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Lo spioncino

di Danilo Grasso

“Un gruppo di ragazzi, tra i quindici e i diciotto anni, fa irruzione in un appartamento e accoltella il ragazzo che vi abitava. Si indaga sull’accaduto”.

Una brutta figura. È così che ricordavo quella giornata. Non mi era mai successo di addormentarmi durante una lezione. Tornai a casa frastornato, non so se più dallo strano sogno o dal rimprovero del professore. Salutai rapidamente mia madre e andai in camera, evitando ogni domanda. Volevo stare solo. Poco dopo sentii pesanti passi avvicinarsi alla porta. Era mio padre, che come ogni sera mi avvisava della cena. «Cinque minuti e arrivo». Non avevo voglia di sedermi a tavola e sottopormi al solito interrogatorio.

Dopo un po’ il mio stomaco cominciò a brontolare. Non riuscii a resistere e andai a cenare. Durante la cena ci fu uno strano silenzio, quasi innaturale. Può darsi che i miei fossero sconvolti per la notizia di quel ragazzo del nostro quartiere che aveva subito un’aggressione e forse sarebbe morto.

La cena terminò senza domande, così ne approfittai e tornai nella mia stanza. Guardai la tv fino a tarda ora, certo di un rimbrotto. E invece non mi fu detto nulla.

In piena notte sentii suonare il campanello. Mi spaventai. Mi recai in soggiorno, ms non c’era nessuno. Non sapevo cosa fare. Bussarono una seconda volta. Il suono era più prolungato. Mi avvicinai alla porta. Guardai dallo spioncino per vedere chi fosse. Non c’era nessuno nemmeno stavolta. Mi allontanai pensando che qualcuno avesse bussato alla porta sbagliata.

Poco dopo suonarono sempre più forte e con insistenza. Riguardai dallo spioncino e intravidi un individuo. Era buio, non riuscii a vederlo chiaramente, così accesi la luce del pianerottolo. Era un uomo anziano, indossava un abito scuro e aveva un foglio in mano. Cominciai a spaventarmi. Doveva esserci una buona ragione  per cui un uomo anziano bussava alla porta in piena notte e con una certa insistenza.Non sapevo chi fosse, ma di certo non avrei aperto.Feci per allontanarmiquando riconobbi la voce: «Anastasio, sono tuo nonno».

Tremai. Era impossibile. Mi riavvicinai allo spioncino, era di nuovo tutto buio. Riaccesi la luce e lo vidi. In preda all’emozione, gli urlai dall’altra parte della porta: «Mio nonno è morto dieci anni fa. È impossibile che tu sia lui»; «Sono io Anastasio, sono davvero io – mi disse – . Sono qui solo per parlarti». Aprii la porta ed era lui: lo strinsi forte.

«Non ho molto tempo e ora posso parlarti. La scorsa notte un gruppo di ragazzi è entrato in casa tua. Hanno cominciato a rubare. In casa c’eri solo tu. Non appena li hai visti li hai affrontati, ma ti hanno colpito. Il ragazzo che si trova in ospedale e sta lottando per la sua vita sei tu. Io sono qui per chiederti se vuoi vivere o venire via con me». Ero sconvolto e pensai alla mia vita fino a quel momento, poi guardai mio nonno: «Voglio vivere. Il mio unico desiderio è vivere per le persone che amo. Come mi hai sempre insegnato, se c’è anche solo una persona al mondo che ti ama, allora vale la pena continuare a vivere». Mi sorrise: «Sei diventato un uomo». Lo abbracciai e svanì.

Di colpo ricordavo ogni cosa: dovevo salvare la mia famiglia. Non era stato un furto mancato: avevano ucciso delle persone e io sono l’unico testimone.

Si sentirono degli spari, passi veloci nei corridoi. «Sono arrivati». Provai a camminare, ma ero troppo debole. Mio padre mi fece sedere su una sedia a rotelle e cominciò a correre. Arrivammo all’uscita d’emergenza. Fuggimmo con un’ambulanza. Un camion ci travolse. Il tempo sembrava si fosse fermato. Mi passò davanti il mio tempo. Non era quello il mio momento.

In La Seconda Repubblica delle Lettere/ Senza categoria

Intervista postmoderna a Francesco Permunian

di Giulia De Vincenzo

Siamo in arrivo a: Peschiera del Garda. Prossima fermata: Peschiera del Garda.

La voce metallica proveniente dall’altoparlante mi risveglia da una specie di trance. A farlo è anche il trambusto di una quindicina di passeggeri arrivati a destinazione, che si alzano contemporaneamente.

“Hah sti maledeti turisti che ogni istà i vien sul lago e i fa un luamaro” borbotta spezzante una signora seduta accanto a me. Chissà se si riferisce alla stessa sporcizia lamentata da Francesco Permunian quando, assaltate da chiassose comitive turistiche in estate, le strade e le spiagge del Garda gli diventano insopportabili, portandolo a rifugiarsi in una terra di mezzo tra quell’angolo di provincia veneto-lombarda e le patrie terre del Polesine. Quelle terre basse e monotone che si stendono tra l’Adige e il Po che lo hanno visto nascere proprio nel 1951, anno della disastrosa alluvione, raccontata in Dalla stiva di una nave blasfema. E non sono certo bastate le bonifiche, i nuovi campi o le nuove case al posto dei tuguri per estirpare quel sentimento di solitudine e abbandono che alligna nel DNA di ogni suo abitante. Forse è stata questa la ragione che lo ha spinto a dire addio a quei luoghi. Forse ha preferito non ritrovarsi anche lui, un giorno, impaludato tra quelle nebbie, a consumare le sue speranze in attesa di una ridicola disperazione senile.

Siamo in arrivo a: Desenzano del Garda. Prossima fermata: Desenzano del Garda.

Ci siamo. Ho appuntamento con lui alle 9.30 al bar della stazione, dove ogni mattina va a fare colazione. E dove trasloca in piena notte, con un cuscino e una coperta sottobraccio, quando non riesce a chiudere occhio nel suo letto. Mi sembra quasi di vederlo, passare con nonchalance tra barboni e tassisti per dirigersi verso l’amato boudoir ferroviario, fregiato coi graffiti di Kafka e Sebald, dove ha imparato a dormire coi suoi fantasmi senza ricorrere a tranquillanti e sonniferi.

Scendo dal treno dando un rapido sguardo all’orologio. Le 9.15. Bene. Conoscendo il suo animo inquieto e nevrotico, non sarebbe il caso di farlo aspettare. Provo una certa emozione camminando tra i corridoi di quella che, pur non viaggiando mai, Permunian ha definito la sua seconda casa nel romanzo Il gabinetto del dottor Kafka. Ma, arrivata all’uscita, scorgo al di là della porta a vetri la sua figura emaciata e distinta, seduta a uno dei tavoli del bar. Indossa camicia e blazer scuri. A fine giugno. D’istinto, tiro fuori dallo zaino la mia giacca sfoderata, resa ancor meno elegante dalle pieghe del viaggio. Non senza imbarazzo, la indosso e gli vado incontro.

Lo saluto scusandomi per l’inesistente ritardo e cerco di sedermi nella maniera più disinvolta possibile mentre, sotto il suo sguardo indagatore, sul volto mi si dipinge un’espressione che vorrebbe essere serena e rilassata, ma non ci riesce.

– P…

– Non le sfugge nulla, proprio come mi aspettavo. Forse il modo migliore per stemperare la tensione è cominciare la nostra… Non chiamiamola intervista, se mi permette. Consideriamola, piuttosto, una conversazione. Uno scambio di vedute sui suoi libri. Sui suoi romanzi, principalmente. Anche se lei non ha mai scritto romanzi nel vero senso del genere, eccezion fatta forse per Nel Paese delle Ceneri. La sua è piuttosto – mi corregga se sbaglio – una narrativa frammentaria che registra, come lei stesso scriveva in Dalla stiva di una nave blasfema, “sogni e fantasmi scambiati un tempo per idee e progetti”.

– P …

E lo fa perché la scrittura, mi è parso di capire leggendola, è l’unico mezzo per resistere al nichilismo e destreggiarsi tra un passato sempre più sfuggente, un presente mefitico e un futuro incerto. In tutte le sue opere è palpabile il suo fare i conti con la realtà quotidiana e al tempo stesso con i fantasmi del passato. E questo la obbliga giocoforza a utilizzare due modalità narrative: quella realistica per descrivere la sua quotidianità sul Garda e quella fantastica per sublimare quella stessa realtà quando la opprime. Specialmente in questo periodo, credo, quando l’arrivo di festanti orde di turisti la trasforma in un orrendo lunapark a cielo aperto. Dico bene?

– P …

– Del resto, mi chiedo da un po’ cosa l’abbia spinta a un certo punto a virare verso la narrativa, dal momento che la sua attività di scrittore è cominciata nelle vesti di poeta. Immagino sia perché oggi la poesia non fa più mercato. La poesia rientra difficilmente nella sfera dell’utilità, giusto? E oggi il concetto di piacere corrisponde tristemente a quello di utilità. Come pure, l’attuale mercato editoriale somiglia sempre più a uno smisurato e caotico romanzificio nazional popolare che obbedisce al canone realistico perfino quando produce delle opere “distopiche”.

– P …

– No, non serve affatto che mi rammenti la sua profonda avversione per tutti i grandi festival letterari, equiparabili a degli squallidi supermarket. Nonché la sua predilezione per tutte le situazioni borderline e anche per la piccola editoria, alla quale ha affidato quasi tutta la sua produzione. È chiaro che a muoverla in questa direzione concorrano delle ragioni editoriali, poetiche, sì, ma anche caratteriali. Non vorrei metterla in imbarazzo, ma che lei abbia un carattere schivo e solitario si capisce già dalla sua penna, affilata e beffarda. Una penna a tratti anche un po’ astiosa nei confronti di quegli pseudo scrittori falliti che sempre più vanno profanando la sacralità della letteratura, l’unica religione della quale si professa credente.

– P …

– Ha ragione, a questo punto è opportuno chiederle qual è la sua posizione dinnanzi a quella che Sergio Quinzio ha definito “la sconfitta di Dio”, ovvero il suo venir meno alle promesse di felicità e giustizia di cui gronda il testo biblico. Sarei tentata di domandarle se il suo ateismo le procuri più un senso di perdita o di libertà. In fondo, però, ho imparato a conoscerla attraverso i suoi scritti e ho la sensazione che il nichilismo, piuttosto che spaventarla, quasi la rassereni. Se quello delle nostre vite – convengo con lei – è un teatrino dove ora si ride, ora si piange, l’idea di un dio che da grande capocomico osservi il tutto sbellicandosi dalle risate senza muovere un dito, beh, farebbe dubitare chiunque della propria fede religiosa.

– P …

– Di questo discuteremo magari un’altra volta. Ora torniamo ai suoi fantasmi, quelli che cerca di esorcizzare o di debellare attraverso la scrittura. Ripensavo, durante il viaggio, a un passaggio da L’anno del pensiero magico di Joan Didion in cui l’autrice scrive “se il serpente resta visibile non può morderti. È così che affronto il dolore: voglio sapere dov’è”. Ecco, credo che la stessa cosa possa valere per quelle ombre che la perseguitano. In fondo, il fatto di fissarle sulla carta, impedisce il concretizzarsi di quella che secondo me è la sua paura più grande, ossia la perdita definitiva del suo vagolabile passato. L’esercizio della scrittura, da parte sua, risponde all’ostinata volontà di mantenere in vita i suoi ricordi. E, forse, è proprio questo mondo fatto di carta e inchiostro quella terra di mezzo in cui ha dichiarato di vivere ne Il rapido lembo del ridicolo. Mi sbaglio?

– P…

– Ah già, non le ho ancora chiesto nulla sulla sua attività di bibliotecario, incarnata peraltro dal protagonista di una sua opera, La  Casa  del  Sollievo  Mentale. Mi dica una cosa: le ha permesso di conoscere meglio le “umane genti” oppure di defilarsi dalle relazioni col prossimo, magari facendole cosa gradita?

– P …

– Va bene, le lascio la facoltà di non rispondere. Si figuri. Ma almeno può dirmi se il lavoro da bibliotecario ha acuito il suo senso critico? Non solo nei confronti della società, ma anche della letteratura, s’intende. Glielo chiedo perché mi ha molto colpito la sua polemica contro i critici odierni, dediti soltanto a scrivere romanzi oppure a confezionare favori all’amico o all’editore di turno. E dal momento che lei considera oltre il novanta percento degli attuali romanzieri nient’altro che carne in scatola, cotta e stracotta, reputo anch’io inaccettabile una critica totalmente incapace di esercitare la nobile arte della stroncatura.

– P …

– Sì, è vero. È stato Harold Bloom a sostenere che la critica è morta da un pezzo. Lei, però, ha condiviso pienamente il suo pensiero, mi pare. Stando così le cose, del resto, capisco che qualsiasi interpretazione non richiesta della sua opera la lasci ormai abbastanza indifferente. D’altronde, abbiamo ampiamente chiarito che la scrittura è per lei un’operazione necessaria. Tuttavia, ci tengo a dirglielo, questo non le impedisce, nel frattempo, di costruire personaggi interessanti che riescono a imprimersi nell’immaginario di noi lettori. Sto pensando alla Carmen de Il gabinetto del dottor Kafka, che non ha nulla da invidiare a una delle donne di Almodovar. O comunque non la porta certo a rinunciare  all’invenzione che si sviluppa attraverso tutte le situazioni grottesche che animano le sue pagine.

– P …

– Ma allora, se il gusto letterario tende ad essere orchestrato da una critica prezzolata, perché pubblicare ancora? Vuol forse dirmi che nell’inarrestabile degrado della letteratura, la lettura, se fatta con criterio, può ancora essere un modo per salvarsi da “quel grandissimo mostro odierno che è la solitudine di massa”?

– P …

– Bene. È la risposta che mi aspettavo. Lo sente? È Frank Sinatra che passano in radio? Sì, mi sembra proprio lui. Sa, è buffo come in Giorni di collera e di annientamento lei si sia costruito come alter ego un crooner che ha rinunciato alla carriera musicale per aver vinto un Premio Strega. Io, invece, l’ho sempre immaginata seduto da solo in riva al lago a intonare melodie malinconiche con l’armonica. Esatto, come Neil Young. Solitario e nostalgico.

Riguardo l’orologio: sono le 9.20.

Thinking your mind, was my own in a dream / What would you wonder and how would it seem?/ Living in castles a bit at a time

Ma non c’è da sorprendersi. In fondo le mie, come quelle di Permunian, sono solo parole, parole tra le righe del tempo.

The king started laughing and talking in rhyme / Singing words, words between the lines of age.

TESTI CITATI:

Francesco Permunian, Dalla stiva di una nave blasfema, Reggio Emilia, Diabasis, 2009;

Francesco Permunian, Il gabinetto del dottor Kafka, Roma, Nutrimenti, 2013;

Francesco Permunian, Nel paese delle ceneri, Milano, Rizzoli, 2003;

Francesco Permunian, Una strana vocazione al suicidio, Brescia, Centro Iniziative Culturali P.P. Pasolini, 1980;

Francesco Permunian, Il rapido lembo del ridicolo, Trieste, Italo Svevo Edizioni, 2021;​

Francesco Permunian, Giorni di collera e di annientamento, Firenze, Ponte alle Grazie, 2021;

Sergio Quinzio,                 La sconfitta di Dio, Adelphi, Milano, 1992;

Joan  Didion, L’anno  del  pensiero  magico  (The  Year  of  Magical  Thinking,  2005),  traduzione  di  Vincenzo Mantovani, Collana Narrativa n.2, Milano, Il Saggiatore, 2006;

Giovanni Raboni, Meglio star zitti? Scritti militanti su letteratura cinema teatro , Milano, Mondadori, 2019;

Giovanni Bitetto, Il morbo della letteratura, intervista a Francesco Permunian sulla rivista online Singola, 2022;

Neil Young, Words (Between the lines of age),                Harvest, 1972.

In Per il giusto verso

Lettera n. 2. Qualcosa che resta sullo stomaco. Brevissime su Patrizia Cavalli

di Antonio R. Daniele

Di un romanzo si può parlare in contumacia; di un racconto anche. Non dei versi, specie quando i versi hanno tutta l’aria di essere poesia. E Patrizia Cavalli è stata spesso poesia, diciamo pure sempre: lo percepisci quando ti stana, quando ti tende l’agguato. I versi vanno letti, sempre. A voce alta. Se se ne parla, se se ne scrive, vanno mostrati: il lettore deve vedere di cosa parli. Il verso non è una storia da raccontare: è un punto di incontro che svigna come l’anguilla.


La mia prima volta con Cavalli fu con Adesso che il tempo è tutto mio e fu una specie di imprinting genomico, come nascere di nuovo dal ventre di una madre. E sentire, perciò, quanto forte e decisiva sia la condizione nella quale Cavalli mi faceva stare, la condizione di tanti uomini, l’ambizione a gestire le proprie cose, ad esserne padrone, a non rendere conto: “Adesso che il tempo sembra tutto mio / e nessuno mi chiama per il pranzo e per la cena”. È in quel contraccolpo che avverti il vuoto, la voracità di uno spazio come quello del Cielo, la raccolta che teneva dentro quei versi agli inizi degli anni Ottanta, quando in Italia scrivere versi pareva più facile, dopo una generazione che aveva scarnificato molto, provato vie assai scivolose e parecchio nascoste: Bellezza, Zeichen, Scalise, Conte, Frabotta, Lamarque. Fra questi c’era anche Cavalli, la quale però sembrava aggirarsi con un secchio d’acqua in mano per lanciarlo contro una parete di colori incrostati. Ecco: se dovessi scegliere un’immagine che dica la poesia di Cavalli sarebbe proprio questa: una secchiata d’acqua contro una crosta di colori a tempera sopra una parete: dilavare avvitamenti verbali, nettare protagonismi sperimentali. E tornare a una parola più nuda, semanticamente più leggera, colorata solo del viraggio dell’ironia, l’unico che la scrittura d’arte si possa davvero concedere.
Tutto questo mi parve di leggere in quei versi molti anni fa, negli anni in cui molto leggevo degli anni Settanta. E fu davvero come buttarsi in acqua e lavarsi. E risalirne cristallino:


                                 adesso
che ogni giorno mi aspetta

la sconfinata lunghezza di una notte

dove non c’è richiamo e non c’è più ragione

di spogliarsi in fretta per riposare dentro

l’accecante dolcezza di un corpo che mi aspetta,

adesso che il mattino non ha mai principio

e silenzioso mi lascia ai miei progetti

a tutte le cadenze della voce, adesso

vorrei improvvisamente la prigione.



Dunque, vivere è stare con gli altri. E stare con gli altri è una prigione. Se lo è, si tratta di una condizione non più eludibile, specie per gli uomini e le donne di questo tempo, un tempo che dura almeno da cinquant’anni, da quando abbiamo bisogno di una confessione in più, di un solipsismo più marcato. Ma tutto questo viaggia nel treno dondolante di questi versi, ti porta davanti al vero con l’insolenza di chi sa usare la parola, fresca e bianca come il corpo di chi vuole spogliarsi in fretta per la felicità – o forse solo la comodità – della notte, delle ore in comune con qualcuno.


Mi piace Cavalli perché gioca coi tuoi oggetti e pare parlarne come se ne parla dal bottegaio sotto casa o a una cena in piedi tra amici. Magari anche con quelle battute che poi capisci nelle ore notturne: un po’ ti fanno ridere, un po’ ti lasciano pensare. In tutti e due i casi ti svegli e ti resta qualcosa sullo stomaco:

Quante tentazioni attraverso

nel percorso tra la camera

e la cucina, tra la cucina

e il cesso



“Incremento della tensione analogica”, scrisse Maurizio Cucchi per i versi cavallini di questa fase. Io dico che è un problema di lettore, di tempo e di spazi. Propri, intimi: “Per riposarmi / mi pettino i capelli, / chi ha fatto ha fatto / e chi non ha fatto farà”. Non c’è bisogno d’essere donna per percepire il calco sulla vita di queste parole. Più che analogia. E questa è Cavalli primissima maniera.
Poi resta la propria biologia, non c’è dubbio. E il rischio, la voluttà, la volontà stessa di aderire ai suoni in un certo modo: “un guardar dalla finestra, / ciao alla vicina, / una carezza alla gattina”. La ridda delle cose, la materia adesiva, quel che sei, insomma. Senti bramare: c’è poco da fare.
In fondo Cavalli questo ci insegna: è proprio quando la denotazione si prende la scena che il lettore deve connotare la parola. Non è poi così difficile:



E’ tutto così semplice,

sì, era così semplice,

è tale l’evidenza

che quasi non ci credo.

A questo serve il corpo:

mi tocchi o non mi tocchi,

mi abbracci o mi allontani.

Il resto è per i pazzi.

In Per il giusto verso

Lettera n. 1: Patrizia Cavalli

di Francesca Bellucci

La poesia di Patrizia Cavalli si muove nelle sue raccolte seguendo un tempo tutto suo. Tutto si muove sull’asse dell’interiorità, si insinua nelle crepe della vita e si calcifica. Patrizia Cavalli è stata una donna alla finestra, ma voltata di spalle. I suoi occhi si sono posati verso l’ombra della stanza della sua vita. Il velo della semplicità mostra, di là da quello, la complessità di un mondo umano e carnale, fatto di contatto tra il corpo e se stesso e tra questo e l’esterno, il modo in cui si muove nello spazio, come è in grado di frammentarsi sottopelle, pur sapendo di restare intatto.

Poco di me ricordo

Io che a me sempre ho pensato.

Mi scompaio come l’oggetto

Troppo a lungo guardato.

Ritornerò a dire la sua luminosa scomparsa.

(da Le mie poesie non cambieranno il mondo, 1974)

Le sue parole hanno dato voce a quel moto dell’animo inesprimibile, il silenzio del dolore, dell’immobilità di un amore consumato che si crogiola nella stasi dal passato, un moto che è fuggire e restare insieme.

Essere testimoni di se stessi

Sempre in propria compagnia

Mai lasciati soli in leggerezza

Doversi ascoltare sempre

In ogni avvenimento fisico chimico

Mentale, è questa la grande prova

L’esperienza, è questo il male.

(da Essere testimoni di se stessi, in Il cielo, 1981)

È questa la condanna della poesia: sapersi nel tempo, non riuscire a zittire il cambiamento o la fissità del cuore o, ancora, del corpo che vi si adegua in un ritmo a lui proprio.

Un altro è il mio progetto, la mia ambizione

È accogliere la lingua che mi è data

E, oltre il dolore muto, oltre il loquace

Suo significato, giocare alle parole

Immaginando, senza un’identità,

una visione

(da Datura, in Datura, 2013)

Due sono le “visioni” della Cavalli: il vedere e l’immaginare. E è l’una speculare all’altra. La prima immortala lo spazio che la circonda, è il foglio caduto o il bicchiere d’acqua di Adesso che il tempo è tutto mio, l’immobilità loquace che vivifica gli oggetti restituendoli alla dimensione sentimentale; la seconda sono le notti e i giorni caduti sul viso, la poetessa-geometra che conta e divide; ancor di più le ruote – allegria e tristezza – del carretto-vita di L’io singolare proprio mio. Il sentimento qui si proietta nell’immagine, ma è una proiezione che si muove nel corpo, tutto avviene dentro e le parole non sono che lo strabordare questa interiorità caotica che trova forma e ordine nell’immaginazione.

La Cavalli è una “poeta” complessa, che porta con sé il carattere novecentesco della poesia del reale, con quella spudoratezza di chi non teme la verità delle parole.

È lo specchio ridotto in frantumi, riassemblati e conservati nel cassetto della scrivania. Il tempo mobile dell’eternità umana, fatta di sentimenti instacabilmente irriducibili:

Muoiono i vivi e pure i morti muoiono,

morti che durano e morti che scompaiono

morti dimenticati per i nuovi morti

 –   Ho la faccia di chi deve morire?

Potrei risponderti: – Ognuno ha la faccia

di chi deve morire.

(da Pigre divinità e pigra sorte, 2006)

In La Seconda Repubblica delle Lettere/ Senza categoria

Robert Frost, “Betulle”, una lettura.

di Demetrio Paolin

In questi mesi Adelphi ha pubblicato Fuoco e Ghiaccio (trad. Silvia Bre) di Robert Frost, un libro che raccoglie la maggior parte della lirica del grande poeta americano. Frost è autore di una delle poesie che ho più amato e letto negli anni: Betulle.  Pur non essendo un esperto e un critico di poesia, ho provato a fare “alcune” riflessioni su questi versi. Non riuscendo a strutturare un vero e proprio saggio né su Frost (la postfazione di Ottavio Fatica è molto interessante ne consiglio la lettura prima di immergersi nei versi del libro) né sulla lirica in sé, ho pensato semplicemente di glossarne alcuni versi. Ho deciso di privilegiare l’originale, per evidenziare la musica del verso di Frost. Primariamente leggeremo la poesia, i numeri tra parentesi quadre indicano i punti dove sono intervenuto con le mie riflessioni.

When I see birches bend to left and right [1]

Across the lines of straighter darker trees,

I like to think some boy’s been swinging them.

But swinging doesn’t bend them down to stay

As ice-storms do. Often you must have seen them

Loaded with ice a sunny winter morning

After a rain. They click upon themselves

As the breeze rises, and turn many-colored

As the stir cracks and crazes their enamel.

Soon the sun’s warmth makes them shed crystal shells

Shattering and avalanching on the snow-crust—

Such heaps of broken glass to sweep away

You’d think the inner dome of heaven had fallen. [2]

They are dragged to the withered bracken by the load,

And they seem not to break; though once they are bowed

So low for long, they never right themselves:

You may see their trunks arching in the woods

Years afterwards, trailing their leaves on the ground

Like girls on hands and knees that throw their hair

Before them over their heads to dry in the sun. [3]

But I was going to say when Truth broke in [4]

With all her matter-of-fact about the ice-storm

I should prefer to have some boy bend them [5]

As he went out and in to fetch the cows—

Some boy too far from town to learn baseball,

Whose only play was what he found himself,

Summer or winter, and could play alone.[6]

One by one he subdued his father’s trees

By riding them down over and over again

Until he took the stiffness out of them,

And not one but hung limp, not one was left

For him to conquer. He learned all there was

To learn about not launching out too soon

And so not carrying the tree away

Clear to the ground. He always kept his poise

To the top branches, climbing carefully

With the same pains you use to fill a cup

Up to the brim, and even above the brim.

Then he flung outward, feet first, with a swish,

Kicking his way down through the air to the ground.[7]

So was I once myself a swinger of birches.

And so I dream of going back to be.

It’s when I’m weary of considerations,

And life is too much like a pathless wood

Where your face burns and tickles with the cobwebs

Broken across it, and one eye is weeping

From a twig’s having lashed across it open.

I’d like to get away from earth awhile

And then come back to it and begin over. [8]

May no fate willfully misunderstand me

And half grant what I wish and snatch me away

Not to return. Earth’s the right place for love: [9]

I don’t know where it’s likely to go better.

I’d like to go by climbing a birch tree,

And climb black branches up a snow-white trunk

Toward heaven, till the tree could bear no more,

But dipped its top and set me down again.

That would be good both going and coming back.

One could do worse than be a swinger of birches. [10]

[1] When I see birches bend to left and right.

La grandezza della lirica di Frost sta nel suo nitore di mezzi, di temi, di lingua. Di Frost a colpirmi è la chiarezza, una chiarezza vicina alla semplicità infantile. Il verso iniziale della poesia è elementare, la sua lingua è trasparente, non mi viene un aggettivo migliore; mostra quello che è per ciò che è.  La domanda di Holderlin, che è forse il poeta che io accosterei più volentieri a Frost, Perché i poeti in tempo di povertà, è risolta da Frost nell’idea di una lingua che si fa povera; anzi la linguaggio è una esperienza di penuria. Il primo verso descrive le betulle che si muovono: è una lingua, che nomina le cose. Perché parlo di povertà e non di semplicità? Perché Frost non è un poeta semplice, non sceglie queste parole per semplificare il dettato, ma vuole rendere il lettore partecipe della sua esperienza di impossibilità di produrre una comprensione più esatta del mondo e delle cose.

Nominare le cose non è dominare le cose; la parabola adamitica andrebbe riscritta: quando nominiamo le cose, loro ci possiedono e noi entriamo nel loro campo semantico e questo ci fa sentire la nostra pochezza, la pochezza del nostro strumento per accordarci con la natura.

[2] You’d think the inner dome of heaven had fallen

 You’d think the inner dome of heaven had fallen. Nel mezzo di una riflessione piana, una semplice contemplazione della natura così come è, appare questo verso, che risulta essere la chiave di volta del poema: Frost sta scrivendo una sorta di apocalisse; egli è uno scrittore che vede cieli nuovi e terra nuova, che vede consumarsi il tempo del mondo come le pagine di un libro che brucia. Il crollare della neve e del ghiaccio dai rami diviene un tutt’uno con il cielo che crolla, con il mondo che finisce, quasi che la trasparenza delle versi precedenti non fosse che un inganno per qualcosa di più profondo, che il poeta vede e che lampeggia alla nostra vista per un attimo, nel preciso istante in cui la neve e il ghiaccio cadono. Ai nostri occhi la cortina di nebbia che avvolge il mondo si apre e per il tempo infinitesimale della caduta mostra ciò che realmente è.

[3] Before them over their heads to dry in the sun

Questo passaggio, con i versi che lo precedono, mi colpisce sempre e mi è oscuro, ogni volta che mi soffermo su di essi mi pare indicare qualcosa come l’essere recalcitrante del mondo. Nel verso precedente abbiamo visto che il poeta è riuscito a mostrarci l’apocalisse, una idea di essa, per un attimo, come il brillare luminoso della luce che trapassa la neve, qui invece è come se la realtà si ribellasse a quel tentativo di svelare se stesso: il mondo fosse opaco alla rivelazione che il poeta presagisce e che cerca di raccontare; che esperienza abbiamo del mondo? Che esperienza abbiamo delle piante, dei ruscelli, dei sassi? Che esperienza degli animali, dei loro sogni, del loro sangue, della loro sofferenza, cosa è il Vivente? Cosa è vivo e cosa è morto? Le parole, che Frost usa, sono le parole che tentano la rivelazione, Betulle è una poesia – come ogni poesia di Frost – che prova a dipanare la rivelazione, ma la realtà è idiota, non produce in noi nessuna reale conoscenza, produce al più parole che producono una spiegazione misteriosa e oscura di un mondo che recalcitra, che resiste, che si piega senza spezzarsi che continua a esistere.

[4] But I was going to say when Truth broke in

Betulle è chiaramente un testo meta-poetico, non è la semplice descrizione di un bosco d’inverno, è il resoconto dell’apparire della verità, anzi della Verità, simile a un tempesta di ghiaccio: è interessante che parli di “verità” e non di “realtà”. A Frost preme la verità: verità e realtà non sono coincidenti, sono sposate su due piani diversi; paradossalmente meno facciamo esperienza della realtà (vd la povertà della lingua) più si apre il piano della verità.

[5] I should prefer to have some boy bend them

Il ragazzo è una creatura viva, reale che si muove, che dondola tra i rami. Il ragazzo si oppone alla verità, il poeta oppone il ragazzo alla verità, l’esistenza del ragazzo è in opposizione. La letteratura, il fare letteratura, lo scrivere è opporsi alla verità, opporsi al dato del reale così come è. La letteratura non nasce per descrivere il mondo, per cartografarlo, per renderne nitidi i contorni, la letteratura non è rappresentazione del reale dal vero, come una pittura, come una foto, ma è una bugia, una menzogna, una travisare la realtà, un velarla agli occhi, è – in una parola – finzione. Il poeta ha visto se stesso specchiato nella verità e ha avuto paura, crea una storia per allontanare chiunque dalla possibilità di specchiarsi.

[6] Summer or winter, and could play alone

Questo ragazzo è capace di giocare da solo – play alone -. Il termine play è ambiguo, vuol dire anche recitare, agire, fare: è lo scherzo tremendo che Nabokov racconta come origine della letteratura: “La letteratura non è nata il giorno in cui un ragazzino corse via dalla valle di Neanderthal inseguito da un grande lupo grigio, gridando ‘Al lupo, al lupo’; è nata il giorno in cui un ragazzino, correndo gridò ‘Al lupo, al lupo’ senza aver nessuno lupo alle calcagna”. Il bambino di Nabokov come il ragazzo di Frost sono soli, non hanno compagnia (scrivere è un atto di estrema solitudine, è l’eremo): sono loro che fanno da intermediari tra la realtà – avere veramente un lupo alle calcagna – e la finzione – immaginare di avere un lupo alle calcagna -; l’interstizio scintillante in cui il ragazzo di Frost ci invita a giocare è appunto la letteratura, che è sfugge alla nostra capacità informativa, che non riesce a essere tradotta in maniera piana; la letteratura in un testo è ciò che si oppone a ogni interpretazione, che recalcitra, proprio come la natura [3], e più recalcitra più noi cerchiamo di analizzarla.

[7] Kicking his way down through the air to the ground

Assistiamo a una descrizione di apprendimento, a come poter guardare la natura, alla scelta di povertà del linguaggio, perché la povertà del linguaggio è la cosa più vicina al silenzio, la ipotesi in cui possiamo realmente fare esperienza del mondo, e ci possiamo opporre al lui. Impoverire la sintassi, sempre più semplice, svuotare il soggetto, svuotare i verbi, i complementi, le proposizioni, i nessi causali e finali, provare a sentire la nudità delle termini. Provare a scrivere una parola in cui ogni funzione sintattica, grammaticale, retorica e di eloquenza sia una e soltanto quella, riuscire a dire “Io sono a casa” senza che questa frase suoni ambigua, senza che possa produrre interpretazione.

[8] And then come back to it and begin over

In questi versi compare la nostalgia, nel duplice senso di desiderio ciò che è perduto e di ritorno a ciò che era un tempo. Frost è stato il bambino che dondolava tra le betulle [6], era il bambino che gridava al lupo al lupo senza che nessuna fiera lo aggredisse o inseguisse. È interessante questa sequenza “andare via dal mondo: tornare indietro: ricominciare”, che descrive in maniera perfetta la nostalgia come un muoversi non tanto in uno spazio, ma in un tempo: ecco perché “ricominciare”. La nostalgia è legata a un inizio, a un principio, ovvero è legato al tempo. La nostalgia è il tempo del principio, è il momento esatto prima che la colonna del cielo crolli e la verità entri nel mondo, la nostalgia è quando non c’era bisogno della verità, della realtà, del linguaggio, semplicemente perché tutto questo non c’era, perché non c’era bisogno di gridare “Al lupo al lupo”, perché niente di tutto questo esisteva: la nostalgia è l’attimo esatto in cui l’universo fu in equilibro e l’equilibro fu l’angoscia. La nostalgia è il mondo libero, mentre cede all’angoscia.

[9] Earth’s the right place for love

La terra è il posto giusto per amare. Cosa è l’amore? Anzi cosa è amare, non tanto la sostanza, quando il verbo, cosa è il verbo amare? In Betulle questa azione è strettamente legata a una serie di verbi di movimento, li introduce, come se fosse il prodromo da cui entrare: andare, salire, ritornare. Durante la lettura tutti questi verbi hanno un’accezione di morte, di abbandono, brilla nascosto il suicidio. Amare porta con sé il dono della morte, l’ultimo dono del poeta: la sua vulnerabilità, la sua sconfitta, il suo tentativo di esprimere con poche parole il semplice dondolare dei rami delle betulle.

[10] One could do worse than be a swinger of birches

Così come si è aperta la lirica si chiude, alla fine quel che resta della poesia è l’immagine iniziale, il movimento a cercare un senso, c’è di peggio dice Frost che scrivere una poesia; gli scrittori, i poeti, i critici, gli intellettuali sono innocui come i bambini che gridano al lupo, come i ragazzi che giocano nel bosco, nessuno li sente, a nessuno importa di loro, di ciò che hanno – rapidamente e confusamente – per un attimo veduto.

In La Seconda Repubblica delle Lettere

I sintetici di Levi: genesi del nuovo assetto mondiale – parte II

di Antonio R. Daniele

Qualche anno fa Pierpaolo Antonello, in un interessante volume che compendiava il fantascientifico italiano, citava con sicurezza Levi all’interno di una linea di scrittori che procedeva da Calvino a Volponi passando per Buzzati stesso. E questa collocazione è possibile non soltanto sul piano dei contenuti ma anche su quello della forma scritta, cioè del principio della scrittura. La variazione ironica, quasi sarcastica, è il metodo che consente a Buzzati di stanare il lettore e condurlo al disorientamento, allo smarrimento finale dei principi: una donna che dà alla luce un bambino dopo averlo concepito con l’uomo che ama è diventata una anomalia intollerabile e pericolosa. Levi procede lungo il medesimo sentiero: lo abbiamo già notato e se ne trova una conferma ulteriore quando tratta la materia legata al Mimete in Storie naturali, un caso di clonazione, qualcosa che riproduce un modello «dal caos, dal disordine assoluto. Ecco, questo fa il Mimete: crea ordine dal disordine», scrive Levi. Quella storia, nella quale il narratore il settimo giorno si riposò è talmente scoperta nei suoi contenuti e nei suoi significati che merita di essere valutata dal punto di vista della costruzione narrativa e, soprattutto, non può essere separata dal brano che compie il dittico del Mimete, quello col quale Levi comprende che per togliere il velo sulla questione che gli è cara – la nuova origine dei sintetici – non può agire solo sul contenuto della narrazione ma è necessario che si affidi al procedimento ironico, conducendolo fin oltre la soglia del grottesco e alle porte della farsa. Quando noi terminiamo la lettura di Alcune applicazioni del Mimete, ridiamo divertiti dalla trovata del protagonista: abbiamo goduto una spassosa pagina di narrativa. Sennonché dobbiamo risalire la corrente e renderci conto che in effetti il Mimete, in ultimo, ha creato ordine dal disordine (giacché l’uomo che aveva duplicato sua moglie, alle prime avvisaglie di criticità nel suo imprevedibile ménage à trois, risolve l’impasse duplicando se stesso e sistemando la faccenda con una doppia coppia), ma ha lasciato inalterato non tanto il problema etico quanto il disagio fra voluttà e possibilità. Inoltre, Levi conferma che questa scrittura discende da un tracciato culturale recente e preciso: riferisce che la donna clonata ha ventott’anni ed è nata nel 1936. Dunque, la vicenda è ambientata a metà degli anni Cinquanta, proprio quando «La Civiltà delle Macchine» favoriva gli studi e le pubblicazioni in materia di neurofisiologia artificiale. Non solo: non si può non notare una certa corrispondenza di temi tra questa scrittura e Il grande ritratto di Buzzati, romanzo la cui stesura cominciò nel 1959 e la cui pubblicazione venne un anno più tardi. In quel lavoro Buzzati narrava la storia di un uomo di genio che, mediante un complesso dispositivo, dava nuova origine alla moglie morta. La vicenda buzzatiana implica un intrico di questioni molto più fitto, ma non c’è dubbio che la linea di derivazione sia la medesima. E anche in quel caso “origine” e “distruzione” si incrociano, si sovrappongono, di fatto sono una cosa sola: il grande congegno attraverso cui il prof. Endriade aveva preteso di rifare sua moglie genera morte attorno a sé e non può che essere annientato.

         Ho cominciato questo intervento rinvenendo una specie di dichiarazione di poetica leviana: ad ogni creazione corrisponde una volontà di distruzione. E mi pare che la conferma definitiva di questa dinamica fatale si trovi in uno dei brani più noti di Vizio di forma, ossia Verso occidente, quello dei lemming che paiono spostarsi in branco per andare a morire verso qualche confine. I lemming nascono per poi andare a suicidarsi. Poi il ricercatore del racconto nota lo stesso comportamento in una tribù del Sudamerica. «Perché un essere vivente dovrebbe voler morire? – E perché dovrebbe voler vivere? Perché dovrebbe sempre voler vivere?», domanda l’uomo. Conosciamo le curiose teorie che Levi elabora nel testo sul desiderio di morte dei roditori della storia; sappiamo anche – dalla testimonianza di Daniele Pugliese resaci ormai parecchi anni fa nella introduzione a un suo libro di racconti – che Levi si pentì di aver scritto il racconto e si scusò degli effetti che può aver provocato:

Lei ha preso molto (troppo!) sul serio un mio racconto di cui oggi mi vergogno un poco, perché l’ho scritto in un momento di angoscia e di debolezza, e perché, invece di essere d’aiuto all’eventuale lettore, rischia di estendere a lui il disagio dell’autore. Se così è avvenuto, accetti le mie scuse; oggi penso che spargere al vento le proprie angosce possa portare sollievo a chi lo fa, ma sia poco morale.

Ma, al di là della resipiscenza di Levi nei riguardi delle sue stesse inquietudini e sulla quale non è opportuno cavalcare nessuna congettura condotta a posteriori (ma, si badi: Levi non si pentì di ciò che aveva scritto, ma di averlo scritto; la qual cosa pare una sottigliezza ma non lo è), resta un dato fondamentale: per Levi l’impeto di distruzione o di autodistruzione non è una acquisizione successiva all’origine, ma ne fa parte. Fa parte del corredo genetico dell’essere vivente: «tutto ciò che è vivo, lotta per vivere e non sa perché» – scrive l’autore – «Il perché sta scritto in ogni cellula, ma in un linguaggio che non sappiamo leggere con la mente […]. Ma anche quelle in cui il messaggio è chiaro possono avere delle lacune. Possono nascere individui senza amore per la vita».

         Il tentativo di alterare tutto questo può avere conseguenze imponderabili: per esempio, che lo scienziato impegnato a cercare la soluzione del male di vivere dei lemming trovi la morte proprio per aver arrestato questo processo e che la tribù di umani il cui raziocinio dovrebbe favorire la scelta per la vita resti attaccata alla propria volontà di morte, proprio come fosse qualcosa di vitale poiché naturale. Come la stella tranquilla di Lilìt che, «nel remoto atto originario in cui tutto è stato creato, le era toccata un’eredità troppo impegnativa. O forse conteneva nel suo cuore uno squilibrio o un’infezione, come accade a qualcuno di noi».

In La Seconda Repubblica delle Lettere

I sintetici di Levi: genesi di un nuovo assetto mondiale

di Antonio R. Daniele

Ad ogni creazione corrisponde un impeto e una voluttà di distruzione. Si potrebbe cominciare da questa specie di assunto apodittico nell’indagine su Primo Levi e l’origine, sicuri che – sia pure nei pericoli di una sintesi che non si ignorano – avremo detto molto della scrittura breve leviana, sia in quanto a materia scelta sia in quanto a prassi narrativa.
          Intanto si rifletta su qualche dato e, per meglio dire, su qualche “evento” occorso a Vizio di forma e al suo autore; e a questo proposito molto dice la nota lettera prefatoria con la quale Levi accolse la riedizione dell’opera ai primissimi del 1987: deluso ma lieto; contento ma amareggiato. Primo Levi scriverà un brevissimo saggio di antinomie, un esercizio verbale di conflitti. E se al sentimento di letizia noi assegniamo il valore del “generare” e al sentimento di amarezza quello del “distruggere” vedremo replicata, in quelle poche righe, una dialettica che, è evidente, segnò i racconti che Levi licenziò nel 1971. E, se volessimo esasperare questa dinamica, potremmo notare che il nostro autore lasciò questo mondo negli anni in cui era persuaso che il mondo stesso nascesse a nuova vita:

Il Medioevo non è venuto: nulla è crollato, e ci sono invece timidi segni di un assetto mondiale fondato, se non sul rispetto reciproco, almeno sul reciproco timore. A dispetto degli spaventosi arsenali dormienti, la paura di una «Dissipatio Humani Generis» (Morselli), a torto o a ragione, si è soggettivamente attenuata. Come stiano oggettivamente le cose, non lo sa nessuno.

E in effetti le cose, oggettivamente, sarebbero andate in un altro modo. Ma non è questo che interessa. Interessa, invece, che Levi percepisca attorno a sé nuova creazione e prosperità e lasci il mondo. E lo faccia pochi mesi dopo la riedizione di Vizio di forma, libro costruito su questo conflitto percettivo: origine-distruzione e viceversa.
         Ma la scrittura di Levi non ha né tratto apocalittico né ottimisticamente eugenetico. Levi sa operare anche tra le maglie del registro brillante, in alcuni casi dilettevole, senza per questo perdere di vista il peso delle questioni. «I bambini sintetici sono una realtà, anche se l’ombelico ce l’hanno», scrisse con accento scorato in quelle stesse righe all’editore, richiamando uno dei suoi racconti nel quale profetizzava l’avvento di creature costruite in laboratorio, umanoidi, il cui inconfondibile segno distintivo era l’assenza dell’ombelico. La narrazione è, appunto, realizzata su due piani: la leggerezza di quotidiane circostanze scolastiche, quelle che impegnano ragazzini alle prese con usuali lezioni di storia e interrogazioni (tra l’altro, in una infarcitura di cliché sull’insegnamento, evidentemente già diffusi cinquant’anni fa, il che dovrebbe sollecitare qualche riflessione), e il carico di temi insoliti e inquietanti. Torniamo a Levi e alla lettera: è contento della riedizione ma crucciato. Ed è crucciato perché, a suo dire, molto di quanto paventato nel libro si è avverato e i sintetici sono diventati davvero sintetici. Alla fine di quel racconto, superato il livello del “gradevole” assicurato dal vivace scambio di vedute tra il bimbo anomalo e i compagni di classe, il grottesco confronto con la professoressa e il preside, Mario, appunto il ragazzino sospettato di aver avuto origine chissà come e chissà da chi, tiene un discorso dal tono grave:

Adesso siamo pochi, ma poi saremo molti e comanderemo noi, e allora non ci saranno più guerre. Sì, perché non combatteremo fra noi come capita adesso, e nessuno potrà assalirci perché saremo i più forti. E non ci saranno differenze: noi non faremo più differenze, bianchi, negri, cinesi, saranno tutti uguali, anche i Pellerossa, quelli che restano. Distruggeremo tutte le bombe atomiche e i missili, tanto non serviranno più a niente, e con l’uranio che ne ricaveremo ci sarà energia gratis per tutti, in tutto il mondo: e anche da mangiare, gratis per tutti, anche in India, cosi nessuno morrà più di fame. Faremo nascere meno bambini, in modo che ci sia posto per tutti: e tutti quelli che nasceranno nasceranno come noi.
– Nasceranno come? – chiese una voce timida.
– Come me. O anche per telefono, o per radio: un uomo telefona a una donna, e poi nasce un bambino, ma non così.

Il nuovo “assetto mondiale” che a Primo Levi parve di scorgere alla fine degli anni Settanta, quello che garantiva armonia fra i popoli e uguaglianza fra etnie, sarebbe stato prodotto da creature la cui origine sormonta il livello naturale, viene da esperimenti e forse da mondi sconosciuti. Addirittura – viene lasciato intuire al lettore – potrebbe essere il risultato di una incombente invasione di strane creature.

Quando ci sono di mezzo Primo Levi e questioni legate alle scienze si rischia uno spiacevole restringimento di prospettiva: credere, cioè, che Levi abbia trattato alcuni temi soltanto perché aveva familiarità con una certa materia, trascurando con ciò tutto un coté culturale nel quale inserirlo e di cui era di certo consapevole. Questo brano e il grosso delle scritture contenute in Vizio di forma non chiamano in causa soltanto l’intertesto leviano, ma partecipano di un quadro letterario più ampio al quale si deve far risalire una lunga serie di scritture, di tono artistico più o meno valido, che attraversano tutti gli anni Sessanta e la cui matrice potrebbe essere individuata sia in Facial justice di Leslie Poles Hartley (1960) che in Harrison Bergeron di Kurt Vonnegut (1961), dove il mondo ricomincia dopo una guerra mondiale, i bambini nascono in provetta e si lavora per annullare le differenze tra gli uomini, anche nell’aspetto. Da noi si deve registrare un singolare racconto di Dino Buzzati apparso sul «Corriere d’Informazione» nel settembre del 1964 e intitolato Il bambino illecito. Quell’esemplare di narrazione breve – che a sua volta si inseriva in un viatico di scritture e di studi sulle origini di stampo scientifico e fantascientico che Buzzati percorreva sin dalla metà degli anni Cinquanta, quando interloquiva con Leonardo Sinisgalli circa la sua rivista, «La Civiltà delle Macchine» – trasse spunto da un caso che suscitò molto clamore in Italia, quello del dott. Daniele Petrucci che a metà degli anni Sessanta documentò di aver fatto nascere una trentina di bambini fecondando ovuli al di fuori del grembo materno. Buzzati scrive un racconto dissacrante, capovolgendo i termini della questione: in un contesto nel quale la normalità delle cose era la nascita in provetta, l’origine della specie era affidata a una «produzione esclusivamente di bambini e di bambine bianche di tipo “mentale” e “submentale”. C’era anche un nuovo reparto – scrive Buzzati – a carattere sperimentale, per la produzione di tipi “supermentali”, ma era tenuto in sospetto dalle autorità […] una illecita forzatura nello sviluppo di certe particolari qualità della mente, ciò che poteva domani riuscire pericoloso per l’equilibrio sociale». Dunque, i “sintetici” di Levi, queste creature che predicano una nuova origine, un superamento della condizione naturale e sono promessa di un mondo nuovo e normalizzato nei valori e nelle forme, vengono da questa traiettoria culturale e letteraria. 

In Narrature

Un’altra stagione

di Francesco Gallo

A mio padre.

Grazie a un opuscolo che mi capitò, chissà come, tra le mani, venni a sapere che presso il Museo Civico di Palazzo Fulcis, a Belluno, si teneva una mostra intitolata Le stagioni di Buzzati. L’allestimento mi avrebbe consentito di osservare dal vivo, assieme ai quadri più celebri, alcuni degli oggetti personali del grande scrittore e giornalista: la giacca indossata il 28 gennaio 1972, giorno della scomparsa; il frustino per andare a cavallo, monogrammato DBT (Dino Buzzati Traverso); un paio di sci risalenti ai primi anni Sessanta, con gli attacchi a sganciamento frontale; e la fusione in bronzo del calco mortuario della sua mano destra. Un cimelio, questo, che – non lo nego – mi serrò la gola.
Si presentava solo un problema: l’esposizione era terminata da più di un mese, il 6 gennaio 2020. Parlandone con un collega, tuttavia, scoprii che la casa avita di Buzzati era poco distante dall’albergo che ci ospitava. Un’occasione da non perdere. Avrei visto l’alberone sotto il quale Buzzati era solito scrivere, circondato – come disse all’amico Arturo Brambilla – dagli abitanti del piccolo popolo. Era forse quello il segreto della sua formidabile inventiva? Risiedere al confine tra quello che è e quello che potrebbe essere? Storie, in fondo. Nient’altro che storie. Eppure.

In poco tempo raggiunsi l’indirizzo. Lunghe file di carpini mi scortarono fino al cancello. Sulla sinistra, lungo il vialetto, lasciai il campanile di San Pellegrino; poi intravidi la Villa. Una costruzione del 500; l’ampia facciata era color terracotta e sul tetto, ricoperto di tegole, spuntavano coppie di comignoli gemelli.
Suonai al citofono. Mi guardai attorno. Alla finestra del secondo piano mi parve di scorgere una sagoma familiare – allora non avrei saputo dire perché. Sollevai un braccio in cenno di saluto. Non rispose.
Oltre il cancello spuntò una donna. Aveva un fisico minuto e una folta capigliatura. Quando fu abbastanza vicina disse: «Cosa vuole ancora?»
Ancora? Doveva avermi scambiato per qualcun altro. Le spiegai le ragioni della mia presenza in città. L’omaggio. Aggiunsi che sarebbe stato un onore, per me, visitare la Villa. La donna mi scrutò. Teneva le mani strette intorno alle sbarre. La pelle era bianca e liscia. «Se vuole sapere di Buzzati parli con Croda,» disse. «L’ha conosciuto. Lo trova in paese, alle panchine. Sta sempre lì.» Mi rivolse un sorriso incerto. Fui sul punto di chiederle come avrei fatto a riconoscerlo, Croda, ma la donna si era già ritirata.
Cos’altro potevo fare?

Venti minuti di cammino ed eccomi in piazza. C’era il Museo Civico, un’infilata di negozi – un’edicola, un fioraio, un panificio – e un giardino, occupato da altalene e dondoli e da una sabbiera nella quale un gruppo di bambine e bambini giocava a rincorrersi. Graffiavano l’aria con urla euforiche. Tate e genitori erano poco distanti; fumavano o parlavano al telefono e fingevano di sorvegliare un raduno di monopattini e biciclette.
Sul lato opposto c’erano lunghi sedili di marmo. Un uomo solo occupava quello centrale. Mi avvicinai. Dissi: «È lei, Croda?»
Parve non sentire. Riprovai. Soltanto a quel punto annuì. Per quale motivo credetti subito che si trattasse di lui? L’aspetto, innanzitutto. Era anziano. Se aveva conosciuto Buzzati doveva avere perlomeno settant’anni. L’eleganza, poi, mi suggestionò. Indossava un cappotto a spina di pesce dal quale affiorava il risvolto di una giacca nera, una camicia bianca e una cravatta dritta come una penna. In mezzo alle scarpe lucide, tra i fili d’erba, affondava la punta di un bastone dal manico ricurvo.

«Buzzati. Per Buzzati… mi hanno detto di chiedere a lei. Che lo ha conosciuto.»

«Conosciuto
La sua voce era un sibilo.
«Una donna, alla Villa – »

«Dica, dica», e appoggiò il palmo sul marmo. Gli angoli della bocca s’incurvarono appena.

Mentre gli sedevo accanto – ero certo a quel punto fosse lui – vidi emergere una curiosa somiglianza. Possedeva un volto magro, senza barba, con un naso un po’ grosso. Gli occhi erano scuri come piombini e ben distanziati. I capelli ingrigiti portavano la riga e la sfumatura alta.

«Sì, possiamo dire così. L’ho conosciuto verso la fine degli anni 50.»
Lo osservai torcere le mani attorno all’impugnatura del bastone. Era una piccola testa d’animale. Distinsi un becco.

«Eravate amici? Scusi, sa. Resto in città solo un paio di notti e –»

«Quando finiva la scuola davo una mano a mio padre. Faceva il giardiniere. Era lui che potava le piante della Villa. Buzzati d’estate lasciava Milano e tornava. Tornava qua.»
Non riuscivo a smettere di fissare il modo in cui le sue dita si attorcigliavano al manico del bastone. Sembravano lucidarlo.

«La prima volta che lo vidi stava seduto sotto la magnolia. Aveva sulle gambe una Olivetti DL. Che impressione mi fece: un uomo della stessa età di mio padre impegnato in un’attività così futile. Chi era mai? Mio padre spiegò che era famoso. Uno scrittore. Anche se scriveva storie di finzione. È vero. E cronaca. Buzzati scriveva racconti come fossero articoli e articoli come racconti.»

Soltanto quando riconobbi il motivo in rilievo sotto l’elsa del bastone — un arnese per lavorare il legno; un seghetto, trasalii – presi parola: «Be’, era un modo per aggirare la censura fascista.»

«Quello era un bel problema, in effetti. Un vero orrore, perdoni. Ma la questione è un’altra. I due piani, sa? Ha presente? Sì che ce l’ha. Sennò non sarebbe qui.»

Il profilo di Croda sembrò indurirsi contro i pioppi bui che gli facevano da quinta. La sua mandibola, il cranio intero era la linea di un cammeo impolverato.

«Ogni volta che mio padre e io entravamo in Villa,» disse Croda, «Buzzati era sotto la magnolia a scrivere. Molti dei Sessanta racconti li compose a pochi metri da me. Iniziai a leggerlo avidamente. Racconti, romanzi, pezzi di cronaca. Le storie dipinte. Il Poema a fumetti. A un certo punto mi contagiò, sa? Mi cimentai anch’io. Ne ho vergogna, adesso. Lei sarà mica immune», si voltò piazzandomi in faccia pupille fonde come pozzi artesiani.

«Be’, io –»

«Con scarsi risultati, certo. Io. Fors’anche lei. Sa perché? Per via dei piani. Qualunque cosa scrivessi suonava falsa. Anzi, era falsa. M’iscrissi ad Agraria. Diventai giardiniere. Quando mio padre morì presi il suo posto. Oggi sono il Custode. Gliel’ha detto, la Signora?» Croda sorrise guardando fisso davanti a sé. Nel frattempo l’edicola, il fioraio e il panificio avevano tirato giù le serrande. Le famiglie erano scomparse. Si sentiva soltanto il cigolio di un’altalena. Allora, tra le siepi, comparve una figura – la stessa che avevo notato alla finestra della Villa. Com’era apparsa si ritirò. Per via del cambio di luce, certo. Con l’avanzare del crepuscolo, le ombre dei bossi s’erano allungate sotto la spinta di un vento gelido.

«Lei pensa davvero che quella di Buzzati fosse finzione? Che fosse, che so, fantasia
«Che intende, scusi?»
«Vuol farmi credere che non ha appena visto anche lei –» chiese, puntando d’improvviso il bastone come un rabdomante.
«Non la seguo, abbia pazienza.»
«Mi segua, invece. Le faccio vedere,» disse, alzandosi con sorprendente agilità.

Tornammo alla Villa. La facciata pareva ora verniciata di viola scuro. Croda estrasse una lunga chiave da una tasca del cappotto. Aprì il cancello. Le ombre in fuga s’erano aggrappate ai contorni delle finestre, deformandoli come occhiaie. I comignoli erano le corna di una maschera diabolica.
Croda mi riscosse chiamandomi per nome. Come poteva conoscerlo? Lo vidi girare intorno alla magnolia – c’era ancora! Mastodontico altare verticale – e sparire in una porticina della Villa. Gli tenni dietro. L’ingresso rivelò un disimpegno odoroso di pietra umida. Solo una candela raccontava il contorno degli spazi e delle cose. Immobile vicino a un pendolo silenzioso e guasto, una figura emerse dall’ombra: la Signora del cancello – medesimi ricci, medesima corporatura. Mi vide e si tappò la bocca con le mani: ora erano ricoperte di macule, solcate da rughe profonde.

«Su,» disse Croda, il bastone già al primo gradino di una scala a chiocciola che scavava la sommità del granaio come la tana di un roditore.

Lo seguii. Superate due rampe varcai la soglia di un andito in legno. «Chiuda,» disse, «presto.» Faticai a udire la sua voce. Pareva giungere da un’altra parte – un altro piano.
«Come…?»
«Zitto. Guardi, ora. Veda
Nella stanza c’era uno scrittoio. Era occupato da una macchina per scrivere e una risma di fogli. Sotto l’unica finestra, poco più che una feritoia affacciata sul giardino, stava un sofà in velluto con lo schienale altissimo. Accanto c’era un cavalletto con pennelli e tavolozza. Dai vetri colava una luce azzurrognola che rischiarava ogni cosa. Mi accostai alla tela. Era incompleta: uno scorcio cittadino, piazza e porticato e, sulla destra, una creatura informe e trionfale a spezzare l’orizzonte. Il tratto mi parve inconfondibile: la sua Val Morel, impossibile e miracolosa. O certi incubi di Bosch, Il maestro del Giudizio universale.
Croda lasciò cadere il bastone e raddrizzò la schiena, sedendo allo scrittoio. Sollevate le braccia sospese le mani sulla Olivetti. Disse: «Eccolo.» Le dita iniziarono a battere sui tasti. Prima lentamente, poi più veloci. Il rumore, simile al ticchettio di un ordigno, si trasformò in una gragnuola di colpi. Quando anche l’ultimo rigo fu completo il foglio – come trovare le parole? – schizzò verso l’alto mentre un secondo volteggiava da sé nel rullo.
«Eccomi,» disse Croda. La voce era quella di un altro. «Non c’è differenza tra i piani. Il reale è fantastico. Il fantastico è reale. Solo la storia conta. Vedi

Alzai gli occhi ai vetri. Le tenebre avevano ceduto il posto a un etereo chiarore. In fondo al giardino, al cancello, c’era una persona. Alzò la destra in segno di saluto. Scosso, mi riconobbi all’arrivo nel gesto e nel volto. Ero io! Com’era possibile? Il tempo e lo spazio, frantumati nell’intelaiatura della finestra come in una tavola a fumetti, mi risucchiarono in vignette dissolventi.
C’era un giovane sottotenente appena divenuto ufficiale, Giovanni Drogo, assegnato a una misteriosa Fortezza nel deserto: la Bastiani. Partiva per affrontare il nemico più grande. Non la morte, bensì la paura di morire. C’era la distesa ordinata e dolorosa di 43 piccole bare che, come colombe, si sollevarono in cielo. Ospitavano i corpi degli esserini morti ad Albenga il 16 luglio 1947, quando l’imbarcazione che li portava in gita alla Gallinara s’inabissò. C’era l’architetto Antonio Dorigo che soffriva d’amore. Desiderava con le donne lo stesso rapporto di confidenza che aveva con gli amici ma, purtroppo, per lui le donne restavano enigmi insolubili. C’era un’onda possente come il fianco di una montagna. S’inarcava e s’abbatteva ininterrottamente dal 9 ottobre 1963, trascinando l’esistenza putrefatta degli abitanti della valle del Vajont. C’era Roberto Paudi, assessore in fuga dal Babau: un’entità color marmo nero, leggera e volubile come la nuvola d’un temporale. Era tornata a perseguitarlo dopo che le raffiche dei mitra di un plotone d’esecuzione l’avevano mandata gambe all’aria, con la pelle tesa del ventre rischiarata dalla luce della luna. Il maelstrom di storie evocava una tormenta d’anime in pena; calavano dalle creste dalla Gran Fermeda, là dove gli ultimi Re delle Favole si avviavano verso l’esilio; procedevano maestosi nel deserto del Kalahari, verso le nubi dell’eternità –

«Basta,» supplicò Croda. Il martellio dei tasti s’interruppe. Sul foglio restò una frase a metà, la finestra tornò nera e vuota. Mi ritrovai in ginocchio sulle assi del pavimento. Sentii Croda allontanare la sedia, urtare i pochi mobili, crollare sul sofà. La voce era di nuovo la sua: rotta, un sibilo. «Non ne posso più.»
Sentii schegge di legno sotto i palmi. Cercai di alzarmi. Rinunciai. Afferrai il bastone. «Non è che lei, per caso…? Non è che vuole aiutarmi a farla finire, questa storia?», sorrise Croda.
Mi voltai. Non c’era nessuno accanto a me. Né nella Villa, sotto la magnolia, oltre il vetro. E l’ombra della notte scendeva.

In Narrature

Derrman – parte seconda

di Barbara Scalco

“Cazzo!” getta un’ultima occhiata alla bestia, per poi retrocedere in
direzione della panda. Nel momento in cui la maniglia scatta sotto le sue dita, un’ombra corre veloce oltre la fiancata opposta. Il ragazzo entra in auto e intravede a terra la mole dell’animale, immobile e morente. Un urlo rimbomba fra le pareti di roccia; straziante e disumano. Bred ingrana la prima e accelera, le ruote stridono sul cemento; il bosco tace.
La notte seguente il cielo è coperto ma ha smesso di piovere. Le gocce tintinnano fra gli alberi, precipitano a terra a ogni folata di vento. Bred è alla Tessilbrotto, i fari della panda illuminano il bosco. La radio è spenta ma a parlare è il silenzio; racconta storie di fantasmi, leggende alle quali nemmeno i bambini danno più retta.
A un tratto gli manca l’aria e abbassa il finestrino, sospira. Avvinghia il termos dal sedile posteriore, svita il tappo e lo riempie fino all’orlo di caffè nero. Si bagna appena le labbra e impreca, scotta; poche gocce cadono sul cavallo dei pantaloni e lungo il sedile di stoffa grigia.
Lecca il caffè dalle dita bagnate cercando di bilanciare il termos, aperto, sul sedile passeggeri. Afferra il pacchetto di sigarette liberandolo dal nylon trasparente, ne sfila una direttamente con le labbra, l’accende. Inspira ed espira, come a una lezione di yoga.
Lo schianto improvviso di una lamiera sull’asfalto lo scuote come a contatto con un defibrillatore e decilitri di caffè bollente precipitano sui jeans.
“Cazzo cazzo cazzo” Bred combatte a stento il dolore stritolando il volante di pelle lucida.
A pochi metri dall’auto, il coperchio argentato del cassonetto gira su se stesso per qualche secondo, si ferma. Bred stringe le labbra fra i denti mentre l’ennesimo gatto zampetta, furtivo, dal bidone riverso a terra. Il felino rivolge uno sguardo ipnotizzato in direzione del bosco, per poi correre via.
Il ragazzo ne osserva la fuga mentre il panico gli strizza l’intestino; lo sguardo rivolto al fogliame scuro. Oltre i primi pini lo fissa immobile una sagoma nera dalle fattezze umane.
Alberi, cemento e nuvole si confondono fra loro; tutto il mondo sembra girare mentre Bred combatte contro i capogiri. Deve andarsene da lì ma i muscoli non rispondono.
La sagoma dista pochi metri dalla luce dei fari; non ne distingue il volto, sembra un uomo ma è troppo basso. Stringe qualcosa fra le mani.
Passano pochi attimi, secondi eterni durante i quali Bred non riesce a scollare lo sguardo dallo sconosciuto. Lo vede muoversi, ne è quasi certo e le dita corrono violente alla chiave d’accensione. Frizione, retromarcia, acceleratore; l’auto è colta alla sprovvista e sobbalza, Bred ingrana la prima e inforca il viale d’uscita.
Destra, sinistra, ancora destra. Vola lungo i tornanti e la ferita del giorno prima pulsa dolorante a ogni scossone. Odore di caffè risale dai tappetini luridi di fango e polvere. Getta un’occhiata al termos e lo vede rotolare, ritmicamente, da una parte all’altra del sedile passeggeri zuppo di liquido marrone.
Lo sguardo rimbalza dalla strada al bosco; ogni fusto assume forme diaboliche agli occhi spaventati del ragazzo. Lo stanno seguendo, potrebbe giurarci.
Oltre il tornante una sagoma fa capolino tra i pini; Bred la supera senza voltarsi, ne ignora il riflesso all’interno dello specchietto retrovisore. Si morde un labbro e un senso di nausea gli accarezza la bocca dello stomaco. Frizione, acceleratore, le marce schizzano su e giù. Altro tornante, la vede di nuovo e con essa tornano i capogiri.
“Chi sei!” l’urlo gli raschia la gola come carta vetrata.
Di fronte a lui si apre un bivio e Bred sa bene da che parte andare: sinistra, verso casa. Alza i fari pronto a svoltare ma la sagoma nera occupa ora il centro della carreggiata.
“No…” nella frazione di un secondo sterza il volante verso destra; le ruote posteriori tracciano scie nere sull’asfalto e l’auto si immette nella strada sbagliata.
“Un incubo, dev’essere un incubo” Bred si asciuga il sudore dalle labbra; le guance rigate da gocce salate, corruga la fronte e sospira, esausto. Un pensiero rimbalza nel cervello, adesca un’intuizione che corre alle mani e l’attimo dopo il ragazzo si ritrova fra le dita la pistola di servizio. A poche centinaia di metri si scolpisce, nella notte, un arco di pietra.
Frizione, terza, 60 chilometri orari. Frizione, quarta, 70 chilometri orari. 75, è questione di precisione. 80, come la matematica.
Una mano al freno a mano, l’altra al volante; l’arcata in pietra affonda per un attimo l’abitacolo nell’oscurità ed ecco di nuovo la strada. Dannata sagoma, dannato incubo.
Bred inchioda; quasi affoga nel suo stesso sudore, immerso nell’odore pregnante di caffè e terrore allo stato gassoso. La pistola inchiodata fra dita ghiacciate e biancastre.
“Basta.” Bred ingoia un grumo di saliva, studia il profilo nero al centro della carreggiata: ha gambe unite e braccia penzoloni, la mano destra impugna un oggetto, forse un’arma.
Poco distante il guard rail è come l’ha lasciato la notte precedente: aghi di pino e rami spezzati ricoprono l’asfalto ma, del cervo, nessuna traccia.
Bred sussurra parole di rabbia, invoca una divinità qualsiasi per trovare il coraggio di uscire allo scoperto. L’indice avvia le quattro frecce per poi aggrapparsi alla maniglia; nell’altra mano, la pistola è pronta a sparare. Legittima difesa.
Uscito dall’auto Bred si sente preso in giro, avanza trattenendo il fiato ma lo sconosciuto non si muove.
“Chi sei?” la voce esce stridula e tremante; sillabe strozzate all’altezza della gola. La lingua, patinata, si incolla al palato.
Nessuna risposta; Bred avanza, il braccio nascosto dietro la schiena e le spalle dolenti, in allerta. Silenzio.
“Che cosa vuoi? Rispondi!”
Una raffica di vento rincorre la vallata; Bred ha un tremito e piccoli vortici di foglie danno avvio a un frenetico danzare.
Lui avanza e, poco alla volta, distingue i tratti dello sconosciuto: pelle olivastra e labbra sottili. Quella che Bred si trova di fronte è una ragazza, quasi una bambina.
La mente si affolla di sensazioni contrastanti; è confuso ma l’ossigeno ritrova la strada verso cervello e polmoni. Nota il viso della sconosciuta teso in una smorfia di dolore, la vede stringere fra i denti il labbro inferiore. Lungo la fronte sono incise piccole rughe, abbassa lo sguardo verso il terreno.
Bred riconosce delle macchie rossastre tingerle l’abito; anche le braccia sono sporche ed è scalza, i piedi incrostati di fango verdastro. Fra le mani ha un corno mozzato. Il viso del ragazzo impallidisce.
“Dimmi chi sei!” lui urla, lei tace.
Ha lo sguardo incollato al suolo e una lacrima le riga una guancia, infine solleva il capo. Ha occhi neri, neri come dev’essere nero l’inferno. Le labbra si schiudono.
“Non hai fatto nulla” la sua voce esce in un sussurro ma Bred non fatica a sentirla.
Gli si avvicina lentamente; il corpo teso in avanti, esile ma forte.
“Perché non hai fatto nulla?” il tono è grave, troppo profondo per una ragazzina, carico di rabbia.
Lei avanza, lui indietreggia; instabile. “Di cosa stai parlan…”
“L’hai lasciato morire.”
“Non è vero… Io…”
“L’hai lasciato morire!”
L’urlo improvviso percuote Bred che per poco non cade a terra. Si guarda attorno e sente la testa girare, blocca a stento un conato.
“Tu.” Lei avanza di un passo. “Hai ucciso.” Altro passo. “Mio padre.”
All’improvviso si ferma, stringe il corpo fra le braccia per ripararsi dal freddo. Dalla bocca, semiaperta, escono piccoli sbuffi di alito caldo; trema, lasciandosi andare al dolore di un pianto disperato.
Bred è confuso, spiazzato di fronte all’incubo più reale che riesca a ricordare.
“Ammettilo.” Occhi ancora rivolti al terreno, denti digrignati e corno stretto all’altezza del cuore.“Ammettilo!”
Bred esita. Pochi secondi in cui il tempo sembra fermarsi.
“Io non l’ho ucciso.”
Lei scuote la testa, delusa. Un senso di morte e rimpianto lo penetrano nell’anima. Deve fuggire.
“È tutta colpa tua.”

In Narrature

Deerman – parte prima

di Barbara Scalco

2:10 del mattino, sabato. Bred odia i turni del fine settimana, abbassa lo schienale sgualcito della panda bianca abbandonandosi alla noia. La radio spara nell’abitacolo una canzone dei Queen mentre Bred tracanna un lungo sorso dalla lattina di Cola e allunga il braccio nello sforzo di cambiare stazione. Vano tentativo, le casse gracchiano accavallando voci meccaniche e stonate. Dannate colline. Ecco un nuovo appunto mentale: procurarsi una chiavetta USB. Malgrado sia ormai autunno l’aria è calda e il ragazzo fatica a mantenersi sveglio. Spalanca la portiera e un acuto di Freddy Mercury si diffonde per la vallata, solenne. Sfila il cellulare dal taschino della divisa, due nuovi messaggi, un’immagine. Dopo qualche secondo la foto di cinque ventiquattrenni riempie lo schermo: sono seduti a un tavolo circolare e tengono alzati in aria dei grandi bicchieri pieni di ghiaccio e liquido trasparente, Gin tonic. Un labbro si alza ma più che un sorriso sembra una smorfia che scompare dopo pochi secondi. Blocca lo schermo, ripone il cellulare e rivolge lo sguardo allo spiazzo desolato della Tessilbrotto s.r.l. Pochi neon equidistanti illuminano le mura dell’enorme capannone, l’intonaco è scrostato in più punti e anche i portoni avrebbero bisogno di qualche restauro. Bred non capisce perché il titolare abbia pagato tanto per un servizio di vigilanza notturna. Credeva che la fabbrica avesse fallito da tempo, invece eccolo qua. Sospira, si getta in gola le ultime gocce di Cola e prende la mira verso il bidone della spazzatura a una decina di metri dall’auto. Il lancio non è buono e la lattina rimbalza sull’asfalto con un tonfo metallico. Un gatto sbuca da un angolo chissà dove; è spaventato e anche il ragazzo ha un leggero sobbalzo, li odia i gatti. Rotea una delle leve accanto al volante e due fari abbaglianti penetrano la distesa di pini che delimita il piazzale; il gatto si blocca e con occhi fluorescenti fissa per pochi secondi l’abitacolo. Altri due colpi di luce e il torace del felino si abbassa, le zampe tese in posizione d’allerta, quindi, corre verso il bosco e scompare. I gatti gli mettono la pelle d’oca. Alla radio è iniziata la campagna di Mr. Planet, questo significa che sono le 2:30 e la vescica chiama. Abbassa il volume al minimo e sfila una Camel dal pacchetto nuovo scendendo dall’auto. Sapori di catrame e tabacco penetrano le papille gustative mentre un fiume di nicotina aderisce alle pareti dei polmoni. Bred raggiunge le mura e allenta la zip dei pantaloni tenendo la sigaretta stretta fra le labbra, una nuvola di fumo raggiunge gli occhi, li pizzica. Alle sue spalle un rumore di foglie, si volta ma non c’è nessuno, forse il vento, silenzio. La concentrazione torna allo stimolo di urinare. Di nuovo, più chiaro, un rumore di rami spezzati. Il ragazzo richiude in fretta la zip portando una mano alla pistola allacciata alla cintura. “Chi è?” non che si aspetti una risposta. Il bosco tace ma sembra osservarlo, studiarne le reazioni per poi prenderlo in giro. Vede qualcosa, si muove, una pioggia di foglie sfila nell’aria nascondendogli la visuale. Un passo ancora… non può essere il vento. I neon del capannone illuminano solo i primi metri di boscaglia oltre i quali tutto è confuso. All’ennesimo gracchiare di foglie Bred non ha più dubbi. Estrae dalla fondina la pistola puntandola in direzione degli alberi a gambe divaricate, come nei film. Nulla, il bosco risponde alla minaccia passando il turno in attesa della prossima mossa; al contrario, il ragazzo non ha voglia di giocare e un rivolo di sudore gli bagna la fronte mentre il taschino della divisa inizia a vibrare. Suona a ritmo cadenzato, la pistola scivola fra le dita mentre Bred sfila a fatica il telefono e la sigaretta finisce a terra. Lo sguardo fisso in direzione del bosco. Ancora uno squillo. “Pronto?!” un’ombra marrone compare, si muove, scompare. “Bred, devi andare alla fabbrica dei Zambon. C’è un furgone senza targa.” “Ok, ora vado.” La linea cade assieme ai nervi del ragazzo, il quale, rilassa il braccio teso e ripone la pistola. Il cellulare ancora stretto fra le mani. Spegne il mozzicone con le dita; lo lancia lontano, tra rami e aghi di pino. “Dannati gatti”. Frizione, acceleratore, ingrana la quarta e vola nel circuito di secchi tornanti che portano alla fabbrica Zambon. Pozze di pioggia ricoprono l’asfalto e a ogni curva l’auto slitta, perde aderenza. Il ragazzo gira la rotella del volume e un classico dei Red Hot invade l’abitacolo. Sovrasta la suoneria che ora quasi non si sente. Al bivio svolta a destra, doppia curva verso sinistra, un tornante più secco degli altri costringe Bred a improvvisare un testa coda degno di una gara di rally. Sulla bocca si disegna una smorfia di autocompiacimento. Eccolo, il passaggio che preferisce; comincia la discesa e il suo piede preme sull’acceleratore. 60, 70, tiene sott’occhio i chilometri orari. 75, è questione di precisione, 80. Lungo la strada si disegna il profilo di un arco scavato nella roccia. Una mano avvinghia il freno a mano, l’auto slitta sfiorando il guard rail di pochi centimetri. Mentre una goccia di sudore si schianta sul volante, la vecchia panda inforca lo stretto passaggio di pietra. Bred urla di gioia, adrenalina pura manda in cortocircuito ogni stimolo nervoso. All’improvviso un’ombra nera sbuca dagli alberi precipitando in strada, si muove. Il cuore del ragazzo si ferma, il sorriso scompare, l’auto è veloce, troppo. Bred inchioda, i freni scappano da sotto i piedi e uno stridio acuto rimbomba tra le colline. Sotto la luce dei fari anche l’ombra diventa più chiara. Grandi occhi gialli penetrano l’abitacolo in pochi secondi, uno schianto e infine, l’atteso silenzio. La sensazione è quella di una lama che perfora il cervello. Bred apre gli occhi e qualche attimo dopo riesce a mettere a fuoco il volante. Ok, è ancora vivo. Una stretta linea rossastra colora il finestrino, sembra acquerello. Porta una mano alla testa e qualcosa di umido si appiccica alle dita dichiarando che non si tratta di colore. Attiva le quattro frecce ed esce dall’auto, aria fresca e pioggia lo aiutano a schiarirsi le idee. Il lato destro della panda è un disastro: lunghi solchi e strisce di vernice scrostata confermano l’impatto. Il ragazzo impreca, pensando all’ennesimo stipendio andato. Un urlo profondo e gutturale attira la sua attenzione verso il corpo di una creatura ricoperta di fango e foglie, è un cervo. Alla luce lampeggiante delle quattro frecce l’animale compare e scompare; Bred si avvicina cauto, terrorizzato all’idea che la bestia possa aggredirlo da un momento all’altro. Gocce di pioggia gli graffano il viso accompagnando i lamenti del cervo, acuti e strazianti. Ora può sentirne il respiro, affaticato, quasi stentato. Una ferita incide per intero il fianco destro; sanguina ma, vista la mole del corpo, non sembra grave. A ipnotizzare il ragazzo sono i palchi: immensi e robusti, grossi alla base del cranio e ramificati verso l’alto, fino a formare una decina di piccole punte affilate. Uno di essi è mozzo e il frammento mancante è proprio ai suoi piedi. Si china, lo afferra rigirandosi la superficie ruvida e pelosa fra le mani. All’improvviso il cervo inizia a dimenarsi, le zampe scalciano mentre urla gutturali attraversano il cranio ancora dolente del ragazzo; Bred si copre le orecchie lasciando cadere a terra il palco mozzato. Al contatto con il suolo produce un suono sordo, come un giocattolo rotto. L’animale smette di urlare, Bred schiude le palpebre e il suo sguardo incrocia due enormi occhi gialli, carichi d’odio e rancore. Trattiene il fiato e un brivido scorre lungo la spina dorsale mentre il cellulare ricomincia a vibrare. Bred scatta nervoso sul posto, le narici riprendono aria e nel giro di un secondo risponde alla chiamata. “Pronto?!” “Lascia perdere Bred, falso allarme, torna al tuo giro.” La linea cade, al contrario dei nervi del ragazzo che, questa volta, schizzano alle stelle.