Categorie

La Seconda Repubblica delle Lettere

In La Seconda Repubblica delle Lettere

A Michela Murgia. Storia tragicomica di una scrittrice

di Francesca Bellucci

La prima volta che vidi Michela Murgia era il 2015, mi trovavo nell’Aula Magna del mio liceo e avevo, come spesso accadeva allora, aspettative minime su quell’ennesimo incontro con l’autore. Era in giro per l’Italia a presentare la sua ultima uscita, Chirù, romanzo che non solo non mi piacque, ma che mi suscitò un certo insopportabile senso di fastidio. Fu il primo che lessi, su imposizione, proprio in vista di quell’incontro; e credetti che sarebbe stato anche l’ultimo. Pensai che, come molti degli altri scrittori che erano capitati sulle colline della mia città, si sarebbe limitata ad assolvere all’unico compito che stava a cuore a me e ai miei compagni: allontanarci dall’aula, serrare le orecchie e fingere, nella migliore delle ipotesi, un’attenzione che avremmo destinato al compagno seduto accanto. E dire che allora leggere era l’attività principale della mia vita, ma due malcapitati al loro primo romanzo, scritto a quattro mani, dissero in quella stessa Aula Magna che la scrittura non poteva e non doveva avere a che fare con la vita dello scrittore. Quella frase mi fece odiare prima quei due e poi gli scrittori che seguitarono ad arrivare a scuola. Era stato il compiacimento generale che mi fece storcere il naso, mandando in brandelli la credibilità di chi, in qualche modo, imboccava la strada per la mia città e soprattutto di chi decideva chi sarebbe arrivato.

Ma l’incontro con la Murgia fu tutt’altro: lei ci costrinse ad aprire le finestre e a guardare fuori, a renderci conto che in un romanzo ci sono sempre dei pezzi di vita vissuta, voluta, desiderata, spaventosa e profondamente dolce. La Murgia parlava e noi eravamo davvero lì con lei, in dialogo, stupefatti e attratti da quelle verità che lei ci stava proiettando davanti agli occhi con dolcezza e sagacia. Ripercorse la sua storia e quella del suo primo romanzo, Il mondo deve sapere. Romanzo tragicomico di una telefonista precaria, e quel momento fu il fulcro di tutto. Lì la vita dello scrittore e dello scritto diventavano un tutt’uno e mi permisero di capire che c’era chi, come lei, dalla verità non solo non si lasciava spaventare ma che imbrigliava col coraggio la paura di parole messe in fila l’una dietro l’altra per sancire un punto di fine e uno di inizio. La vera magia fu che di tutta quella forza non me ne accorsi subito: entrò poco alla volta, smosse prima le corde della curiosità, poi quelle del dubbio. Non ci sono molteplici forme di verità collettiva, ce n’è una sola, comune, che ha come unico perno la felicità. Una società giusta è una società in cui il singolo sa di potersi beare dei piaceri della vita senza imporre a se stesso una maschera che gli permetta di muoversi latentemente per le vie della propria giustizia personale.

La sera di quel dicembre 2015 scesi di casa per ascoltarla ancora nella libreria che la ospitava. C’erano per lo più adulti, tanti piccoli borghesucci di provincia che i libri e gli incontri li collezionavano per fregiarsi di chissà quale cultura, forse posseduta, ma di certo sterile: incapace di farsi forma di pensiero. Con la grazia che le ho sempre ritrovato anche negli anni successivi, la Murgia planò sulle nostre vite. Usò il suo romanzo come pretesto per farci dire ad alta voce che sono i desideri più reconditi quelli in grado di muoverci davvero, che per comprendere chi siamo dobbiamo guardare in basso, vedere ciò che abbiamo nascosto, abbellito da una nebulosa convinzione di agiatezza.

In questi otto anni l’ho vista prendere a due mani le verità della nostra società e metterle sotto la lente d’ingrandimento per permetterci di capire che la strada che stiamo percorrendo non è quella corretta, se non è quella scelta con la testa.

La Murgia ha cucito una maglia di idee che cerca di rendere la società più giusta, più equa, che si pone l’obiettivo di scardinare le bugie che ci raccontano e ci raccontiamo per alimentare la nostra pigrizia e lasciare che tutto ci scorra addosso, convinti che la tempesta possa attraversarci e non sbaragliarci. Ha raccontato storie, ne ha inventate tante altre; ha intrecciato verità e fantasia, ha inciso lapidi di parole sulle brutture del nostro tempo.

Molto da dire ci sarebbe sulle donne della sua penna, sul suo uso delle parole nei saggi e nei romanzi, sul registro comunicativo che con grande coerenza ha usato per l’attivismo sui social, sulla capacità di adattare i mezzi di comunicazione a sua disposizione alla misura dello scrittore, sancendo la dimensione moderna dell’intellettuale, sulla potenza degli scritti degli ultimi mesi.

Muore solo la donna; gli scrittori, si sa, continuano a vivere nella dimensione delle parole.

In La Seconda Repubblica delle Lettere/ Senza categoria

Intervista postmoderna a Francesco Permunian

di Giulia De Vincenzo

Siamo in arrivo a: Peschiera del Garda. Prossima fermata: Peschiera del Garda.

La voce metallica proveniente dall’altoparlante mi risveglia da una specie di trance. A farlo è anche il trambusto di una quindicina di passeggeri arrivati a destinazione, che si alzano contemporaneamente.

“Hah sti maledeti turisti che ogni istà i vien sul lago e i fa un luamaro” borbotta spezzante una signora seduta accanto a me. Chissà se si riferisce alla stessa sporcizia lamentata da Francesco Permunian quando, assaltate da chiassose comitive turistiche in estate, le strade e le spiagge del Garda gli diventano insopportabili, portandolo a rifugiarsi in una terra di mezzo tra quell’angolo di provincia veneto-lombarda e le patrie terre del Polesine. Quelle terre basse e monotone che si stendono tra l’Adige e il Po che lo hanno visto nascere proprio nel 1951, anno della disastrosa alluvione, raccontata in Dalla stiva di una nave blasfema. E non sono certo bastate le bonifiche, i nuovi campi o le nuove case al posto dei tuguri per estirpare quel sentimento di solitudine e abbandono che alligna nel DNA di ogni suo abitante. Forse è stata questa la ragione che lo ha spinto a dire addio a quei luoghi. Forse ha preferito non ritrovarsi anche lui, un giorno, impaludato tra quelle nebbie, a consumare le sue speranze in attesa di una ridicola disperazione senile.

Siamo in arrivo a: Desenzano del Garda. Prossima fermata: Desenzano del Garda.

Ci siamo. Ho appuntamento con lui alle 9.30 al bar della stazione, dove ogni mattina va a fare colazione. E dove trasloca in piena notte, con un cuscino e una coperta sottobraccio, quando non riesce a chiudere occhio nel suo letto. Mi sembra quasi di vederlo, passare con nonchalance tra barboni e tassisti per dirigersi verso l’amato boudoir ferroviario, fregiato coi graffiti di Kafka e Sebald, dove ha imparato a dormire coi suoi fantasmi senza ricorrere a tranquillanti e sonniferi.

Scendo dal treno dando un rapido sguardo all’orologio. Le 9.15. Bene. Conoscendo il suo animo inquieto e nevrotico, non sarebbe il caso di farlo aspettare. Provo una certa emozione camminando tra i corridoi di quella che, pur non viaggiando mai, Permunian ha definito la sua seconda casa nel romanzo Il gabinetto del dottor Kafka. Ma, arrivata all’uscita, scorgo al di là della porta a vetri la sua figura emaciata e distinta, seduta a uno dei tavoli del bar. Indossa camicia e blazer scuri. A fine giugno. D’istinto, tiro fuori dallo zaino la mia giacca sfoderata, resa ancor meno elegante dalle pieghe del viaggio. Non senza imbarazzo, la indosso e gli vado incontro.

Lo saluto scusandomi per l’inesistente ritardo e cerco di sedermi nella maniera più disinvolta possibile mentre, sotto il suo sguardo indagatore, sul volto mi si dipinge un’espressione che vorrebbe essere serena e rilassata, ma non ci riesce.

– P…

– Non le sfugge nulla, proprio come mi aspettavo. Forse il modo migliore per stemperare la tensione è cominciare la nostra… Non chiamiamola intervista, se mi permette. Consideriamola, piuttosto, una conversazione. Uno scambio di vedute sui suoi libri. Sui suoi romanzi, principalmente. Anche se lei non ha mai scritto romanzi nel vero senso del genere, eccezion fatta forse per Nel Paese delle Ceneri. La sua è piuttosto – mi corregga se sbaglio – una narrativa frammentaria che registra, come lei stesso scriveva in Dalla stiva di una nave blasfema, “sogni e fantasmi scambiati un tempo per idee e progetti”.

– P …

E lo fa perché la scrittura, mi è parso di capire leggendola, è l’unico mezzo per resistere al nichilismo e destreggiarsi tra un passato sempre più sfuggente, un presente mefitico e un futuro incerto. In tutte le sue opere è palpabile il suo fare i conti con la realtà quotidiana e al tempo stesso con i fantasmi del passato. E questo la obbliga giocoforza a utilizzare due modalità narrative: quella realistica per descrivere la sua quotidianità sul Garda e quella fantastica per sublimare quella stessa realtà quando la opprime. Specialmente in questo periodo, credo, quando l’arrivo di festanti orde di turisti la trasforma in un orrendo lunapark a cielo aperto. Dico bene?

– P …

– Del resto, mi chiedo da un po’ cosa l’abbia spinta a un certo punto a virare verso la narrativa, dal momento che la sua attività di scrittore è cominciata nelle vesti di poeta. Immagino sia perché oggi la poesia non fa più mercato. La poesia rientra difficilmente nella sfera dell’utilità, giusto? E oggi il concetto di piacere corrisponde tristemente a quello di utilità. Come pure, l’attuale mercato editoriale somiglia sempre più a uno smisurato e caotico romanzificio nazional popolare che obbedisce al canone realistico perfino quando produce delle opere “distopiche”.

– P …

– No, non serve affatto che mi rammenti la sua profonda avversione per tutti i grandi festival letterari, equiparabili a degli squallidi supermarket. Nonché la sua predilezione per tutte le situazioni borderline e anche per la piccola editoria, alla quale ha affidato quasi tutta la sua produzione. È chiaro che a muoverla in questa direzione concorrano delle ragioni editoriali, poetiche, sì, ma anche caratteriali. Non vorrei metterla in imbarazzo, ma che lei abbia un carattere schivo e solitario si capisce già dalla sua penna, affilata e beffarda. Una penna a tratti anche un po’ astiosa nei confronti di quegli pseudo scrittori falliti che sempre più vanno profanando la sacralità della letteratura, l’unica religione della quale si professa credente.

– P …

– Ha ragione, a questo punto è opportuno chiederle qual è la sua posizione dinnanzi a quella che Sergio Quinzio ha definito “la sconfitta di Dio”, ovvero il suo venir meno alle promesse di felicità e giustizia di cui gronda il testo biblico. Sarei tentata di domandarle se il suo ateismo le procuri più un senso di perdita o di libertà. In fondo, però, ho imparato a conoscerla attraverso i suoi scritti e ho la sensazione che il nichilismo, piuttosto che spaventarla, quasi la rassereni. Se quello delle nostre vite – convengo con lei – è un teatrino dove ora si ride, ora si piange, l’idea di un dio che da grande capocomico osservi il tutto sbellicandosi dalle risate senza muovere un dito, beh, farebbe dubitare chiunque della propria fede religiosa.

– P …

– Di questo discuteremo magari un’altra volta. Ora torniamo ai suoi fantasmi, quelli che cerca di esorcizzare o di debellare attraverso la scrittura. Ripensavo, durante il viaggio, a un passaggio da L’anno del pensiero magico di Joan Didion in cui l’autrice scrive “se il serpente resta visibile non può morderti. È così che affronto il dolore: voglio sapere dov’è”. Ecco, credo che la stessa cosa possa valere per quelle ombre che la perseguitano. In fondo, il fatto di fissarle sulla carta, impedisce il concretizzarsi di quella che secondo me è la sua paura più grande, ossia la perdita definitiva del suo vagolabile passato. L’esercizio della scrittura, da parte sua, risponde all’ostinata volontà di mantenere in vita i suoi ricordi. E, forse, è proprio questo mondo fatto di carta e inchiostro quella terra di mezzo in cui ha dichiarato di vivere ne Il rapido lembo del ridicolo. Mi sbaglio?

– P…

– Ah già, non le ho ancora chiesto nulla sulla sua attività di bibliotecario, incarnata peraltro dal protagonista di una sua opera, La  Casa  del  Sollievo  Mentale. Mi dica una cosa: le ha permesso di conoscere meglio le “umane genti” oppure di defilarsi dalle relazioni col prossimo, magari facendole cosa gradita?

– P …

– Va bene, le lascio la facoltà di non rispondere. Si figuri. Ma almeno può dirmi se il lavoro da bibliotecario ha acuito il suo senso critico? Non solo nei confronti della società, ma anche della letteratura, s’intende. Glielo chiedo perché mi ha molto colpito la sua polemica contro i critici odierni, dediti soltanto a scrivere romanzi oppure a confezionare favori all’amico o all’editore di turno. E dal momento che lei considera oltre il novanta percento degli attuali romanzieri nient’altro che carne in scatola, cotta e stracotta, reputo anch’io inaccettabile una critica totalmente incapace di esercitare la nobile arte della stroncatura.

– P …

– Sì, è vero. È stato Harold Bloom a sostenere che la critica è morta da un pezzo. Lei, però, ha condiviso pienamente il suo pensiero, mi pare. Stando così le cose, del resto, capisco che qualsiasi interpretazione non richiesta della sua opera la lasci ormai abbastanza indifferente. D’altronde, abbiamo ampiamente chiarito che la scrittura è per lei un’operazione necessaria. Tuttavia, ci tengo a dirglielo, questo non le impedisce, nel frattempo, di costruire personaggi interessanti che riescono a imprimersi nell’immaginario di noi lettori. Sto pensando alla Carmen de Il gabinetto del dottor Kafka, che non ha nulla da invidiare a una delle donne di Almodovar. O comunque non la porta certo a rinunciare  all’invenzione che si sviluppa attraverso tutte le situazioni grottesche che animano le sue pagine.

– P …

– Ma allora, se il gusto letterario tende ad essere orchestrato da una critica prezzolata, perché pubblicare ancora? Vuol forse dirmi che nell’inarrestabile degrado della letteratura, la lettura, se fatta con criterio, può ancora essere un modo per salvarsi da “quel grandissimo mostro odierno che è la solitudine di massa”?

– P …

– Bene. È la risposta che mi aspettavo. Lo sente? È Frank Sinatra che passano in radio? Sì, mi sembra proprio lui. Sa, è buffo come in Giorni di collera e di annientamento lei si sia costruito come alter ego un crooner che ha rinunciato alla carriera musicale per aver vinto un Premio Strega. Io, invece, l’ho sempre immaginata seduto da solo in riva al lago a intonare melodie malinconiche con l’armonica. Esatto, come Neil Young. Solitario e nostalgico.

Riguardo l’orologio: sono le 9.20.

Thinking your mind, was my own in a dream / What would you wonder and how would it seem?/ Living in castles a bit at a time

Ma non c’è da sorprendersi. In fondo le mie, come quelle di Permunian, sono solo parole, parole tra le righe del tempo.

The king started laughing and talking in rhyme / Singing words, words between the lines of age.

TESTI CITATI:

Francesco Permunian, Dalla stiva di una nave blasfema, Reggio Emilia, Diabasis, 2009;

Francesco Permunian, Il gabinetto del dottor Kafka, Roma, Nutrimenti, 2013;

Francesco Permunian, Nel paese delle ceneri, Milano, Rizzoli, 2003;

Francesco Permunian, Una strana vocazione al suicidio, Brescia, Centro Iniziative Culturali P.P. Pasolini, 1980;

Francesco Permunian, Il rapido lembo del ridicolo, Trieste, Italo Svevo Edizioni, 2021;​

Francesco Permunian, Giorni di collera e di annientamento, Firenze, Ponte alle Grazie, 2021;

Sergio Quinzio,                 La sconfitta di Dio, Adelphi, Milano, 1992;

Joan  Didion, L’anno  del  pensiero  magico  (The  Year  of  Magical  Thinking,  2005),  traduzione  di  Vincenzo Mantovani, Collana Narrativa n.2, Milano, Il Saggiatore, 2006;

Giovanni Raboni, Meglio star zitti? Scritti militanti su letteratura cinema teatro , Milano, Mondadori, 2019;

Giovanni Bitetto, Il morbo della letteratura, intervista a Francesco Permunian sulla rivista online Singola, 2022;

Neil Young, Words (Between the lines of age),                Harvest, 1972.

In La Seconda Repubblica delle Lettere/ Senza categoria

Robert Frost, “Betulle”, una lettura.

di Demetrio Paolin

In questi mesi Adelphi ha pubblicato Fuoco e Ghiaccio (trad. Silvia Bre) di Robert Frost, un libro che raccoglie la maggior parte della lirica del grande poeta americano. Frost è autore di una delle poesie che ho più amato e letto negli anni: Betulle.  Pur non essendo un esperto e un critico di poesia, ho provato a fare “alcune” riflessioni su questi versi. Non riuscendo a strutturare un vero e proprio saggio né su Frost (la postfazione di Ottavio Fatica è molto interessante ne consiglio la lettura prima di immergersi nei versi del libro) né sulla lirica in sé, ho pensato semplicemente di glossarne alcuni versi. Ho deciso di privilegiare l’originale, per evidenziare la musica del verso di Frost. Primariamente leggeremo la poesia, i numeri tra parentesi quadre indicano i punti dove sono intervenuto con le mie riflessioni.

When I see birches bend to left and right [1]

Across the lines of straighter darker trees,

I like to think some boy’s been swinging them.

But swinging doesn’t bend them down to stay

As ice-storms do. Often you must have seen them

Loaded with ice a sunny winter morning

After a rain. They click upon themselves

As the breeze rises, and turn many-colored

As the stir cracks and crazes their enamel.

Soon the sun’s warmth makes them shed crystal shells

Shattering and avalanching on the snow-crust—

Such heaps of broken glass to sweep away

You’d think the inner dome of heaven had fallen. [2]

They are dragged to the withered bracken by the load,

And they seem not to break; though once they are bowed

So low for long, they never right themselves:

You may see their trunks arching in the woods

Years afterwards, trailing their leaves on the ground

Like girls on hands and knees that throw their hair

Before them over their heads to dry in the sun. [3]

But I was going to say when Truth broke in [4]

With all her matter-of-fact about the ice-storm

I should prefer to have some boy bend them [5]

As he went out and in to fetch the cows—

Some boy too far from town to learn baseball,

Whose only play was what he found himself,

Summer or winter, and could play alone.[6]

One by one he subdued his father’s trees

By riding them down over and over again

Until he took the stiffness out of them,

And not one but hung limp, not one was left

For him to conquer. He learned all there was

To learn about not launching out too soon

And so not carrying the tree away

Clear to the ground. He always kept his poise

To the top branches, climbing carefully

With the same pains you use to fill a cup

Up to the brim, and even above the brim.

Then he flung outward, feet first, with a swish,

Kicking his way down through the air to the ground.[7]

So was I once myself a swinger of birches.

And so I dream of going back to be.

It’s when I’m weary of considerations,

And life is too much like a pathless wood

Where your face burns and tickles with the cobwebs

Broken across it, and one eye is weeping

From a twig’s having lashed across it open.

I’d like to get away from earth awhile

And then come back to it and begin over. [8]

May no fate willfully misunderstand me

And half grant what I wish and snatch me away

Not to return. Earth’s the right place for love: [9]

I don’t know where it’s likely to go better.

I’d like to go by climbing a birch tree,

And climb black branches up a snow-white trunk

Toward heaven, till the tree could bear no more,

But dipped its top and set me down again.

That would be good both going and coming back.

One could do worse than be a swinger of birches. [10]

[1] When I see birches bend to left and right.

La grandezza della lirica di Frost sta nel suo nitore di mezzi, di temi, di lingua. Di Frost a colpirmi è la chiarezza, una chiarezza vicina alla semplicità infantile. Il verso iniziale della poesia è elementare, la sua lingua è trasparente, non mi viene un aggettivo migliore; mostra quello che è per ciò che è.  La domanda di Holderlin, che è forse il poeta che io accosterei più volentieri a Frost, Perché i poeti in tempo di povertà, è risolta da Frost nell’idea di una lingua che si fa povera; anzi la linguaggio è una esperienza di penuria. Il primo verso descrive le betulle che si muovono: è una lingua, che nomina le cose. Perché parlo di povertà e non di semplicità? Perché Frost non è un poeta semplice, non sceglie queste parole per semplificare il dettato, ma vuole rendere il lettore partecipe della sua esperienza di impossibilità di produrre una comprensione più esatta del mondo e delle cose.

Nominare le cose non è dominare le cose; la parabola adamitica andrebbe riscritta: quando nominiamo le cose, loro ci possiedono e noi entriamo nel loro campo semantico e questo ci fa sentire la nostra pochezza, la pochezza del nostro strumento per accordarci con la natura.

[2] You’d think the inner dome of heaven had fallen

 You’d think the inner dome of heaven had fallen. Nel mezzo di una riflessione piana, una semplice contemplazione della natura così come è, appare questo verso, che risulta essere la chiave di volta del poema: Frost sta scrivendo una sorta di apocalisse; egli è uno scrittore che vede cieli nuovi e terra nuova, che vede consumarsi il tempo del mondo come le pagine di un libro che brucia. Il crollare della neve e del ghiaccio dai rami diviene un tutt’uno con il cielo che crolla, con il mondo che finisce, quasi che la trasparenza delle versi precedenti non fosse che un inganno per qualcosa di più profondo, che il poeta vede e che lampeggia alla nostra vista per un attimo, nel preciso istante in cui la neve e il ghiaccio cadono. Ai nostri occhi la cortina di nebbia che avvolge il mondo si apre e per il tempo infinitesimale della caduta mostra ciò che realmente è.

[3] Before them over their heads to dry in the sun

Questo passaggio, con i versi che lo precedono, mi colpisce sempre e mi è oscuro, ogni volta che mi soffermo su di essi mi pare indicare qualcosa come l’essere recalcitrante del mondo. Nel verso precedente abbiamo visto che il poeta è riuscito a mostrarci l’apocalisse, una idea di essa, per un attimo, come il brillare luminoso della luce che trapassa la neve, qui invece è come se la realtà si ribellasse a quel tentativo di svelare se stesso: il mondo fosse opaco alla rivelazione che il poeta presagisce e che cerca di raccontare; che esperienza abbiamo del mondo? Che esperienza abbiamo delle piante, dei ruscelli, dei sassi? Che esperienza degli animali, dei loro sogni, del loro sangue, della loro sofferenza, cosa è il Vivente? Cosa è vivo e cosa è morto? Le parole, che Frost usa, sono le parole che tentano la rivelazione, Betulle è una poesia – come ogni poesia di Frost – che prova a dipanare la rivelazione, ma la realtà è idiota, non produce in noi nessuna reale conoscenza, produce al più parole che producono una spiegazione misteriosa e oscura di un mondo che recalcitra, che resiste, che si piega senza spezzarsi che continua a esistere.

[4] But I was going to say when Truth broke in

Betulle è chiaramente un testo meta-poetico, non è la semplice descrizione di un bosco d’inverno, è il resoconto dell’apparire della verità, anzi della Verità, simile a un tempesta di ghiaccio: è interessante che parli di “verità” e non di “realtà”. A Frost preme la verità: verità e realtà non sono coincidenti, sono sposate su due piani diversi; paradossalmente meno facciamo esperienza della realtà (vd la povertà della lingua) più si apre il piano della verità.

[5] I should prefer to have some boy bend them

Il ragazzo è una creatura viva, reale che si muove, che dondola tra i rami. Il ragazzo si oppone alla verità, il poeta oppone il ragazzo alla verità, l’esistenza del ragazzo è in opposizione. La letteratura, il fare letteratura, lo scrivere è opporsi alla verità, opporsi al dato del reale così come è. La letteratura non nasce per descrivere il mondo, per cartografarlo, per renderne nitidi i contorni, la letteratura non è rappresentazione del reale dal vero, come una pittura, come una foto, ma è una bugia, una menzogna, una travisare la realtà, un velarla agli occhi, è – in una parola – finzione. Il poeta ha visto se stesso specchiato nella verità e ha avuto paura, crea una storia per allontanare chiunque dalla possibilità di specchiarsi.

[6] Summer or winter, and could play alone

Questo ragazzo è capace di giocare da solo – play alone -. Il termine play è ambiguo, vuol dire anche recitare, agire, fare: è lo scherzo tremendo che Nabokov racconta come origine della letteratura: “La letteratura non è nata il giorno in cui un ragazzino corse via dalla valle di Neanderthal inseguito da un grande lupo grigio, gridando ‘Al lupo, al lupo’; è nata il giorno in cui un ragazzino, correndo gridò ‘Al lupo, al lupo’ senza aver nessuno lupo alle calcagna”. Il bambino di Nabokov come il ragazzo di Frost sono soli, non hanno compagnia (scrivere è un atto di estrema solitudine, è l’eremo): sono loro che fanno da intermediari tra la realtà – avere veramente un lupo alle calcagna – e la finzione – immaginare di avere un lupo alle calcagna -; l’interstizio scintillante in cui il ragazzo di Frost ci invita a giocare è appunto la letteratura, che è sfugge alla nostra capacità informativa, che non riesce a essere tradotta in maniera piana; la letteratura in un testo è ciò che si oppone a ogni interpretazione, che recalcitra, proprio come la natura [3], e più recalcitra più noi cerchiamo di analizzarla.

[7] Kicking his way down through the air to the ground

Assistiamo a una descrizione di apprendimento, a come poter guardare la natura, alla scelta di povertà del linguaggio, perché la povertà del linguaggio è la cosa più vicina al silenzio, la ipotesi in cui possiamo realmente fare esperienza del mondo, e ci possiamo opporre al lui. Impoverire la sintassi, sempre più semplice, svuotare il soggetto, svuotare i verbi, i complementi, le proposizioni, i nessi causali e finali, provare a sentire la nudità delle termini. Provare a scrivere una parola in cui ogni funzione sintattica, grammaticale, retorica e di eloquenza sia una e soltanto quella, riuscire a dire “Io sono a casa” senza che questa frase suoni ambigua, senza che possa produrre interpretazione.

[8] And then come back to it and begin over

In questi versi compare la nostalgia, nel duplice senso di desiderio ciò che è perduto e di ritorno a ciò che era un tempo. Frost è stato il bambino che dondolava tra le betulle [6], era il bambino che gridava al lupo al lupo senza che nessuna fiera lo aggredisse o inseguisse. È interessante questa sequenza “andare via dal mondo: tornare indietro: ricominciare”, che descrive in maniera perfetta la nostalgia come un muoversi non tanto in uno spazio, ma in un tempo: ecco perché “ricominciare”. La nostalgia è legata a un inizio, a un principio, ovvero è legato al tempo. La nostalgia è il tempo del principio, è il momento esatto prima che la colonna del cielo crolli e la verità entri nel mondo, la nostalgia è quando non c’era bisogno della verità, della realtà, del linguaggio, semplicemente perché tutto questo non c’era, perché non c’era bisogno di gridare “Al lupo al lupo”, perché niente di tutto questo esisteva: la nostalgia è l’attimo esatto in cui l’universo fu in equilibro e l’equilibro fu l’angoscia. La nostalgia è il mondo libero, mentre cede all’angoscia.

[9] Earth’s the right place for love

La terra è il posto giusto per amare. Cosa è l’amore? Anzi cosa è amare, non tanto la sostanza, quando il verbo, cosa è il verbo amare? In Betulle questa azione è strettamente legata a una serie di verbi di movimento, li introduce, come se fosse il prodromo da cui entrare: andare, salire, ritornare. Durante la lettura tutti questi verbi hanno un’accezione di morte, di abbandono, brilla nascosto il suicidio. Amare porta con sé il dono della morte, l’ultimo dono del poeta: la sua vulnerabilità, la sua sconfitta, il suo tentativo di esprimere con poche parole il semplice dondolare dei rami delle betulle.

[10] One could do worse than be a swinger of birches

Così come si è aperta la lirica si chiude, alla fine quel che resta della poesia è l’immagine iniziale, il movimento a cercare un senso, c’è di peggio dice Frost che scrivere una poesia; gli scrittori, i poeti, i critici, gli intellettuali sono innocui come i bambini che gridano al lupo, come i ragazzi che giocano nel bosco, nessuno li sente, a nessuno importa di loro, di ciò che hanno – rapidamente e confusamente – per un attimo veduto.

In La Seconda Repubblica delle Lettere

I sintetici di Levi: genesi del nuovo assetto mondiale – parte II

di Antonio R. Daniele

Qualche anno fa Pierpaolo Antonello, in un interessante volume che compendiava il fantascientifico italiano, citava con sicurezza Levi all’interno di una linea di scrittori che procedeva da Calvino a Volponi passando per Buzzati stesso. E questa collocazione è possibile non soltanto sul piano dei contenuti ma anche su quello della forma scritta, cioè del principio della scrittura. La variazione ironica, quasi sarcastica, è il metodo che consente a Buzzati di stanare il lettore e condurlo al disorientamento, allo smarrimento finale dei principi: una donna che dà alla luce un bambino dopo averlo concepito con l’uomo che ama è diventata una anomalia intollerabile e pericolosa. Levi procede lungo il medesimo sentiero: lo abbiamo già notato e se ne trova una conferma ulteriore quando tratta la materia legata al Mimete in Storie naturali, un caso di clonazione, qualcosa che riproduce un modello «dal caos, dal disordine assoluto. Ecco, questo fa il Mimete: crea ordine dal disordine», scrive Levi. Quella storia, nella quale il narratore il settimo giorno si riposò è talmente scoperta nei suoi contenuti e nei suoi significati che merita di essere valutata dal punto di vista della costruzione narrativa e, soprattutto, non può essere separata dal brano che compie il dittico del Mimete, quello col quale Levi comprende che per togliere il velo sulla questione che gli è cara – la nuova origine dei sintetici – non può agire solo sul contenuto della narrazione ma è necessario che si affidi al procedimento ironico, conducendolo fin oltre la soglia del grottesco e alle porte della farsa. Quando noi terminiamo la lettura di Alcune applicazioni del Mimete, ridiamo divertiti dalla trovata del protagonista: abbiamo goduto una spassosa pagina di narrativa. Sennonché dobbiamo risalire la corrente e renderci conto che in effetti il Mimete, in ultimo, ha creato ordine dal disordine (giacché l’uomo che aveva duplicato sua moglie, alle prime avvisaglie di criticità nel suo imprevedibile ménage à trois, risolve l’impasse duplicando se stesso e sistemando la faccenda con una doppia coppia), ma ha lasciato inalterato non tanto il problema etico quanto il disagio fra voluttà e possibilità. Inoltre, Levi conferma che questa scrittura discende da un tracciato culturale recente e preciso: riferisce che la donna clonata ha ventott’anni ed è nata nel 1936. Dunque, la vicenda è ambientata a metà degli anni Cinquanta, proprio quando «La Civiltà delle Macchine» favoriva gli studi e le pubblicazioni in materia di neurofisiologia artificiale. Non solo: non si può non notare una certa corrispondenza di temi tra questa scrittura e Il grande ritratto di Buzzati, romanzo la cui stesura cominciò nel 1959 e la cui pubblicazione venne un anno più tardi. In quel lavoro Buzzati narrava la storia di un uomo di genio che, mediante un complesso dispositivo, dava nuova origine alla moglie morta. La vicenda buzzatiana implica un intrico di questioni molto più fitto, ma non c’è dubbio che la linea di derivazione sia la medesima. E anche in quel caso “origine” e “distruzione” si incrociano, si sovrappongono, di fatto sono una cosa sola: il grande congegno attraverso cui il prof. Endriade aveva preteso di rifare sua moglie genera morte attorno a sé e non può che essere annientato.

         Ho cominciato questo intervento rinvenendo una specie di dichiarazione di poetica leviana: ad ogni creazione corrisponde una volontà di distruzione. E mi pare che la conferma definitiva di questa dinamica fatale si trovi in uno dei brani più noti di Vizio di forma, ossia Verso occidente, quello dei lemming che paiono spostarsi in branco per andare a morire verso qualche confine. I lemming nascono per poi andare a suicidarsi. Poi il ricercatore del racconto nota lo stesso comportamento in una tribù del Sudamerica. «Perché un essere vivente dovrebbe voler morire? – E perché dovrebbe voler vivere? Perché dovrebbe sempre voler vivere?», domanda l’uomo. Conosciamo le curiose teorie che Levi elabora nel testo sul desiderio di morte dei roditori della storia; sappiamo anche – dalla testimonianza di Daniele Pugliese resaci ormai parecchi anni fa nella introduzione a un suo libro di racconti – che Levi si pentì di aver scritto il racconto e si scusò degli effetti che può aver provocato:

Lei ha preso molto (troppo!) sul serio un mio racconto di cui oggi mi vergogno un poco, perché l’ho scritto in un momento di angoscia e di debolezza, e perché, invece di essere d’aiuto all’eventuale lettore, rischia di estendere a lui il disagio dell’autore. Se così è avvenuto, accetti le mie scuse; oggi penso che spargere al vento le proprie angosce possa portare sollievo a chi lo fa, ma sia poco morale.

Ma, al di là della resipiscenza di Levi nei riguardi delle sue stesse inquietudini e sulla quale non è opportuno cavalcare nessuna congettura condotta a posteriori (ma, si badi: Levi non si pentì di ciò che aveva scritto, ma di averlo scritto; la qual cosa pare una sottigliezza ma non lo è), resta un dato fondamentale: per Levi l’impeto di distruzione o di autodistruzione non è una acquisizione successiva all’origine, ma ne fa parte. Fa parte del corredo genetico dell’essere vivente: «tutto ciò che è vivo, lotta per vivere e non sa perché» – scrive l’autore – «Il perché sta scritto in ogni cellula, ma in un linguaggio che non sappiamo leggere con la mente […]. Ma anche quelle in cui il messaggio è chiaro possono avere delle lacune. Possono nascere individui senza amore per la vita».

         Il tentativo di alterare tutto questo può avere conseguenze imponderabili: per esempio, che lo scienziato impegnato a cercare la soluzione del male di vivere dei lemming trovi la morte proprio per aver arrestato questo processo e che la tribù di umani il cui raziocinio dovrebbe favorire la scelta per la vita resti attaccata alla propria volontà di morte, proprio come fosse qualcosa di vitale poiché naturale. Come la stella tranquilla di Lilìt che, «nel remoto atto originario in cui tutto è stato creato, le era toccata un’eredità troppo impegnativa. O forse conteneva nel suo cuore uno squilibrio o un’infezione, come accade a qualcuno di noi».

In La Seconda Repubblica delle Lettere

I sintetici di Levi: genesi di un nuovo assetto mondiale

di Antonio R. Daniele

Ad ogni creazione corrisponde un impeto e una voluttà di distruzione. Si potrebbe cominciare da questa specie di assunto apodittico nell’indagine su Primo Levi e l’origine, sicuri che – sia pure nei pericoli di una sintesi che non si ignorano – avremo detto molto della scrittura breve leviana, sia in quanto a materia scelta sia in quanto a prassi narrativa.
          Intanto si rifletta su qualche dato e, per meglio dire, su qualche “evento” occorso a Vizio di forma e al suo autore; e a questo proposito molto dice la nota lettera prefatoria con la quale Levi accolse la riedizione dell’opera ai primissimi del 1987: deluso ma lieto; contento ma amareggiato. Primo Levi scriverà un brevissimo saggio di antinomie, un esercizio verbale di conflitti. E se al sentimento di letizia noi assegniamo il valore del “generare” e al sentimento di amarezza quello del “distruggere” vedremo replicata, in quelle poche righe, una dialettica che, è evidente, segnò i racconti che Levi licenziò nel 1971. E, se volessimo esasperare questa dinamica, potremmo notare che il nostro autore lasciò questo mondo negli anni in cui era persuaso che il mondo stesso nascesse a nuova vita:

Il Medioevo non è venuto: nulla è crollato, e ci sono invece timidi segni di un assetto mondiale fondato, se non sul rispetto reciproco, almeno sul reciproco timore. A dispetto degli spaventosi arsenali dormienti, la paura di una «Dissipatio Humani Generis» (Morselli), a torto o a ragione, si è soggettivamente attenuata. Come stiano oggettivamente le cose, non lo sa nessuno.

E in effetti le cose, oggettivamente, sarebbero andate in un altro modo. Ma non è questo che interessa. Interessa, invece, che Levi percepisca attorno a sé nuova creazione e prosperità e lasci il mondo. E lo faccia pochi mesi dopo la riedizione di Vizio di forma, libro costruito su questo conflitto percettivo: origine-distruzione e viceversa.
         Ma la scrittura di Levi non ha né tratto apocalittico né ottimisticamente eugenetico. Levi sa operare anche tra le maglie del registro brillante, in alcuni casi dilettevole, senza per questo perdere di vista il peso delle questioni. «I bambini sintetici sono una realtà, anche se l’ombelico ce l’hanno», scrisse con accento scorato in quelle stesse righe all’editore, richiamando uno dei suoi racconti nel quale profetizzava l’avvento di creature costruite in laboratorio, umanoidi, il cui inconfondibile segno distintivo era l’assenza dell’ombelico. La narrazione è, appunto, realizzata su due piani: la leggerezza di quotidiane circostanze scolastiche, quelle che impegnano ragazzini alle prese con usuali lezioni di storia e interrogazioni (tra l’altro, in una infarcitura di cliché sull’insegnamento, evidentemente già diffusi cinquant’anni fa, il che dovrebbe sollecitare qualche riflessione), e il carico di temi insoliti e inquietanti. Torniamo a Levi e alla lettera: è contento della riedizione ma crucciato. Ed è crucciato perché, a suo dire, molto di quanto paventato nel libro si è avverato e i sintetici sono diventati davvero sintetici. Alla fine di quel racconto, superato il livello del “gradevole” assicurato dal vivace scambio di vedute tra il bimbo anomalo e i compagni di classe, il grottesco confronto con la professoressa e il preside, Mario, appunto il ragazzino sospettato di aver avuto origine chissà come e chissà da chi, tiene un discorso dal tono grave:

Adesso siamo pochi, ma poi saremo molti e comanderemo noi, e allora non ci saranno più guerre. Sì, perché non combatteremo fra noi come capita adesso, e nessuno potrà assalirci perché saremo i più forti. E non ci saranno differenze: noi non faremo più differenze, bianchi, negri, cinesi, saranno tutti uguali, anche i Pellerossa, quelli che restano. Distruggeremo tutte le bombe atomiche e i missili, tanto non serviranno più a niente, e con l’uranio che ne ricaveremo ci sarà energia gratis per tutti, in tutto il mondo: e anche da mangiare, gratis per tutti, anche in India, cosi nessuno morrà più di fame. Faremo nascere meno bambini, in modo che ci sia posto per tutti: e tutti quelli che nasceranno nasceranno come noi.
– Nasceranno come? – chiese una voce timida.
– Come me. O anche per telefono, o per radio: un uomo telefona a una donna, e poi nasce un bambino, ma non così.

Il nuovo “assetto mondiale” che a Primo Levi parve di scorgere alla fine degli anni Settanta, quello che garantiva armonia fra i popoli e uguaglianza fra etnie, sarebbe stato prodotto da creature la cui origine sormonta il livello naturale, viene da esperimenti e forse da mondi sconosciuti. Addirittura – viene lasciato intuire al lettore – potrebbe essere il risultato di una incombente invasione di strane creature.

Quando ci sono di mezzo Primo Levi e questioni legate alle scienze si rischia uno spiacevole restringimento di prospettiva: credere, cioè, che Levi abbia trattato alcuni temi soltanto perché aveva familiarità con una certa materia, trascurando con ciò tutto un coté culturale nel quale inserirlo e di cui era di certo consapevole. Questo brano e il grosso delle scritture contenute in Vizio di forma non chiamano in causa soltanto l’intertesto leviano, ma partecipano di un quadro letterario più ampio al quale si deve far risalire una lunga serie di scritture, di tono artistico più o meno valido, che attraversano tutti gli anni Sessanta e la cui matrice potrebbe essere individuata sia in Facial justice di Leslie Poles Hartley (1960) che in Harrison Bergeron di Kurt Vonnegut (1961), dove il mondo ricomincia dopo una guerra mondiale, i bambini nascono in provetta e si lavora per annullare le differenze tra gli uomini, anche nell’aspetto. Da noi si deve registrare un singolare racconto di Dino Buzzati apparso sul «Corriere d’Informazione» nel settembre del 1964 e intitolato Il bambino illecito. Quell’esemplare di narrazione breve – che a sua volta si inseriva in un viatico di scritture e di studi sulle origini di stampo scientifico e fantascientico che Buzzati percorreva sin dalla metà degli anni Cinquanta, quando interloquiva con Leonardo Sinisgalli circa la sua rivista, «La Civiltà delle Macchine» – trasse spunto da un caso che suscitò molto clamore in Italia, quello del dott. Daniele Petrucci che a metà degli anni Sessanta documentò di aver fatto nascere una trentina di bambini fecondando ovuli al di fuori del grembo materno. Buzzati scrive un racconto dissacrante, capovolgendo i termini della questione: in un contesto nel quale la normalità delle cose era la nascita in provetta, l’origine della specie era affidata a una «produzione esclusivamente di bambini e di bambine bianche di tipo “mentale” e “submentale”. C’era anche un nuovo reparto – scrive Buzzati – a carattere sperimentale, per la produzione di tipi “supermentali”, ma era tenuto in sospetto dalle autorità […] una illecita forzatura nello sviluppo di certe particolari qualità della mente, ciò che poteva domani riuscire pericoloso per l’equilibrio sociale». Dunque, i “sintetici” di Levi, queste creature che predicano una nuova origine, un superamento della condizione naturale e sono promessa di un mondo nuovo e normalizzato nei valori e nelle forme, vengono da questa traiettoria culturale e letteraria. 

In La Seconda Repubblica delle Lettere

Elena Ferrante in “L’amica geniale”: aspetti sociolinguistici nel passaggio tra romanzo e narrazione televisiva

di Annasara Bucci

Le vicende che nascono dalla narrazione dell’infanzia di Lila e Lenù non sono una tenera celebrazione della fanciullezza. Come nel caso di Elena Ferrante (o chi per lei), lo scrittore che ha deciso di raccontare la durezza delle cose non patisce mezzi termini nell’affidare alle vicende il compito di muovere la realtà, poi alla parola il compito di dipingerle: sono candidi occhi di bambine quelli che permettono al lettore di osservare la realtà narrata, ed il contrasto che tale occhio osservatore crea sullo sfondo della narrazione (fatta di cose terribili) non è una collisione straniante, bensì un collante che tiene uniti i passaggi tra l’infanzia e l’adolescenza insieme al lento rassegnarsi delle due piccole protagoniste all’inevitabile partecipazione alla rete della vita, al duro allenamento alle regole del gioco.

Il lettore le osserva muoversi di pari passo ai loro sguardi sulle cose, e così profondamente simili e diverse lasciano che anche il romanzo vesta i suoi primi abiti, come loro indossano i primi grembiuli di scuola. Le si osserva studiare, scambiarsi le bambole, assistere alle violenze domestiche e sociali del rione, persino subirle, qualche volta; le si osserva registrare gli eventi come piccole videocamere silenziose intente a riflettere e capire, superare le prime difficoltà, provando a sbrogliare -dapprima bambine e poi giovani donne- la matassa ingarbugliata di un mondo ai loro occhi ancora poco comprensibile.

Raffaella Cerullo ed Elena Greco sono due soggetti narrativi che nutrono e si lasciano nutrire dal motore di un romanzo sociale che affresca lo stato delle vicende di un’epoca in un preciso contesto territoriale, quello di un rione della Napoli degli anni ’50 in lenta riemersione dalla guerra.

Una Napoli presente attraverso le descrizioni dei luoghi delle protagoniste: affamata, sporca e desolata tra le strade del rione, brulicante e viva tra le strade principali del un grande ventre; ma, soprattutto, una Napoli presente attraverso la sua stessa essenza, la potenza della parola.

Quando parliamo della lingua del territorio napoletano dobbiamo fermarci a riflettere su un dato importante: questo dialetto, come molti dei nostri dialetti meridionali, sussiste come lingua-linguaggio: è una parlata ‘drammatica’, nel senso che l’intelligenza sostanziale della lingua si esprime non solo nella sfera della semantica ma soprattutto nella sfera del corpo, cioè del gesto. Affinchè la si comprenda interamente non solo bisogna conoscere tutto l’insieme dei suoi codici, bisogna più che altro essere capaci di avvertire i suoi sentimenti. È in ragione di ciò che quando si parla di ‘napoletanità’ ci si riferisce a tutto l’insieme dei sentimenti della cultura napoletana, di cui la lingua è parte integrata, assolutamente necessaria per comprendere i linguaggi in cui tale cultura si esprime. Stiamo parlando di una lingua di peculiare potenza espressiva in cui la comunicazione avviene per immagini, differenze di toni e accompagnamento di gesti ed espressioni: a pieno titolo, una lingua espressionista.

All’interno del romanzo, l’autrice sceglie di non utilizzare il dialetto in modo sistematico come lingua dei dialoghi: è un utilizzo silente, un impiego per singole espressioni, esclamazioni o utilizzo di soprannomi, molto spesso il dialetto è il mezzo espressivo dell’insulto volgare o reazioni sanguigne dei personaggi. Quando il dialetto interviene in modo più esteso durante il discorso è la scrittrice stessa a segnalarlo, riportando però il discorso in Italiano:

Andammo via mentre sentivo Lila che diceva indignata a Enzo, in dialetto strettissimo: «M’ha toccata, hai visto? A me, chillu strunz. Meno male che non c’era Rino. Se lo fa un’altra volta è morto». (Ferrante, 2018).

Come quasi sempre succede con i riadattamenti cinematografici, la storia del romanzo soffre qualche perdita dovuta al cambio dei linguaggi, alle scelte della regia o agli elementi della sceneggiatura, alla pluralità degli interventi necessari al passaggio tra narrazione del romanzo e narrazione destinata allo schermo. Nel caso della trasposizione cinematografica della quadrilogia, sin dalla prima serie è stata fatta una scelta di sceneggiatura coraggiosa e impegnativa, quella di trasporre gran parte dei dialoghi dall’italiano al dialetto. A beneficiarne è indubbiamente la potenza espressiva dell’intera vicenda narrata attraverso le voci degli attori che padroneggiano lingua, toni ed espressività in maniera pregevole e rispettosa degli elementi narrativi interni al romanzo.

Proprio qui, però, un problema: la presenza (inevitabile) sullo schermo dei sottotitoli che rendono i dialoghi in italiano corrente, come è successo anche con altre serie (si veda l’esempio di Gomorra o del più recente Strappare lungo i bordi).

Anche qui una riflessione: siamo un paese che possiede una particolare storia della lingua, i cui dialetti regionali erano a tutti gli effetti una pluralità di italiani parlati in ambito regionale da tutti gli strati della popolazione e a tuti i livelli della comunicazione, ufficialmente fino al momento dell’unità nazionale. La storia del nostro Italiano standard è recentissima ed i dialetti si mantengono ancora come parlate territoriali abbastanza caratterizzanti da non permetterne all’insieme dei parlanti del territorio italiano la piena comprensione.

In Lombardia abbiamo bisogno dei sottotitoli per comprendere il parlante del dialetto napoletano, in Friuli per comprendere il parlante del dialetto romano e viceversa, e così via lungo tutta la penisola.

Ora, il problema del sottotitolo osservato dal parlante che ignora un dialetto differente dal suo come fosse una lingua forestiera è che, pur traducendo in italiano corrente il contenuto del dialogo, non riuscirà a trasporre la totalità dei significati che quella lingua (soprattutto nel caso di un dialetto così espressivo come il napoletano) ha intenzione di veicolare. La perdita percettiva dell’ascoltatore è nelle sfumature di significati veicolate da toni, inflessioni, scelte di termini specifici, una perdita importante che riguarda il sentimento stesso dei contenuti che l’Italiano standard non riuscirà mai a tradurre o a colmare con la sua trasposizione.

Un risultato ancora peggiore si ottiene cercando di italianizzare per intero le espressioni dialettali, denaturando su più i livelli la correttezza dell’Italiano e sfibrando il dialetto nella sua peculiarità espressiva alla stessa maniera di Lenù, quando poco più che adolescente muove i suoi primi passi nella grammatica italiana soffrendo il passaggio dall’utilizzo sistematico del dialetto a quello dell’Italiano scolastico:

Mi resi subito conto che parlavo un italiano libresco che a volte sfiorava il ridicolo, specialmente quando, nel bel mezzo di un periodo fin troppo curato, mi mancava una parola e riempivo il vuoto italianizzando un vocabolo dialettale (Ferrante, cit.)

In un romanzo così intriso di napoletanità, viene spontaneo chiedersi quale romanzo leggano i connazionali del parlante napoletano che di napoletanità non è intriso, e quale il cittadino francese, inglese o spagnolo, (giacché il romanzo vanta una traduzione in circa 40 lingue) che conoscono la cultura napoletana soltanto come un mito tutto italiano. E noi, come avremmo letto la storia di Elena Ferrante se fosse nata in un contesto diverso da quello napoletano? L’avremmo letta come un romanzo di ottime potenzialità, indubbiamente. Ma orfano del suo terzo protagonista principale: orfano di una forma peculiare di sentimento della parola.

In La Seconda Repubblica delle Lettere

Riscrittura o Fan Fiction?

di Raffaella Mottana

Negli ultimi anni si parla sempre più spesso di fan fiction, Wattpadd è una delle più grandi piattaforme su cui aspiranti scrittori possono pubblicare la loro storia. Il sito si rivolge direttamente agli utenti: “la tua storia potrebbe arrivare in libreria”[1]. E alcune di esse sono davvero arrivate in libreria, diventando anche casi di successo.

Cosa viene a modificarsi in quel campo che noi chiamiamo letteratura, la pubblicazione di queste fan fiction? In che modo è in relazione con la ricrittura?

Iniziamo mettendo le definizioni a confronto: per riscrittura si intende “l’azione e l’operazione di riscrivere”[2] mentre con fan fiction parliamo di “opera narrativa [fiction] di ammiratori [fan]”[3].

Ora possiamo notare una strana discrasia: un autore che riscrive un’opera si può considerare un ammiratore della stessa, ugualmente chi scrive fan fiction. Simile è il prodotto finale, in entrambi i casi, un testo. Se proprio dobbiamo osservare una differenza, essa sta che quasi tutte le riscritture diventano un libro mentre la maggioranza delle fan fiction rimane sul web.

Accade, però, in alcuni casi, che la fan fiction esca dalla rete e approdi in libreria; sono proprio questi fenomeni che vogliamo qui interrogare per vedere quale sia la reale differenza tra ri-scrittura e fan fiction.

Negli ultimi anni ne sono state pubblicate alcune: Cinquanta sfumature di grigio di E. L. James nel 2011 (ex fan fiction di Twilight di Stephanie Meyer), After di Anna Toddnel 2014(ex fan fiction sulla band One direction), per citarne solo un paio. È interessante notare come questi esempi sono sì tratti da un’opera originale ma non conservano niente o quasi che rimandi a essa – forse perché non l’avevano di partenza – e sono a sé stanti, tanto che non troverete pubblicizzato che siano state tratte da un altro romanzo.

Sono un’anomalia e quindi interessanti perché non si possono considerare fan fiction e non sono riscritture.

Diverso è il caso delle riscritture che si presentano in quanto tali: come prima cosa non c’è lo step intermedio della pubblicazione sul web e, in secondo luogo, hanno nel titolo o nel sottotitolo qualcosa che rimanda all’opera originale: il nome della stessa o di un personaggio conosciuto. Omero, l’Iliade di Alessandro Baricco; Elena, Elena, amore mio di Luciano de Crescenzo; L’Odissea raccontata da Penelope, Circe, Calipso e le altre di Marilù Oliva; Il canto di Penelope di Margareth Atwood.

Se i canoni per essere riscrittura dovessero essere solo un rimando, esplicito o meno, a un’opera originale e la pubblicazione in forma di libro, allora anche La canzone di Achille di Madeline Miller dovrebbe essere una riscrittura. Non penso si possa considerarsi tale, invece rientra perfettamente nella definizione di fan fiction.

Per far capire il motivo vorrei metterla a confronto con Il canto di Penelope di Margareth Atwood. Ha poca importanza che una riguardi l’Iliade e l’altra l’Odissea, sono apparentemente molto simili e vale la pena metterle a confronto.

Nel caso della Canzone d’Achille, abbiamo una prima persona – Patroclo – che racconta se stesso, la sua infanzia e adolescenza, l’amore per Achille e la guerra di Troia; nel Canto di Penelope abbiamo una prima persona – appunto, Penelope, – che racconta se stessa, la sua infanzia e adolescenza, il matrimonio con Odisseo, l’attesa e il suo ritorno, il tutto intervallato dal coro – omaggio a quello presente nella tragedia greca – composto da dodici ancelle.

La differenza principale – oltre la presenza del coro ovviamente – è lo spazio dato alla storia d’amore e com’è trattata.

Nel romanzo della Miller non è la storia d’amore che fa da sfondo alla vicenda, ma il contrario. Questo genera una piattezza che coinvolge non sono la vicenda – che è penalizzata dal trovarsi, appunto, di contorno – ma anche i personaggi stessi; quelli secondari perché non gli viene dato il giusto spessore e quelli principali perché sono l’uno lo specchio dell’altro e hanno sviluppo.

È evidente guardando come Patroclo parla di Achille.

Quando le sue dita iniziarono a toccare le corde, tutti i pensieri mi sfuggirono. Il suono era puro e dolce come acqua, brillante come limoni. Quella musica era diversa da qualsiasi altra avessi mai sentito. Aveva il calore di un fuoco, la consistenza dell’avorio levigato. Placava e confortava allo stesso tempo. Mentre suonava, qualche capello gli ricadde sugli occhi. Erano sottili come le corde della lira, e splendevano.

Achille tornò a dedicarsi alle corde, e la musica si levò di nuovo. Questa volta, l’accompagnò col canto, intrecciando la sua voce ricca e chiara alle note. Tirò lievemente indietro la testa, mostrando la gola, soffice come la pelle di un cerbiatto. Un piccolo sorriso gli sollevò l’angolo sinistro della bocca. Senza rendermene conto, mi ritrovai a sporgermi in avanti.

La musica e il canto sono descritti con aggettivi che, in realtà, ci parlano di com’è Achille: è lui che è puro e dolce, brillante, che ha il calore del fuoco…

Achille è perfetto e intoccabile, nel corso del romanzo viene ricordato più volte da Patroclo, che sembra esistere per glorificare e pontificarci la sua bellezza e bravura. Allo stesso tempo di lui sappiamo più che cosa non è e cosa non fa rispetto a chi è e come agisce: non è un figlio degno per suo padre, non pare avere talenti, non suona, non combatte. Eppure, quando il padre di Achille gli chiede perché l’ha scelto come compagno, lui risponde che Patroclo «È sorprendente».

Non spiega perché, ma quello che fa intendere è che Achille veda Patroclo nello stesso modo in cui Patroclo vede Achille: lo ama e lo reputa perfetto così come l’altro lo adora e vede perfetto lui.

È un cane che si morde la coda e, quando le vicende della guerra vengono descritte – troppo tardi nella narrazione aggiungerei – non sono forti abbastanza da riequilibrare la storia d’amore.

Una storia è fatta delle sue relazioni, non solo quelle tra i protagonisti – innamorati o meno che siano – ma tra tutti: è questo che le permette di “respirare”.

Proprio questa sensazione di tornare a respirare l’ho avuta leggendo Il canto di Penelope dopo aver finito La canzone d’Achille. La Atwood descrive una Penelope a tutto tondo, che vive delle sue relazioni con gli altri personaggi, i genitori, la cugina Elena, le ancelle e Odisseo. Le scene tra i due hanno meno spazio di quelle che Achille e Patroclo condividono nel libro della Miller, eppure – e forse appunto per questo – risultano molto vivide.

Elena dice che Penelope e Odisseo sono perfetti insieme, perché «hanno tutti e due le gambe corte».

Nel contesto questa è una cattiveria, così viene percepita da Penelope, ma da lettori si noti come la Atwood metta già Penelope e Odisseo sullo stesso piano. Le gambe corte sono proprie della bugie, di Odisseo si sa che è un ingannatore, è interessante come anche al personaggio di Penelope sia data questa chiave di lettura, così diversa da quella che si è abituati ad attribuirle. Non è più la moglie fedele che aspetta il ritorno del marito mentre tesse ma la donna che escogita un piano per ingannare i proci.

Penelope, a differenza di Patroclo, è da subito percepita come un personaggio attivo.

Nel rapporto tra Penelope e Odisseo c’è una progressione: lei viene a tutti gli effetti vinta per essere data in sposa, dice che gli viene consegnata come «un pacco di carne».

Odisseo però con lei si mostra gentile, la coinvolge i un piano perché, durante la prima notte di nozze, gli ospiti fuori dalla porta li lascino in pace.

Era uno dei suoi grandi segreti la capacità di persuasione, riusciva sempre a convincere un altro che si trovavano entrambi di fronte a un ostacolo comune, e che solo unendo le forze lo avrebbero superato.

Durante la notte gli sposi parlano, si scambiano racconti che li portano ad avvicinarsi, tanto che Penelope sente di avere qualcosa in comune con suo marito e che è «una ragione in più per restare uniti e non essere troppo pronti a fidarci degli altri».

E così, il mattino seguente, io e Odisseo eravamo davvero amici, come lui mi aveva promesso. Posso dirlo anche in un altro modo: mi ero accorta di provare una vera amicizia per Odisseo – o qualcosa di più, un vero amore, una vera passione – e lui si comportava come se ricambiasse i miei sentimenti. Non è esattamente lo stesso.

Penelope racconta di sé e dei suoi rapporti con chi la circonda, che sono anche conflittuali, non solo ovviamente con i pretendenti che usurpano casa di Odisseo, ma anche con chi dovrebbe essere dalla sua parte: la madre e la balia di Odisseo, il suo stesso figlio.

Questi piccoli conflitti non solo ci danno l’idea di personaggi “vivi” ma contribuiscono a far muovere la storia.

È appunto il cambiamento nei rapporti, il loro sviluppo e quanto essi sono radicati nella storia che rende dinamica la vicenda; quando invece si hanno due personaggi con un rapporto invariato, inseriti in un contesto abbozzato, la storia risulta piatta.

La canzone d’Achille potrebbe essere ambientata durante qualsiasi altra guerra, poco o niente cambierebbe nei personaggi e nelle loro relazioni. Al contrario è difficile separare Il canto di Penelope dall’Odissea, le radici che affonda nel poema omerico sono solide.

L’interesse per la storia d’amore, alla quale tutte le vicende ruotano intorno e devono sottostare, è sia uno dei maggiori segni che quello che si sta leggendo è una fan fiction, mentre la riscrittura è qualcosa che guarda con un occhio nuovo alla storia originale, ma allo stesso tempo ne riporta l’anima.


[1] https://www.wattpad.com/?locale=it_IT

[2] https://www.treccani.it/vocabolario/riscrittura/

[3]https://www.treccani.it/vocabolario/fanfiction/#:~:text=%C2%ABopera%20narrativa%20%5Bfiction%5D%20di,la%20singola%20storia%20si%20ispira.

In La Seconda Repubblica delle Lettere

I Griffin, Jonathan Franzen e l’importanza dello stile

di Andrea Micalone

Una delle convinzioni più difficili da rimuovere, quando mi trovo davanti a persone che ambiscono a imparare a scrivere (soprattutto nei corsi di scrittura creativa, per ovvie ragioni, ma non solo), è quella secondo la quale le trame, le narrazioni e anche le singole scene possiederebbero una carica emotiva specifica di per sé.

Mi spiego meglio. Chi ha una conoscenza basilare delle meccaniche narrative (o dello storytelling, come va di moda dire), spesso è convinto che le trame possiedono una carica drammatica, o comica, o di altro genere, connaturata alla narrazione stessa. E questa certezza, inevitabilmente, va a ripercuotersi sugli scritti dell’aspirante scrittore (o sceneggiatore, o fumettista, o quel che è). Quest’ultimo, infatti, partendo da un simile presupposto, nel momento in cui deve creare qualcosa di proprio, si concentra nell’ideare scene o situazioni che, a suo modo di vedere, siano già colme di un dato peso emozionale. Così facendo, quando poi si trova davvero a comporre il proprio testo, finisce inevitabilmente per sorprendersi se l’insegnante o i suoi compagni di corso non rimangono profondamente scossi da ciò che ha scritto, o addirittura ridono del suo racconto.

“Come è possibile?” si chiede. “Io avevo in mente una scena drammatica, e questi ignoranti insensibili scoppiano a ridere? Sono esseri senz’anima!” O viceversa: “Io ho scritto una scena spassosissima, e tutti invece si complimentano con me per la malinconia e la tristezza che avrei trasmesso?” La ragione molto semplice che si cela dietro questo “enigma” è che le trame e le scene non possiedono una carica emotiva propria.

La qualità emotiva di una data scena è, invece, resa esclusivamente dallo stile, e da nient’altro. Non appena proclamo quest’affermazione nei corsi di scrittura, tutti corrono a confermarla. Sono d’accordo: è logica e indissolubile. Per quanto possano mostrarsi d’accordo, però, al primo racconto seguente che devono scrivere, incappano di nuovo negli stessi identici errori fatti in precedenza. E questo accade, io credo, perché banalmente saper giocare con lo stile non è certo roba che si apprende in due minuti. Conoscere in linea teorica la questione non significa saperla già mettere in pratica. Ma conoscere un concetto in linea teorica non significa neppure averlo realmente compreso. Se, infatti, io posso esprimere questa “regoletta” a voce (se lo sia davvero, una regola, ora non c’importa), e se i corsisti annuiscono con l’aria di chi ha compreso, basta poi mostrare loro un video per dimostrare quanto siano ancora distanti dall’avere inteso a fondo ciò che intendo dire.

Prendiamo, ad esempio, questo video: “Peter Griffin dimentica come ci si siede” (potete visionarlo a questo link di YouTube: https://www.youtube.com/watch?v=tTuaIqzW2lY ).

“I Griffin”, per chi ancora non lo sapesse, sono un cartone animato americano, creato da Seth MacFarlane, indicato per un pubblico adulto. Fanno della demenzialità più estrema la propria chiave comica, e ogni puntata è costellata di gag come quella di cui sopra, totalmente nonsense e, proprio per questo, divertenti (almeno a parer mio. Se non vi fa ridere perché vi pare troppo stupida, amen). Se viene mostrato questo video a degli aspiranti scrittori e si chiede loro: “una simile scena potrebbe risultare drammatica?”, la risposta (escludendo quelli che vogliono brillare da subito) suonerà netta: “No. Mai.”

Come potrebbe, infatti, risultare drammatico uno sciocco omone che dimentica come ci si siede e si tuffa in modo goffissimo sulla poltrona? Ebbene, prima di andare avanti, vi do un piccolo avvertimento. Se ora vi sembra impossibile che una simile scena possa essere resa in modo drammatico, quando vi mostrerò che non è così, direte: “Ah, be’, ma in questo modo è ovvio che il tuo discorso funziona”. Sul primo momento questa frase vi parrà un’opposizione al mio ragionamento, ma se vi fermerete un minuto in più a pensarci, vi accorgerete che questa “ovvietà” quasi sospetta è, in realtà, proprio l’ovvietà di cui vi parlavo in principio: lo stile genera la carica emotiva della scena, e non il contrario. Lo stile è tutto, insomma (e per stile, qui, intendo un mare di cose: la voce dell’autore, l’atmosfera, le parole utilizzate, le scelte artistiche; insomma: lo stile). Prendiamo adesso il romanzo “Le Correzioni” di Jonathan Franzen (Einaudi, traduzione di Silvia Pareschi, edizione 2002; colgo l’occasione per ringraziare la casa editrice e la traduttrice, che mi hanno concesso di riportare in questo articolo il frammento seguente). Andiamo a pagina 66 e leggiamo (qui troviamo l’anziano Alfred Lambert alle prese con i primi problemi datigli dall’Alzheimer e dalla vecchiaia in generale):

In soggiorno, Alfred stava raccogliendo il coraggio per sedersi sulla chaise longue di Chip. Meno di dieci minuti prima c’era riuscito senza incidenti. Ma ora, invece di rifarlo e basta, si era fermato a pensare. Solo di recente si era reso conto che alla base dell’atto di sedersi c’era una perdita di controllo, una caduta cieca all’indietro. La sua eccellente poltrona blu era come un guantone da baseball che accoglieva con delicatezza qualunque corpo gli piombasse addosso, a qualsiasi angolazione e velocità; le sue grandi e abili braccia a orso lo sorreggevano mentre eseguiva la cruciale manovra cieca. Ma la poltrona di Chip era un pezzo di antiquariato, troppo bassa e scomoda. Alfred le volgeva le spalle, esitante, con le ginocchia piegate quel tanto che glielo consentivano i polpacci neuropatici e con le mani che scavavano e brancolavano nell’aria dietro di lui. Non riusciva a decidersi. E tuttavia c’era qualcosa di osceno in quello stare semiaccovacciato e vacillante, qualcosa che gli ricordava il gabinetto, un fondo di vulnerabilità che gli parve così intensa e allo stesso tempo così spregevole che, unicamente per farla finita, chiuse gli occhi e si lasciò andare. Atterrò di peso sul fondoschiena e proseguì all’indietro, fermandosi solo quando arrivò con le ginocchia a mezz’aria.

– Al, va tutto bene? – gridò Enid.

– Non capisco questo mobile, – rispose lui, sforzandosi di raddrizzarsi e di assumere un tono energico. – Dovrebbe essere un divano?

Di nuovo: un omone tutto d’un pezzo che, per brevi istanti, non è più sicuro di come ci si sieda e di cosa abbia sotto di sé (leggendo soltanto questo frammento, il personaggio potrebbe sembrarvi solo un anziano in lieve difficoltà; ma chi ha letto l’intero romanzo sa invece che Lambert è già preda dell’Alzheimer, e che nel resto del libro faticherà in atti altrettanto banali; insomma: se qui non ha dimenticato del tutto come ci si siede, è in procinto di farlo). Ora, invece di vedere una gag simpatica, ci siamo trovati davanti un uomo che, a causa della vecchiaia e di una malattia, fatica in uno degli atti teoricamente più sciocchi e quotidiani che possano esistere. E proviamo un innegabile dolore, una rabbia cieca verso la vita che col tempo porta via con sé ogni cosa. Mi si potrebbe opporre che, in questo secondo caso, Alfred non si tuffa in modo stupido, e alla fine atterra nella maniera giusta, e che insomma non vi sarebbe effetto comico solo perché non vi è un atterraggio scomposto. Ma è davvero così? Immaginiamo se la scena si concludesse nello stesso identico modo del video: l’uomo si lancia e crolla in modo disarticolato sulla poltrona.

No.

Comunque ora non ci farebbe più ridere.

Anzi, sarebbe ancor più drammatico di quanto già lo è il frammento del romanzo. Sarebbe il cedimento definitivo di un malato. Ma allora cos’è che in questo secondo caso ci addolora e nel primo caso ci diverte? La conoscenza del contorno? Della malattia? In parte, certo, ma non del tutto: del resto, proprio “I Griffin” traboccano di gag politicamente scorrettissime su malattie e quant’altro: black humour allo stato puro. Questa conoscenza, dunque, in realtà va soltanto a sommarsi, appunto, allo stile del racconto. È esso, proprio esso, lo stile, a determinare il respiro della scena e a donarle una determinata carica emotiva.

Ma la scena di per sé? Quale carica emotiva avrebbe?

Questa è una domanda da un milione di dollari a cui non credo vi sia risposta. Nella realtà, probabilmente, saremmo più sul versante drammatico, ma una scena di una narrazione non è realtà. Una scena è una scena. Una scena non esiste di per sé. Una scena esiste soltanto nello stile in cui l’artista l’ha concepita.

In La Seconda Repubblica delle Lettere/ Narrazioni

“Ulisse” di J. Joyce, una lettura – 0

di Demetrio Paolin

Il 2 febbraio 1922, giusto 100 anni fa, per l’editore nonché librario, Shakespeare &Co esce Ulisse di James Joyce. La data così tonda e precisa rappresenta una occasione superba per prendere nuovamente in mano il romanzo e provare a condividere, nel corso delle prossime settimane, la mia lettura insieme a voi lettori di Lettera Zero (*). L’idea mi è tornata alla mente quando, girando tra i social, mi sono imbattuto in un post che chiedeva, non so quanto ingenuamente: “Ho comprato l’Ulisse di Joyce: come devo affrontarlo?”. L’unica risposta, sensata mi vien da dire, che sono riuscito a formulare è stata: “Prendi il libro, siediti su una sedia/poltrona e leggilo”. Se l’unico modo per affrontare un libro è leggerlo, mi sono convinto che sarebbe stato interessante tenere un diario di lettura settimanale, in cui annotare le pagine lette e dire ciò che ho pensato, immaginato, riflettuto durante la lettura in progress del libro. Ovviamente mi sono posto il problema della traduzione da scegliere: ho deciso per quella di Mario Biondi, edita da La nave di Teseo. La scelta non è stata facile: ho nella mia libreria più copie dell’Ulisse (solo il numero di esemplari della Commedia di Dante supera quelli del romanzo di Joyce), ho l’edizione – classica – della Mondadori, l’edizione della Newton Compton con la traduzione di Terrinoni, quella della Feltrinelli a cura di Ceni, quella di Einaudi con la traduzione di Celati, la Mattioli 1881 con la traduzione di Crescenzi, Giuliani e Viazzoli. E infine l’originale in lingua. Dato questo elenco mentirei se dicessi che questa è la prima volta che affronto la lettura dell’Ulisse: l’ho letto altre volte (due completamente, alcuni spezzoni più volte), ma sono convinto che le riletture siano sempre un modo nuovo e diverso per entrare nel testo. Perché, infine, ho scelto Biondi? Perché nella mia opinione, né da esperto traduttore, né da madre lingua che conosce i segreti e i trucchi che Joyce ha lasciato, Biondi è riuscito a rendere meglio la grandezza del romanzo, di cui involontariamente e per antifrasi la Woolf ha scritto il miglior giudizio: «Il libro è prolisso. È torbido. È pretenzioso. È plebeo, non solo nel senso di ovvio, ma nel senso letterario». Questa idea di bassezza e di sordidezza che la Woolf ravvisa nell’Ulisse, mi ha ricordato in qualche modo gli autori per periodo altomedievale con il loro latino rozzo, basso, imbarbarito dalle parlate volgari, ma perfettamente coerente con i temi dei loro testi – sermoni, storie di santi, storie di miracoli, di martiri – citati da Auerbach nel suo Lingua letteraria e pubblico nella tarda antichità e nel Medioevo (Feltrinelli), il sermo, la lingua, che Joyce usa è un sermo humilis ovvero concreto, basico, scatologico; proprio perché Joyce, come gli ignoti o meno predicatori e scrittori, che si trovano a dover scrivere nel momento di crisi e di passaggio da una realtà storica definita a qualcosa di oscuro, che ha prodotto non solo un cambio di immaginario, ma una modifica e un allentamento delle regole sintattiche, dell’uso delle proposizione e delle parole, creando una lingua totalmente nuova per i bisogni del pubblico a cui si riferiva, rivive nella stessa situazione – temporale e linguistica – con l’Ulisse. Ovvero la presunta illeggibilità de L’Ulisse è in realtà la fondazione di una diversa idea di lingua, di pubblico e di immaginario, che è quanto chiedo a un testo. Ad esempio non mi domando mai se/perché sia un classico, ma, con molta più prosaicità, perché le parole che leggo mi costringono a girare la pagina e ad arrivare fino alla fine. Un libro, per me, è sola scriptura, la lettera del testo, l’ingegnoso susseguirsi dei lemmi, della sintassi e dei periodi. Sono convinto che il libro non sia un’opera aperta ma chiusa, e che le sue ragioni sono da ricercare nel testo, dentro il testo, nelle lacune e nelle presenze, negli hapax e nelle ripetizioni e la logica compositiva di quel che viene letto. Quindi per me L’Ulisse di Joyce è un insieme di parole che si susseguono, e che formano frasi di lunghezza media, che secondo le statistiche di Franco Moretti (Un paese lontano, Einaudi) si aggirano intorno alle 7 parole, e raccontano la giornata ordinaria di un uomo.

Alcuni potrebbero chiedersi: “Questo modo di leggere può avere un senso?”. Provo a rispondere con un esempio o meglio con una fantasia. Il mio desiderio più profondo – chissà che prima o poi non abbia il coraggio di farlo – sarebbe costruire sull’Ulisse una sorta di performance artistica: prenderei una telecamera e la posizionerei fissa sullo schermo, prenderei una vecchia macchina da scrivere e incomincerei a ricopiare lettera dopo lettera, parola dopo parola, periodo dopo periodo l’Ulisse. Ho la certezza che alla fine ognuno di noi, ognuno che abbia assistito per intero a questa operazione, ne uscirebbe con una consapevolezza aumentata del mondo e della vita. L’unico modo di leggere un libro è ricopiarlo. Ecco: nelle mie vene scorre un residuo minimale del sangue di un qualche monaco irlandese che, quando ogni cosa si disfaceva (i barbari alle porte, l’impero perduto), copiava senza capire i testi antichi per ore e ore nello scriptorium; e così quando le ombre si allungavano e non bastavano le luci delle candele per vedere le lettere si stiracchiava, usciva e si dirigeva, finalmente, alla sua minuscola cella per fare compieta, poi s’addormentava e nel dormire sognava, e nel sogno c’erano bestie e draghi, e – vinta l’ultima difesa razionale – appariva il serpente e la mela e, infine, Eva, nuda, sconosciuta e nuova che diceva “Sì: lo voglio. Sì!”.

(*): Gli articoli verranno pubblicati a partire da lunedì 14 febbraio e avranno cadenza settimanale. Stiamo pesando anche di creare un canale Telegram per riunire coloro che vogliano iniziare una lettura condivisa del romanzo di Joyce e condividere spunti, riflessioni e impressioni di lettura con gli altri;

Se siete interessati potete mandare una mail dpaolin@gmail.com con oggetto: Lettura condivisa Ulisse.

In La Seconda Repubblica delle Lettere

Settimana Pasolini – Fenomenologia di una morte annunciata. Qualcosa su Riccetto e gli altri

di Francesca Bellucci

Pasolini si è nutrito delle corse che fa assieme ai “paraguletti” lungo le strade dissestate delle borgate romane, le vie di quell’Eden che ha così tanto di terrestre da essere una sorta di diario in terza persona.

Della maggior parte dei personaggi non conosciamo i loro nomi anagrafici ma solo quei soprannomi che fungono da vere e proprie cicatrici. Ci fa strano ascoltare il nome del Riccetto e del Lenzetta, perché non ce l’aspettiamo, perché Claudio Mastracca e Alfredo di Marzi, per noi e per il loro contesto non sono nessuno. Potrebbero essere un Claudio e un Alfredo qualunque in tutta Roma e in tutta Italia, ma sono perfettamente riconoscibili a loro stessi e agli altri nel loro essere Riccetto e Lenzetta. E lì dove il nomignolo o il soprannome manca, ecco che il nome quasi si fa manifesto di una fine annunciata. Lo vediamo in Marcello, il primo dei ragazzi di vita costretto ad abbandonare la vita. Lo stesso Marcello che nella corsa al Ferrobedò scavalca il cadavere di una donna per riempire il sacco, Marcello che cerca il Riccetto poco prima della catastrofe del crollo della scuola elementare in cui abitano, che porta con sé un senso di amicizia infantile che difficilmente rivedremo nel romanzo.

Lo stesso avviene per Genesio, un biblico, che ha in sé il valore di nascita, di creazione e che muore nelle acque sporche del fiume attraverso una sorta di purificazione al contrario che non rigenera ma distrugge. L’ultimo capitolo sembra essere costruito per finestre su ognuna delle quali è scolpito un nome, non il nome anagrafico dei personaggi, ma il loro nome di vita; le finestre di uno stesso palazzo, quello che, correndo, inciampando e scappando, i ragazzi di vita hanno salito e sceso fino a questo momento. Quel palazzo diroccato, che poi sono le borgate romane, sempre in movimento e chiassoso, per quella caciara che vige dentro e fuori le sue mura che, ancora una volta, è fatta di grida, di corse, di caccie animalesche alla vita. Le storie dei ragazzi di vita si intrecciano, formano un insieme di nomi che racchiude, in un solo quadro, tutto quel che Pasolini racconta fino a quel momento.

Sin dal suo incipit Pasolini utilizza un termine specifico per descrivere il contesto narrato: la caciara. Ragazzi di vita è un romanzo in movimento e rumoroso, anzi è il romanzo del movimento e del rumore, proprio perché tutto è corsa e chiasso. La caciara delle borgate romane veste i ragazzi di vita, che investono, a loro volta, delle sue connotazioni tutti gli spazi che occupano. Nella caciara un urlo di gioia si sovrappone ai pianti,  nella caciara si perdono le urla delle bravate e quelle di un corpo, come quello del Piattoletta che sta per prendere fuoco e si configura come un rito della sopraffazione, un’esaltazione della bestialità e la distruzione di un tessuto nato lacerato, quello dell’umanità intesa come affiliazione e compartecipazione (totalmente inesistenti, oltre la linea dell’utilitarismo) all’interno di uno spaccato di vita che, pur essendo ontologicamente unificato, genera separazione. Se l’unione generata dalla fame è lo status quo della caciara, la sopraffazione generata da quella stessa fame è la condizione necessaria del ragazzo di borgata.

Tolte le indicazioni anagrafiche che dà Pasolini, i personaggi, che si materializzano al di fuori del romanzo assumendo una corporeità fisica, non rispettano la divisione della vita di stampo pedagogico tipica della borghesia, ma sin dai primi anni di vita son permeati dalla cifra dell’età adulta: la vita come problema. La loro vita è un problema, quello dei soldi, di un’abitazione precaria, della fuga dalle borgate pericolose, dagli strepiti delle madri; il problema della morte pende sulle loro teste. Si tratta di vite così scosse dai tremiti della sopravvivenza che la stasi della morte altro non è che un impiccio secondario, un corpo da scavalcare per guadagnarsi una mezza piotta. È in questa visione, a cui il ragazzo di vita è educato, che egli perde la sua età e ogni tempo è uguale all’altro; i problemi dell’adolescenza sono gli stessi dell’età adulta: non c’è alcuna ascesa, il ragazzo di vita è buttato nella vita, lotta tanto col coetaneo quanto con l’adulto.

Nella tramatura sociale dei ragazzi di vita il richiamo principale ed anche il più brutale è proprio il rapporto con la morte, che nell’ultimo capitolo si estende a macchia d’olio su Riccetto e sul lettore che corre con i personaggi, che entra nella caciara e poi si ritrova di fronte al più assordante dei silenzi.

Sin dal primo capitolo Pasolini ci fa vedere personaggi svezzati dalla morte proprio perché in bilico sull’asse di una sopravvivenza che assume tratti animali.

Quando nel secondo capitolo muore un amico del Riccetto, Pasolini ci dà un quadro chiarissimo della morte borgatara: il nulla totale. La morte, finché non ti investe, è solo una cosa che capita, meglio se agli altri: fortuna tua che oggi non è toccata a te.

La morte degrada l’amicizia, snatura il legame parentale (specie con la madre) e soprattutto ci dà una precisa visione di quel valore che è dato alle vite degli altri al di fuori della propria: in un contesto sociale in cui, se necessario, mors tua vita mea, l’uomo, a prescindere dalla sua età anagrafica, si fa compagno quando serve a sopravvivere. Nel ragazzo di vita due sono le influenze che la morte può avere su di lui, casualità a lui estranea o mezzo per giungere a un fine. A dimostrazione di quanto l’ultimo capitolo non chiuda, ma socchiuda le storie, si apre una finestra anche sul Lenzetta, uno dei personaggi cui i rapporti umani, specie quelli familiare, sono tra i più degradati e questa chiosa finale altro non è che perfettamente coerente con quella climax morale discendente che traccia i suoi contorni nel corso del romanzo.

La narrazione della morte di Genesio, per quanto coerente con le altre narrazioni presenti della morte, cioè narrate nel modo in cui sono percepite e quindi quasi buttate lì come se si stesse narrando qualsiasi altro evento vivifico, è una narrazione che crea disagio, che spacca la caciara. Con Riccetto che, come prima reazione, risponde all’istinto umano e morale del prestare soccorso ma scappa come aveva fatto alla bisca, scappa come aveva fatto durante il furto grosso, scappa anche questa volta, ma con le lacrime agli occhi, a lui che al suo primo funerale, proprio quello di Amerigo, veniva da ridere.