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La spilla

di Anna Chiari

Le campane della chiesa di St. Clement suonavano le sei sopra i tetti azzurro polvere della vecchia Oxford. Era Aprile inoltrato. Gli odori freschi della primavera inglese salivano dai prati intorno ai college e si insinuavano nelle anguste stradine gremite agli angoli dai chiassosi avventori dei pub, affollati nel tardo pomeriggio. La luce ancora tiepida si dipingeva sui palazzi color crosta di pane rifrangendosi nell’aria tutt’attorno.

Le giornate erano più lunghe, pensò, smontando dalla sua Mark 2, chiudendo nervoso lo sportello dietro di sé. Due studenti in bicicletta lo scansarono veloci, ridendo tra loro, mentre attraversava la strada. Si sarebbe gustato una buona pinta, si disse, entrando nel pub The Wolf’s Head, già a quell’ora piuttosto pieno di gente. Il semestre stava volgendo al termine e dentro molti accademici e studenti assaporavano la certezza di un prossimo periodo di libertà. Paludati nelle ampie toghe nere, quasi a volersi distinguere, somigliavano ai dottori della peste del settecento veneziano. Mancava loro solo la maschera a becco lungo, dentro la quale non avrebbero però sentito l’aroma della birra e dello scotch.

Pensò a quanto dovesse apparire fuori luogo, con quei suoi abiti scuri, l’impermeabile lungo e il volto tirato. Non si faceva illusioni sul suo aspetto, mala cosa non gli dispiaceva. Non provava alcun desiderio di unirsi a loro. Una volta l’aveva assaporata quella vita, una volta era stato uno di loro… ma che stava dicendo?! Non era  mai stato uno di loro, forse proprio per questo aveva lasciato, a un passo dalla laurea. Con un sorriso amaro pensò fosse quella la sua condanna: restare  un eterno escluso, costretto a osservare sempre dal di fuori e  notare sempre, sì sempre, quei piccoli dettagli che agli altri sfuggono. Gli venne in mente come lo aveva definito quella ragazzina, un uomo dagli occhi di luna, qualcuno che, secondo un antico mito cherokee, è cieco alla luce del giorno, ma è in grado di vedere chiaramente nell’oscurità. Forse era davvero così. Egli piaceva, sì, gli piaceva. Era bravo in quel che faceva e, per quanto ne provasse un certo disgusto, non avrebbe potuto fare nient’altro nella sua vita.

Si avvicinò al bancone e chiese la solita lager, scura, torbida… non si era mai soffermato su quel colore, ma si accorse che si abbinava perfettamente alla sua vita. La giovane barista gli sorrise mentre lo serviva e gli chiese cortesemente come andava. “Come sempre”, fu la sua risposta elusiva. Le sorrise, quasi per scusarsi, mentre afferrava l’Oxford Mail e si metteva seduto, aprendolo, come suo solito, alla pagina dei cruciverba per ingannare l’attesa.

Dalla tasca estrasse carta e penna e cominciò a scrivere, un elenco, una serie di ipotesi, di possibilità. Lo avrebbe aiutato quel suo senso logico, l’analisi fredda, quelle sue capacità che lo avevano reso un buon poliziotto. Anche gli altri, i colleghi, lo dicevano, a volte a denti stretti, bisbigliando tra loro.

Erano anni che non tornava a Oxford, da quando si era arruolato con i Royal Corps e aveva lasciato gli studi. La sua era stata una decisione improvvisa, frutto di un impulso a cui lui stesso non aveva saputo dare un senso preciso. Era sempre stato primo del suo corso, aveva ottimi risultati in metrica latina e letteratura inglese, eppure sentiva che qualcosa di quell’ambiente fatto di privilegi e ineguaglianze non gli apparteneva. Se avesse continuato sarebbe sicuramente divenuto un accademico, tutti lo sapevano. Poteva quasi immaginare quella vita, vederla da fuori, distinguerne la divisione in atti, l’inevitabile colpo di scena a metà del secondo e la distensione del terzo, ne conosceva i toni drammatici e le note pacate alla fine. Una cattedra, una toga, poi una moglie, quella moglie, e eventualmente dei figli, una rappresentazione piccolo borghese di gustosa e piacevole esecuzione.

Amava l’opera, Puccini in particolare, ma solo a teatro gli piacevasospendere la sua incredulità. Nella vita di tutti i giorni preferiva restare vigile, stimolato, come quando si metteva a fare i cruciverba. Era così che voleva vivere, lettera dopo lettera, rompicapo dopo rompicapo, senza sapere dove lo avrebbe portato il prossimo enigma.Voleva esercitare il suo ingegno, non sprecarlo sulle pagine ingiallite di libri che ormai avevano esaurito tutti i loro più profondisignificati.Qualcos’altro lo aveva richiamato, qualcosa di oscuro,di nascosto che non avrebbe trovato tra i banchidi legno antico dell’università. Gli piaceva fingere, almeno con se stesso, di essere al di sopra di quello per cui gli altri lottavano, quelle velleità, le piccole emeschine ambizioni, le passioni esasperate che assalgono la natura umana e  portano a farsi fuori l’un l’altro. Lo aveva visto fin troppe volte.Fin troppe volte aveva visto la morte in faccia, l’accanimento estremo nel ferire l’altro, la brutalità rimasta impressa negli occhi sbarrati delle vittime come immagini sulla pellicola.

Non poteva sopportare la vista dei corpi massacrati, la violenza trovava una sua giustificazione solo nella finzione,  sul palcoscenico, stemperata dalle grandi passioni e dal bel canto degli interpreti.Nella vita reale restavasolo un abominio che doveva ripulire, cancellare, fin dove gli sarebbe stato possibile. Forse per questo gli piaceva il ruolo di spettatore, nelle strade come all’opera. Non voleva mischiarsi a quei drammi, gli piacevano solo purificati nell’arte o riflessi negli occhi degli altri.

Così se n’era andato. Era scappato, forse?Anche da lei? Per anni se lo era ripetuto, no, non era così. Ma restava ancora qualcosa di insoluto, qualcosa che  la sua mente lucida non era riuscita ad afferrare, un enigma non ancora  risolto. Quindi era tornato. Non per lei, si diceva. Lo aveva detto a suo padre, a letto morente, quando ormai a tratti delirante parlava solo di corse, cavalli e puntate. Gliel’aveva detto, lui non era il tipo da commettere due volte gli stessi errori. Se lo era ripetuto per tutti quegli anni, ma restava quell’immagine che lo inseguiva, che non riusciva a scacciare, lei, il biondo scuro di quei capelli, quell’aureola che le circondava il viso, illuminato dalla luce naturale dalla finestra impolverata. Lo aveva riconosciutoimmediatamente quel colore,la sera prima. Spiccava tra tutti quelli ammassati nella stanza.

Era difficile non notarla,in quelle aule cupe, tra quelle vecchie boiseries, tutti scuri nelle toghe nere. La testa di capelli, quella figura slanciata, la voce a tratti squillante,chiunque l’avrebbe notata. In particolare in quell’ occasione. Stavano commemorando un morto, con quello stile dignitoso e un po’ distaccato tipico delle cerimonie formali.

Il Professor Bradbury era morto. Caduto rovinosamente dalla scala grande del college il suo cuore si era fermato. Di colpo, a quanto pareva. Ovviamente c’era stata un’inchiesta, una formalità necessaria in quei casi. Lui si era offerto di aiutare. Conosceva il Professor Bradbury, era stato il suo insegnante per il breve periodo trascorso a Oxford, quando era solo un allievo magro e silenzioso e, a detta del Professore, promettente. Un tipo particolare il Professore, riservato, schivo, molto preparato nella sua materia, sapeva rispondere con acume a tutte domande degli allievi.

Era scapolo eancora piuttosto attraente. Non poche ragazze del suo corso gli facevano gli occhi languidi, se lo ricordava bene. Ma lei no. Lei non si curava di nessuno, passava disinvolta per i corridoi, lo sguardo lontano, che la rendevaancora più intrigante. Un enigma. Era un semplice atteggiamento o un tratto autentico del suo carattere? Fu così che cominciarono a frequentarsi, di nascosto, a dispetto delle alte aspirazioni della famiglia di lei. Quello era stato forse il periodo più spensierato della sua vita, qualcosache non si era mai più ripetuto. Ma i loro incontri segreti furono  presto sostituiti da lunghi silenzi e assenze prolungate. Lei divenne più sfuggente, riservata. Passava sempre più tempo nell’ufficio del Professor Bradbury in incontri sempre più lunghi a discutere di un possibile dottorato. Le cose cambiarono, lentamente, inesorabilmente.

Ora Bradbury era morto, a seguito di quella rovinosa caduta, senza grossi traumi, solo il cuore si era fermato. La polizia aveva già archiviato il caso, niente suggeriva qualcosa di sospetto. Poteva capitare, si disse, era già successo che a seguito di una brutta caduta qualcuno avesse avuto un arresto cardiaco. Certo da una scala si poteva sempre cadere, in un modo o nell’altro, le scale erano sempre insidiose. Eppure qualcosa non lo convinceva. Un ricordo, uno strano presentimentosi era affacciato. Per questo era tornato al college un paio di giorni prima.

Era entrato, verso sera, quando ancora ci si vedeva senza luci accese per osservare attentamente quella scala. L’aveva risalita più volte e più volte l’aveva discesa, a passi regolari. Non era una scala particolarmente ripida, o pericolosa, questo gli parve al primo esame. Aveva anche accelerato il passo, salendo e scendendo. Niente di particolare.Aveva guardato attentamente sotto la scala, nelle fessure tra le assi, negli gli incavi sotto gli scalini. Niente, davvero niente. Aveva provato per scrupolo a infilare la mano, sempre sotto, tra un interstizio e l’altro e, dietro una piccola rientranza, una parte nascosta di cornice che sporgeva appena,aveva sentito qualcosa, appoggiato di taglio.Si era ritrovato nel palmo della mano una spilla, non troppo grande, di pietre dure,agate e granate, di fattura ottocentesca, vittoriana.

Niente di strano, aveva pensato, piccoli oggetti possono sparire e intanarsi un po’ dappertutto. La riguardò bene, da vicino, a poca distanza dai suoi occhi. L’ago richiuso nella sua sicurezza teneva ancora un pezzodi tessuto, non tanto piccolo, di color verde, piuttosto scuro, rimastopreso nella sua anima d’argento.Sembrava che la spilla fosse stata strappata dal vestito con forza.

Quella spilla. Gli era sembratodi averla già vista, ma non ne aveva la certezza. Eppure quello stile, le pietre dure, semi preziose, incastonate in quel modo particolare a ricreare uno stemma gli ricordavano qualcosa. Non era un oggetto da poco e chiunque l’avesse persa doveva averne notata la mancanza, sicuramente la stava cercando, con ansia, se sapeva che poteva ricollegarlo a quel fatto. Gli riaffiorava un ricordo. Un ricordo di quegli anni. Lei, i capelli biondi  sciolti su un vestito verde scuro e quella spilla. Continuava ad allontanare quell’immagine, con la speranza che fosse solo quello, un’immagine e niente più.

 Lei  sembrava nervosa quando si erano rivisti, continuava a passarsi le dita affusolate tra i capelli, irrequieta. Sapeva che lui era nella polizia, aveva forse maggiori informazioni su quella morte improvvisa? Bradbury era il suo tutor, tutta la faccenda l’aveva alquanto scossa. Era naturale. Lui voleva a tutti i costi andare a fondo della cosa. Così aveva lanciato un’esca, le aveva telefonato mascherando la sua voce.Se voleva riavere la spilla, avrebbe dovuto  pagare una giusta cifra.L’appuntamento sarebbe stato al pub, il giorno dopo, alle otto. Lui avrebbe aspettato fino alle otto, poi se ne sarebbe andato.

La porta continuava ad aprirsi,entravano gli impiegati dalla faccia pallida che si erano scrollati di dosso quella giornata di lavoro, i soliti affezionati che salutavano tutti, le ragazze agghindate che, due alla volta, lanciavano occhiate ammiccanti ai giovani seduti in gruppo, stretti attorno a quei tavoli. Niente di strano, niente di diversoda una normale serata al pub. Sperava che quella porta non venisse aperta alle otto, non per fare entrare una testa di capelli biondo scuro. Guardava l’orologio grande dietro il bancone. Le otto meno un quarto. Cercò di distrarsi tornando al suo cruciverba, ma continuava a tratti a spiare la porta massiccia. Le otto meno cinque.Le otto, altri avventori entrarono, più d’uno, nessuno per fortuna coi capelli biondi. Le otto e un quarto, poi le otto e venticinque. Con un sorriso andò a prendere un’altra birra. Si sedette e alzò lo sguardo. La porta si stava aprendo, proprio in quell’attimo.Rimase immobile, fermo a guardare quel vestito elegante un po’ lungo e quella testa di capelli biondo scuro.

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Tutto fritto

di Michele Scarpelli

L’antro giorno ho visto Paolino. Lui, Morena e la piccola Eliana stanno bene. C’avrebbero bisogno de più soldi per tira’ su quella pora creatura, ma, come ho detto io sempre: “I soldi nun crescheno sull’alberi, vanno guadagnati”. Questo Paolino ce lo sa. Che nun m’ha visto lavora’ tutti i giorni come un somaro per quarant’anni? Certo che me c’ha visto. A proposito de lavoro, stamatina la signora Brinchioni è caduta in bagno e s’è rotta il femore. Il figlio è venuto in guardiola a cerca’ aiuto, ma Oreste stava a da’ una mano all’antennista. So’ dovuta anna’ io co’ lui. Pora vecchia signora Brinchioni, rincojonita com’è, è scivolata sulle piastrelle umide e ha fatto proprio un bel chioppo. Per fortuna, con quel culone che s’aritrova, ha ammorbidito la tranvata. L’ambulanza c’ha messo una ventina de minuti per arriva’. Io e Roberto, il figlio della signora, li abbiamo aiutati a carica’ la vecchia. Eravamo in quattro e quasi non ce se faceva, saranno stati ducento chili. Menomale che Oreste stava co’ l’antennista, sennò a lui co’ la sciatica c’ha, avrebbe dovuto passa’ una settimana fermo a letto. Spero che ora la signora Brinchioni sta meglio, con noi è sempre stata gentile, pure quando l’amministratore doveva decide se manda’ in pensione Oreste lei c’ha difeso. Oreste poi è tornato in guardiola, mo la TV se dovrebbe vede bene, e io, visto che la posta già l’ho consegnata, ho pensato de anna’ a fa’ la spesa. Oreste vole che vado al supermercato perché costa de meno, ma io ogni tanto vado alle bancarelle sotto casa, ormai so’ amici, non ce se pò non andacce più.
È una settimana che c’ho ‘sta voglia de baccalà, così so’ passata da Mimmo, no da Nicola, lui costa de meno, ma il pesce suo è sempre un po’ fracichetto. Già che c’ero me so’ presa pure qualche moscardino e calamaro, stasera tutto fritto. Poi sono passata da Tamara, ora è lei che gestisce la bancarella. Il vecchio Delio s’è ritirato ed era pure ora che, con quei du’ denti che s’aritrova, quando che parla sputa sempre sopra a tutta la verdura e io poi a casa dovevo lavalla nell’varecchina. Da Tamara c’ho preso: zucchine per fiori fritti, carciofetti da fa’ alla giudia, melanzane no perché a Oreste non piaceno, fagiolini da fa’ in umido domani e puntarelle per pranzo. Poi de frutta: arance, pere villiams e un paio di banane. Ci stavano pure le fragole, Tamara ha detto che so’ bone, ma per me non è ancora stagione, chissà quelle da dove vengheno, quindi ho detto che le fragole no. Dopo che ho preso il pesce, la frutta e la verdura sono andata dal pizzicarolo. Marinelli se sa in tutta Roma che è un gran ladro, ma a esse bono, è bono. Una volta c’ho pure visto che ce giravano una puntata di uno di quei programmi de cucina di quelli che non posso vede’. Li fanno su Scai e Oreste m’ha detto che costa troppo, ma che tanto a me non m’interessa perché là fanno solo programmi de cucina raffinati.
Quindi, dicevo che una volta ho visto che stavano a gira’ ‘sta puntata e che ce stavano due signori che parlavano co’ Vincenzo, il famoso signor Marinelli pizzicarolo, e mentre che discutevano magnavano. Parlavano e magnavano. Rosette, salame, salsiccette, ricotta, pecorino, coppiette, prosciutto e caciottine. Se magnavano tutta ‘sta roba e più che a discute’ stavano tutti e tre a grida’ come noi ar mercato. A me tanto raffinati non me so’ sembrati, ma Oreste dice di sì perché ‘sto Scai costa tanto, quindi
sarà vero. Da Marinelli ho preso delle cose bone per pranzo: una provoletta, pizza bianca, un po’ de porchetta e un fiaschetto de Frascati. È meglio resta’ leggeri, visto che stasera tutto fritto. Ho speso diciassette euro, mannaggia al signor Marinelli. Fatta ‘sta spesa so’ tornata a casa. Ormai era quasi l’una, quindi me so’ messa ad apparecchia’ e a prepara’ il pranzo. Ho pulito le puntarelle, ma me so accorta d’esserme dimenticata da compra la pasta d’acciughe. “Mo sai quanto scassa Oreste?” me so detta, ma ormai non ce potevo fa’ più nulla. Dopo ave’ preparato tutto, siccome che Oreste stava ancora chissà dove a lavora’, ho pure pulito i carciofi e preparato la pastella per frigge’ stasera. Questa roba Paolino se la scorda, poro figlio. Morena è tanto cara, ma in cucina non ce s’aritrova tanto bene. Magari domani, se ho tempo, vado dal macellaio e gli faccio du’ fettine da porta’ a casa che gli piacciono tanto.
Oreste è arrivato all’una e menzo e non me c’ha mannato per via della pasta d’acciughe? Io gli ho detto che mi dispiace, tanto già ce lo sapevo che avrebbe fatto così. Però poi magna’, ha magnato. S’è pure sgranocchiato tutta la cotica della porchetta che a me non m’è mai piaciuta, troppo volgare. Dopo che s’è scolato mezza boccia de Frascati, per fargli piacere, gli ho detto che per cena facevo tutto fritto. Lui,
un po’ incocciato, m’ha guardato in un modo che non te dico. “Come tutto fritto? Me ce voi avvelena’?” ha gridato. Io gli ho spiegato che me ce morivo da ‘na settimana per il baccalà e che quindi, una volta che ero ar mercato, m’ero fatta prende’ e avevo deciso de fa una cena tutta fritta. “C’ho già avuto due ‘nfarti, me voi fa’ veni’ il terzo?” m’ha rimproverato lui. Io gli ho detto che se vole, posso pure non frigge’. Oreste s’è arzato da tavola tutto incazzato e, senza risponde’ antro, s’è messo il giornaletto de Tex sotto all’ascella e s’è chiuso al cesso. Io ho pulito la tavola, poi me so allungata sul letto, ma non ce so’ rimasta più de ‘na mezzoretta. Verso le tre infatti me so’ ricordata che dovevo anna’ a da’ l’acqua alle piante dei Rivelli. Loro stanno in vacanza all’estero per il compleanno della figlia e la signora Rivelli ce tiene tanto ai fiori sua, che in effetti so’ proprio belli. In primavera inontrata il loro barcone è di tutti il più colorato. Il signor Rivelli però è un po’ stronzo, lui all’amministratore gli aveva detto de mannacce via a me e Oreste, ma la signora e la figlia, che so’ tanto carucce, hanno detto che volevano che restavamo e alla fine l’hanno convinto. Quindi, quando che so’ entrata nell’appartamento, ho aperto le finestre per cambia’ un po’ l’aria, ma no per fa’ piacere a Rivelli, ma per la signora e la figlia. Ho dato l’acqua alle piante, che me sembrano sul punto di sbocciare, ho richiuso tutto e so’ scesa. Mentre che stavo in ascensore, continuavo a pensa’ alla cena de stasera: “C’ho ‘na voglia de baccala che non te dico”. Poi me so’ ricordata che ce stavano le scale della palazzina C da puli’. Ereno almeno due settimane che non le lavavo. Ho preso lo scopettone e il secchio e c’ho dato lo straccio col disinfettante, quello che puzza, perché de quella palazzina me stanno tutti sul cazzo. Subito Moretti, l’inquilino del secondo piano, è venuto a lamentasse per la puzza, ma io gli ho risposto che il disinfettante bono era finito, così se ‘mpara n’antra vorta a non saluta’ mai e a non da’ la mancia a Oreste a Natale.
Finito de lava’, per fortuna non c’ho avuto antre rotture e me so’ messa a prepara’ il pesce. “Ma che me frega de quello che dice Oreste, io stasera friggo,” ho pensato. Quindi ho tagliato ad anelli i calamari e pulito per bene il baccalà. Siccome però che era ancora presto, me so messa alla TV e devo di’ che quell’antennista il lavoro suo lo sa fa’, perché finalmente riuscimo a vede’ tutti li canali. L’ho detto a Oreste che era tutto felice, perché così mo’ stasera se pò vede’ un film d’azione de quelli che gli
piaceno tanto. Verso le sette ho cominciato. Ho ammollato per bene nella pastella il baccalà e
i fiori di zucca e l’ho buttati nell’olio. Poi ho cominciato a frigge’ i calamari e i moscardini e alla fine ho fatto i carciofi alla giudia, che quelli so’ i più difficili de tutti.
Certo che a frigge’ se suda, me so’ presa ‘na scallata che manco a agosto, ma ne vale la pena. Quando che a cena Oreste ha visto tutta quella roba ha sospirato, però mica ha detto gnente, s’è messo a magna’ come al solito e s’è scofanato tutto. S’è fatto pure l’antra mezza boccia de Frascati, poi ha cacciato un rutto e se n’è annato alla TV.
Poro Oreste, pure a lui ogni tanto bisogna fallo contento, pure quando dice de no, sennò rischia che piano piano me se trasforma in una bestia. Dopo che ho finito de mette in lavastoviglie li piatti so’ annata pur’io alla TV e devo di’ che quel film de botti e de spari n’era così brutto come me credevo. Essendo però che ero stanca, verso le dieci e menzo ho salutato Oreste, me so’ messa il pigiama felpato e me so’ ‘nfilata sotto alle coperte. Prima d’addormentarme ho pensato: “Devo proprio compra’ dell’agnelletto da fa’ al forno, me ce va proprio. Speramo che domani sia ‘na giornata caruccia come a questa”.

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Appuntamento con Anastasio

di Danilo Grasso

Un uomo era entrato in una chiesa. Aveva un coltello in mano. Corse urlando: «È arrivata! È arrivata!». Tutti i presenti lo guardarono esterrefatti, alcuni bisbigliavano tra loro, altri ridevano. L’uomo, con sguardo sereno, si tagliò la gola.

Era una calda giornata di luglio. Il treno si era appena fermato. Nei lunghi viaggi di lavoro avevo sempre respinto l’idea di prendere l’aereo. In treno la mia mente fantasticava, immaginavo una vita diversa dalla solita. Quella mattina avevo letto l’articolo di un suicidio di un uomo in una chiesa. Eventi come quello mi portavano a riflettere sulla vita, preziosa e troppo breve.

Mi sporsi dal finestrino e lo sguardo cadde su una coppia di anziani che si tenevano per mano. Sembravano felici. Il treno riprese la sua corsa, quando notaiun uomo avvicinarsicon passo rapido, estrarre una pistola dalla giacca e spararsi. Subito dopo la coppia fece la stessa cosa. Avevo paura.

Mi tornò in mente quella sensazione di malessere che della notte precedente. Distolsi lo sguardo dal finestrino, cercai intorno a me qualcuno che avesse notato l’accaduto. Nessuno.

Tornai per un attimo ad ammirare le distese di girasoli e papaveri. Presi il cellulare in cerca di notizie, non trovai nulla.

D’un tratto si spense. Pensai si fosse scaricata la batteria, ma mi accorsi che agli altri passeggeri era accaduta la stessa cosa. Ogni apparecchio elettronico aveva smesso di funzionare. Anche il treno arrestò la sua corsa. Il controllore chiese a tutti di scendere. D’un tratto qualcuno urlò che c’era una bomba.

I passeggeri scesero in fretta, spingendo verso le porte d’uscita. Attorno a me delirio, caos. Ruppi il finestrino e aiutai una donna incinta a scendere. Camminammo fino ad arrivare in un paese vicino.

La gente si riversava nelle strade, correndo e urlando. Giovani coppie innamorate vivevano il loro amore. Alcuni litigavano per un oggetto rubato, auto distrutte, negozi saccheggiati. Passammo davanti ad una chiesa e vedemmo una moltitudine di persone che pregava, supplicava e gridava: «Perdonami. Assolvimi dai peccati». Il prete, disperato, chiedeva perdono per quelle false confessioni.

Due di loro ci seguirono spaventati, cercando una via d’uscita, un riparo.

Un autobus si avvicinò e l’autista: «Salite, andiamo via da qui». Ci allontanammo. Arrivammo in un casolare abbandonato.

D’un tratto nel cielo comparve un bagliore accecante. Durò un istante, poi tutto tornò come prima. L’autista accesela radio. In ogni stazione si ascoltava un solo messaggio: «A tutti coloro che sono in ascolto,il bagliore di luce apparso nel cielo era divino.Ha salvato le persone pure e i penitenti sinceri. Chiunque è rimasto sulla Terra è condannato. Questa mattina un uomo, da sempre screditato nella nostra comunità, ha rivelato che il Giorno del Giudizio è arrivato. Nessuno gli ha creduto e ora…». In un funesto silenzio, guardai gli altri, disperati. Il vescovo continuò: «Pregate, chiedete perdono. Vivete l’ultimo istante senza rimpianti».

La radio si spense. L’autista tentò di rimettere in moto l’autobus senza riuscirci. Nell’angosciante attesa, ognuno di noi, a turno, si confessò. Ripensai alla coppia di anziani. Ora capivo quel gesto che mi aveva lasciato incredulo. Erano morti, insieme, tenendosi per mano.

Toccava a me confessarmi. Osservai il cielo, poi guardando ognuno dei presenti: «Mi chiamo Anastasio, cioè resurrezione; ora che ci penso, è tragicamente ironico. La piccola fenice. È così che mi chiamava la mia famiglia. Ho commesso tanti errori nella vita, ho rimpianti, come tutti. Il più grande di tutti è quello di non essermi sposato, di non aver trovato una persona con cui condividere mia vita. Sono solo».

Il cielo si oscurò, la terra iniziò a tremare. La fine era giunta. Un lampo di luce aprì il cielo. Mi sentii sollevare. Guardai verso il basso e vidi ogni cosa diventare sempre più piccola. Di colpo una luce forte ma accogliente mi travolse il viso. Ero felice. Mi sentivo rinato.

All’improvviso sentii delle voci lontane che a poco a poco si fecero sempre più nitide. Erano i miei compagni di corso che mi stavano richiamando all’attenzione. Una possente figura si avvicinò con passi pesanti, urlando: «Se non è interessato alla lezione e preferisce dormire, la prego di uscire dalla mia aula!». Le parole del professore diventarono impercettibili sussurri. Ripensai al viaggio in treno e ora questo. In quel momento capii le parole del mio editore: «Se vuoi diventare uno scrittore cerca di preferire sempre l’illusione alla disperazione».

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Quando era sabato

di Michele Scarpelli

“Chi è?” domandava il nonno.
“Non lo so, è per te”, rispondevo.
Lui sospirava, poi, tenendo la cornetta in mano, di modo che potesse sentirlo anche la persona che lo aveva chiamato, aggiungeva:
“Sarà qualche rompicoglioni”.
E in effetti era quasi sempre così.
I miei sabati mattina cominciavano quando venivo accompagnavano a casa dei nonni, quando cercavo inutilmente di fare i compiti. Il loro appartamento era al primo piano, proprio sopra un rumoroso supermercato aperto ventiquattr’ore su ventiquattro. La casa invece era piccola, ma ben arredata. La cucina comunicava con lo studio del nonno attraverso una piccola finestrella, ed era da lì che la nonna mi controllava mentre cercavo di risolvere problemi o di svolgere un tema. Mio zio invece arrivava verso le undici e si chiudeva in salotto, per dare ripetizioni private di violoncello.
Perché le facesse lì anziché a casa sua è rimasto sempre un mistero. Oltretutto i suoi allievi sembrava non non progredire mai. Ricordo una signora cinese sui trent’anni che prendeva lezioni da più di cinque, la quale, invece di migliorare da un sabato all’altro, a ogni lezione sembrava andare indietro. Per tutta la casa risuonavano stridii sgraziati e note stonate, ma data la determinazione della donna, per mio zio si trattava certamente della sua allieva migliore. Senza speranza, ma piena di soldi.
Tra l’altro, ci siamo sempre domandati come comunicassero, dal momento che mio zio è una persona estremamente taciturna e che lei non spiccicava una parola di italiano.
Studiare dunque durante quelle lezioni strazianti, quelle agonie di un’ora e mezzo, era piuttosto difficile e lo era ancor di più quando i miei nonni litigavano. Succedeva sempre per un qualche futile motivo e la cosa incredibile era che mentre il nonno gridava, visto che non poteva farne a meno quando si arrabbiava, restava alla sua scrivania, disegnando con un’attenzione e una precisione degna di chi ha raggiunto la calma interiore. Alzava la voce a livelli talmente alti che quasi non si sentiva lo squillo del telefono, il quale puntualmente cominciava a suonare ogni volta che c’era una discussione, finché non andavo a rispondere. Non oso immaginare cosa potesse sentire dall’altro capo del telefono il povero malcapitato che aveva deciso di chiamare quel sabato mattina, dovendo oltretutto sopportare il fatto di essere additato come un rompicoglioni.
Aspettavo il pomeriggio sempre con grande ansia, perché io e i nonni avremmo fatto sicuramente qualcosa di divertente, a parte le volte in cui ero costretto ad andare a messa con la nonna. In quei casi mi sentivo davvero fregato. Solitamente, se restavamo a casa, disegnavamo oppure cercavamo di realizzare dei pupazzetti di cartapesta. A volte mi mettevo a scrivere una delle “Avventure di Ciccio” su un grosso quaderno. Erano storie che raccontavano la vita di un bambino, Ciccio appunto. Non ricordo di cosa parlassero, ma ricordo che alle illustrazioni ci pensava il nonno.
Erano molto belle, l’unica cosa che valesse veramente la pena guardare in quel quaderno. Se uscivamo andavamo invece a Piazza di Spagna a tirare quattro calci a un pallone, oppure, sotto Natale, alle bancarelle di Piazza Navona a comprare i personaggi del Presepe. L’atmosfera lì, in quel periodo, era incredibile. L’odore della porchetta, dello zucchero filato e delle mandorle caramellate si mischiava insieme in una sorta di odore paradisiaco. Salivo sulla giostra e poi guardavo Pulcinella prendere a mazzate e farsi prendere a mazzate allo spettacolo delle marionette. Infine, mentre tornavo a casa, con un sacchetto pieno di marzapane, torroni, duri di menta e mele stregate, mi mangiavo felice la mia merenda: rosetta con la porchetta, ovviamente.
La sera, le volte che cenavamo a casa, mangiavamo sempre riso allo zafferano, sogliola, patatine fritte e pan di Spagna. Mia nonna cucinava benissimo, eppure al nonno gli era presa la fissazione di prepararsi le cose da solo. Passava ore a cucinare degli strani intrugli, solitamente zuppe dall’aspetto molto poco invitante. Prendeva le ricette da vecchi libri, ma non di cucina, bensì da alcuni romanzi che aveva letto e cercava di rivisitarle. “Volete assaggiare? Guardate che è buonissima”, insisteva, cercando inutilmente di convincere me e la nonna. Poi, dopo qualche cucchiaiata, le lasciava lì. “Stasera ho poca fame, la metto in frigo e me la riscaldo domani”, diceva, come se il giorno dopo l’avrebbe davvero mangiata. Solo alla fine, quando ormai ero steso sul divano, pieno di cibo e vicino all’abbiocco, ammetteva amaramente: “Stasera ho mangiato malissimo”.
Quando invece si cenava fuori, andavamo da Otello alla Concordia, a pochi metri da casa. Io ci andavo molto volentieri perché mi piaceva l’atmosfera di quel posto. Lì, infatti, i miei nonni conoscevano tutti, dai proprietari agli avventori più affezionati. E del resto sarebbe stato strano il contrario, dal momento che erano tutti grandi amici. Mentre cenavamo, spesso gente come Monicelli, Scola o De Bernardi sbucava fuori da un’altra stanza e veniva a salutarci al tavolo. Discutevano affettuosamente col nonno, la maggior parte delle volte sparlando degli altri. Il piacere del pettegolezzo era per loro un elemento fondamentale, quasi una necessità, sebbene non avvenisse mai con malizia, al contrario. Ho un vago ricordo di questa conversazione, anche se non so con chi avvenne, forse con De Bernardi.
“L’altro giorno ho incontrato Mario per strada, l’ho salutato e lui ha fatto finta di nulla…”.
“Ora che ha compiuto novant’anni si è montato la testa, è diventato un fanatico”, rispose mio nonno. Poi succedeva che il sabato successivo incontrassimo Monicelli e che i due sparlassero dell’altro. Era il loro modo di sentirsi tutti amici, tutti allo stesso livello, senza mai prendersi troppo sul serio. In un certo senso erano delle piccole lezioni che assorbivo senza neanche rendermene conto. Solitamente, infatti, non è che mi si prestasse particolare attenzione in quei momenti, ma sapevo che i nonni non vedevano l’ora di chiudere quelle conversazioni per tornare a godersi la cena con me e tanto mi bastava. Il problema di Otello però era che ogni volta che ci andavamo, il giorno seguente uno tra me e il nonno stava male. La nonna si salvava sempre miracolosamente, ma doveva passare tutta la mattina a pulire il vomito dal pavimento. Ogni volta il nonno diceva:
“Mai più. Non ci torniamo mai più”.
“Sono amici, non possiamo smettere di andarci!” rispondeva la nonna.
“E allora che dobbiamo fare, sentirci male ogni volta tutti quanti?”. Evidentemente sì, visto che continuammo a cenare lì. Il record fu di quattro fine settimana di seguito in cui stemmo male tre volte io e una il nonno. Ora la cucina del ristorante è molto migliorata, ma evidentemente in quel periodo c’era proprio qualcosa che non andava.
La notte dormivo su una brandina in salone e la domenica mi svegliavo verso le otto. Facevo colazione e poi guardavo i cartoni alla TV, cosa proibitissima a casa mia e che mi sembrava essere chissà quale privilegio. Verso mezzogiorno e mezzo i miei passavano a prenderci e tutti insieme andavamo a pranzo fuori, solitamente in qualche pizzeria, di certo non da Otello. Il tutto doveva avvenire però entro le due e mezzo perché alle tre bisognava essere a casa. C’era la Roma e non potevo assolutamente perdermela. Era però verso la fine della partita, quando ormai d’inverno cominciava a fare buio, che una certa malinconia mi assaliva. Il giorno dopo sarebbe stato lunedì e tutto sarebbe ricominciato da capo, un’altra dura settimana di scuola, fatiche e impegni non richiesti mi attendeva. Ed è questa la stessa malinconia che ora mi assale, ricordando nostalgicamente quei tempi, senza poter però più vivere quella trepidante impazienza che mi prendeva all’idea che presto un nuovo sabato sarebbe arrivato e che potessi stare ancora con i miei nonni.

In Narrature

La ragazza del tè

di Carolina Germini

Avete presente quelle conversazioni che si fanno davanti al camino? La scena la immagino più o meno così. Fuori piove e un signore anziano con gli stivali di gomma ancora sporchi di fango accarezza una gatta, mentre la moglie getta altra legna sul fuoco. A quel punto lui con la sua tazza di tè fumante tra le mani, sentendo la gatta miagolare compiaciuta, dirà alla moglie: «Chissà da dove viene, come ci è arrivata qui». Che poi è lo stesso che mi domando anch’io. Chissà dov’è finita, come si è salvata. Un giorno se n’è andata ma non ha più trovato la strada di casa. È successo alla mia gatta. Era appena entrata in calore. Non sapeva ancora controllare gli istinti, forse non sapeva neppure di averli, quando, come una lince, ha scavalcato il cancello e di lei si sono perse per sempre le tracce. E da quel giorno, ogni volta che incontro una gatta striata come lei, per un momento mi illudo che sia ancora viva. Penso: sì, è vero, non è più tornata ma qualcuno l’avrà ospitata, o forse lei una casa non l’ha mai voluta. Non si è mai lasciata addomesticare. È rimasta selvaggia e del resto ha fatto sempre di tutto per dimostrarmelo.

Dei gatti ho sempre avuto paura. Non mi fido del loro istinto, dei loro balzi improvvisi, dei loro salti che non posso controllare. Avevo preso quella gatta con me per cambiare idea, per affezionarmi a un animale che in tanti sembrano amare. Con la sua fuga notturna però mi ha ricordato di essere come lei: incapace di restare quando qualcosa di più forte mi chiama.

Un giorno mi piacerebbe rincontrarla, vedere se ancora scatta quando sente un rumore e se ogni cosa la sorprende e la spaventa come allora. Oggi avrebbe otto anni, che non sono poi così tanti per un gatto. Forse non mi riconoscerebbe né io riconoscerei lei. Dove finiscono gli animali che se ne vanno? E allora non è vera quella storia che sanno tornare a casa. Ma se non sono mai scappati prima, come fanno a riconoscere che quella è casa loro? Ma forse questi ragionamenti non valgono per i gatti. Per loro conta solo l’istinto.

Se decidessi una notte di imitarla e di scavalcare il cancello, dove me ne andrei? Vorrei essere ospitata da persone gentili, come quegli anziani davanti al camino. Vorrei che potessero dire di me lo stesso: chissà da dove viene, come ci è arrivata qui. E io non mi sentirei in dovere di rispondere. Potrei inventare qualsiasi storia, una storia raccontata così bene che anch’io finirei per credere vera.

Se mi chiedessero come mi chiamo non risponderei. Lascerei decidere a loro perché un nome già racconta troppo di noi. E per rinascere davvero abbiamo bisogno di cambiare anche quello. Sono stata ribattezzata una volta, in un bar di una città avvolta dalla nebbia. In quel bar, come in quella città, ci ero finita per caso, vagando, più come un cane però che come un gatto. La signora dietro il bancone mi aveva costretta a ripetere due volte l’ordinazione. Alla terza ero quasi tentata di non rispondere e andarmene via. Aveva l’aria di chi da troppo tempo sogna di essere altrove. Alla fine però mi ascoltò e finalmente potei ordinare il mio tè. Mi accorsi che nella vetrina c’erano alcune lingue di gatto. Presi anche quelle; magari la loro solitudine poteva sconfiggere la mia.

Mi domandai dove quella signora con i capelli rosso cobalto volesse andare, se fosse un posto raggiungibile o se l’avesse inventato lei, a forza di immaginarlo. Doveva avere in mente un uomo, un uomo che forse se ne era andato e lei continuava ad aspettare. Non tornerà, le avrei voluto dire, ma in fondo non la conoscevo e forse quell’uomo non era mai esistito. 

Quella non è una città in cui si torna. Quella è una città di passaggio, dove al massimo si nasce. Deve essere capitato così anche a lui, come la mia gatta non ha ritrovato la strada di casa. Forse la nebbia non lo ha aiutato, ha oscurato anche l’ultimo ricordo che aveva. Ma lei  è ancora lì che lo attende, che si innervosisce di fronte a ogni richiesta di un cliente. Il mio tè quel giorno non arrivava più ed ero tentata, sempre più tentata di andare via. Alla fine scappai. Non mi troveranno, non sapranno mai che che quel tè l’ho ordinato io, pensai. Eppure qualcosa mi trascinò di nuovo lì. Credo la paura di deluderla di nuovo, di comportarmi come lui. Quando rientrai mi disse: Sei tu la ragazza del tè?

Sì certo, sono io. Improvvisamente quella sua domanda mi suonò familiare. Improvvisamente ero la ragazza del tè. Immaginai quello che avrebbe potuto dire la gente. «Eccola lì che arriva la ragazza del tè». Pensai a quel momento come a un rituale. Come a Könisberg le persone regolavano l’orologio quando vedevano Kant uscire per la sua passeggiata, così lì tutti avrebbero saputo che erano le 18, vedendomi sedere a quel tavolo.

Forse anche la mia gatta da qualche parte nel mondo, in una casa di campagna o in un appartamento in città, ha una sua abitudine, qualcosa a cui non può rinunciare. Una volta, questo prima della sua fuga, era già sparita. Mia madre, che come me non ama i gatti ma alla fine si prende cura di tutti, mi telefonò per avvisarmi. Tornai subito a casa a cercarla. Sulla facciata del nostro palazzo avevano da poco montato delle impalcature. Pensai: si sarà arrampicata per infilarsi in qualche appartamento. Così cominciai a citofonare a tutti. Nessuno l’aveva vista. Ma c’è un particolare che ho dimenticato di aggiungere e che invece in questa storia è importante. La sentivo miagolare. Ovunque. Continuamente. Girai tutte le stanze di casa. Niente.  Poi aprii il cassetto del mio letto, dove mia madre tiene le lenzuola e lei di colpo cominciò a soffiare con la coda tutta storta. Chissà da quanto tempo stava lì dentro in quello spazio stretto e soffocante. Quella sua prima sparizione mi aveva in qualche modo preparato alla sua fuga ma quel suo ritrovamento mi aveva anche fatto credere che non l’avrei mai persa davvero. Quando un animale, come la gatta, se ne va ti illudi sempre che possa tornare da un giorno all’altro. Anche dopo anni ti sorprendi ad attenderlo. Forse si prova lo stesso quando si aspetta il ritorno di qualcuno che abbiamo amato.

In Narrature

Ti ricordi

di Leonardo Gliatta

“Ma non ti ricordi? Proprio non ti ricordi?”

Continua a ripetermi questo ragazzo. No che non mi ricordo, lo vuole capire? Mai visto prima. Perché non si leva di torno? Vai via. Ci manca pure il pazzo della metropolitana, oggi.

Le porte del vagone si richiudono, il treno riprende la corsa. Sulla banchina, al di qua della linea gialla, i miei piedi di fronte ai suoi. Le mie caviglie gonfie dopo nove ore di ufficio e le sue scarpe da tennis nuove di zecca. Quanti anni può avere? C’arriva ai trentacinque? Più o meno l’età mia. I faldoni del Tribunale pesano sotto il braccio, qualche incartamento sta per scivolare sui binari. Se non mi sbrigo perdo la coincidenza col 41. Togliti dal cazzo. Non vedi che vado di fretta?

Ti accompagno a casa. Prendiamo il 41 per cinque fermate e siamo arrivati.”

“Cosa?” Lo guardo negli occhi per la prima volta. Cosa c’ha da ridere, mi piglia per culo? No, sono certa. Non l’ho mai visto prima. Poi con un nome così, e chi se lo scorda.

Scout.

“Come fai a sapere dove abito? Mi hai seguita?”

Ci conosciamo da una vita.”

La sua voce manco, mi richiama niente. Intorno, più nessuno. Sulle scale mobili gli ultimi passeggeri della nostra corsa. E’ la scia del treno appena passato, questo brivido lungo la schiena? Una donna sola in metropolitana con uno sconosciuto che dice di conoscermi. Uno dei miei ex, quelli ce li ho tutti presenti, uno meglio dell’altro. Un parente, uno di quei cugini che vedi solo ai funerali?

Anna, guardami negli occhi. Cosa vedi?

“Senti, smettila. Ora mi fai proprio innervosire.”

Quante se ne inventano per attaccare bottone. Non sarai brutto, ma caro mio non è questo il modo.

Non ti voglio fare del male. Come potrei, dopo quello che abbiamo fatto?”

“E cosa avremmo fatto?”

Quella volta che abbiamo ucciso Sara Vinci. Quella del terzo banco.”

Sara Vinci. Secoli che non sentivo questo nome. Questa sì che me la ricordavo. Aveva aizzato mezza classe contro di me, diceva che avevo i denti da coniglio e le gambe storte. La odiavo, ma non mi sono mai sognata di ucciderla.

O forse sì?

Oppure quella volta che siamo andati a sciare con le Ruggeri. Le tue amiche Sonia e Daniela Ruggeri. Ricordi dove, vero?

“A Cervinia.” Mezzo secondo per rispondere. Come facevo a dimenticare la baita delle Ruggeri a Cervinia? Ogni anno mi invitavano per la settimana bianca.

Con uno strattone, serro al fianco il faldone semiaperto. Un piccolo crampo nella mano. Il palmo sudato, il polso dolorante.

Come fa a sapere queste cose, cristo. 

Ti sembra strano, lo so. Ma non devi avere paura. Non ti voglio fare del male.”

“Che cosa vuoi? Cioè, chi….”

E’ rimasto lì, fermo. Non osa avvicinarsi. Sembra più spaventato di me. Lo guardo a bocca aperta: è bello. Gli occhi come biglie acquose, paiono di vetro. Maglietta verde. Braccia piene. Mani nodose, sospese a mezz’aria.  Mi comincia a pulsare la vena al centro della fronte, pulsa all’impazzata. A momenti esplode. Sento il sangue passare sulla mia faccia.

Devo stare sognando.

Sono stato chiuso per tanto tempo in una stanza buia. La nostra stanza. C’era il letto con la copertina di Mary Poppins.

La mia cameretta. Il mio copriletto preferito. Nella stessa casa dove abito ora. In quella camera oggi c’è mio figlio Andrea, quattro anni.

“Chi sei? Dimmi la verità” sento tremare la mia voce, un groppo alla gola che tiene sottovuoto il pozzo delle lacrime. Avrei pianto a dirotto, se non avessi sentito i primi passi. Mocassini, tacchi a spillo, stivali, suole di gomma cominciano a riempire la banchina.

Tu sai chi sono. Devi solo ricordare. Vengo da una stanza buia. Quella che ti faceva sempre paura. Di notte. Vengo dalla stanza dove nessuno è mai uscito vivo. Non c’è ritorno. E’ un luogo dove arrivano tutti i treni in corsa del mondo. Una stazione grandissima. E buia. Con banchine piene di gente, proprio come questa. Nessuno è mai ripartito dalla stanza buia. I treni arrivano, ma non ripartono mai. Io sono riuscito a salire nella cabina comandi di uno di loro. L’avevano lasciata aperta i macchinisti. E’ stato facile. Ho tirato un paio di leve, ho spinto qualche bottone e il treno si è mosso. In un lampo, ero già fuori dal buio. E su quel treno ti ho vista. E ti sono venuto incontro.”

I passeggeri lungo la linea gialla stanno vedendo una donna ancora bella, ancora giovane, in abiti da ufficio, le gambe accostate tra di loro, sul volto un’espressione irriconoscibile di terrore e gioia, stupore e malinconia.

Anna, sono tornato.”

Non ti ricordi? Continua a dire. Come fai a non ricordare. Diceva di essere tornato. Di avere preso quel treno per tornare da me. Un amore da un altro pianeta.

La folla cresce, il prossimo treno annunciato. Il rumore dei pensieri della gente sferraglia sotto il peso dei vagoni che stanno frenando.

Anna, hai capito chi sono?

Le orecchie sanguinano, raschiate dallo sfrigolio dei freni della metropolitana. D’istinto chiudo gli occhi, come per bloccare ogni altra apertura del mio corpo. Due secondi, tre al massimo.

Quando li riapro le porte si stanno richiudendo di nuovo. Tutti stipati contro il vetro. E Scout? Che fine ha fatto? Sparito. Cosa è stato?

 Un gruppo di turisti si avvicinano alle scale per risalire.

Ok Anna. Sei sotto la metro. E’ un pomeriggio qualunque. Sei uscita dallo studio, sei stanca. Stai lavorando molto. Hai quelle cause che ti tolgono il sonno. Poi c’è Andrea, che ti aspetta a casa. Suo padre arriverà domattina a prenderlo. E starà con lui tutto il weekend.

“Sono a casa. Amoreee!”

Tutto spento. La babysitter dev’essere andata via da poco. Starà in camera sua. Sarà affamato, stella.

“Sono qui, mamma!” E’ in cameretta.

“Amore, ma sei al buio? Che stai facendo?”  Che ci fa al buio? Sul letto. Sotto le coperte. Non avrà la febbre…

“Ti senti bene, Andrea?”

“Sì mamma. Sto bene.”

“Meno male. E Sonia? E’ andata via da tanto?”

“5 minuti fa”

“Che ci fai lì nel letto, allora? Non sai che è successo alla mamma. Ora ti racconto. Ma, perché non sei di là a giocare? Tutto solo, qui al buio.”

“Non sono solo, mamma. Sto parlando con il mio nuovo amico, Scout.”

Accendo il lume del comodino e lo vedo: un orsacchiotto di peluche, due occhi spalancati fissi che sorridono, una maglietta verde, stretto tra le mani di Andrea.

“Dove..dove l’hai trovato?”

“Era nella cesta dei tuoi vecchi giocattoli, oggi Sonia li ha tirati tutti fuori”.

Non riesco a staccare lo sguardo da quelle due biglie di vetro che mi fissano. La mascella mi trema. Vado ad accendere l’interruttore principale della stanza.

“Come hai detto che si chiama, il tuo nuovo amico?”

E mentre sento la risposta di Andrea, vedo in terra il suo trenino elettrico che è uscito fuori dai binari e si è capovolto sul tappeto.

In Narrature

Il signor Alatri

di Michele Scarpelli

Per sentirmi davvero al sicuro dovetti salire sino al sesto piano. Ero finito in un antico palazzo del centro, avrà avuto un più di un secolo. I suoi interni erano alquanto malmessi, le scale piene di crepe e l’intonaco, un tempo bianco, ma ora tendente al giallognolo, si era scrostato in più punti. C’era odore di muffa e di cavolo. Mi sedetti su un gradino e restai in silenzio, attento a ogni rumore. Udivo soltanto delle voci provenire dagli appartamenti e riecheggiare nella tromba delle scale.

Trascorsa una quindicina di minuti, mi decisi a scendere e ad andarmene, ormai potevo considerarmi salvo. Fui sul punto di rimettermi in piedi, quando la porta dell’appartamento 6B si spalancò. Sbucò fuori la testa bianca di un vecchio in vestaglia e pantofole, che con cura poggiò a terra un sacco della spazzatura nero. Un gatto dal pelo rosso gli schizzò da sotto le gambe nude e scheletriche, ma venne riacchiappato con prontezza.

«Fermo qua!» gridò, acciuffando l’animale per la collottola e riportandolo dentro.

Rimasi interdetto. Quell’uomo era Nino Alatri, il mio vecchio insegnante di pianoforte.

«Signor Alatri,» dissi.

Il vecchio alzò la testa e mi fissò con curiosità.

«Chi è là?» chiese.

«Non mi riconosce? Sono Oscar Di Benedetto, è stato il mio maestro diversi anni

fa».

Il signor Alatri ci mise un po’ di tempo per ricordarsi, ma alla fine replicò:

«Oscar…».

«Già…».

«In effetti, non sei cambiato molto… Che ci fai qui?» domandò curioso.

«Mi nascondevo da un gruppo di cretini che mi voleva picchiare».

«Ah… Beh, vuoi entrare?» rispose senza battere ciglio.

«Se non disturbo…».

Il signor Alatri doveva essersi trasferito lì da qualche tempo, una volta abitava a soli cinque minuti da casa mia.

***

Entrai. L’appartamento era piuttosto angusto e c’era un forte odore di fumo e piscio di gatto. La TV era accesa su un canale di televendite e il volume era altissimo. Fogli di giornale e barattoli vuoti erano sparsi un po’ ovunque.

Notai, in un angolo in penombra, il pianoforte a muro sul quale avevo imparato a suonare.

«Lo riconosci?» mi chiese, vedendomi interessato.

«Come no,» risposi.

A suo tempo era stato un bel piano, tutto in legno di abete rosso e con i tasti in avorio. Sopra di questo Alatri teneva ancora la cornice con la foto di Duke Ellington.

«Continuo a fare qualche lezione, ma ormai di suonare non se ne parla più, soffro di artrite alle dita» disse lui.

«Mi dispiace…».

Il signor Alatri mi fece accomodare su un divano dalle molle rotte e disseminato di peli di gatto, lui invece si sistemò su una poltrona, sedendosi sopra una pila di cuscini.

«Senza contare poi che sono malato di orchite, ho le palle grosse come due noci di cocco!» continuò.

Annuii schifato. Alatri impugnò il telecomando che era appoggiato su un bracciolo della poltrona e spense la TV.

«Mi fa piacere un po’ di compagnia ogni tanto, io e Carletto siamo sempre soli…» disse, indicando il simpatico gattino che si era beatamente accoccolato su un termosifone.

«Sono molto felice anche io di rivederla, le devo molto,» risposi.

Il signor Alatri fece un gesto con la mano come a significare di lasciar perdere, poi disse:

«Hai sete?».

«Sì, grazie. Ho corso come un matto».

«Uff, non sai le volte che è capitato anche a me».

Il signor Alatri si alzò emettendo un flebile peto e si avviò verso la cucina.

«Allora, come vanno le cose?» mi chiese poi.

«Così…» risposi.

In effetti, non lo sapevo neanche io come mi andassero, ero sempre senza un soldo e la vita era dura. Suonare il pianoforte per professione non era facile, soprattutto dal momento che mi dedicavo esclusivamente al jazz. Avevo cominciato ad ascoltarlo da bambino, mio padre ne era un grande appassionato. Un giorno, quasi per caso, accesi lo stereo che avevamo in salone e l’album Walz for Debby del Bill Evans Trio partì come per magia. Rimasi folgorato, lo ascoltai dall’inizio alla fine senza muovere un muscolo, poi, una volta terminato, presi una decisione irrevocabile: sarei diventato un pianista jazz.

***

Il vecchio fece ritorno con un bicchiere d’acqua in mano. Io bevvi, lui si risistemò alla poltrona, ma tra noi piombò il silenzio. Credo che a quel punto il signor Alatri temette che fossi già intenzionato a salutarlo, perché, nel tentativo di farmi cosa gradita, mi domandò:

«Le vuoi vedere?».

«Cosa?» chiesi.

«Le mie palle gonfie».

Trattenendo a stento un conato di vomito, feci segno di no con il capo.

«Come vuoi…».

Era sempre stato un tipo particolare il signor Alatri, ma di certo con l’avanzare degli anni non era migliorato.

«Ho anche smesso di bere per colpa di questa orchite, un vero strazio!».

«Complimenti,» dissi.

«Sono quattro anni che non ne bevo nemmeno uno goccio».

Ero sinceramente sorpreso, non riuscivo a ricordare una lezione di pianoforte in cui non avesse avuto un bicchiere di grappa in mano.

Il signor Alatri si accese una sigaretta senza filtro, afferrò un posacenere da un tavolo vicino e lo poggiò sul bracciolo destro della poltrona, l’altro era occupato dal telecomando della TV.

Carletto saltò giù dal termosifone e venne a farmi le fusa, io lo carezzai dietro le orecchie, mentre il mio vecchio insegnante si godeva la scena.

«Non è bellissimo?» domandò.

«Altroché,» replicai.

«È un gatto educato…».

«Un gatto davvero educato…» ripeté.

Annuii e percorsi con lo sguardo l’intero appartamento, poi mi soffermai a osservare Nino Alatri. Ormai doveva aver superato l’ottantina, era un uomo piccolo ed esile, il naso gli si era allungato ulteriormente, tanto che la punta era a pochi centimetri di distanza dalla bocca. Il suo viso si era come rinsecchito e i capelli, scompigliati in tanti ciuffetti dritti, si erano fatti ora più radi e bianchi. Le sue mani rugose con le dita sottili tremavano leggermente.

Il signor Alatri aspirò la sigaretta e lasciò fuoriuscire dalle sue enormi narici un fumo azzurrognolo.

«E così continua a fare lezioni di piano…» dissi, nel tentativo di portare avanti la conversazione.

«Sì, al figlio di una famiglia del primo piano, ma quel bambino è negato come pochi. Ed è cinese!».

«Mica tutti i cinesi nascono con il talento per la musica,» risposi. Alatri tacque qualche istante, perso nei suoi pensieri.

«Avrei bisogno di uno psichiatra…» disse infine.

«Ora so che esistono diversi specializzati nel trattare le persone anziane».

«Non per me, idiota! Per il bambino. È così timido che per insegnargli a suonare dovrei avere uno psichiatra accanto».

«Oh, scusi…» replicai, imbarazzato per aver frainteso. Alatri scosse la testa e sospirò profondamente.

«Ce l’hai una ragazza?» chiese.

«Sì, si chiama Erica».

«È carina?».

«Molto».

Alatri emise un grugnito di disapprovazione.

«Male, pessima scelta. Devi puntare alle racchie, le belle ragazze portano solo guai. Quelle brutte sono fedeli e ti lasciano con la testa sgombra, dammi retta, me ne intendo di queste cose» disse.

«Lo terrò a mente…».

«Tanti anni fa sono stato fidanzato con una ragazza di nome Marina. Era talmente brutta che la prima volta che la vidi pensai che fosse un uomo, ma era una brava persona, così gentile che me ne innamorai subito, nonostante il suo aspetto. Quello fu il periodo più felice della mia vita. Mai una discussione, mai una parola fuori posto, mai una scenata di gelosia».

«E com’è finita?» chiesi.

«Io ero spesso in giro a suonare, avevo tanti impegni e lei avrebbe voluto che la sposassi, che rigassi dritto e che mi cercassi un lavoro stabile. Volevamo cose diverse e le nostre vie si separarono… Certe volte però ci ripenso…».

Alatri fece una pausa per spegnere la sigaretta e per rimuginare.

«Penso a come sarebbe stata la mia vita da sposato, magari anche da padre, da impiegato di una qualche ditta o da proprietario di un piccolo negozio di musica… Sono cose che fanno riflettere a quest’età…».

«L’amore fa sempre riflettere. Io ho addirittura scritto un pezzo per la mia ragazza…» dissi vantandomi un pochino.

«Molto romantico,» rispose lui con sarcasmo.

«Non gliel’ho ancora fatto ascoltare però».

«E perché?».

«Non è finito e poi mi vergogno un po’…».

«Fesserie!» rispose stizzito il signor Alatri, «Cosa c’è da vergognarsi? Credi forse che sia stato l’uomo a inventare la musica?».

Esitai qualche secondo, conoscevo bene quel suo tono iracondo e sapevo che in quei casi era meglio restare in silenzio.

«Guarda che dico a te! Avanti, rispondimi: credi che sia stato l’uomo a inventare la musica?» mi incalzò lui, irritato.

«No?» replicai incerto.

«Certo che no! La musica esiste da molto tempo prima dell’uomo. È Dio che l’ha inventata per alleviarci la sofferenza di una vita così meschina!».

Carletto, stancatosi di fare le fusa, si allontanò dalle mie gambe e tornò al suo termosifone caldo.

«Per cui non devi aver mai alcun motivo di vergognarti nell’evocare la parola del Signore, ricordatelo!» continuò Alatri.

«Ho sempre pensato che lei fosse ateo,» dissi sorpreso.

«Vuol dire che non hai capito un cavolo di ciò che sono! Ora alzati e va a quel piano. Sentiamo un po’ quale stupidaggine melensa hai composto per questa Erica».

***

Perplesso, riflettei qualche istante. Non avevo compreso cosa intendesse Alatri con quel discorso su Dio e la musica, ma ciò che mi faceva esitare davvero era che nessuno avesse mai ascoltato Per Erica.

Alla fine, mi convinsi pensando che se c’era una persona a cui dovevo far sentire per prima il mio brano, quella era il mio vecchio insegnante. Mi alzai dal divano e mi sistemai sul panchetto del pianoforte. Suonai un paio di note per vedere se fosse accordato, sorprendentemente mi parve di sì.

«Quando vuole, maestro,» disse Alatri seduto alle mie spalle sulla sua poltrona anti-orchite.

Mi feci coraggio e cominciai, il brano me lo ricordavo a memoria.

Iniziai suonando in modo un po’ incerto, ma dopo qualche secondo di assestamento presi confidenza e riuscii a esibirmi senza avvertire il timore di esser giudicato. Anzi, quel pianoforte mi riportò con la mente alle mie lezioni pomeridiane, quando i turbamenti erano pochi e l’ottimismo per un futuro da grande pianista jazz mi faceva sognare ad occhi aperti.

***

Avevo scritto Per Erica in una notte d’estate in cui non riuscivo a dormire. Dal nulla avevo cominciato a suonare un buffo ritornello, «Niente di che…» pensai all’inizio, ma poi, poco alla volta, le note cominciarono a uscir fuori l’una dopo l’altra senza che io potessi nemmeno rendermene conto. Quella melodia prese lentamente forma, non si trattava di un buffo ritornello, ma di qualcosa di più grande e profondo. Riuscivo a esprimermi con la musica come mai avevo fatto prima. Si trattava di un motivo triste, ma con una vena leggera e per certi versi allegra che sembrava presagire un qualcosa di misterioso. Ricordava vagamente Autumn In Washington Square di Dave Brubeck. Ero fiero di quella creazione, non avevo mai composto nulla del genere.

***

Suonando, misi tutta la passione che provavo in quelle note. Lasciai scivolare le dita sulla tastiera come fossero su una lastra di ghiaccio e mi feci trascinare dalla melodia. Percepii per un breve istante dietro di me la figura immobile e imperscrutabile di Alatri, quasi come quella di una sfinge, ma non me ne preoccupai, anzi, il mio battito cardiaco accelerò e il sudore cominciò a scendermi dalla fronte tanto ero preso. Le lenti dei miei occhiali si appannarono e gli occhi mi si inumidirono. Dopo tutti gli avvenimenti della serata avevo proprio bisogno di una suonata che mi facesse riconciliare con i miei sensi. Mi sentivo carico di emozioni e cercai di trasmetterle attraverso la poliritmia delle mie note.

Finalmente, svuotato, terminai il pezzo, ma, proprio mentre ero intento a eseguirne le battute conclusive, scorsi con la coda dell’occhio il volto di Alatri e mi parve di intravedere una lacrima pendere da una sua guancia. Si trattò di un batter di ciglia, di un fuggevole attimo, ma quel luccichio che notai sul suo viso granitico lo giudicai inequivocabile. Ne fui turbato, non ritenevo possibile che un uomo di quella pasta potesse commuoversi ascoltando della musica, la mia per di più!

Mi voltai nel tentativo di accertarmi di ciò che avevo appena visto, ma il signor Alatri si affrettò a passarsi una mano sul viso e a riprendere il suo consueto atteggiamento impassibile.

Trascorse qualche attimo di silenzio.

«Che ne pensa?» domandai.

«Vedo che il jazz è ancora la tua passione…» si limitò a dire. Lo presi come un complimento.

«Le è piaciuto?».

Il signor Alatri non rispose, emise un grugnito, poi spostò il suo sguardo verso il gatto. I suoi occhi mi parvero lucidi, ma non fui in grado di cogliere niente di più.

«Chi erano quei ragazzi che volevano dartele?» mi chiese d’un tratto. Già, mi ero dimenticato di quei deficienti.

«Sono stato chiamato per suonare a una festa di compleanno qui vicino. Il festeggiato è un ventenne viziato figlio di ricconi».

«Che bellezza…» osservò Alatri.

«Lui e un gruppetto di suoi amici hanno pippato tutta la sera e a un certo punto hanno incominciato a infastidire gli invitati rovinando la festa. Se la sono presa anche con me, accusandomi di suonare musica di merda ed è finita che ci è andato di mezzo un povero cameriere del catering che ha cercato di prendere le mie parti. Lo hanno pestato, mentre io sono riuscito a scappare. Mi hanno inseguito, ma per fortuna ho trovato rifugio nel suo palazzo».

«Bravo, in queste situazioni pensa sempre prima a te stesso e poi agli altri, come in guerra. Chissenefrega di quel cameriere!».

Gli diedi ragione, sebbene non fossi affatto d’accordo.

«La droga… Potrei raccontartene mille di disavventure che ho dovuto passare per colpa di quello schifo…» disse Alatri, interrompendosi per riflettere.

«La tua storia mi ricorda quella volta in cui rischiai di essere gonfiato di botte da Chet Baker» aggiunse poi.

«Lei ha conosciuto Chet Baker?» domandai stupito.

«Sì e molto bene anche».

«Non me lo aveva mai detto!».

«Vuoi sentire la storia o continuare a interrompermi?» replicò Alatri seccato.

«Mi scusi, prosegua…».

***

«Era la metà degli anni Sessanta e lui venne a Roma per registrare un disco. Chet capitava spesso in Italia, così mi chiamò e mi domandò se fossi disponibile per suonare il piano. Sapevo da passate esperienze che lavorare con Chet era un vero incubo, ma accettai, ero giovane e bisognoso di soldi. Cominciammo le registrazioni e tutto sembrava filare per il verso giusto, finché una mattina decise di non presentarsi in studio. Nessuno aveva sue notizie dalla sera prima, né aveva la più pallida idea di dove finito. Visitai l’hotel dove alloggiava, ma di lui nessuna traccia. Alla fine, dopo una ricerca estenuante, lo trovai disteso su una panchina della stazione. Era ridotto una larva, puzzava da vomitare e i suoi abiti erano tutti rovinati e sgualciti. Mi pregò di procurargli dell’eroina da un tizio che conosceva, era in astinenza e aveva bisogno di farsi. Io lo feci alzare e lo trascinai fuori dalla stazione, ma mi rifiutai di andargli a comprare la droga. Lui prima cominciò a supplicarmi piangendo come una bambina, poi passò alle minacce. Mi accusò di volerlo vedere morto, di non tenere a lui e di essere un approfittatore come tutti gli altri. Mi licenziò e mi spinse via, facendomi volare a terra. Lo rincorsi come un matto per strada, finché lui non si fermò. Mi afferrò per il bavero della giacca, era pronto a darmele pur di convincermi a procurargli l’eroina, ma io gli dissi: ‘Puoi farmi quello che ti pare Chet, ma non riuscirai a obbligarmi. Sei mio amico e non voglio che ti rovini in questo modo’. Chet mi fissò dritto negli occhi e lasciò finalmente la presa. Disperato, si accoccolò sul marciapiede. ‘Sei l’unico amico che ho al mondo Nino,’ mi disse, dopodiché mi domandò scusa e scoppiò a piangere… Era un tipo difficile il vecchio Chet, ma suonava la tromba come nessun altro ed una brava persona, su questo non ci piove…».

A quel punto, Alatri fece una pausa, poi aggiunse:

«Mi hai chiesto come mai non ti avessi raccontato questa storia. Francamente non lo so, forse credevo che non ti potesse interessare o non volevo che crescessi pensando che per fare grande jazz fosse necessario fare la fine che ha fatto Chet…».

«Sì, ma poteva dirmelo che lo aveva conosciuto».

«Cosa vuoi che ti dica, sono vecchio…» rispose sbrigativamente.

«Il tempo cambia molte cose, ma non può cancellarle. Mai,» concluse poi.

Alatri s’incupì, rimase assorto nei suoi pensieri e io capii, o almeno credetti di aver capito, la ragione per cui non me ne aveva mai fatto menzione: si trattava di un ricordo doloroso, un ricordo doloroso di una persona a lui cara.

«È tardi, è meglio che vada,» dissi, un po’ a disagio.

Il mio vecchio insegnante annuì, senza rispondere nulla. Mi alzai dal panchetto e salutai Carletto che ricambiò con un miagolio. Feci per andare verso la porta, quando Alatri mi afferrò con la sua mano scheletrica il braccio.

«Prima di andartene, ti va di farci un goccio insieme per celebrare il nostro incontro?» chiese.

«Ma poco fa mi ha detto di aver smesso».

«Un bicchierino dopo due anni non può farmi male,» concluse lui.

«Va bene…» risposi.

Il signor Alatri, ringalluzzitosi, si alzò e si avviò verso il pianoforte. Spostò la cornice con la foto di Duke Ellington e mi mostrò una bottiglia semivuota di sambuca. C’era anche un bicchiere accanto, già pronto per l’occasione. Mi assalì il dubbio che Alatri non fosse rimasto poi così tanto sobrio negli ultimi tempi come voleva dar a intendere.

Versò un dito di sambuca nel bicchiere e me lo porse, dopodiché disse:

«Alla tua!» e si attaccò al collo della bottiglia.

Io, per non sentirmi da meno, mandai giù tutto d’un fiato.

«Ci voleva proprio,» aggiunse lui, una volta finito di tracannare.

Imbarazzato, mi guardai attorno.

«Beh, io andrei…» dissi infine.

«Va’ pure,» replicò, stringendomi la mano.

«È stato un piacere rivederla».

«Anche per me… e mi raccomando, continua così».

Lessi nel suo sguardo ciò che quella sera non era riuscito a dirmi. Mi sorrise e mi diede una pacca sulla spalla: era orgoglioso di me. Ma fu allora, proprio mentre quella sua dura mano scheletrica si poggiava sulla mia spalla, che me ne accorsi. Rimasi atterrito, non riuscivo a credere di non averlo notato prima. Non avevo mai neanche osato sospettare che dietro quel velo di scontrosità e durezza di Alatri si potesse celare una verità tanto atroce.

L’avambraccio sinistro del mio maestro, lasciato scoperto dalla manica della vestaglia, mostrava lungo l’ulna un piccolo tatuaggio, una serie di numeretti neri ancora perfettamente leggibili. Lui non sembrò accorgersi di niente, ma io finalmente compresi quello che aveva voluto intendere quando aveva detto:

«Il tempo cambia molte cose, ma non può cancellarle».

Alle volte, per quanto lo vorremmo, dimenticare è più difficile che ricordare. Provai tristezza, ma anche molta stima per lui e non m’importava se la storia su Chet Baker era solo una favola, mi era piaciuta e tanto mi bastava.

Lo ringraziai, diedi un ultimo sguardo all’appartamento, poi salutai di nuovo il gatto e uscii. Quella fu l’ultima volta che vidi il caro signor Alatri.