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Corpo artistico e disabilità. La rappresentazione del sé nell’arte visuale di Claudia Amatruda

di Annasara Bucci

Claudia Amatruda (1995) è una fotografa che vive e lavora tra Bologna e Milano. È nata a Foggia, città in cui ha vissuto l’infanzia e l’adolescenza, crescendo tra le tele, i pennelli e l’odore delle tempere dei quadri dipinti dai genitori. Il primo approccio con la macchina fotografica avviene da giovanissima, quando la madre e il padre le chiedono di fotografare i momenti delle loro esposizioni per conservarne i ricordi: dalla delicatezza dei primissimi scatti, Claudia inizia a sperimentare i meccanismi di riproduzione attraverso il mezzo fotografico. La scoperta di una malattia rara cambia la sua vita all’età di 19 anni, malattia per la quale (ad oggi) non esistono cure e la cui diagnosi arriva dopo una lunga serie di visite ed esami.

Neuropatia delle piccole fibre. Disautonomia, Connettivopatia ereditaria. Malattie rare, non esiste cura. Riposo, letto e acqua. (Naiade, 2019)

Claudia ha 19 anni ed incontra una malattia che non lascia segni evidenti sul corpo. «Il dolore c’è, ma non si vede» – racconta – e dunque, anche stare in piedi o camminare diventano gesti che richiedono particolare sforzo e fatica. Come tutte le malattie rare che non hanno cura, sono possibili solamente trattamenti palliativi: nel caso di Claudia, a parte specifici medicinali, tanta fisioterapia.

«Ho iniziato a documentare tutto, anche inconsciamente» – racconta Claudia, lasciando che la sua macchina fotografica viaggiasse assieme a lei tra visite in ospedale, attese, riposo e fisioterapia in acqua.

La fotografia aiuta Claudia nel processo di elaborazione ed accettazione di un dolore fisico ed emotivo, conseguenze di una patologia “invisibile”: documentare significa aver trovato una lente di ingrandimento della realtà, un modo per dire “eccomi”, esisto in questo modo ed in questa forma, non ho altra alternativa che fare esperienza del mondo insieme a tutta la fragilità che mi appartiene; questi sono i miei spazi, insieme ai modi e ai tempi in cui sto imparato ad occuparli e, insieme, ad accettarli.

Nell’ambito di un Master in Progetto Fotografico a Pescara seguito dal professor Michele Palazzi, grazie ad un crowdfounding, dopo due anni di raccolta di materiale nasce Naiade: diario narrato per scatti ed autoscatti che ritraggono i luoghi ed il corpo del dolore (http://www.claudiamatruda.com/naiade2/). Il titolo del diario fotografico è un riferimento alle figure della mitologia, le Naiadi -appunto- ninfe delle acque dai poteri guaritori, adottate come metafora dell’importanza che l’elemento fluido ha assunto per Claudia in termini di benefici terapeutici.

«La fotografia mi permette di esplorare questa relazione tra la malattia e il corpo, e attraverso gli autoritratti può diventare tutto ciò che voglio: un tramite, un palcoscenico, un orizzonte mobile, una testimonianza visibile nell’invisibilità della condizione» (Discardedmagazine.com)

Come nel caso di Claudia, misurarsi con l’urgenza di voler trasmettere ad altri il disagio della malattia spinge artiste del calibro di Jo Spence (dalla cui esperienza artistica nasce canonicamente la fotografia terapeutica) ad autoritrarsi alla luce di un tacito compromesso il tra mezzo di rappresentazione ed il corpo rappresentato, giacché il soggetto possiede non solo il controllo della propria immagine, ma anche del modo in cui vuole che esso appaia. Autorappresentazione non intesa come specchio di realtà, quindi, ma come “un palcoscenico” che ospita uno dei tanti focus possibili su di essa con l’intento di osservarla da differenti prospettive.

In Naiade ritroviamo il corpo di Claudia autoritratto in piscina, immersa in vasca durante la fisioterapia; oppure piccoli focus su diverse parti del corpo, inquadrate con l’intento di metterne in risalto la fragilità, contestualmente alla compattezza materica.

Immagine che contiene aqua, piscina, acqua, nuotare

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Immagine che contiene persona, pelle

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Immagine che contiene acarino, invertebrato, insetto, parassita

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Questo contrasto trova spazio nella dignità tutta umana che contraddistingue ogni corpo di sofferenza, senza che l’immagine rimandata all’osservatore scivoli in rappresentazioni pietistiche o eroiche della malattia, pericolo che Claudia ha voluto scongiurare sin da subito per tentare di sgretolare i luoghi comuni che la società attribuisce al corpo disabile.

When you hear hoofbeats, think of horses, not zebras (trad. “quando senti rumore di zoccoli, pensa ai cavalli, non alle zebre”: https://yogurtmagazine.com/portfolio/when-you-hear-hoofbeats-think-of-horses-not-zebras-claudia-amatruda/)  è il titolo del suo secondo lavoro. La frase a cui si ispira è una metafora molto comune, utilizzata in ambito medico, che intende insegnare agli specializzandi a procedere dalle patologie più comuni a quelle più rare nella definizione di una diagnosi clinica, come però non è stato nel caso di Claudia: «mi chiamavano “la zebra” dell’ospedale» – ricorda. Anche questo suo secondo lavoro ruota attorno allo studio delle tecniche del ritratto e dell’autoritratto, con l’introduzione di nuovi elementi di ‘supporto’: la stampella, ritratta quasi come se fosse una terza gamba, oppure la carrozzina, ritratta come corpo protagonista di un contesto come la spiaggia, di norma occupato dai corpi che tutti siamo abituati a vedere e dal modo in cui essi si espongono.

Immagine che contiene pavimento, calzature, terreno, persona

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Immagine che contiene aria aperta, acqua, ruota, cielo

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Immagine che contiene terreno, ruota, persona, sedia a rotelle

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Tra le immagini di questo secondo lavoro fotografico, spicca un autoritratto di particolare impatto visivo e tematico collocato su uno sfondo nero che, per contrasto, mette in risalto il candore della carnagione di Claudia; a partire dalla guancia, quella che sembrerebbe una maschera utilizzata con intento estetico è in procinto di essere staccata. Chiarirà successivamente che -in realtà – si tratta non di una maschera ma di un eccesso di pelle, in riferimento alla sovrabbondanza di collagene prodotto dal suo organismo come particolarità della sua patologia rara.

Immagine che contiene Viso umano, persona, ragazza, ritratto

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«Dopo aver ricevuto una diagnosi così pesante» – racconta Claudia – «non guardi più allo specchio la tua immagine come prima, vedi solamente difetti, quindi cominci a chiederti: con tutti questi ausili, con tutte queste cicatrici, sarò femminile come vorrei essere?» (Vogue Photo: Il corpo politico. Gli autoritratti di Claudia Amatruda).

Se si prova a riflettere sull’immagine rimandata da questo autoritratto nella sua duplice “lettura”, la lente della fotografa sta carpendo un atto puramente estetico che rimarrebbe inteso come tale se non venisse spiegato a posteriori nel suo reale intento metaforico. Quello della ricerca della femminilità e della sessualità nei corpi non convenzionali è la riflessione indotta da Claudia nell’intento di sfatare il tabù del corpo disabile non erotico o, in ogni caso, non erotizzabile. Nel caso specifico che riguarda queste categorie, la sana educazione al piacere e alla sessualità si sostituisce all’infantilizzazione o all’isolamento, non solo con l’effetto di una perdita della curiosità nella scoperta del corpo, ma anche di una scarsa autodeterminazione della sfera erotica con tutte le problematiche che ne derivano (e non solo a livello fisico). In una società che percepisce il corpo diversamente abile come corpo senza desiderio e che non riconosce il diritto alla sessualità come elemento indispensabile per il miglioramento della qualità della vita (si pensi alla figura del lovegiver), l’arte ricopre un ruolo fondamentale quando riesce a farsi veicolo di immagini-modello dei reali bisogni di una categoria ancora inascoltata. Si pensi anche al ruolo della moda in tal senso, per l’importanza mediatica che essa assume in termini di rivoluzioni estetiche: la copertina di maggio 2023 di British Vogue è diventata iconica per aver assunto lo slogan “Reframing Fashion”, testimoniando il cambio di rotta nel settore primario dell’industria dei corpi da copertina per sensibilizzare all’inclusività, in un campo che troppo a lungo ha tenuto le diversità nascoste sotto i red carpet.

Immagine che contiene cielo, aria aperta, persona, Accessorio di moda

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Nell’ultimo anno, Claudia ha ampliato le sue competenze in materia di arte visiva inserendo la performance nei suoi lavori attraverso il medium video. Anche se non si può parlare effettivamente di performance poiché le registrazioni sono avvenute in assenza di pubblico (o comunque non costruite per essere ‘godute’ sul momento) esse sono state il frutto di uno studio elaborato durante la residenza artistica “MigrArt” edizione 2023, svoltasi presso Lignano.

«A un certo punto ho iniziato a pensare che la fotografia fosse un settore da ampliare all’interno del macrosettore dell’arte, con la possibilità di utilizzare altri media. Usare non soltanto -quindi- la fotografia, ma anche il video, l’installazione o la scultura che non ho ancora iniziato ad esplorare». (Diretta con Claudia Amatruda da “Strade di Fotografia”)

Nel primo della serie di video prodotti, vediamo Claudia scalare una piccola montagna di sabbia; una volta arrivata in cima, con l’aiuto del telefono, inizia a far girare la sua carrozzina attorno alla montagna stessa: «Lei sembra inseguirmi, ma in realtà sono io a comandarla. Quindi c’è questa specie di ‘scambio di potere’ su cui ho riflettuto dopo averlo fatto» (Ivi)

[Link al video: https://www.youtube.com/watch?v=NiaJO9NNo3o&t=11s  ]

A colpire l’osservatore in apertura del video è il modo in cui l’artista, arrivata alla base della montagna con la stampella, la lascia cadere senza indugi per poi scalare a mani e piedi nudi, senza ausili: “Vediamo dove arrivo con il mio corpo” – sembra voler comunicare.  La scalata è lenta ma decisa. Anche Claudia ha la sua “montagna” da scalare ed in ciò si lascia accompagnare fiduciosa dal proprio corpo; si nota qualche tremore a poca distanza dall’arrivo che però non le impedisce di raggiungere la cima.

L’immagine di tenacia che restituisce la sequenza non esclude affatto quei tremori finali, anzi, li rende parte integrante della scalata: quasi un invito ad accogliere la fragilità non come un impedimento, bensì come caratteristica peculiare dell’agire e dell’essere umani in qualsiasi forma, non soltanto in termini di disabilità.

Nel secondo video della serie, Claudia lascia ‘danzare’ la sua carrozzina a ritmo di musica in uno dei locali della residenza adibito a discoteca: «Mentre comandavo la carrozzina» -dice Claudia- «c’è stata una strana connessione tra me e lei perché è stato come traslare il mio movimento su di lei mentre anch’io ascoltavo musica movimentata, da ballo». (Ivi) [Link al video: https://www.youtube.com/watch?v=ZOaHSyQVdNA&t=142s ]

Questa operazione di traslazione fisica è divenuta successivamente anche emotiva – come dice l’artista – in termini di connessione, elemento ulteriormente verificato dagli studenti e dagli insegnanti che ad un certo punto sono stati coinvolti nel ballo all’interno della performance: «qualcuno mi ha detto: era come se stessi ballando con te, anche se tu eri in disparte a comandare la carrozzina» (Ivi)

Se si volesse dare un’immagine al concetto di inclusività, gli atti di interazione del gruppo con la carrozzina durante il ballo nel circondarla, affiancarla, includerla nel gruppo danzante, sembrano calcarne perfettamente le forme.

Benché forse non consapevolmente girato per una finalità polito-sociale, questo video-performance potrebbe rappresentare un modello di artivismo, arte con contenuto sociale esplicito (https://www.espoarte.net/arte/artivismo-limmaginazione-di-un-nuovo-presente-contemporaneo/) nella costruzione di nuove forme di inclusività del presente contemporaneo.

Attraverso Master e Workshop, Claudia è in continuo aggiornamento e lavora ancora in termini di narrazione della fragilità e della diversità attraverso le forme ritratto ed autoritratto.

Attraverso la sua pagina Instagram ed il suo sito internet è possibile seguire gli sviluppi dei suoi studi nel campo dell’arte visuale. Nonostante i limiti della propria condizione, è aperta alle esperienze che le permettono di crescere come artista e come persona e si impegna (anche fuori dal campo artistico) nella tutela dei diritti delle persone con disabilità.

In Lavoro Critico

Call for Papers – Il cosiddetto iconico: new frontiers

Con quale grado di consapevolezza oggi utilizziamo il termine “iconico”? Lo sappiamo: iconico ha a che fare con l’icona. L’etimo ci rimanda ad immagine, ma le sue applicazioni sono molte.In semiologia l’icona è un segno che assomiglia a ciò che rappresenta; nell’arte religiosa, invece, le icone erano e sono utilizzate come simbolo; la loro funzione è di unire una comunità attorno a valori condivisi dalla comunità cristiana, attorno a determinati valori comunicati: il bene opposto al male.In epoca moderna con iconico si è venuto a ad indicare un fenomeno di aggregazione delle masse, a partire da una immagine riconosciuta come rappresentativa di un fatto, di un contesto.         

La questione, dunque, riguarda non tanto il fenomeno quanto i processi che lo hanno interessato: non è il termine ad aver cambiato significato, è il concetto di sacro o di sacrale ad aver assunto un significato diverso.         

In sintesi: L’iconico è un codice universale, il cui significato è cambiato in relazione a nuove forme di devozione.         

Oggi iconico, nel significato contemporaneo, è termine che appartiene soprattutto al contesto anglofono, in quanto assunto dal binario della comunicazione glamour: è ciò che, in ragione della sua popolarità, è in grado di essere rappresentativo ed emblematico; in grado di “fermare” un momento del tempo, di imprimersi nella memoria. È parola che, nella sua valenza di plastica rappresentatività, è diventata pervasiva, specialmente dalla diffusione capillare dei social; in particolar modo da quando i social hanno subito una sorta di mutazione genetica, ossia da un paio di lustri a questa parte, passando dall’essere uno spazio di opinione e, quindi, di scrittura condivisa, ad album di immagini, foto, meme, il cui supporto verbale è il più delle volte quello di una canzone a sua volta iconica nella figura del suo interprete. Iconico è, dunque, uno di quei (molti) casi che in linguistica sono detti latinismi di ritorno: dall’ormai vecchissimo computer al meno vecchio app, lo schermo della lingua globale applicata a fenomeni del visuale ci restituisce un mondo in cui l’impressione o l’impressionabilità è tutto.


Si accolgono:

1) contributi di taglio critico ;
2) contributi multimediali (foto, cortometraggi, spot pubblicitari)

Gli interessati sono pregati di inviare entro il 31 gennaio 2023 una proposta di contributo con le indicazioni di argomento e abstract (70 parole max) ai seguenti indirizzi:

zoeydc77@gmail.com

antonio.daniele@unifg.it

letterazero.nuovaserie@gmail.com

In Lavoro Critico

Le conversazioni di Franco Buffoni.

Recensione a Franco Buffoni, Maestri e amici. Da Dante a Seamus Heaney, Montecassiano, Vydia edizioni d’Arte, 2020, pp. 425, € 18

di Gandolfo Cascio

C’è davvero chi è certo che in una scuola di scrittura (massimamente in quelle con intitolazione in inglese), si possa imparare un mestiere, o almeno quelle astuzie adatte a fabbricare la storia che “merita di essere raccontata”, cioè smerciata. E c’è poi chi, al contrario, ma con la medesima testardaggine d’un mulo, avverte che la poesia sia un lampo senza macula che cala nelle testoline dei suoi beniamini come le lucide monetine del dio furbo e burlone s’insinuano tra le cosce della calda signorina. Tra queste alternative estreme non si può che restare perplessi; eppure, proprio per quella sua puerile inverosimiglianza, mi appare più attendibile la seconda, dacché i talenti – come il fascino, del resto – sono dispersi, da chi sa chi, secondo il più fanciullesco e perfido capriccio che non tiene in conto razza, sesso, età, diplomi, ecc. Nondimeno, e anche questo si sa, il genio non basta all’arte, ché per risolversi abbisogna di circostanze favorevoli, di ininterrotte e pressoché incontentabili attenzioni; e, sull’altra costa, dovrà ritrovarsi qualcuno che sia non soltanto ben disposto verso le seduzioni di quelle invenzioni, ma che sia pignolo, addirittura fiscale nei suoi scrutini. Chi non sa o non può essere schizzinoso si accontenti di ruminare del foraggio secco e per niente sostanzioso. A scansare tale insidia, all’artista, che qui coincide con lo scrittore, giovano l’esercizio (cancellare cestinare riscrivere) e, sopra ogni cosa, la lettura: non però per provare a intascare un liso album di figure e peripezie altrui: tanto le miserande quanto le invidiate avventure umane da tremila anni si assomigliano tutte. Difatti, che differenza si può ravvisare fra l’infame verme che sciupò Catullo e il sospetto ordinario di qualche ragazzaccio meridionale, fra il timido corteggiamento d’un bocchan orientale e le sbandate dei mariti della provincia, tra l’ambizione di Julien Sorel e quella d’un nero newyorkese, l’orrido precipizio in cui casca Raskol’nikov o d’una bestia pariolina? Qual è la qualità che distingue una vicenda dall’altra? Anche qui le poste non si contano, e sembra si abbia a che fare con una faccenda che non si sappia sbrogliare; viceversa, anche stavolta la soluzione sta davanti a tutti, nuda e raggiante: è lo stile. Così, da una parte rimane, melmoso e stracco, quello della cronaca, della denuncia, della confessione, del pettegolezzo e, dall’altra, inafferrabile come una biscia, si compiace di sé stesso e si lascia apprezzare quello dell’arte. Questo stile perciò, che è il talento di sopra, è, deve essere, inequivocabilmente personale, unico, egoista, irriproducibile: inalienabile proprietà di chi, per giunta, l’ha ricevuto per grazia, facendo morire d’invidia chi altro non sa fare che restarsene a guardarlo a bocca aperta.

           Allora, a che conviene leggere se quel benedetto stile non si può acciuffare e, perdipiù, molesta l’intelligenza, svilisce l’orgoglio dei volenterosi apprendisti? Ebbene, potrei apparecchiare in modo spedito parecchie giudiziose argomentazioni, epperò la meno corrotta, anzi, la più tersa e incantevole ragione che mi sento di condividere è quella della compagnia, della balsamica chiacchiera. Insomma, per trovarsi a tu per tu con degli sconosciuti: il contino Leopardi assieme a quel fanatico e simpaticissimo Foscolo, la cara Natalia Ginzburg accanto al viperino Waugh. Si tratta, e anche questo è vero, di colloqui che a volte possono riuscire faticosi, spinosi, umilianti; altre, però, saranno leggeri, soavi, fraterni, segreti: e sia gli uni sia gli altri consegnaranno alle nostre esistenze – così poco altolocate e uggiose – la smania, la felicità e il terrore che prova il pastore quando è lasciato libero a girare in tondo tra le siepi d’oro di Versailles.

A dare conto di alcune delle proprie conversazioni è ora Franco Buffoni, che raccoglie in un bel volume, Maestri e amici. Da Dante a Seamus Heaney, una parte dei suoi saggi letterari. In questi testi, scritti con chiarezza narrativa e chiari intenti, Buffoni racconta alcuni incontri, ragionando, di volta in volta, su alcuni aspetti che lo interessano. Non si tratta, dunque, di papers con intenti divulgativi ma, piuttosto, di meditazioni extravaganti, si potrebbe dire, visto che a scriverle non è l’accademico ma il critico-poeta, e questa precisazione è proprio ciò che c’interessa e ci titilla. Questa che nomino, d’altronde, non è neppure una categoria a sé, dato che si contano sulle dita quei poeti che prima o poi non si siano accostati al genere, tant’è che per Baudelaire addirittura «tous les grands poëtes deviennent naturellement, fatalement, critiques» (Œuvres complètes de Charles Baudelaire, 1885, 229). È probabilmente banale affermarlo, ma non risulterà del tutto inutile ripetere che la differenza tra il critico-critico e il critico-poeta non sta certo nella “qualità” delle riflessioni, ma nella loro “efficienza”, dato che testi del genere possono agevolare a conoscere qualcosa di più dell’autore o del libro discusso ma anche (soprattutto?) molto del poeta-critico, perché quando costui «critica gli altri, generalmente tiene a mente il proprio lavoro, e presume che il loro processo creativo è stato, o avrebbe dovuto essere, simile al proprio» (Forster, 2008, 98), così almeno afferma Forster. Se il lettore avrà dunque l’accortezza di rammentarlo in questo carnet de voyage avrà modo di mettersi ad ascoltare le confidenze di Buffoni-critico su questi amati poeti e, se è vispo, ad apparentarle all’opera di Buffoni-poeta

Il libro esclude quegli autori cui sono state dedicate cure più costanti e estese, come i Poeti romantici inglesi (1990 e 1997) e Auden (L’ipotesi di Malin. Studio su Auden critico-poeta, 1997) ed è ordinato cronologicamente, come una galleria di ritratti di antenati e di compagni; quasi dei medaglioni, composti tra il 1971 e ieri l’altro, riposti in tre sezioni. Si sofferma fondamentalmente sulla poesia in lingua italiana e quella in lingua inglese, ma si spinge pure a partecipare delle attente osservazioni sul dialetto in Edoardo Zuccato e la questione della lingua. Sovente l’approccio è comparativo, com’e il caso per i saggi Chaucer tra Boccaccio e Petrarca, Leopardi e Keats, Sereni ed Elitis sottotenenti, Gasparov e Gadamer, Pasolini Olmi Tondelli Coccioli, Con Emilio Mattioli tra Anceschi e Apel, e altri.

La prima parte, «Sulle spalle dei giganti» (pp. 9-111), accoglie, tra gli altri, gli interventi su Alfieri, Leopardi, Rabelais, Chaucer, Shakespeare e Milton, Emily Dickinson e, quelli che a me sono parsi i più interessanti, ovvero quello su Dante e l’altro su Hopkins. In questo capitolo dantesco Buffoni analizza la relazione tra l’autore della Commedia e il proprio maestro, Brunetto Latini, protagonista del canto XV dell’Inferno, in cui Dante, nonostante la condanna eterna si mostra profondamente rispettoso e perfino affezionato. L’obiettivo «è di mostrare come entrambi questi assunti possano essere messi in discussione, e persino radicalmente contraddetti» (p. 11). Per soddisfare il suo proposito si evidenzia come Brunetto, nella finzione del poema, non riconosca Virgilio perché «Brunetto non è degno, non è all’altezza di riconoscere Virgilio. Brunetto pensa solo al suo Trésor» (p. 12); e poi si afferma che «Dante vuole far fare brutta figura a Brunetto Latini non perché “sodomita”, ma perché mediocre letterato» (ibid.). A mio parere questa proposta – simile, per impostazione, a quella di André Pézard (Pézard, 1950) – va considerata con impegno. Se il francese pensò che Brunetto fosse stato condannato perché “bestemmiatore” contro l’italiano cui preferì il francese («Et se aucuns demandoit por quoi cist livres est escriz en romans, selonc le langage des François, puisque nos somes Ytaliens, je diroie que ce est por II raisons: l’une, car nos somes en France; et l’autre porce que la parleure est plus deli table et plus commune à toutes gens»: Latini, 1863, 3), Buffoni propone che l’errore sia da ricercare nella sua “ignoranza” di Virgilio: «perché questi è troppo grande per lui. E nemmeno cammin facendo Dante ritiene sia il caso di rivelare a Brunetto l’identità del suo nuovo maestro Virgilio» (ibid.). Questa ipotesi, aggiungo,va valutata, e può invigorirsi, se messa accanto alla lettura del canto degli eretici, e a quel «cui» rinfacciato a Cavalcante in cui naufraga ogni critico:

E io a lui: “Da me stesso non vegno:

colui ch’attende là, per qui mi mena

forse cui Guido vostro ebbe a disdegno”

(Inferno X 61-63)

Allora, seguendo la lectio facilior che fa riferire quel celebre e tormentato pronome a Virgilio, si può supporre che Dante segua una coerente strategia pro Virgilio disposta su più canti: a partire dal primo, dove il poeta latino è acclamato come unico modello da imitare (If, I, 85-87), passando per questo decimo e, appunto, il XV.

         Gerard Manley Hopkins, eccentrico rispetto alle “scuole” è una voce lirica di distinta raffinatezza stilistica edi intensità filosofica, impegnato a riflettere sui concetti dell’inscape e instress (ripresi da Duns Scotus), cioè sulla forma intrinseca, naturale e distintiva dell’individuo e di ogni cosa. È rammentato prevalentamente per la mostruosa ode Il naufragio del Deutschland (1876), mentre alcune poesie vennero tradotte ancheda Montale e da Croce, chelo valutò benevolmente perché «squisito nel ritmo e nel verso e nell’impasto della lingua» (Croce, 1966, 434). A Buffoni interessa principalmente per le invenzioni, o recupero, della prosodia e del ritmo, tema che conosce a menadito (cfr. almeno Ritmologia, 2002), e illustra come «tecnicamente, Hopkins adotta la misura del cosiddetto “sprung rhythm”, basato sui ritmi musicali accentati, ricchi di assonanze e allitterazioni, tipici dell’antica poesia anglosassone, e li annega – violentandoli – in una serie vertiginosa di sconvolgimenti semantici e lessicali» (p. 102).

        La seconda sezione, «Il Novecento» (pp. 113-312), intavola delle riunioni con autori che, nel loro insieme, rappresentano gli interlocutori più prossimi di Buffoni. Il primo confronto, perciò, non poteva che essere, “nonostante” tutto, con Montale e il rapporto agonistico (suo e della critica) con i propri contemporanei: Ungaretti e Quasimodo in primis. Il testo risulta stimolante perché mette in luce alcuni fattori, artistici e non, che contribuiscono alla catalogazione di un canone, termine fragile e pericolosissimo. Mi permetto di consigliare pure il paragrafo su Emanuel Carnevali, che fa parte di quella categoria di scrittori – come Brunetto! – che hanno scritto in una lingua diversa dalla materna, e nello specifico in inglese. Stimato da William Carlos Williams, Ezra Pound, Sherwood Anderson, ormai è quasi dimenticato e negletto. Carnevali, come succede ad altri autori che hanno avuto la medesima esperienza, scrive, sì, con i caratteri della nuova lingua, ma lo stile, per quanto personale, rimane attaccato alla tradizione cui ci si è avvicinato da giovane. Per questo «Carnevali acquista maggiore fascino se letto in traduzione italiana rispetto all’originale inglese» (p. 168). È tuttavia altrettanto veroaffermare che ad avvantaggiarsi è stata pure la letteratura inglese che, in qualche modo, si è “italianizzata”, si è arrichita, come avveniva nel Rinascimento, di qualcosa che non le appartiene.

         L’ultima sezione, «Tra due secoli» (pp. 313-408), indaga poeti contemporanei: da De Angelis a quei giovanissimi cui Buffoni, attraverso il suo benemerito lavoro di editore non solo ha sostenuto, ma da cui prova a instaurare un rapporto alla pari, consapevole che in poesia gli amici possono essere anche maestri e che anche un guru può e deve imparare dal proprio allievo, giacché, come ripete Leonardo, «Tristo è quel discepolo che non avanza il suo maestro».

Gandolfo Cascio insegna Letteratura italiana e Traduzione all’Università di Utrecht. Tra i suoi libri segnaliamo Michelangelo in Parnaso. La ricezione delle «Rime» tra gli scrittori(Marsilio 2019, in traduzione in inglese), Le ore del meriggio. Saggi critici (Il Convivio 2020, Premio Giuseppe Antonio Borgese) e Dolci detti. Dante, la letteratura e i poeti (Marsilio 2021).

Testi citati:

Œuvres complètes de Charles Baudelaire,III: L’Art romantique, Parigi, Lévy, 1885;

Edward M. Forster, The Creator as Critic and Other Writings, a cura di J.M. Heat, Toronto, Dundurn, 2008;

André Pézard, Dante sous la pluie de feu, Parigi, Yrin, 1950;

Brunetto Latini, Li livres dou Trésor, a cura di F. Chabaille, Parigi, s.e., 1863; Benedetto Croce, Un gesuita poeta. Gerard Manley Hopkins (1937), in Poesia antica e moderna. Interpretazioni, Bari, Laterza, 1966.