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Per il giusto verso

In Per il giusto verso

Mario Scalesi, la voce mediterranea di un italiano di Tunisi.

di Noemi Narducci

Un ragazzo di razza incerta: sono queste le parole con cui Beatrice Monroy descrive Mario Scalesi, giovane poeta e critico letterario italo-tunisino cresciuto sulle sponde del Mediterraneo a cavallo tra la fine dell’Ottocento e i primi decenni del Novecento.

Nato a Tunisi nel 1892 da padre siciliano e madre italo-maltese, Mario Scalesi è oggi considerato tra i precursori della letteratura magrebina di espressione francese. Un poeta dalla grande ispirazione e consapevolezza che per i suoi temi attinge dalla propria esperienza diretta, concreta e quotidiana.

La sua breve vita è infatti segnata da un incidente domestico che gli provoca la rottura della colonna vertebrale, deformandolo irrimediabilmente, e dalla malattia che lo porterà alla morte a soli trent’anni nell’ospedale psichiatrico palermitano “La Vignicella”. Il suo corpo verrà poi gettato in una fossa comune rendendo sorprendentemente premonitorio uno dei suoi versi: «dormir parmi les dormeurs ignorés, quelque part, sous la terre».

Nonostante la drammaticità e la brevità della sua vita, Scalesi è una figura fondamentale nella storia della letteratura tunisina e maghrebina, una voce in grado di rappresentare il volto della comunità italiana in Tunisia all’inizio del Novecento.

Per comprendere il contesto socio-storico entro cui si colloca l’attività di Mario Scalesi è necessario ricordare che nel decennio 1871-1881 la necessità di manodopera per realizzare opere pubbliche e fortificazioni determinò l’afflusso in Tunisia di circa 10.000 siciliani, per lo più muratori e manovali. In questo contesto gli italiani, a differenza dei francesi, non costituirono l’élite coloniale, bensì la classe media dei lavoratori. Essi si distinguevano in virtù di un’identità culturale molto particolare: erano tunisini per nascita, italiani di origine e francofoni per cultura.

Mario Scalesi cresce dunque in un contesto sociale complesso e multiculturale, una realtà stratificata che condizionerà profondamente la sua identità emotiva e culturale.

Durante i suoi primi anni di attività letteraria, il poeta decide infatti di francesizzare il suo cognome sostituendo la vocale i con una e – Scalési. Una scelta singolare con cui il giovane poeta sottolinea la volontà di modificare la sua identità e di francesizzare la sua espressività.

Nella sua unica raccolta poetica, Les poèmes d’un maudit, pubblicata postuma nel 1923, il giovane poeta propone i dettagli più minuti della sua esistenza. I suoi scritti nascono dal desiderio di rivelare nettamente agli uomini ciò che sono e ciò che fanno, descrivendo la realtà nella sua totalità.

In Italia i versi di Mario Scalesi sono stati salvati dall’oblio grazie alla cura e alla traduzione di Salvatore Mugno, scrittore e saggista siciliano, profondo conoscitore dell’opera del poeta. Nell’ultima edizione di Les poèmes d’un maudit edita da Transeuropa (2020), Mugno oltre a offrirci la traduzione dei versi di Scalesi fa luce sulla biografia dell’autore e analizza meticolosamente i suoi scritti giornalistici e critici.

In questo contesto Mugno individua uno dei cardini più importanti del pensiero scalesiano ovvero l’esigenza di una progressiva emancipazione letteraria dei popoli del Mediterraneo meridionale. Scalesi, nei panni di cronista e critico letterario, teorizza la necessità di una letteratura tipicamente nordafricana di espressione francese:

L’esigenza di una letteratura nordafricana è non soltanto possibile, ma fatale […]  L’Africa del Nord è letterariamente inesauribile. Cento scrittori non basterebbero ad evocare il suo prestigioso passato o sfruttare i suoi aspetti pittoreschi. Ci restano molte cose da dire, quasi tutte.

Il poeta immagina un compito nobile e nuovo per gli scrittori nordafricani. Li sprona affinché creino un’attività letteraria autentica e paradigmatica in grado di contrapporsi a quella prodotta durante il periodo coloniale definita stereotipata e mistificata.

Tale approfondimento permette di comprendere come per Scalesi l’esercizio letterario sia un modo per esprimere l’impegno politico, civile e intellettuale. Un impegno che traspare con l’utilizzo della prosa e si concretizza con la poesia. Nei suoi versi il poeta racconta infatti l’ingiustizia sociale e storica dei suoi tempi, l’impossibilità e la falsità dell’amore, l’assurdità dell’esistenza umana nonché la miseria della propria condizione.

Come spesso accade però per gli autori rimasti fuori dai canoni, nonostante l’unicità e l’estrema intensità dei suoi scritti la poesia del giovane tunisino è stata per lungo tempo dimenticata e relegata al ruolo di poesia minore. Il primo approccio meditato all’opera di Scalesi si deve a Pierre Mille, scrittore e critico letterario francese, il quale nel 1934 dirà:

«Io mi convinco volentieri […] che Scalesi ha il diritto di essere incluso nel novero dei poeti ‘minori’ ma perciò essenziali che, maledetti o no, avevano qualcosa da dire, e l’hanno detta come nessuno aveva fatto prima di loro, con accenti che sono loro propri, che non si trovano presso altri»

Il maudit tunisino è dunque un poeta dalla grande vocazione che decide deliberatamente di ascriversi nella famiglia dei «maledetti» rifiutando la mondanità, la notorietà e il successo. Les poèmes d’un maudit sembrano quindi racchiudere due tratti sostanziali dell’esperienza scalesiana: da un lato la sua drammatica condizione umana, esistenziale e sociale e dall’altra il suo disinteresse per la fama terrena:

                Questo libro, incurante della gloria, / estraneo, ai giochini cerebrali, / non è stato ispirato da La Muse Noire / né da L’Abîme o da Les Fleurs du Mal. // Se esso trabocca nei funebri versi, / questi non gridano che la rivolta / che sale da una vita tenebrosa / e non da freddo spleen premeditato. //

Si tratta dunque di un libro che annuncia di non voler entrare nel gioco della valutazione e del valore ma solo essere testimonianza del pensiero dell’autore e della sua complessa condizione personale e sociale.

Leggere oggi, in occasione del centenario della morte di Scalesi, Les poèmes d’un maudit vuol dire dare spazio e dignità alla poetica di un giovane uomo che rintracciò nella letteratura e nell’attività poetica l’unica vera forma di espressione personale e sociale. Un giovane uomo dall’estrema sensibilità che con i suoi versi ha cercato di mostrare la dualità della sua esistenza e la molteplicità della realtà circostante:

[…] Dunque, delle più antiche verità, / lettore, si conferma la più certa: / nelle maledizioni dei tuoi simili si rispecchiano quelle del Destino. // Nell’abbandono e nella povertà, / vituperato come un appestato, / la mia vita ho infiorato di rovine, / di mistero ideale disperato. // E, raccattando queste tristi pietre / dal fondo di un inferno mai descritto, / le mie ametiste vi distribuisco / o fratelli che m’avete maledetto!

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Lettera n. 2. Qualcosa che resta sullo stomaco. Brevissime su Patrizia Cavalli

di Antonio R. Daniele

Di un romanzo si può parlare in contumacia; di un racconto anche. Non dei versi, specie quando i versi hanno tutta l’aria di essere poesia. E Patrizia Cavalli è stata spesso poesia, diciamo pure sempre: lo percepisci quando ti stana, quando ti tende l’agguato. I versi vanno letti, sempre. A voce alta. Se se ne parla, se se ne scrive, vanno mostrati: il lettore deve vedere di cosa parli. Il verso non è una storia da raccontare: è un punto di incontro che svigna come l’anguilla.


La mia prima volta con Cavalli fu con Adesso che il tempo è tutto mio e fu una specie di imprinting genomico, come nascere di nuovo dal ventre di una madre. E sentire, perciò, quanto forte e decisiva sia la condizione nella quale Cavalli mi faceva stare, la condizione di tanti uomini, l’ambizione a gestire le proprie cose, ad esserne padrone, a non rendere conto: “Adesso che il tempo sembra tutto mio / e nessuno mi chiama per il pranzo e per la cena”. È in quel contraccolpo che avverti il vuoto, la voracità di uno spazio come quello del Cielo, la raccolta che teneva dentro quei versi agli inizi degli anni Ottanta, quando in Italia scrivere versi pareva più facile, dopo una generazione che aveva scarnificato molto, provato vie assai scivolose e parecchio nascoste: Bellezza, Zeichen, Scalise, Conte, Frabotta, Lamarque. Fra questi c’era anche Cavalli, la quale però sembrava aggirarsi con un secchio d’acqua in mano per lanciarlo contro una parete di colori incrostati. Ecco: se dovessi scegliere un’immagine che dica la poesia di Cavalli sarebbe proprio questa: una secchiata d’acqua contro una crosta di colori a tempera sopra una parete: dilavare avvitamenti verbali, nettare protagonismi sperimentali. E tornare a una parola più nuda, semanticamente più leggera, colorata solo del viraggio dell’ironia, l’unico che la scrittura d’arte si possa davvero concedere.
Tutto questo mi parve di leggere in quei versi molti anni fa, negli anni in cui molto leggevo degli anni Settanta. E fu davvero come buttarsi in acqua e lavarsi. E risalirne cristallino:


                                 adesso
che ogni giorno mi aspetta

la sconfinata lunghezza di una notte

dove non c’è richiamo e non c’è più ragione

di spogliarsi in fretta per riposare dentro

l’accecante dolcezza di un corpo che mi aspetta,

adesso che il mattino non ha mai principio

e silenzioso mi lascia ai miei progetti

a tutte le cadenze della voce, adesso

vorrei improvvisamente la prigione.



Dunque, vivere è stare con gli altri. E stare con gli altri è una prigione. Se lo è, si tratta di una condizione non più eludibile, specie per gli uomini e le donne di questo tempo, un tempo che dura almeno da cinquant’anni, da quando abbiamo bisogno di una confessione in più, di un solipsismo più marcato. Ma tutto questo viaggia nel treno dondolante di questi versi, ti porta davanti al vero con l’insolenza di chi sa usare la parola, fresca e bianca come il corpo di chi vuole spogliarsi in fretta per la felicità – o forse solo la comodità – della notte, delle ore in comune con qualcuno.


Mi piace Cavalli perché gioca coi tuoi oggetti e pare parlarne come se ne parla dal bottegaio sotto casa o a una cena in piedi tra amici. Magari anche con quelle battute che poi capisci nelle ore notturne: un po’ ti fanno ridere, un po’ ti lasciano pensare. In tutti e due i casi ti svegli e ti resta qualcosa sullo stomaco:

Quante tentazioni attraverso

nel percorso tra la camera

e la cucina, tra la cucina

e il cesso



“Incremento della tensione analogica”, scrisse Maurizio Cucchi per i versi cavallini di questa fase. Io dico che è un problema di lettore, di tempo e di spazi. Propri, intimi: “Per riposarmi / mi pettino i capelli, / chi ha fatto ha fatto / e chi non ha fatto farà”. Non c’è bisogno d’essere donna per percepire il calco sulla vita di queste parole. Più che analogia. E questa è Cavalli primissima maniera.
Poi resta la propria biologia, non c’è dubbio. E il rischio, la voluttà, la volontà stessa di aderire ai suoni in un certo modo: “un guardar dalla finestra, / ciao alla vicina, / una carezza alla gattina”. La ridda delle cose, la materia adesiva, quel che sei, insomma. Senti bramare: c’è poco da fare.
In fondo Cavalli questo ci insegna: è proprio quando la denotazione si prende la scena che il lettore deve connotare la parola. Non è poi così difficile:



E’ tutto così semplice,

sì, era così semplice,

è tale l’evidenza

che quasi non ci credo.

A questo serve il corpo:

mi tocchi o non mi tocchi,

mi abbracci o mi allontani.

Il resto è per i pazzi.

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Lettera n. 1: Patrizia Cavalli

di Francesca Bellucci

La poesia di Patrizia Cavalli si muove nelle sue raccolte seguendo un tempo tutto suo. Tutto si muove sull’asse dell’interiorità, si insinua nelle crepe della vita e si calcifica. Patrizia Cavalli è stata una donna alla finestra, ma voltata di spalle. I suoi occhi si sono posati verso l’ombra della stanza della sua vita. Il velo della semplicità mostra, di là da quello, la complessità di un mondo umano e carnale, fatto di contatto tra il corpo e se stesso e tra questo e l’esterno, il modo in cui si muove nello spazio, come è in grado di frammentarsi sottopelle, pur sapendo di restare intatto.

Poco di me ricordo

Io che a me sempre ho pensato.

Mi scompaio come l’oggetto

Troppo a lungo guardato.

Ritornerò a dire la sua luminosa scomparsa.

(da Le mie poesie non cambieranno il mondo, 1974)

Le sue parole hanno dato voce a quel moto dell’animo inesprimibile, il silenzio del dolore, dell’immobilità di un amore consumato che si crogiola nella stasi dal passato, un moto che è fuggire e restare insieme.

Essere testimoni di se stessi

Sempre in propria compagnia

Mai lasciati soli in leggerezza

Doversi ascoltare sempre

In ogni avvenimento fisico chimico

Mentale, è questa la grande prova

L’esperienza, è questo il male.

(da Essere testimoni di se stessi, in Il cielo, 1981)

È questa la condanna della poesia: sapersi nel tempo, non riuscire a zittire il cambiamento o la fissità del cuore o, ancora, del corpo che vi si adegua in un ritmo a lui proprio.

Un altro è il mio progetto, la mia ambizione

È accogliere la lingua che mi è data

E, oltre il dolore muto, oltre il loquace

Suo significato, giocare alle parole

Immaginando, senza un’identità,

una visione

(da Datura, in Datura, 2013)

Due sono le “visioni” della Cavalli: il vedere e l’immaginare. E è l’una speculare all’altra. La prima immortala lo spazio che la circonda, è il foglio caduto o il bicchiere d’acqua di Adesso che il tempo è tutto mio, l’immobilità loquace che vivifica gli oggetti restituendoli alla dimensione sentimentale; la seconda sono le notti e i giorni caduti sul viso, la poetessa-geometra che conta e divide; ancor di più le ruote – allegria e tristezza – del carretto-vita di L’io singolare proprio mio. Il sentimento qui si proietta nell’immagine, ma è una proiezione che si muove nel corpo, tutto avviene dentro e le parole non sono che lo strabordare questa interiorità caotica che trova forma e ordine nell’immaginazione.

La Cavalli è una “poeta” complessa, che porta con sé il carattere novecentesco della poesia del reale, con quella spudoratezza di chi non teme la verità delle parole.

È lo specchio ridotto in frantumi, riassemblati e conservati nel cassetto della scrivania. Il tempo mobile dell’eternità umana, fatta di sentimenti instacabilmente irriducibili:

Muoiono i vivi e pure i morti muoiono,

morti che durano e morti che scompaiono

morti dimenticati per i nuovi morti

 –   Ho la faccia di chi deve morire?

Potrei risponderti: – Ognuno ha la faccia

di chi deve morire.

(da Pigre divinità e pigra sorte, 2006)