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Saluto a Morselli

di Matteo Caputo

Ognuno di noi porta con sé dei sensi di colpa.

Per quanto alcuni possano apparire assurdi e immotivati, ci si aggrappano addosso e ci costringono ad agitarci come cani che hanno qualcosa sulla schiena e non riescono a scrollarsela di dosso. Il mio senso di colpa più insensato è, ve lo anticipo già, verso uno scrittore.

Io non lo conosco e lui non mi conosce, anche perché, quando ho messo piede su questa Terra, era già morto da tempo. Si è suicidato, per la verità: dettaglio che, nella vita di un uomo, non è affatto irrilevante. Ha preso la sua «Ragazza dall’occhio nero», come la chiama nel suo romanzo più famoso, e l’ha fatta finita. Esattamente cinquant’anni fa, il 31 luglio del 1973, Guido Morselli decideva di abbandonare un mondo che non l’aveva mai capito e che forse, in quegli anni, non avrebbe comunque potuto farlo.

Bolognese di origine, varesotto di adozione, Morselli tentò finché ebbe respiro di farsi pubblicare, tuttavia invano. In vita poté vedere l’uscita solamente di Proust o del sentimento, del 1943, e Realismo e fantasia, del ’47. Proprio a proposito del primo saggio, uscito mentre si trovava in Calabria (per rimanerci tre anni, dal ’43 al ’45), scrive nel Diario:

Mi chiedo se sia possibile desumere un orientamento, ricavare una indicazione sul senso della nostra vita, di ciò che il destino – o la Provvidenza – ci ha riservato o ci viene apprestando, e che spesso ci sembra irragionevole e ingiusto se non assurdo ed iniquo. Ad es., vi è forse sottinteso un oscuro disegno nel fatto che la mia prima opera venga in luce lontano da me e senza che io ne possa avere notizia.

Per una di quelle beffarde ironie della sorte che connotano meglio di tante altre cose le storie personali di ciascuno di noi, egli non sapeva di aver chiaramente descritto la condizione che lo avrebbe accompagnato per tutta la vita e che avrebbe trovato conferma in ciò che sarebbe accaduto dopo di essa. Dopo la morte, infatti, come da copione, il successo: in meno di dieci anni, tra il 1974 e il 1980, vede la luce la maggior parte dei suoi romanzi. Il primo, ad esempio, Roma senza papa, in cui il vicario di Cristo decide di abbandonare Roma per vivere comodamente in una villetta a Zagarolo, esce nello stesso 1974; E che dire di Contro-passato prossimo, pubblicato l’anno successivo, dove Morselli riscrive un capitolo importante della Storia recente immaginando che la Grande Guerra sia stata vinta dagli Imperi centrali? (Oltretutto, a spaccare a metà il racconto, un Intermezzo critico davvero interessante). L’ultimo titolo di questa rapida rassegna (dal sapore, lo riconosco, un poco pubblicitario: ma, non dimenticatelo, io ho il mio senso di colpa da lenire), l’ultimo titolo, si diceva, è quello di sicuro più noto, Dissipatio H.G. (non vi sforzate, va sciolto così: Humani Generis), tra l’altro oggetto di una notevole riscoperta in anni recenti e causa di un’attenzione critica ipertrofica rispetto al resto della produzione morselliana, tanto da essere rappresentabile, con un po’ di fantasia, come uno di quei quadri di Dalì dove sono presenti arti sproporzionati. È la storia di un’apocalissi selettiva: un uomo sull’orlo del suicidio si trova a desistere dal proposito di ammazzarsi annegandosi in un laghetto. Durante il ritorno a casa scopre che l’umanità è sparita, è “evaporata”, appunto: si spalancano così, davanti al protagonista, le strade della riflessione su questo inedito scenario post-apocalittico e su tutto ciò che da esso scaturisce, percorse con lucidità ed ironia e inframmezzate dalle soste offerte dai ricordi: «Tutta la nostra esperienza interiore è il gioco di due fattori: la memoria (il passato), l’angoscia (il presente)», scrive trent’anni prima a Catanzaro nel VI Quaderno del Diario, quello di gennaio-febbraio 1944.

Si tratta del suo ultimo romanzo, del suo estremo tentativo di offrire al grande pubblico le proprie meravigliose pagine: anche tutti i precedenti, s’intende, erano andati a vuoto, e protagonisti delle inascoltate ragioni di questo exclusus amator – che tuttavia non arretrò mai di un passo la linea della propria dignità, anzi – sono stati personaggi di altissimo livello culturale, tra cui Calvino (con il suo trentennio di attività editoriale presso Einaudi) e Vittorio Sereni, il quale, in una lettera del 1971, non esita a ricordargli che «il nostro non è un ufficio di consulenza critica, ma un servizio di carattere editoriale, del quale rispondiamo ovviamente all’editore». L’editore di cui parla il poeta di Luino, si sa, è Mondadori.

Ma, come per ogni casa editrice, la pubblicazione di un libro è sempre una questione che deve tener conto di tanti parametri che nulla o quasi nulla hanno a che vedere con la letterarietà: l’autore della Casina Rosa (il suo buen retiro di Gavirate), per varie ragioni, era impubblicabile (tant’è che ci avrebbe pensato un editore come Adelphi a farlo conoscere al mondo). Non ultima, lo ammetto, quella dello stile: leggerlo implica un’attenzione particolare, spesso una rilettura, ma con il grande vantaggio di avviare riflessioni profonde e scoprire anche perle di rara ironia. Insomma, Morselli non è un autore da sfogliare sotto l’ombrellone: fa strano che io lo dica proprio nel periodo migliore per i consigli sulle letture da spiaggia, ma è così.

Se volete, lo rimandiamo a settembre. Con la promessa, però, di riprenderlo: non solo per i romanzi, ma anche, ad esempio, per il suo Zibaldone personale, quel Diario non più ristampato (ne esiste una versione in e-book, per fortuna) che non ha nulla da invidiare agli Escolios di Gómez Dávila o ai Cahiers di Cioran e che ci guida lungo trentacinque anni di riflessioni sull’amore e sul problema del male, sulla letteratura e sulla filosofia, sul suicidio e su Dio.

Da questo senso di colpa privo di colpa, sono leggermente più sollevato. Buona estate.

In Narrature

Organi

di Lorenzo Del Corso

Siamo sotto le arcate ingiallite di piazza Vettovaglie, in piedi con i drink in mano, perché la piazza è piena e non c’è posto per sedersi. Michele è appoggiato con la schiena alla colonna e guarda verso il lato opposto della piazza dove c’è la massa pressata della gente. Spera di vedere qualche suo amico, o magari sta solo guardando dei culi, non lo sappiamo. Dopo aver finito di rollarsi la cicca, Noemi ricomincia a parlare di Mau che si fa trovare sempre con i messaggi delle tipe su Tinder e Instagram e lei oggi gli ha preso il cellulare e gliel’ha buttato fuori dal finestrino e quindi ora hanno litigato e non si parlano più e forse lei lo vuole tradire per farlo incazzare e, mentre Noi le diciamo che fa bene e magari speriamo di essere Noi quello con cui lo tradisce, Michele ci dice di guardare dall’altro lato della piazza, nel marasma. Ci sono due bestioni con la testa quadra e rasata che stanno petto in fuori contro un africano col berretto di lana che vende fazzoletti. Lui urla qualcosa e loro non lo toccano, gli si stringono intorno con il mento in fuori. Allora il nero butta lo zaino pieno di fazzoletti in terra e tira un pugno nella pancia di uno dei due, l’altro però lo prende per il collo e lo tira via. Altri africani che sono nascosti nei vicoli a spacciare corrono come uno sciame di pirati saraceni e saltano addosso agli energumeni, che però sono pompati e anche se in minoranza li picchiano duro. Volano bicchieri tavoli sedie, i bangla sbattono giù le serrande e la piazza si trasforma sempre più in una gabbia, con la sua forma a chiostro di monastero, con la gente affacciata ai terrazzi a fare il tifo per l’una o l’altra parte, dalle finestre alte che spiovono sullo sgrondo della piazza si fanno dei video e le luci dei cellulari sono come dei riflettori, e si sentono degli strilli, la calca si sta attorcigliando su se stessa e vediamo gente che scappa via e altri sbronzi e drogati che si buttano nella mischia solo per fare casino, qualcuno comincia a rimbalzare sul pavé, c’è addirittura una tizia coi capelli sporchi di sangue che prende un sampietrino da terra e lo lancia nella mischia. Noi ridiamo e brindiamo a questo nuovo modello di aperitivo, molto più avvincente e partecipativo, e non sappiamo su chi puntare. Poi però la rissa si sposta sotto gli archi vicino a Noi, un uragano di braccia che scaraventa tavoli panche bottiglie persone insieme, allora ci allontaniamo e andiamo verso l’uscita, verso Borgo, da dove accorrono altri rinforzi a picchiare nella rissa. Mentre ci teniamo la pancia in mano dalle risate sentiamo degli urli bestiali, come di qualcuno che viene schiacciato, poi vediamo che uno degli energumeni ha la bocca piena di sangue e ha in mano un bastone di ferro. Dove cazzo lo ha preso? La città fornisce sempre ai suoi guerrieri motivi d’onore!

«Ragazzi usciamo, Mau mi ha mandato un vocale ma qui non sento un cazzo», e svicoliamo dietro Noemi mentre gettiamo un ultimo sguardo sullo spettacolo.

Scorriamo lentamente sotto il portico, pieno di gente, pieno di adulti intabarrati e avvolti da nubi di sigaro che escono dal teatro o dalla chiesa e dall’alto delle loro scarpe di pelle guardano in giù verso di Noi e soprattutto verso i loro figli, gli adolescenti mezzi nudi e mezze nude ubriachi e ubriache per i mix di liquori trasparenti urlare e piangere e ridere al di sopra dei subwoofer dei locali, e loro, gli adulti, se ne vanno alla spicciolata ai portoni delle loro case-torri coi soffitti affrescati oppure nei viali dove hanno lasciato le BMW per fare ritorno alle loro ville in periferia. Hanno guance lisce come intonaco e il mento alto allungato e affilato che ci puoi aprire una noce. La sera inizia e il cerchio si chiude, i ricchi se ne vanno a nanna e Noi ci prendiamo la città.

Nel frattempo Noemi e Cate sono accerchiate da un gruppo di ragazzi che ridono e sono in tiro e gli chiedono se c’è una festa da qualche parte. Una cosa tira l’altra e ci presentiamo, e insomma, ora siamo tutti insieme e andiamo a cercare una festa. Scopriamo che questi ragazzi non sono italiani, sono spagnoli, forse nemmeno tutti, e sono venuti a fare l’Erasmus e lunedì hanno tutti un esame, e Noi non sappiamo perché lo sappiamo. Sarà l’alcool che ti fa parlare e capire tutte le cose del mondo.

Il flusso intestinale delle vie del centro ci vomita sui lungarni. Lì scopriamo con un po’ di euforia che è notte, sarà passata mezzanotte nonostante la luce. Gli spagnoli come mosche li attira il neon viola di Palazzo Medici e così ci buttiamo sullo scalone monumentale di pietra serena e appena arrivati al secondo piano il locale ci accoglie con i suoi pavimenti a scacchi, e le poltrone lunghe e fosforescenti su cui sdraiarsi per bere, le imponenti finestre dell’antico salone da ballo nobiliare, sulle finestre i neon cangianti e le strobo fanno muovere gli affreschi con gli angeli e gli dei che sembrano vivi anche grazie alla vodka, vodka che ci tiene in vita. Servono un solo drink, un cocktail che si illumina al buio e fa illuminare la lingua e i denti. Questa cosa la scopriamo perché Noemi dopo aver bevuto si scambia la lingua con quella di Raoul e proprio in quel momento la chiama Mau, allora Noemi si stacca dalla bocca di Raoul e corre in strada stacchettando per lo scalone.

La musica è triste è vuota è stanca è rallentata e le luci al neon ci lasciano scimmiare come girasoli arrugginiti lungo l’autostrada e allora anche noi rotoliamo giù per lo scalone e andiamo a cercare Noemi in strada, ma non si trova più Noemi, Noemi è fuggita sparita dissolta fra i corpi sudati e mezzi nudi che scantonano pieni di euforia per il viale. Allora ci buttiamo in una radura uno spazio d’aria nel pieno della gente per decidere cosa fare come farlo dove andare e vediamo che gli

spagnoli iniziano a stare un po’ per i fatti loro, perché forse loro volevano solo Noemi che ora si è iniettata in chissà quale vicolo per chissà dove. E mentre pensiamo ai colpi dei subwoofer che ti fanno tremare le ginocchia si sente un odore strano e dolce, che non è tabacco e non è vapore aromatizzato e non è hashish né erba, non è sudore né sangue, né piscio né vomito né alcool, ci guardiamo intorno e vediamo la Municipale che ci spinge e ci dice di fare largo e allora ci passa in mezzo questa processione con la croce in cima e il prete col cappello a punta e dietro la gente armata di candele allo zampirone, e borbottano fra loro e noi capiamo che quello è Dio che passa in mezzo a Noi. Allora chiediamo a Dio come trovare Noemi: Michele si butta in un minimarket e ne schizza fuori con due confezioni di lattine rubate e noi le apriamo e andiamo a bercele davanti al Papa con la croce e chiediamo alla croce Dov’è Noemi? Dov’è? Allora la Municipale comincia a spingerci e arrivano quelli con i manganelli e le mani alla fondina per cacciarci via ma non ci toccano, non ci toccano perché nel frattempo, più in là si è creato un vortice pieno di coltelli e uno spagnolo si è dovuto prendere l’intestino in mano, tipo orologio da taschino.

E allora scappiamo, scappiamo perché ora insieme ai subwoofer e all’incenso si sentono le sirene e gli urli e se facciamo attenzione si sente anche il rumore di ossa che si schiacciano, di nocche che si attaccano a zigomi, incollate con il sangue. Fuggiamo sui nostri motorini, li abbiamo usati per scappare dai professori a quattordici anni e li usiamo ancora dopo quattordici anni, via dalle sirene e dal marasma, via da Noemi e da quelle come lei che è tornata sulla lingua della città per farsi masticare digerire ancora e ancora come un corpo estraneo, e la strada che oscilla e rotea e sopra e sotto palazzi e finestre cave come occhi di un cadavere mangiati dagli insetti, e quegli insetti siamo Noi, Noi che di questa discarica millenaria siamo le feci e siamo il sangue, noi che la rendiamo viva mentre la uccidiamo.

In Narrature

Città involucro

di Alessia Sacchitella

Al di là delle nuvole si celava una città bellissima con palazzi e costruzioni maestose; sembrava di vivere in una fiaba.

Una grande distesa blu la circondava, quasi abbracciandola, creando un paesaggio ricco di colori e forme magiche.

Non pensavo, potesse esistere davvero una città così incantevole; rimasi del tutto rapita dalla sua vitalità, energia, dai suoi rumori e poi quei profumi così inebrianti nelle strade deserte, mentre le altre affollate, piene di gente, uomini e donne, eleganti, indossavano abiti appariscenti e costosi e correvano, senza fermarsi mai, come se stessero cercando qualcosa, senza sapere dove trovarla esattamente.

Quella frenesia mi suscitava un senso di angoscia e preoccupazione perché erano tutti così distratti e immersi in una miriade di conversazioni senza fine, a nessuno importava, guardarsi intorno e proprio questo mi preoccupava.

In ogni angolo della città, era possibile scrutarne la bellezza, però era necessario fermarsi anche solo per un istante, basta così poco per essere felici; perché non rallentare?

Per trovare qualcosa di prezioso, bisogna osservare la meraviglia che c’è intorno a noi:

“ La città è un viaggio lento

dentro la bellezza di un sentimento.

Nelle storie della gente

che avvolgono la mente

tra antiche storie e leggende.

Una canzone accompagna il mio cammino

alla scoperta del destino

e poi alzo lo sguardo

verso le stelle,

nell’attesa del risveglio

dell’anima ribelle

che fa scintille

quando tutto intorno tace,

mentre la pace sussurra

una nuova parola

che darà forma

ad un’altra aurora.”

La città è una grande scatola, piena di tesori nascosti, storie e ricordi lontani che restano nelle mani, protetti con amore e poi misteri da svelare, strade colorate percorse da una marea di sentimenti che si intrecciano, ininterrottamente, anche tra le strade desolate e silenziose, dove la quiete riscalda i cuori, un soffio di vento accarezza dolcemente il viso di un passante che spaventato, la percorre frettolosamente per arrivare alla fine e ammirare il sole che tramonta.

Ci sono racchiusi frammenti di vita vissuta; la città è una piccola finestra sul mondo, uno spazio contaminato, ricco di speranze e nuovi giorni, in cui si può sempre rinascere, perdersi nel suo cammino, partire per poi ritornare.

Che sciocchi gli adulti! Sono talmente superficiali, grigi e spenti, privi di stupore e luce negli occhi che non riescono a valicare quel muro imponente che loro stessi amano costruire, seppur inconsciamente, vivendo in un’eterna infelicità che ha il suono silenzioso dei sogni infranti e desideri irrealizzabili, immersi in una nube colma di rassegnazione.

E’ il coraggio di cambiare prospettiva, percorrendo strade che non fa nessuno, l’unica salvezza per conoscere il vero valore delle nostre città, perché sono la nostra casa.

Oggi ho visto la città più bella di tutte perché son rimasta ferma ad aspettare che si rivelasse, che mi raccontasse la sua storia e le sue verità nascoste, eterne nelle strade del suo tempo.

Non è mai tardi, non esiste il momento “perfetto” ma anche solo un attimo per vivere, sognare e credere, nel fascino del divenire.

Spesso sono le sensazioni a condurci verso gli orizzonti più inaspettati e allora non smettiamo mai di cercare, solo così troveremo quell’armonia che darà una nuova forma al mondo, tracciato da migliaia di città sfavillanti, in attesa della loro rinascita.

Il passato resta ma il domani è ancora tutto da inventare, scoprire e creare.

In Narrature

CALL FOR PAPERS!

Dalla Kallipolis platonica alla Città del Sole di Campanella, dalla fervida Milano di Manzoni alle narrazioni sull’inurbazione selvaggia del secondo Dopoguerra: ogni epoca ha avuto a che fare con la propria idea di città, sia essa ideale o reale. In particolare, a partire da quella che Jean-François Lyotard ha chiamato La condizione postmoderna (1979), si è imposto un ripensamento dell’uomo in termini non più storici, bensì spaziali: la città è dunque diventata luogo privilegiato per la costituzione di quello «spazio sociale» teorizzato da Lefebvre (La produzione dello spazio, 1974) che permette, stimola e proibisce delle azioni. Ma esse sono anche altro. Nel 1972 Italo Calvino pubblica «l’ultimo poema d’amore alle città», Le città invisibili. Nella presentazione, scrive:

“Le città sono un insieme di tante cose: di memoria, di desideri, di segni d’un linguaggio; le città sono luoghi di scambio, […] non sono soltanto scambi di merci, sono scambi di parole, di desideri, di ricordi.”

Al contempo, sul versante strettamente letterario, in un’epoca come la nostra che privilegia la rapidità degli scambi e dei rapporti, legata molto spesso ad una superficialità degli stessi (si pensi a Bauman), la forma più adatta alla rappresentazione del contemporaneo sembra essere quella breve. Scrive Giulio Ferroni, in uno scritto fortemente polemico di qualche anno fa (Scritture a perdere. La letteratura degli anni zero, 2010):

“A me sembra che la forma «breve» del racconto […] sia oggi la più adatta a toccare la frammentarietà e la pluralità dell’esperienza, a scavarne il senso con tensione linguistica ed espressiva […] La relativa brevità dei racconti rispecchia in fondo lo spezzettarsi della realtà che oggi ci è dato.

A tal proposito, riteniamo opportuno calare la narrazione sulla città all’interno della forma del racconto, per tentare di dare una risposta alla domanda che già spingeva Calvino a comporre un libro (Le città invisibili, appunto), che “si deve leggere come si leggono i libri di poesie, o di saggi, o tutt’al più di racconti”: Che cosa è oggi la città, per noi?

Si accettano, pertanto, proposte di racconti di qualunque genere che raccontino la città, declinata sotto ogni aspetto possibile. 

In Narrature

The Bitter End

di Leonardo Gliatta

You try to break the mould

Before you get too old

You try to break the mould

Before you die

Questi siamo noi tre, giugno del millenovecentonovantotto, io, Carlo e Emanuela, pugni alzati e gole squarciate sotto il palco dei Placebo, in bella vista le unghie mie e di Carlo laccate nere, lui più emo di me, Emanuela col contorno occhi bistrato tutto sciolto dalle litrate d’acqua che scolavamo, mica solo dagli occhi, grondavamo sudore che ci potevi strizzare, tanto che quando siamo tornati al parcheggio e ci siamo ficcati in macchina, la Seicento scassata rubata al fratello di Carlo, le schiene si incollavano ai sedili in ecopelle, e sarà stato anche per quello, forse, che abbiamo fatto incidente, la stanchezza di tante ore di guida e del concerto, e l’inesperienza al volante, sarà stato anche perchè eravamo fradici, eravamo tutti e tre neopatentati, e farsi duecento chilometri di notte in autostrada non era uno scherzo, e tutto per vedere Brian Molko per la prima volta a Milano, quanto ci faceva strippare Brian, all’epoca, e devo dire che a quel primo concerto, sarà l’età, sarà che avevamo gli ormoni a palla e quando Carlo si è tolto la maglietta tutta bagnata ed è rimasto alla guida a petto nudo, e chi se lo scorda più, sia io che Emanuela eravamo in sollucchero alla vista di tutto quel popò di roba, certo è che non abbiamo fatto troppi drammi, sì, lo spavento c’è stato, il botto è stato forte ma s’è risolto con un’ammaccatura e una gita sul carroattrezzi, a diciannove anni ti senti pure eroico a poter raccontare agli amici che hai salvato le penne per miracolo, chi andava mai a pensare che c’era qualcosa che non andava.

Since we’re feeling so anaesthetized

In our comfort zone

Reminds me of the second time

That I followed you home

Siamo sempre noi tre, maggio del duemilaequattro, io, Carlo e Emanuela, post-punk, post-rock, post-adolescenti, e post pure tutti i fervori e le crisi di identità, Emanuela se l’è sposato, Carlo, pur sapendo che io ci morivo dietro, e tanto che vuoi farci, a te non te lo dava mica il culo, quindi meglio che la merce sia rimasta in famiglia, dice lei, famiglia dico io, quale famiglia, tu sei solo una vacca che calpesta i miei sentimenti, però poi mi passa, dopo un annetto buono che stanno insieme mi passa e vado addirittura al loro matrimonio e per poco non mi chiedevano di fare da testimone, e vissero tutti felici e contenti, e per suggellare il nostro ricomponimento compriamo tre biglietti per i Placebo, sfidando la sorte, e ridendocela su, ti ricordi la sfiga, quella volta, l’incidente e tutto il resto, senonchè decidiamo di mangiarci un boccone prima del concerto in una pizzeria di Assago, e tra una margherita e una Peroni spunta il matto armato che fa una rapina proprio sotto i nostri occhi, come nei film, col passamontagna e tutto il resto in regola, si mette a strillare dammi la cassa, dammi la cassa e io che mi butto sotto il tavolo e Carlo che molto amorevolmente si butta sopra Emanuela per proteggerla, e finisce tutto in uno, due minuti di panico, poi sotto schock ci guardiamo e pensiamo che no, questa non è sfiga, è qualcosa di più, è un segnale che Dio in persona ci sta mandando, Dio è contro i Placebo, Dio è contro i post-punk, i post-rock e i post-adolescenziali e forse faremmo meglio a levarci dal cazzo subito e tornare a casa, se non vogliamo che ci crolli il palazzetto addosso, io non ci vengo mai più a vederli, e ci sputa pure sulla sentenza che ha appena emesso, Carlo, e invece poi si lascia convincere da Emanuela, che peggio di così non può andare, la sventura cosmica ce la siamo già vissuta, ora è tutto in discesa, e così seguiamo lei mogi mogi per i cancelli del Forum e passiamo tutte le due ore di concerto a guardarci intorno, nel timore di vedere volare sulle nostre teste oggetti contundenti di qualsiasi natura.

I saw you jump from a burning building

I’ve seen your moves, like Elvis set on fire

This search for meaning is killing me

Ping pong ball at the back of my throat

Ancora noi tre, ottobre del duemilaventidue, io, Carlo e Emanuela, sono passati diciotto anni, diciotto perdio, dal nostro ultimo concerto insieme, Brian ha i capelli lunghi, i baffi e il cappello nero che assomiglia più a Lemmy dei Motorhead che a Bowie, e noi non siamo da meno, due uomini adulti che fingono di essere più giovani e una donna che smania per un nuovo marito che le restituisca un senso alla sua seconda vita, sì, perchè Carlo non è più suo marito da un pezzo, da quando lei ha sgamato le sue chat con Rodrigo e Manolo e Sergio, e dopo un bel pò di anni è diventato il mio compagno ufficiale, e abbiamo esaurito così tutte le combinazioni, e Emanuela l’ha presa sportivamente, quando io le ho detto, visto, che poi il culo me lo ha dato e la merce è rimasta sempre in famiglia? e così l’abbiamo presa molto alla lontana, prima ho passato ad Emanuela i singoli su Spotify, poi ho fatto sentire tutto il nuovo album a martello settegiornisusette a tutti e due e ho fatto la proposta indecente, dai, ragazzi, dobbiamo sfatare la cosa, è come quando torni sul luogo del delitto, sono passati troppi anni ormai che vuoi che ci succeda, non facciamoci vincere dalla superstizione, siamo tre affermati professionisti, viviamo nella città più razionale d’Italia, che ci frega, e dopo varie insistenze alla fine acconsentono e ai cancelli ripassiamo tutte le canzoni storiche e fingiamo di ignorare quel leggero turbamento che ci aleggia intorno, finché le luci non si accendono di colpo, e il boato sale e tutti a invocarli manco fossero i Rolling Stones e sul palco salgono Brian e Stefan con le chitarre imbracciate e Brian va al microfono con una faccia da cencio e dice:

Questa sera sul palco siamo solo in due, il nostro storico batterista Steve Hewitt ha avuto un malore durante le prove e sta lottando tra la vita e la morte in un ospedale qui in città. Dedichiamo a lui questa serata!

In Narrature

Di che sa l’inverno

di Azzurra De Paola

La persona che odio di più al mondo e in generale nella vita è la postina: ha una brutta faccia ed è portatrice di sventure; la postina non mi piaceva nemmeno quando mi piacevano ancora le cose. Perché prima mi piaceva qualcosa, non tutto ma molto, quello che riconoscevo, quel fuori simile al dentro ed aveva un senso.

Ora invece riconosco poco, quasi tutto è significativamente estraneo, come essere sul mondo ma essere atterrata qui due giorni fa da un’altra galassia, più o meno, pur tenendo conto che non ho idea di come sia venire da un’altra galassia e nemmeno da un altro pianeta, perché il massimo che sono riuscita a fare in questa minuscola vita è stato cambiare continente, cosa che gli antropologi oltretutto non vedono tanto di buon occhio perché ogni volta che masse di esseri si spostano da un posto all’altro portano con sé specie infestanti, malattie e ossessioni del paese d’origine, e per questo poi alla fine siamo tutti pazzi allo stesso modo e ovunque ci prendiamo la candida se andiamo col primo che passa, che poi è un peccato. Insomma, prima ci tenevo, appartenevo, anche poco, e ora neanche quel poco perché non riconosco più il fuori e niente mi somiglia, per quanto mi giri, e mi giro tanto, diecimila volte su me stessa fino a vomitare o a cadere per terra, purché qualcosa significhi. Invece niente. È cominciato il natale che ho avuto la bronchite, credo, anche se la bronchite a natale spesso è un cliché. Cerco di evitare sempre i raffreddori di febbraio o l’antistaminico di aprile, le nausee mattutine o il consumismo di inizio dicembre, le paranoie ecologiste dei verdi e tante altre cose che normalmente si fanno e nessuno ci fa caso perché le fanno anche gli altri. Ecco, io non le faccio, e ci vuole anche una certa conoscenza approfondita delle abitudini socio-culturali delle persone per fare il contrario, non è per niente facile come molti credono, anni e anni di studio, osservazione sul campo e simili. Però la bronchite di quel natale non me l’ha tolta nessuno, perché si sa che la vita se ne frega degli ideali, delle ideologie, dei fanatismi e di come uno si era pianificato che dovessero andare le cose. Anzi, ci vedo una sorta di accanimento e di godimento sarcastico nel modo in cui la vita se ne fotte sistematicamente delle regole e dei programmi e delle speranze di tutti, per questo in fondo la vita mi piace e quando c’è stato da scegliere se vivere o morire ho optato per la prima; non per quella sorta di scelta scontata che fanno tutti, del tipo: ok ormai sono viva, tanto vale vivere. No, più una scelta cosciente, la decisione quotidiana di non morire nei modi più stravaganti e originali (chi di noi non sogna una morte col botto?) solo perché life’s a bitch, e questo non me lo perderei per niente al mondo, nemmeno per la tentazione, forte, di stupire tutti e morire in modo improbabile ad un’età ridicola. Neanche questo è stato facile ma so essere determinata, talvolta. Quando ho preso la bronchite, quel natale, è stato così banale che non l’ho detto a nessuno, nemmeno al dottore che, come mia madre, è sempre l’ultimo a sapere le cose. Non mi piacciono le personalità giudicanti né tantomeno quelle sinceramente preoccupate. Perciò mi sono tenuta con pazienza e rassegnazione la tosse e il raffreddore ed è stato quello il momento in cui, il giorno dopo averli comprati, ho buttato tutti i mandarini. E sì che se li ha comprati chissà che figura ci fa San Nicolaus con i bambini, mi sono detta mentre rovesciavo la casetta di legno nel sacchetto dell’umido. Li ho buttati tutti. Poi ho buttato: le fragole perché non era stagione, i crostini all’aglio perché forse li avevo aperti da troppo e avevano perso la fragranza, una scatola di cioccolatini del discount che, si sa, non sempre hanno il sapore che ci si aspetta. Ma è stato quando stavo per buttare la tisana alla cannella che ho iniziato a sospettare che qualcosa non andasse. La tisana alla cannella ha sempre avuto lo stesso sapore da quando la compro e presumibilmente ce l’aveva anche prima che la comprassi. Al primo sorso il mio cervello era lì lì per sentirsi che aveva sapore di cannella, che è il sapore di cannella che tutti conoscono, era sul punto di sentirlo, o almeno io credevo che fosse sul punto di sentirlo perché diamo sempre per scontati i sapori delle cose che conosciamo, e invece sapeva di acqua calda che non sa di niente. Ho allontanato la tazza dalla bocca e ho riflettuto con aria impegnata. Per sicurezza ho bevuto un altro sorso e anche lì il mio cervello è stato vicinissimo a sentire il sapore di cannella che conosce così bene ma non ce l’ha fatta. La seconda volta è stato castrante, come cercare di avere un orgasmo senza riuscirci, che ti resta dentro inespresso e fa male. Come quando non ti viene una parola che ti serve subito. Come quando (ognuno finisca la frase come vuole). Acqua calda, e ditemi cosa c’è di peggio. Ho rovesciato la tisana nel lavandino con rammarico perché è un piacere non solo legato al gusto ma anche al riscaldarsi, al sentirsi a casa, al gusto dell’inverno. Un effetto domino di emozioni negate. A quel punto ho capito perfino io che qualcosa non stava andando nel verso giusto. Ho iniziato ad infilarmi in bocca di tutto: limoni, olio di semi, grani di bicarbonato. Niente, tutto uguale. Il macinato di caffè come leccare la polvere da terra, una fetta biscottata come mangiare un cartone di Amazon. Il pranzo di natale un disastro: non distinguevo l’insalata dall’involucro dei cioccolatini e la lasagna aveva lo stesso sapore del vomito del cane. Quello che riuscivo a distinguere con chiarezza erano il salato, il dolce, l’amaro. Questo lo capivo, capivo che la torta è dolce mentre le arance sono acri, questo sì. Ma poi riuscire a trovare nel mio cervello il loro sapore era tutt’altra cosa. Non me lo ricordavo, lo sapevo, sapevo di saperlo, il mio cervello sapeva di averne memoria ma non lo ricordavo. Non ero nemmeno più sicura di avere fame. Mangiare era diventato una specie di gioco: la matita è legnosa, il miele è come il moccio, il passato di verdure solo se hai una cisti in gola altrimenti non c’è ragione di mangiarlo, per non parlare dei fagioli o dei ceci, come mangiare blatte, croccanti fuori e farinosi dentro. I cetrioli usateli per come vi hanno insegnato le nonne, è meglio. Ma è stata la notte di capodanno a determinare la profonda frustrazione: stanca ormai di non mangiare ed esaurita la curiosità per oggetti improbabili come pietre, plastica, bulloni, dopo giorni di vomito e crampi alla pancia, dopo aver ingoiato lo zucchero a velo del pandoro con tutta la bustina di carta, non sapevo che direzione prendere per il nuovo anno. Mi piace avere buoni propositi e pormi obiettivi irrealizzabili. Perciò alla fine, mentre ascoltavo buon blues in una città piena di anima, ho bevuto una bottiglia intera di champagne perché aveva lo stesso sapore dell’acqua del water, parlo per esperienza. Il fatto che non si sentano i sapori manda in tilt molti altri istinti elementari, quello della fame l’ho già detto, e anche altri che adesso non so esprimere a parole ma comunque non funzionano: tipo io che mi attacco alla bottiglia la notte di capodanno con tutti i maniaci che ci sono in giro e che non aspettano altro che trovare una come me. La festa è stata leggera e allegra nonostante il rischio concreto di coma etilico. Guidi tu?, mi chiede l’amica alcolizzata ma le dico che ormai non posso fare la parte dell’astemia, forse se me l’avesse chiesto qualche ora prima. A quel punto ognuno prende la propria strada, andiamo tutti via da soli perché è la vera natura degli uomini, l’illusoria comunione di dna e idee innate è posticcia e comunque ci crede solo qualche comunità primitiva del Togo. Per noi borghesi bianchi eterosessuali è più facile accettare che Babbo Natale esista e che adesso invece della letterina basta mandargli un whatsapp. Andavo per la strada interrogandomi sui meccanismi che regolano il desiderio di cibo e di come differisca dalla fame effettiva, quando finalmente si decide ad avvicinarsi un maniaco, che poi non era nemmeno un maniaco. Ma esistono ancora? Si avvicina questo uomo belloccio e insignificante che mi fa domande d’altri tempi su come mi senta, che poi a lui cosa importa, e gli chiedo che finché respiro direi che ho tutto sotto controllo ma non sembra convincerlo, a me questi altruisti del rimorchio mi fanno venire la tosse o il prurito, la tosse e il prurito insieme, la nausea, i giramenti di testa, ah no, quello è lo champagne. Credo di aver bevuto troppo, dico. Non bevo mai non sono  quel tipo di donna, dico. Lo dicono tutte?, chiedo. Lui mi prende sotto braccio. Vuoi violentarmi?, chiedo, no, risponde ma alla fine chi è che ammette una cosa del genere. Poi ci penso: perché no, scusa? Non sono quel tipo di uomo, dice. Allora sono brutta, replico. No, mi assicura ma questo è un altro genere di cosa che nessuno ti dice in faccia. Domani andrai in palestra a dire ai tuoi amici che hai aiutato un cesso di ubriacona ad attraversare la strada, dico. Non vado in palestra, risponde ma chi è che non va in palestra di questi tempi. Però se ci andassi lo diresti?, insisto. Non sono uno che violenta le donne e che si vanta con gli amici, sentenzia. Non ho mai conosciuto qualcuno che mi abbia fatta sentire così brutta. All’improvviso lo odio, gli auguro ogni male, mi allontano dal suo braccio vestito in modo ordinario e vaneggio qualcosa sull’andare a cagare ma meno volgare. Tipo: vai a caxxre anche se è sempre difficile rendere le censure a voce. Viene fuori qualcosa tipo vai a ca()are con una pausa tra le vocali “a”. Brutto pezzo di mexxa che diventa brutto pezzo di me()()a. Cose così. Bastardo lo dico fingendo di starnutire. Lo facevo anche io al liceo, mi urla da lontano. La smetti di seguirmi?, gli dico piantandomi in mezzo alla strada. Pensavo di seguirti fino ad una strada fuori mano e poi violentarti così domani posso iscrivermi in palestra per raccontarlo a qualcuno, dice senza espressione. Ci penso su. Ok, dico facendo spallucce e ricomincio a camminare. Lui mi segue a debita distanza, come ci si aspetta da un maniaco. Cammina con quel suo giaccone borghese, di un blu da impiegato d’ufficio, con le braccia dietro la schiena, è carino ma banale, attraente ma ordinario. È solo a quel punto, accertata la sua ordinarietà, che mi giro e gli dico puntando l’indice verso la sua faccia comune: di solito sono l’amica che guida. Si ferma e non replica, non ha espressione, non è. Così insisto: non sento i sapori e mi sono bevuta una bottiglia di champagne come se fosse acqua. Forse stavolta un po’ si meraviglia che sia ancora viva ma non ribatte. Odio la gente che non si lascia coinvolgere, la amo, mi fa impazzire. È già la mia cosa preferita del nuovo anno. Mi avvicino. Sento il dolce, l’amaro, il salato… sussurro sulla sua bocca. L’umami, sussurra lui sulla mia. Non ho mai conosciuto qualcuno che dica le m bene. U-m-a-m-i, scandisco. Ci baciamo bene come solo due sconosciuti possono fare, la sua lingua è morbida e consistente, scivolosa, liscia, insapore, come leccare una rana però calda. Una lumaca appena tolta dalla padella. In fondo una lingua non l’ho mai assaggiata, e a dirla tutta nemmeno una lumaca però a pensarci bene, ora che siamo qui, visto che mi è capitato, non vedo momento migliore per fare entrambe le cose. Dopotutto si sa che bisogna sempre avere qualche nuovo proposito per l’anno nuovo, e comunque non credo che avrei il coraggio di farlo una volta ripreso il controllo dei miei sapori. Non sono quel tipo di donna.

In Narrazioni

Quel sapore di sangue che si scorda troppo presto. Omaggio a Babsi Jones

di Giulia De Vincenzo

Dicembre: tempo di riletture e bilanci. Di cerchi da chiudere, di conti da far quadrare. Ma i cerchi somigliano ad anelli metallici le cui estremità non combaciano. E i conti… quelli sono famosi per restare in sospeso. Le accise sulla benzina la dicono lunga. Forse ci siamo liberati di quelle della guerra d’Etiopia, ma ne paghiamo altre. Qualche giorno fa ne scorrevo la lista, così, per divertimento: 0,106 euro per la missione dell’ONU durante la guerra del Libano del 1982; 0,0114 euro per la missione dell’ONU durante la guerra in Bosnia del 1995. Le cosiddette guerre umanitarie: agghiacciante ossimoro. E guardando a est mi è tornata in mente una Rizzoli del 2007, un libro coraggioso, difficile, scomodo, di cui non parla più nessuno: Sappiano le mie parole di sangue. L’autrice, Babsi Jones (pseudonimo), è scomparsa nel nulla, dissanguata da fatti che probabilmente ha vissuto prima di riversarli in un reportage quasiromanzo sporco e poetico, come ogni forma di scrittura autentica dovrebbe essere. Un oggetto letterario difficile da identificare, come la Verità in quei Balcani limacciosi e ingannevoli, faticosamente tenuto assieme dai rimandi intertestuali all’Amleto, un Virgilio luterano in rilegatura termosaldata che guida Babsi attraverso l’Inferno della guerra, del pogrom, della morte. E della scrittura.

Quando Babsi si faceva di dexedrina nel condominio di Yu Prog a Mitrovica, quando si aggirava a Niš tra i muri crepati dalle esplosioni delle bombe a grappolo, mentre Babsi toccava il fondo di ogni notte e ne grattava la crosta, indecisa se affondare nella melma o strisciare per risalire ed evitarla, io guardavo la guerra in televisione: negli occhi un orrore distratto e in mano una birra fresca. Una ragazza occidentale, dal suo osservatorio privilegiato che pensava: «C’è del marcio in Serbia». E beveva un altro sorso. Pochi mesi dopo il Kosovo si autoproclamava indipendente, e metà dei Paesi dell’ONU annuiva. Belgrado non ha mai approvato e continua a emettere le proprie targhe per gli automobilisti dello Stato ormai adolescente, a controllarne le scuole e gli ospedali. C’è un ponte a Mitrovica, che passa sul fiume Ibar, un muro che scorre, e divide la popolazione serba da quella albanese, le campane ortodosse dai canti del muezzin. Il ponte è chiuso al traffico dei veicoli in entrambe le direzioni, pattugliato dalla polizia e percorso da pochissimi pedoni per motivi di lavoro o familiari, attenti a non farsi sfuggire un Hvala vam![1] nel quartiere albanese o un Je e mirepritur![2] nella zona serba. Una conflittualità interetnica strisciante, a testimoniare che la guerra, qui, non è finita con gli Accordi di Kumanovo del 1999. Perché la guerra non finisce: cambia forma, germina, conglomera.

Evoca somiglianze che poi si rivelano legami di sangue. La zona nord del Kosovo, dove sorge la Berlino balcanica, grande all’incirca quanto il comune di Roma e ricca di risorse idriche e minerarie, è abitata da una larga maggioranza serba che si sente legata alla madrepatria. Così Pristina accusa Belgrado di fomentare le tensioni al nord per controllarlo tramite gang criminali, mentre i serbi kosovari ribattono denunciando discriminazioni e maltrattamenti dalle forze dell’ordine. Questo basterebbe a richiamare le vicende del Donbass dal 2014 fino all’invasione da parte della Russia, che tra l’altro considera la Serbia un lasciapassare per i Balcani. Ma se non accade nulla che ecciti la cronaca, l’Europa se ne sta a guardare come una battona assopita che si gode la sua pace parziale, e intanto conta teschi. Paul Valery scriveva: “l’Europa è Amleto”, ma è un Amleto intellettuale che guardando migliaia di spettri “medita sulla vita e sulla morte delle verità. Ha per fantasma tutti gli oggetti delle nostre controversie; per rimorso tutti i titoli della nostra gloria (…). Se tocca un teschio, è un teschio illustre” e anche se non sa cosa farsene di tutti questi teschi, “se li abbandona, smetterà di essere se stesso”[3].

Questa è l’Europa. Il suo stigma non sta nella scelta tra essere e non essere, ma nell’essere e non essere contemporaneamente. L’Europa, quel mastodontico fossile che sorveglia e stritola il taccuino di Babsi, facendola sentire un ratto da laboratorio, ha la sua personificazione nella figura del Direttore, destinatario  particolare e universale delle missive ibride (tra email e diario) che strutturano il libro. Il sommelier dell’opinione pubblica, che simboleggia tutto il marcio trasmesso dall’informazione, la Storia mercificata e le manipolazioni del mainstream geopolitico, vaghe enumerazioni di innocenti e infami, di sommersi e salvati infiorettate di aggettivi macabri, con l’ebbrezza di fottere il lettore entro la quarta riga. Il finto paternalista che ti regala la Nikon e ti spedisce al fronte – biglietto di sola andata – e intanto brinda, ospite alle cene dell’intelligencija, per festeggiare le bombe che potrebbero ucciderti. Babsi: vittima sacrificale di un cincin. Il Direttore è colui che demanda e attende, attende una e una sola verità, attende invano. Perché Babsi ha capito che esiste solo la guerra. Che siamo tutti sempre e solo guerra, ognuno con la sua verità, nessuna più credibile di altre. Tutti tragicamente uguali: in questo, il solo barlume di speranza. Che in guerra non ci sono vincitori e sconfitti, ma solo carnefici e martiri che si scambiano troppo spesso di posto. Che la Pace è una penosa pantomima, vernice bianca stesa su un mondo che ammuffisce e in cui ci agitiamo, civili per diletto. Soprattutto, Babsi ha capito che la guerra è inesprimibile con lo strumento narrativo.

E ha ingaggiato, in quell’arcipelago precario di patrie sconquassate, lingue e bandiere antitetiche, una guerra intrapersonale per enucleare il senso della sua esperienza, la ragione intrinseca della sua posizione filoserba e antioccidentale, e chiudere il cerchio delle sue contraddizioni. Pungolo e nemesi: la scrittura. Protagonista già nel titolo, che rimanda al monologo di Amleto sull’incapacità di agire (“D’ora in avanti i miei pensieri siano di sangue, o non valgano niente”[4]), la scrittura non serve, non risolve e non basta, non separa la realtà dalla finzione, non estrapola l’essenza di fatti su cui si è scritto tutto, di cui si è detto troppo. Eppure fluisce, inutile e fisiologica come sangue mestruale, e a un certo punto smette. Somiglia a un parto che fallisce sempre. A un bisogno patologico che trova soddisfazione attraverso la fatica e il dolore. Le parole di Babsi sgorgano da piaghe verbali sempre aperte che spurgano secondo modi e tempi imprevedibili, guizzano sfuggenti per poi sclerotizzarsi in gusci vuoti: “Se queste pagine fossero un reportage, un romanzo o un saggio, se fossero un libro, Direttore, tu potresti pescare una pagina a caso, perché tutte le parole che trovo, che conosco, che ho il potere di usare si ripetono, si rifanno a se stesse, si riformano. Non sono che un guscio, e al centro non c’è che la notte che mi afferra e mi sfianca”[5]. Babsi ha provato a spiegarglielo, ma “un discorso furbo dorme in un orecchio stupido”[6]. Ha provato a fargli esercitare la facoltà del dubbio, dell’indagine che sfida il giudizio altrui con una parvenza di follia, a fargli sentire l’ululato spettrale di un ricordo paterno che chiede vendetta, a fargli sentire il sapore del sangue, ma…

“Morire…dormire…nient’altro. E con un sonno porre fine agli strazi del cuore e alle mille naturali battaglie che eredita la carne. È una fine da desiderarsi devotamente. Morire, dormire; dormire, sognare forse”[7].

Babsi è stanca. Dorme. Forse è morta. E io raccolgo la sua eredità, scrivendo in sua vece un’ultima lettera. Nella stanza, Thelonious Monk echeggia, rimbomba, rimbalza. Sulle note di Round Midnight immagino di tediarlo mentre organizza le vacanze di Natale. E traccio poche parole su un foglio immacolato: “Si fotta, Direttore. Felice anno nuovo”.


[1] “Grazie!” in serbo.

[2] “Prego!” in albanese.

[3] P. Valéry, La Crisi della coscienza europea, 1919

[4] W. Shakespeare, Amleto, atto IV, scena IV

[5] Babsi Jones, Sappiano le mie parole di sangue, pag. 102

[6] W. Shakespeare, Amleto, atto IV, scena II

[7] W. Shakespeare, Amleto, atto III, scena I

In Narrazioni

Romanzo familiare: struttura e temi di un genere letterario secolare e sempreverde

di Ilaria Orzo

Tra i libri più letti degli ultimi anni ci sono certamente le saghe familiari, interi volumi che ricostruiscono la storia di una famiglia attraverso i secoli, di generazione in generazione, approfondendo non solo la caratterizzazione dei personaggi e le relazioni che questi hanno tra loro e con altri, ma anche il contesto storico e geografico in cui sono calati.

Ad oggi, però, parlare di saghe familiari è abbastanza improprio: con il tempo, infatti, sono stati fatti afferire a questa macroarea anche romanzi autoconclusivi in cui i passaggi generazionali e temporali vengono sviluppati e raccontati con una semplice divisione in capitoli o dividendo il volume unico in parti; si pensi, ad esempio, a Cent’anni di solitudine e Le correzioni, grandi capolavori della letteratura che, seppur non divisi in volumi, ricostruiscono in maniera precisa e capillare intere e intricate storie familiari.

Nonostante la difficoltà di far combaciare tempi, persone, cose e fatti, il risultato che si ottiene è il regalare al lettore una vita parallela, nuovi amici, quasi una nuova famiglia. Il fascino di questo genere, infatti, sta nella sua capacità di trascinare in un qualcosa mai conosciuto prima rendendolo così reale e tangibile da farne sentire la mancanza dopo l’ultima pagina.

I romanzi e le saghe familiari affondano le loro radici in un tempo molto lontano e si richiamano a una narrazione tramandata in forma orale.

Ma come si struttura un romanzo di questo tipo? I piani della narrazione sono essenzialmente tre.

Il primo piano narrativo riguarda la storia della famiglia. La lente d’ingrandimento è posizionata sull’albero genealogico e sui gradi di parentela che intercorrono tra i vari personaggi. Talvolta, per aiutare il lettore a muoversi tra i vari personaggi e star dietro ai salti temporali, l’albero genealogico viene messo a tutti gli effetti nero su bianco all’inizio del libro, pronto alla consultazione. Questo stratagemma banale può rivelarsi molto efficace: si pensi al già citato Cent’anni di solitudine, in cui i capostipiti della famiglia hanno tutti lo stesso nome di battesimo, oltre che lo stesso cognome, o ai più moderni Cazalet, in cui le bambinaie si chiamano per lo più Nan e ciascun figlio maschio ha almeno tre o quattro figli, a volte anche con donne diverse; perdersi durante la lettura, in questi casi, è più semplice del previsto, e uno schema riassuntivo delle parentele può diventare un buon alleato.

 Il secondo piano narrativo riguarda la crescita personale dei singoli personaggi. Ogni membro della famiglia viene caratterizzato minuziosamente, certamente dal punto di vista fisico, ma soprattutto dal punto di vista psicologico. Di ciascuno impariamo a conoscere passato, presente, sogni, ambizioni, segreti, dubbi e gusti. Questo è certamente il modo migliore per calarsi nella storia, ma è molto utile anche per comprendere a pieno l’evoluzione della famiglia stessa e per riconoscere i segni del tempo che passa. Prendiamo ad esempio i Florio, la cui storia è raccontata ne I Leoni di Sicilia e L’inverno dei Leoni di Stefania Auci: se non conoscessimo a fondo i loro protagonisti li prenderemmo in simpatia o in antipatia per partito preso, senza comprendere le reali motivazioni che stanno dietro le loro decisioni e le loro azioni e non riusciremmo ad intuire come procederà la narrazione, perché da quei personaggi non ci aspetteremmo nulla.

Il terzo piano narrativo, infine, riguarda il contesto storico. In alcuni casi, questo aspetto viene tralasciato, ma si tratta di rare eccezioni. Tanto quanto caratterizzare i personaggi, calare la storia in un contesto storico preciso e seguirne l’evoluzione anche da un punto di vista sociale, politico ed economico ci aiuta ad anticipare e comprendere le mosse e le parole di ciascun attore della storia, legittimando il suo essere, al di là della simpatia o dell’antipatia personale.  Anche in questo caso prendiamo a supporto un esempio pratico, analizzando il contesto storico raccontato ne Il buio oltre la siepe di Harper Lee e poi ripreso nel suo seguito Va’, metti una sentinella; generalmente, questi due romanzi vengono presi in considerazione solo in quanto romanzi di formazione, ma, essendoci al centro della narrazione anche e soprattutto le vicende personali di Scout e della sua famiglia, possiamo affermare con certezza che questi due titoli possano essere rubricati anche sotto i romanzi familiari. In essi, l’importanza del contesto storico è lampante: la questione della tratta degli schiavi e dello sfruttamento dei negri è il tema principale della narrazione e condiziona e guida i comportamenti e i pensieri dei protagonisti. Avendo analizzato approfonditamente i diversi piani narrativi a cui si deve fare attenzione quando ci accinge a scrivere un romanzo o una saga familiare, è facile comprendere come l’impresa sia particolarmente ardua: c’è da immaginarsela quasi come il dover scrivere tre romanzi differenti e farli corrispondere ed incastrare tra di loro, in modo che, una volta messi insieme, diventino causa ed effetto l’uno dell’altro. Nessun dettaglio può sfuggire, un solo errore potrebbe rendere fallace e poco plausibile l’intera storia.

In Narrazioni

Édouard Louis: un “millenial” che riscrive il “maschile” tra esigenza sociale e violenza politica

di Pierluigi Mantova

C’è un passaggio necessario nel famoso Viaggio dell’eroe – che oltre ad essere un libro è innanzitutto un paradigma narrativo – in cui l’eroe, dopo aver superato prove e ostacoli nel mondo straordinario, fa ritorno a casa (il mondo ordinario da cui era partito) con l’elisir, che può essere materiale (un oggetto fisico che l’eroe ha recuperato in una missione) o una consapevolezza che ha acquisito e che porta nel suo contesto originario, di modo che ci possa essere uno scioglimento (o risoluzione) della domanda drammaturgica iniziale che ha spinto l’eroe a partire. Questa tappa del ritorno a casa è visibile non solo nelle storie che raccontiamo, ma anche in chi le racconta. Senza scomodare i miti del mondo antico, da cui il paradigma trae ispirazione, si può parlare di autori in cui “ritornare” diventa un passaggio necessario per la loro penna.

Ognuno di noi, in qualche modo, è chiamato all’avventura – anche se non tutti varcano la soglia o fanno ritorno a casa. Sta di fatto che leggendo i libri di Édouard Louis si nota proprio questo: ritornare al contesto di partenza, ma con uno sguardo critico, che non ha l’obiettivo di processare qualcuno, ma anzi si propone di comprendere il passato operando un distacco critico, ponendo l’oggetto al centro della scrittura e sviscerandone ogni aspetto.

Leggere Édouard Louis significa avere a che fare con il grido di un millenial attivista che si fa strada nel mondo con un’autobiografia camminante, non seppellita in un antico cimitero o dimenticata sulla pagina di un polveroso manuale di letteratura – ma dinamica, effervescente, viva. L’autore nasce come Eddy Bellegueule nell’Alta Francia, il 30 ottobre 1992, in un misero paesino post-industriale che conta poco più di mille anime. La famiglia appartiene alla classe operaia, il padre lavora in fabbrica e la madre è chiusa in casa ad accudire i figli. Louis racconta l’infanzia amara e problematica nel suo primo romanzo Farla finita con Eddy Bellegueule, pubblicato nel 2014 e diventato in poco tempo un caso editoriale. Il sociologo Pierre Bordieu – che l’autore ha a lungo studiato – sostiene che le classi popolari vengono private di tutto: cultura, possibilità di viaggiare, accesso alle città, denaro, istruzione. L’unica cosa che gli resta è il corpo. Lo stesso Louis, parlando del suo libro in un’intervista a l’Internazionale,cita il sociologo francese: «Bordieu sottolineava che non dobbiamo stupirci se in gran parte delle classi popolari emerga un’ideologia del corpo, della forza, della mascolinità, un’ideologia che inevitabilmente produce una violenza sulle donne, sulle persone omosessuali, trans e su tutti i “dissidenti” dell’ordine sessuale. In questo senso potremmo dire che la violenza maschilista è legata alle privazioni economiche. In quel contesto io ero un ragazzo gay, effeminato». Un pensiero che sembra incastrarsi con ciò che esprimeva anche Pier Paolo Pasolini: «Ciò che resta originario nell’operaio è ciò che non è verbale: per esempio la sua fisicità, la sua voce, il suo corpo. Il corpo: ecco una terra non ancora colonizzata dal potere». Quel Pasolini da cui Louis prende le distanze, dal momento che l’autore friulano mistificava la classe proletaria, cosa che invece lo scrittore francese rifiuta di fare abbandonando l’idea che chi è povero è automaticamente puro. 

L’approccio che Louis usa non è quasi mai di commiserazione o di amara nostalgia, al contrario la sua penna ha uno stile quasi giornalistico. L’autore rilegge gli eventi del suo passato non con una lente inquisitoria, ma in una chiave psicoanalitica. Tra le pagine dei suoi libri non pendono taglie sulla testa di un criminale né si va alla ricerca di un colpevole – non esiste condanna o assoluzione – ma si racconta l’individuo in relazione al suo contesto e ne si fa un’autopsia del corpo.

Eddy Bellegueule desidera adeguare il suo corpo a un contesto machista, omofobo, razzista e sessista, ci prova corteggiando una ragazza, negando i suoi impulsi sessuali e avviando un percorso di adattamento all’ambiente sociale che si concluderà con un fallimento, e la conseguente partenza verso la metropoli: «Farla finita con Eddy Bellegueule racconta l’incontro impossibile tra il mio corpo e il mio ambiente sociale» – precisa Louis – «Nel libro uso l’impossibilità per il mio corpo di esistere in quell’ambiente come uno strumento per analizzare e comprendere il contesto sociale». Per la classe operaia il valore più importante è la mascolinità, la virilità, con una connotazione fortemente tossica. L’uomo non è un essere verbale, ma animale. È prigioniero dell’idea del fare: perché fare significa produrre, e produrre vuol dire esistere. Il maschio esibisce le riviste pornografiche sul tavolo di casa come un trofeo, ha la bocca farcita di parolacce, si misura con i suoi simili con la violenza fisica, è inserito in una gerarchia polarizzata nella dicotomia “forte – debole” dove l’interazione si esprime per mezzo del corpo, usato come strumento di affermazione e riproduzione. Eddy è il primo della sua famiglia a concludere la scuola e a trasferirsi a Parigi, dove prosegue gli studi e decide di cambiare definitivamente il suo nome.

Édouard Louis rifiuta la finzione perché non corrisponde alla sua idea di letteratura: «Mi sono sempre detto che il gesto principale della letteratura dovrebbe nascere dalla vergogna, dovrebbe essere cosa scriviamo partendo dalla vergogna» – continua Louis – «Davanti alla quantità globale di violenza nel mondo non possiamo continuare a scrivere le piccole storie della borghesia urbana, non possiamo farlo senza provare vergogna». L’atto letterario nasce da un evento che provoca vergogna, e la vergogna tocca la sfera dell’intimità individuale. Quella vergogna che a volte divora e altre consuma, ma che scaturisce da un giudizio esterno sulla propria persona, da quello spazio sociale in cui opera invisibile la politica. Ecco perché in Louis l’atto letterario diventa, per necessità, azione politica.

Non molti giorni fa uno studente di 22 anni, mentre tornava a casa di notte, è stato rapinato e stuprato a Roma, nel quartiere San Lorenzo. Quando ho riferito la notizia a un amico, subito mi ha detto: «Non me ne parlare». Ho pensato a quanto la violenza possa ferire anche solo a livello immaginativo, ma penso si sia infastidito perché in questo caso si trattasse di un maschio – proprio come me e lui e tantissimi altri. I media non riportano spesso notizie di violenza sugli uomini, anzi, la narrazione “mostrifica” l’uomo tratteggiandone sempre di più una figura bestiale, dominata da una rabbia cieca che, una volta esplosa, uccide. Non ci si interroga sui perché di quelle azioni brutali, si comunica la notizia e basta, senza fornire un contesto e ciò spiana la realtà fino a farla diventare bidimensionale. Cosa ancor più inquietante e pericolosa è assegnare un colore o un genere alla violenza: sentiamo spesso parlare di “violenza di genere” o “violenza sulle donne” come se l’atto violento avesse delle sottocategorie di cui si può parlare, perdendo però di vista il punto: cioè che qualsiasi tipo di violenza è già di per sé imputabile, a prescindere dal destinatario di tale azione. In Louis questo pericolo non esiste, perché lo scrittore non racconta solo l’accaduto, ma analizza il contesto di provenienza della persona che ha consumato lo stupro mettendo l’accento su quanto il carnefice, prima di diventare tale, sia stato egli stesso vittima di un altro tipo di violenza sia sociale che politica. L’autore ricostruisce i fatti non solo dai suoi ricordi, ma anche dal punto di vista della sorella che distorce gli eventi sminuendo quasi l’accaduto, a volte minimizzando a volte sorvolando sui dettagli.

Il secondo romanzo Storia della violenza, pubblicato nel 2016,mescola il verbale scritto di una denuncia a un diario segreto, in cui si percepisce la fatica di dire a voce alta una scomoda verità. Édouard Louis attraversa Parigi a piedi, di ritorno da una serata tra amici, in una città deserta e sazia, quasi spettrale durante le festività natalizie. Durante il cammino incontra un immigrato algerino, Reda, e i due trascorrono la notte insieme. Lo straniero racconta delle umiliazioni subite in prima persona, la storia di suo padre e la sfortuna di essere cresciuto “dalla parte sbagliata del Mediterraneo”. In un attimo, la camera di Louis si trasforma in una “stanza della tortura”: Reda tira fuori una pistola, prima prova a rubargli il computer, poi lo lega e gli usa violenza. Il racconto è un mosaico che si compone pagina dopo pagina, comincia con lo scrittore che ripulisce la stanza dopo quell’orribile notte e si conclude con il sopralluogo della polizia sulla “scena del crimine” dopo la denuncia dello scrittore. Nel mezzo la penna di Louis prova a “umanizzare” la violenza subita, senza toni melensi o vittimistici, anzi la calma e la lucidità con cui scrive affascinano il lettore che, proprio come lui, guarda l’accaduto come fuori dall’inquadratura. Proprio questa oscillazione tra trauma personale ed esperienza collettiva è ciò che ha catturato l’attenzione di Thomas Ostermeier, 53 anni, il più conosciuto e applaudito regista del teatro tedesco odierno che ha trasformato il romanzo in una drammaturgia firmata da lui stesso con Florian Borchmeyer e lo stesso scrittore francese. «Il lavoro di Louis mi interessa» – spiega Ostermeier – «perché dà voce agli emarginati, a chi vive in povertà, a chi vive con disagio in questa Europa che vuole essere il continente dei pochi felici. Louis parla di classi sociali, di ricchi e dominanti e di poveri marginalizzati. L’ultimo a fare qualcosa del genere è stato probabilmente Bertolt Brecht. Io la considero una linea importante del mio lavoro».

Lo spettacolo è stato messa in scena al teatro Schaubühne di Berlino nel 2018, per poi approdare per la prima volta in Italia al Festival dei Due Mondi di Spoleto. Seguito nel 2020 da un altro spettacolo tratto dall’opera dello scrittore francese Chi ha ucciso mio padre portato in scena da Daria Deflorian e Antonio Tagliarini in un “dialogo per voce sola”, interpretato da Francesco Alberici. Il terzo romanzo dell’autore, pubblicato nel 2018, è una “lettera al padre”, scritta a cento anni dall’originale di Franz Kafka, dedicata alla violenza scaturita dal fallimento della generazione operaia post ‘68, condannata a morte dal proprio degrado sociale. In questo pamphlet autobiografico, Louis si mette alla ricerca degli assassini del padre con tanto di nomi e cognomi: Chirac, Sarkozy, Hollande, Macron, in cui trova spazio la feroce invettiva verso un potere politico che l’autore considera l’unico colpevole della sorte del padre, abbandonato in una casa di campagna come un giocattolo difettoso.

Quello stesso padre che era ossessionato dalla virilità e consapevole di essere sottomesso da una classe politica che non ha scelto, emarginato da una società che non lo vuole, sconfitto proprio come le persone che più odia e a cui ha paura di somigliare: donne, stranieri, omosessuali. Un uomo ferito da una moglie che l’ha lasciato e da un’industria che gli ha spezzato la schiena, ma che comunque è pronto a mostrarsi vulnerabile davanti al ritorno di quel “figliol prodigo” che bussa alla porta, ormai cresciuto e consapevole di trovarsi di fronte a una sola e povera vittima del sistema: «Non ho mai visto le famiglie che hanno tutto andare a vedere il mare per festeggiare una decisione politica, perché la politica a loro non cambia quasi nulla.» – scrive Louis nel libro – «Me ne sono accorto quando sono andato a vivere a Parigi, lontano da te: i dominanti possono lamentarsi di un governo di sinistra, possono lamentarsi di un governo di destra, ma un governo non gli causa mai problemi di digestione, un governo non gli spacca la schiena, un governo non li spinge mai verso il mare. La politica non cambia la loro vita, o così poco. Anche questo è strano, fanno la politica e la politica non ha quasi nessun effetto sulla loro vita. Per i dominanti la politica è nella maggior parte dei casi una questione estetica: un modo di pensarsi, un modo di vedere il mondo, di costruire la propria persona. Per noi, era questione di vita o di morte».Chi ha ucciso mio padre di Édouard Louis riporta alla mente un altro libro, uscito qualche anno prima, Ritorno a Reims di Didier Eribon che fa eco a una drammaturgia (sempre francese) dal nome Juste la fin du monde di Jean-Luc Lagarce di cui è stato fatto un adattamento cinematografico dal regista canadese Xavier Dolan, un giovane cineasta molto vicino, per stile e tematiche, allo stesso Louis. Gli autori si sfidano, si accarezzano, si somigliano nel percorrere la strada di casa, la stessa che hanno battuto mentre andavano via. Proprio come l’eroe che, dopo aver concluso il suo viaggio, fa ritorno a casa perché ha bisogno di essere visto, accettato, riconosciuto attraverso la sua cicatrice.

In Per il giusto verso

Mario Scalesi, la voce mediterranea di un italiano di Tunisi.

di Noemi Narducci

Un ragazzo di razza incerta: sono queste le parole con cui Beatrice Monroy descrive Mario Scalesi, giovane poeta e critico letterario italo-tunisino cresciuto sulle sponde del Mediterraneo a cavallo tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento.

Nato a Tunisi nel 1892 da padre siciliano e madre italo-maltese, Mario Scalesi è oggi considerato tra i precursori della letteratura magrebina di espressione francese. Un poeta dalla grande ispirazione e consapevolezza che per i suoi temi attinge dalla propria esperienza diretta, concreta e quotidiana.

La sua breve vita è infatti segnata da un incidente domestico che gli provoca la rottura della colonna vertebrale, deformandolo irrimediabilmente, e dalla malattia che lo porterà alla morte a soli trent’anni nell’ospedale psichiatrico palermitano “La Vignicella”. Il suo corpo verrà poi gettato in una fossa comune rendendo sorprendentemente premonitorio uno dei suoi versi: «dormir parmi les dormeurs ignorés, quelque part, sous la terre».

Nonostante la drammaticità e la brevità della sua vita, Scalesi è una figura fondamentale nella storia della letteratura tunisina e maghrebina, una voce in grado di rappresentare il volto della comunità italiana in Tunisia all’inizio del Novecento.

Per comprendere il contesto socio-storico entro cui si colloca l’attività di Mario Scalesi è necessario ricordare che nel decennio 1871-1881 la necessità di manodopera per realizzare opere pubbliche e fortificazioni determinò l’afflusso in Tunisia di circa 10.000 siciliani, per lo più muratori e manovali. In questo contesto gli italiani, a differenza dei francesi, non costituirono l’élite coloniale, bensì la classe media dei lavoratori. Essi si distinguevano in virtù di un’identità culturale molto particolare: erano tunisini per nascita, italiani di origine e francofoni per cultura.

Mario Scalesi cresce dunque in un contesto sociale complesso e multiculturale, una realtà stratificata che condizionerà profondamente la sua identità emotiva e culturale.

Durante i suoi primi anni di attività letteraria, il poeta decide infatti di francesizzare il suo cognome sostituendo la vocale i con una e – Scalési. Una scelta singolare con cui il giovane poeta sottolinea la volontà di modificare la sua identità e di francesizzare la sua espressività.

Nella sua unica raccolta poetica, Les poèmes d’un maudit, pubblicata postuma nel 1923, il giovane poeta propone i dettagli più minuti della sua esistenza. I suoi scritti nascono dal desiderio di rivelare nettamente agli uomini ciò che sono e ciò che fanno, descrivendo la realtà nella sua totalità.

In Italia i versi di Mario Scalesi sono stati salvati dall’oblio grazie alla cura e alla traduzione di Salvatore Mugno, scrittore e saggista siciliano, profondo conoscitore dell’opera del poeta. Nell’ultima edizione di Les poèmes d’un maudit edita da Transeuropa (2020), Mugno oltre a offrirci la traduzione dei versi di Scalesi fa luce sulla biografia dell’autore e analizza meticolosamente i suoi scritti giornalistici e critici.

In questo contesto Mugno individua uno dei cardini più importanti del pensiero scalesiano ovvero l’esigenza di una progressiva emancipazione letteraria dei popoli del Mediterraneo meridionale. Scalesi, nei panni di cronista e critico letterario, teorizza la necessità di una letteratura tipicamente nordafricana di espressione francese:

L’esigenza di una letteratura nordafricana è non soltanto possibile, ma fatale […]  L’Africa del Nord è letterariamente inesauribile. Cento scrittori non basterebbero ad evocare il suo prestigioso passato o sfruttare i suoi aspetti pittoreschi. Ci restano molte cose da dire, quasi tutte.

Il poeta immagina un compito nobile e nuovo per gli scrittori nordafricani. Li sprona affinché creino un’attività letteraria autentica e paradigmatica in grado di contrapporsi a quella prodotta durante il periodo coloniale definita stereotipata e mistificata.

Tale approfondimento permette di comprendere come per Scalesi l’esercizio letterario sia un modo per esprimere l’impegno politico, civile e intellettuale. Un impegno che traspare con l’utilizzo della prosa e si concretizza con la poesia. Nei suoi versi il poeta racconta infatti l’ingiustizia sociale e storica dei suoi tempi, l’impossibilità e la falsità dell’amore, l’assurdità dell’esistenza umana nonché la miseria della propria condizione.

Come spesso accade però per gli autori rimasti fuori dai canoni, nonostante l’unicità e l’estrema intensità dei suoi scritti la poesia del giovane tunisino è stata per lungo tempo dimenticata e relegata al ruolo di poesia minore. Il primo approccio meditato all’opera di Scalesi si deve a Pierre Mille, scrittore e critico letterario francese, il quale nel 1934 dirà:

«Io mi convinco volentieri […] che Scalesi ha il diritto di essere incluso nel novero dei poeti ‘minori’ ma perciò essenziali che, maledetti o no, avevano qualcosa da dire, e l’hanno detta come nessuno aveva fatto prima di loro, con accenti che sono loro propri, che non si trovano presso altri»

Il maudit tunisino è dunque un poeta dalla grande vocazione che decide deliberatamente di ascriversi nella famiglia dei «maledetti» rifiutando la mondanità, la notorietà e il successo. Les poèmes d’un maudit sembrano quindi racchiudere due tratti sostanziali dell’esperienza scalesiana: da un lato la sua drammatica condizione umana, esistenziale e sociale e dall’altra il suo disinteresse per la fama terrena:

                Questo libro, incurante della gloria, / estraneo, ai giochini cerebrali, / non è stato ispirato da La Muse Noire / né da L’Abîme o da Les Fleurs du Mal. // Se esso trabocca nei funebri versi, / questi non gridano che la rivolta / che sale da una vita tenebrosa / e non da freddo spleen premeditato. //

Si tratta dunque di un libro che annuncia di non voler entrare nel gioco della valutazione e del valore ma solo essere testimonianza del pensiero dell’autore e della sua complessa condizione personale e sociale.

Leggere oggi, in occasione del centenario della morte di Scalesi, Les poèmes d’un maudit vuol dire dare spazio e dignità alla poetica di un giovane uomo che rintracciò nella letteratura e nell’attività poetica l’unica vera forma di espressione personale e sociale. Un giovane uomo dall’estrema sensibilità che con i suoi versi ha cercato di mostrare la dualità della sua esistenza e la molteplicità della realtà circostante:

[…] Dunque, delle più antiche verità, / lettore, si conferma la più certa: / nelle maledizioni dei tuoi simili si rispecchiano quelle del Destino. // Nell’abbandono e nella povertà, / vituperato come un appestato, / la mia vita ho infiorato di rovine, / di mistero ideale disperato. // E, raccattando queste tristi pietre / dal fondo di un inferno mai descritto, / le mie ametiste vi distribuisco / o fratelli che m’avete maledetto!