di Annasara Bucci
Claudia Amatruda (1995) è una fotografa che vive e lavora tra Bologna e Milano. È nata a Foggia, città in cui ha vissuto l’infanzia e l’adolescenza, crescendo tra le tele, i pennelli e l’odore delle tempere dei quadri dipinti dai genitori. Il primo approccio con la macchina fotografica avviene da giovanissima, quando la madre e il padre le chiedono di fotografare i momenti delle loro esposizioni per conservarne i ricordi: dalla delicatezza dei primissimi scatti, Claudia inizia a sperimentare i meccanismi di riproduzione attraverso il mezzo fotografico. La scoperta di una malattia rara cambia la sua vita all’età di 19 anni, malattia per la quale (ad oggi) non esistono cure e la cui diagnosi arriva dopo una lunga serie di visite ed esami.
Neuropatia delle piccole fibre. Disautonomia, Connettivopatia ereditaria. Malattie rare, non esiste cura. Riposo, letto e acqua. (Naiade, 2019)
Claudia ha 19 anni ed incontra una malattia che non lascia segni evidenti sul corpo. «Il dolore c’è, ma non si vede» – racconta – e dunque, anche stare in piedi o camminare diventano gesti che richiedono particolare sforzo e fatica. Come tutte le malattie rare che non hanno cura, sono possibili solamente trattamenti palliativi: nel caso di Claudia, a parte specifici medicinali, tanta fisioterapia.
«Ho iniziato a documentare tutto, anche inconsciamente» – racconta Claudia, lasciando che la sua macchina fotografica viaggiasse assieme a lei tra visite in ospedale, attese, riposo e fisioterapia in acqua.
La fotografia aiuta Claudia nel processo di elaborazione ed accettazione di un dolore fisico ed emotivo, conseguenze di una patologia “invisibile”: documentare significa aver trovato una lente di ingrandimento della realtà, un modo per dire “eccomi”, esisto in questo modo ed in questa forma, non ho altra alternativa che fare esperienza del mondo insieme a tutta la fragilità che mi appartiene; questi sono i miei spazi, insieme ai modi e ai tempi in cui sto imparato ad occuparli e, insieme, ad accettarli.
Nell’ambito di un Master in Progetto Fotografico a Pescara seguito dal professor Michele Palazzi, grazie ad un crowdfounding, dopo due anni di raccolta di materiale nasce Naiade: diario narrato per scatti ed autoscatti che ritraggono i luoghi ed il corpo del dolore (http://www.claudiamatruda.com/naiade2/). Il titolo del diario fotografico è un riferimento alle figure della mitologia, le Naiadi -appunto- ninfe delle acque dai poteri guaritori, adottate come metafora dell’importanza che l’elemento fluido ha assunto per Claudia in termini di benefici terapeutici.
«La fotografia mi permette di esplorare questa relazione tra la malattia e il corpo, e attraverso gli autoritratti può diventare tutto ciò che voglio: un tramite, un palcoscenico, un orizzonte mobile, una testimonianza visibile nell’invisibilità della condizione» (Discardedmagazine.com)
Come nel caso di Claudia, misurarsi con l’urgenza di voler trasmettere ad altri il disagio della malattia spinge artiste del calibro di Jo Spence (dalla cui esperienza artistica nasce canonicamente la fotografia terapeutica) ad autoritrarsi alla luce di un tacito compromesso il tra mezzo di rappresentazione ed il corpo rappresentato, giacché il soggetto possiede non solo il controllo della propria immagine, ma anche del modo in cui vuole che esso appaia. Autorappresentazione non intesa come specchio di realtà, quindi, ma come “un palcoscenico” che ospita uno dei tanti focus possibili su di essa con l’intento di osservarla da differenti prospettive.
In Naiade ritroviamo il corpo di Claudia autoritratto in piscina, immersa in vasca durante la fisioterapia; oppure piccoli focus su diverse parti del corpo, inquadrate con l’intento di metterne in risalto la fragilità, contestualmente alla compattezza materica.
Questo contrasto trova spazio nella dignità tutta umana che contraddistingue ogni corpo di sofferenza, senza che l’immagine rimandata all’osservatore scivoli in rappresentazioni pietistiche o eroiche della malattia, pericolo che Claudia ha voluto scongiurare sin da subito per tentare di sgretolare i luoghi comuni che la società attribuisce al corpo disabile.
When you hear hoofbeats, think of horses, not zebras (trad. “quando senti rumore di zoccoli, pensa ai cavalli, non alle zebre”: https://yogurtmagazine.com/portfolio/when-you-hear-hoofbeats-think-of-horses-not-zebras-claudia-amatruda/) è il titolo del suo secondo lavoro. La frase a cui si ispira è una metafora molto comune, utilizzata in ambito medico, che intende insegnare agli specializzandi a procedere dalle patologie più comuni a quelle più rare nella definizione di una diagnosi clinica, come però non è stato nel caso di Claudia: «mi chiamavano “la zebra” dell’ospedale» – ricorda. Anche questo suo secondo lavoro ruota attorno allo studio delle tecniche del ritratto e dell’autoritratto, con l’introduzione di nuovi elementi di ‘supporto’: la stampella, ritratta quasi come se fosse una terza gamba, oppure la carrozzina, ritratta come corpo protagonista di un contesto come la spiaggia, di norma occupato dai corpi che tutti siamo abituati a vedere e dal modo in cui essi si espongono.
Tra le immagini di questo secondo lavoro fotografico, spicca un autoritratto di particolare impatto visivo e tematico collocato su uno sfondo nero che, per contrasto, mette in risalto il candore della carnagione di Claudia; a partire dalla guancia, quella che sembrerebbe una maschera utilizzata con intento estetico è in procinto di essere staccata. Chiarirà successivamente che -in realtà – si tratta non di una maschera ma di un eccesso di pelle, in riferimento alla sovrabbondanza di collagene prodotto dal suo organismo come particolarità della sua patologia rara.
«Dopo aver ricevuto una diagnosi così pesante» – racconta Claudia – «non guardi più allo specchio la tua immagine come prima, vedi solamente difetti, quindi cominci a chiederti: con tutti questi ausili, con tutte queste cicatrici, sarò femminile come vorrei essere?» (Vogue Photo: Il corpo politico. Gli autoritratti di Claudia Amatruda).
Se si prova a riflettere sull’immagine rimandata da questo autoritratto nella sua duplice “lettura”, la lente della fotografa sta carpendo un atto puramente estetico che rimarrebbe inteso come tale se non venisse spiegato a posteriori nel suo reale intento metaforico. Quello della ricerca della femminilità e della sessualità nei corpi non convenzionali è la riflessione indotta da Claudia nell’intento di sfatare il tabù del corpo disabile non erotico o, in ogni caso, non erotizzabile. Nel caso specifico che riguarda queste categorie, la sana educazione al piacere e alla sessualità si sostituisce all’infantilizzazione o all’isolamento, non solo con l’effetto di una perdita della curiosità nella scoperta del corpo, ma anche di una scarsa autodeterminazione della sfera erotica con tutte le problematiche che ne derivano (e non solo a livello fisico). In una società che percepisce il corpo diversamente abile come corpo senza desiderio e che non riconosce il diritto alla sessualità come elemento indispensabile per il miglioramento della qualità della vita (si pensi alla figura del lovegiver), l’arte ricopre un ruolo fondamentale quando riesce a farsi veicolo di immagini-modello dei reali bisogni di una categoria ancora inascoltata. Si pensi anche al ruolo della moda in tal senso, per l’importanza mediatica che essa assume in termini di rivoluzioni estetiche: la copertina di maggio 2023 di British Vogue è diventata iconica per aver assunto lo slogan “Reframing Fashion”, testimoniando il cambio di rotta nel settore primario dell’industria dei corpi da copertina per sensibilizzare all’inclusività, in un campo che troppo a lungo ha tenuto le diversità nascoste sotto i red carpet.
Nell’ultimo anno, Claudia ha ampliato le sue competenze in materia di arte visiva inserendo la performance nei suoi lavori attraverso il medium video. Anche se non si può parlare effettivamente di performance poiché le registrazioni sono avvenute in assenza di pubblico (o comunque non costruite per essere ‘godute’ sul momento) esse sono state il frutto di uno studio elaborato durante la residenza artistica “MigrArt” edizione 2023, svoltasi presso Lignano.
«A un certo punto ho iniziato a pensare che la fotografia fosse un settore da ampliare all’interno del macrosettore dell’arte, con la possibilità di utilizzare altri media. Usare non soltanto -quindi- la fotografia, ma anche il video, l’installazione o la scultura che non ho ancora iniziato ad esplorare». (Diretta con Claudia Amatruda da “Strade di Fotografia”)
Nel primo della serie di video prodotti, vediamo Claudia scalare una piccola montagna di sabbia; una volta arrivata in cima, con l’aiuto del telefono, inizia a far girare la sua carrozzina attorno alla montagna stessa: «Lei sembra inseguirmi, ma in realtà sono io a comandarla. Quindi c’è questa specie di ‘scambio di potere’ su cui ho riflettuto dopo averlo fatto» (Ivi)
[Link al video: https://www.youtube.com/watch?v=NiaJO9NNo3o&t=11s ]
A colpire l’osservatore in apertura del video è il modo in cui l’artista, arrivata alla base della montagna con la stampella, la lascia cadere senza indugi per poi scalare a mani e piedi nudi, senza ausili: “Vediamo dove arrivo con il mio corpo” – sembra voler comunicare. La scalata è lenta ma decisa. Anche Claudia ha la sua “montagna” da scalare ed in ciò si lascia accompagnare fiduciosa dal proprio corpo; si nota qualche tremore a poca distanza dall’arrivo che però non le impedisce di raggiungere la cima.
L’immagine di tenacia che restituisce la sequenza non esclude affatto quei tremori finali, anzi, li rende parte integrante della scalata: quasi un invito ad accogliere la fragilità non come un impedimento, bensì come caratteristica peculiare dell’agire e dell’essere umani in qualsiasi forma, non soltanto in termini di disabilità.
Nel secondo video della serie, Claudia lascia ‘danzare’ la sua carrozzina a ritmo di musica in uno dei locali della residenza adibito a discoteca: «Mentre comandavo la carrozzina» -dice Claudia- «c’è stata una strana connessione tra me e lei perché è stato come traslare il mio movimento su di lei mentre anch’io ascoltavo musica movimentata, da ballo». (Ivi) [Link al video: https://www.youtube.com/watch?v=ZOaHSyQVdNA&t=142s ]
Questa operazione di traslazione fisica è divenuta successivamente anche emotiva – come dice l’artista – in termini di connessione, elemento ulteriormente verificato dagli studenti e dagli insegnanti che ad un certo punto sono stati coinvolti nel ballo all’interno della performance: «qualcuno mi ha detto: era come se stessi ballando con te, anche se tu eri in disparte a comandare la carrozzina» (Ivi)
Se si volesse dare un’immagine al concetto di inclusività, gli atti di interazione del gruppo con la carrozzina durante il ballo nel circondarla, affiancarla, includerla nel gruppo danzante, sembrano calcarne perfettamente le forme.
Benché forse non consapevolmente girato per una finalità polito-sociale, questo video-performance potrebbe rappresentare un modello di artivismo, arte con contenuto sociale esplicito (https://www.espoarte.net/arte/artivismo-limmaginazione-di-un-nuovo-presente-contemporaneo/) nella costruzione di nuove forme di inclusività del presente contemporaneo.
Attraverso Master e Workshop, Claudia è in continuo aggiornamento e lavora ancora in termini di narrazione della fragilità e della diversità attraverso le forme ritratto ed autoritratto.
Attraverso la sua pagina Instagram ed il suo sito internet è possibile seguire gli sviluppi dei suoi studi nel campo dell’arte visuale. Nonostante i limiti della propria condizione, è aperta alle esperienze che le permettono di crescere come artista e come persona e si impegna (anche fuori dal campo artistico) nella tutela dei diritti delle persone con disabilità.