso vostro, potreste cominciare da un libro che avete già letto in versione cartacea: è un buon metodo per capire se riesce a trasmettervi le stesse sensazioni e se riuscite a mantenere lo stesso grado di concentrazione. A tal proposito, vi segnaliamo alcuni tra i best sellers più ascoltati degli ultimi anni: la saga di Harry Potter, Anna Karenina, I leoni di Sicilia, L’amica geniale, Il conte di Montecristo, La verità sul caso Harry Querbert e Un uomo a pezzi. Come potete vedere, se è vero che molta risonanza sulle piattaforme di audiolibri l’hanno i classici, i generi a cui ci si può approcciare sono vari e incontrano e accontentano i gusti di tutti i lettori, anche quelli più difficili da accontentare.

In Lettera 22

Riccardo Falcinelli presenta “Filosofia del Graphic Design” – parte seconda –

di Umberto Mentana

Falcinelli, sempre dialogando sul progresso e sulle potenzialità di mutamento che la rete ha prodotto, in particolare negli ultimi anni, sui rapporti umani e professionali, esemplifica alcune personalità meravigliose e geniali, i cui interventi sono naturalmente parte di Filosofia del Graphic Design, mettendo in chiaro e ribadendo che tuttavia il valore di un’idea, di una congettura sopraffina è il germe di una grande invenzione e del progresso globale.

Qui dentro ci sono una manciata di idee che quando sono state formulate erano veramente fantascienza.

Muriel Cooper, che era la director del MIT (Massachussets Institute of Technology), proprio là nella Silicon Valley, era una signora fantastica, veramente un genio che a metà anni Ottanta dice: “la novità del computer non è che rende più veloce il lavoro ma che da qui a poco con i cablaggi che noi usiamo internamente faremo smart working”. Lo dice nel 1985! Quarant’anni fa lei dice che la novità del computer non è la velocità ma che nel momento in cui  i cablaggi che noi abbiamo interni ce l’avranno tutti sulla Terra, la vera novità del computer è il telelavoro. E lo dice quando le persone non avevano neppure idea di cosa si stesse parlando. Noi abbiamo avuto bisogno di una pandemia per sperimentarlo per la prima volta. Come ha fatto la Cooper ad arrivarci? Perchè era filosofa, perché si è posta tutta una serie di problemi culturali che facevano vedere qual era il vero senso del computer.

L’altro gigante è Moholy-Nagy che nel 1922 dice: “sì, hanno inventato il grammofono, il disco. La gente lo usa per sentire la musica. Ma questo è un momento di passaggio. La cosa che ci interessa è quando noi incideremo direttamente il disco senza registrare la musica”. Questo parlava di musica elettronica quando ancora non esisteva l’elettronica.

Allora, la mia aspirazione è che se i ragazzini iniziano a famigliarizzare con questi temi, non limitandosi a quello che la tecnologia fa oggi, comincino a rifletterci, ovviamente per chi ha quella fantasia per immaginare queste cose, forse potranno dire cosa accadrà in futuro.

            C’è spazio anche per numerose domande da parte del pubblico e Falcinelli certo non si limita a non entrare nel dettaglio. Uno dei primi quesiti a cui risponde è quello riguardo all’utilizzo della grafica per le copertine nell’editoria, un lavoro che da anni svolge con estrema abilità e professione. Subito dopo invece si sofferma brevemente sul bisogno della conservazione e sulla cosiddetta eredità psicologica dei supporti di “registrazione”.

Nel libro anche gli scrittori più attenti e più sensibili non hanno mai sentito la copertina come un’opera parallela rispetto a quanto accadeva per le produzioni musicali riguardo al disco in vinile, ma come packaging. La stessa Elsa Morante, che è stata una delle più attente alla grafica dei suoi libri, se la disegnava da sola fondamentalmente. La Morante stava lì: lo voglio così, lo voglio colà.

La famosa copertina de La Storia che ha una foto della Magnum in bianco e nero stampata su fondo rosso è un’idea della Morante, le cose erano un po’ diverse. Che cosa sta accadendo invece oggi? Il libro sta riesplodendo da capo, soprattutto nel mondo dei libri per bambini e quindi per reazione all’ebook, il libro di carta è diventato sempre più ricercato nei materiali e ha una sua nuova vita che sembrava stesse perdendo mentre il disco al momento riguarda solamente una nicchia da “biblioteca” che però esiste.

Di tutte queste tecnologie, che sia il file .avi o l’mp3 noi quello che veramente non sappiamo è che sa tra dieci anni si leggeranno ancora. Noi passiamo tutto questo tempo infinito a trascrivere il nostro archivio sul nuovo hardisk e ogni anno sul nuovo hardisk e così via, fondamentalmente stiamo conservando tutto questo materiale digitale come portando l’acqua con le bacinelle e travasandola sperando che non evapori.  Alla fine il libro di carta e il vinile stanno là e nessuno li tocca.

Io sono un appassionato dell’Ottocento perché secondo me nell’Ottocento hanno inventato il mondo che conosciamo oggi. Io ho ereditato il servizio di piatti di porcellana dei miei bisnonni, Richard Ginori – 1895. Ma noi che lasciamo? I piatti Ikea? Noi siamo in un momento di usa e getta molto pratico, molto economico però conta anche l’eredità psicologica che tu lasci ai figli, ai nipoti, ai discendenti.

E così la collezione di dischi fatta in vinile ha un po’ quell’idea lì: che nonostante mio figlio non li ascolta ugualmente, questa è la musica che mia mamma ascoltava…e mi commuove un po’ questa cosa.

            Concludendo, l’autore ripresenta il problema dell’insegnamento del mestiere del grafico e di che tipo di sapere sia più adatto in virtù dei bisogni delle nuove generazioni, per stabilire una connessione equilibrata con le esigenze del presente, virtualizzato e liquido.

È diventato un mestiere, sia quello dell’insegnante che quello del grafico che necessariamente deve fare i conti con un po’ più di teoria,  sono le storie che ci racconti, le idee che hai in testa ciò che diventa signficativo perché più andiamo avanti e più la parte pratica la farà il computer da solo, sempre di più. Quindi bisogna spostare il tipo di insegnamento all’altra parte, ossia sottoporre ai ragazzi che cosa possiamo fare con queste cose qui. Più la storia e non la tecnica.

La grande frode di questi anni, poi, è l’idea della start-up, quella che un ragazzino che non ha mai lavorato possa prendere dei soldi e partire da zero. È impossibile farlo perché saper lavorare significa che qualcuno ti ha insegnato a lavorare, a parte l’eccezione di uno su un milione che magari è particolarmente dotato o fortunato. Le cose da imparare sono talmente tante e non credo che siano cose che si possano imparare sui libri o a scuola perché c’è un aspetto pratico, ma anche di fiuto, di tono generale che devi vedere qualcuno che lo fa. Serve insomma quell’aspetto lì pratico di accompagnamento.

C’è da dire che ad un certo punto nell’Occidente ci siamo creduti che tutto fosse insegnabile a scuola. Non è così. Fino ad un po’ di anni fa delle cose si studiavano a scuola e delle cose si imparavano a bottega ma ad un certo punto abbiamo detto si impara tutto a scuola. Ci sono tutta una serie di competenze che si continuano ad imparare a bottega. Devi stare insieme a delle persone che lo sanno fare, le devi fare, e da quel vederlo fare cominci piano piano ad imitarli.

È invece rimane questa cosa di: “bisognerebbe fare più master su questa cosa qui”. No, si sta troppo a scuola bisogna starci meno a scuola.

            Un ultimo spazio Falcinelli lo dedica esprimendo un consiglio spassionato agli studenti, ai professionisti, ai semplici appassionati di qualsiasi mestiere creativo, un insegnamento che secondo me non dovrebbe nella maniera più assoluta rimanere inascoltato, anche per chi in un certo senso si ritiene già esperto e formato in un dato campo di studi.

Il sapere è virtualmente accessibile ma è importante però praticarlo, ovvero quello che dico sempre ai miei studenti: ti piace il calcio? Vai sempre allo stadio? Vai anche all’Opera, vai al Balletto. Confrontati con cose di cui non te ne importa niente e che potrebbero annoiarti perché quello di cui hai bisogno sono un’infinità incredibile di stimoli. Se ti piace solamente il cinema e sei un appassionato di cinema e teatro vai allo stadio, vai a vedere una partita di calcio dal vero. Devi stare veramente dentro le cose, essere curiosi e non limitarsi solo a quello che troviamo su internet. Poiché internet virtualmente ti presenta tutto però poi è diverso. Stimolarsi, trovarsi di fronte a tante cose perché le idee arrivano se sei molto e davvero stimolato.