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L’estate breve di Macioci

di Camilla Zonno

«La vita è questa tenebra rischiarata dai lampi di un altrove perduto, e ogni ragazzino steso a pancia in su nel grembo di una sera estiva lo sa con la dolce e bruciante certezza delle viscere». L’estate breve è un dialogo tra ‘tenebra’ e ‘altrove perduto’, tra maturità e giovinezza, tra l’età della consapevolezza, dei bilanci, delle valutazioni e la fase degli slanci, delle insicurezze, delle scoperte. In mezzo c’è la felicità, autentica da adolescenti, viziata da adulti: «Da giovani la felicità ci sembra una faccenda di rare ma giuste combinazioni, mentre da adulti niente più della felicità ci dà l’impressione di precipitare verso qualcosa di brutto».

Come dichiara lo stesso Enrico Macioci nella prefazione, si tratta di un libro “sia vecchio, sia nuovo”. Vecchio perché pubblicato nel 2015 per Mondadori col titolo Breve storia del talento, per poi essere ripubblicato con una seconda parte riscritta ad una distanza cronologica ed interiore di 10 anni. La struttura del lungo racconto (o, se si preferisce, romanzo breve) rispecchia le due dimensioni esistenziali che si riflettono l’una nell’altra con continui rimandi reciproci. Nella prima parte l’autore ripercorre esperienze adolescenziali, sentimenti e mutamenti vissuti nel condominio Prato Verde, un palazzo di cinque piani con annessi giardini, vialetti e un campetto da calcio, abitato da coppie giovani con bambini. Un micromondo, una palestra in cui crescere e allenare corpo e anima nella transizione verso l’età adulta, un crogiolo di ruoli che si definiscono in base al talento calcistico e alle prime cotte adolescenziali. Nella seconda parte il protagonista, ormai maturo e scrittore affermato, torna in quel condominio lasciato all’età di diciassette anni a causa di un trasferimento del padre. Torna per ritrovare sé stesso, o meglio, per accettare sé stesso, quando la sua relazione con Carla è giunta ormai a un bivio.

Dell’adolescenza viene aperta ogni piega, viene esplorato ogni angolo di «quel buco che ti inghiotte per restituirti diverso»: le passioni (per il calcio, innanzitutto, e per la poesia) e le umiliazioni («una delle principali vie di accesso all’età adulta»), il talento e le delusioni, la vita e la morte, in una sfocata zona esistenziale in cui si definiscono gradualmente i confini tra amicizia e amore e la progressiva trasformazione dei corpi conduce all’esplorazione della sessualità.

Un universo di situazioni, episodi e personaggi insieme ai quali vive, gioisce, soffre e cresce. Tra tutti spicca “il grande Michele”, ragazzo adottato, dotato di uno straordinario talento nel calcio e che, proprio per questo, porta il protagonista a riconoscere il proprio limite, a sperimentare la delusione (fino a prima del suo arrivo, era stato lui l’indiscusso campione delle partite del condominio), ma anche a scoprire la vera amicizia. E poi c’è Miriam, bambina seducente e donna precoce, ignorata, poi desiderata quando la distanza è ormai incolmabile e la delusione delle scelte brucia in profondità. Giampaolo, poco incisivo nella prima parte, è una sorta di alter ego che gli indica il suo vero talento, quello da lui celato e accantonato a favore del calcio: la scrittura. E proprio Giampaolo sarà presente anche nella seconda parte, quella della maturità e dei bilanci, ultimo baluardo di un’adolescenza dissolta, trait d’union tra l’ora e l’allora. Sono tanti i personaggi, protagonisti di singoli episodi o semplici comparse, ognuno con un proprio ruolo ritagliato all’interno di un microcosmo giovanile di cui a volte l’autore sembra essere solo spettatore: la scoperta dell’amore, la nascita di tenere coppiette, episodi di bullismo e violenza fino all’omicidio, la dissoluzione della fede in Dio.

Come per Odisseo, il ritorno implica il recupero della propria identità, il confronto con un passato avvolto nel mito e di cui restano poche tracce dai contorni ridimensionati. Chi siamo? Per comprenderlo è necessario riesumare l’estate della nostra esistenza, rintracciare quello che eravamo e come abbiamo vissuto la libertà («la sensazione che il tempo fosse abbastanza per ogni faccenda»), la scoperta dell’amore, della sessualità, della morte e del dolore, del dubbio e della risolutezza. Di qui la straordinaria operazione di ricostruzione intima e allo stesso tempo dettagliata, di un passato sfocato attraverso l’uso magistrale della parola. Macioci ha uno stile denso ed evocativo capace di ridare piena vita a sensazioni e personaggi della sua adolescenza, con la consapevolezza di ‘un talento’ che, pur mettendolo a disagio, gli è stato riconosciuto fin dall’infanzia, come lui stesso racconta all’interno del romanzo. La sua bravura descrittiva si condensa in un paio di pagine che esordiscono con l’esplicitazione del suo intento: «ora voglio usare le parole per metterci dentro i ricordi e conservarli il più a lungo possibile; voglio ricordarmi l’odore dell’erba appena tagliata, specie nel tardo pomeriggio, quando veniva raccolta in mucchi, ciascun mucchio a un angolo dell’aiuola con le nuvole dei moscerini a danzarci sopra»; e altrove «Sul muro del balcone della mia cameretta, durante le ore calde, venivano a posarsi le coccinelle. Il muro, a toccarlo, sembrava pane appena sfornato».

Diventare adulti significa fare i conti con ciò che sognavamo di essere e quello che siamo diventati, significa valutare i talenti che ci sono stati assegnati e ciò che ne abbiamo fatto, le occasioni che ci sono state offerte e quelle che abbiamo colto. Crescere significa anche morire, perché «si può morire un sacco di volte: tante quante si osa vivere». Questo romanzo è dunque una breve storia del talento e di chi ce l’ha fatta. La vita riserva sorprese e può trasformare i sogni o addirittura le certezze dell’adolescenza in fallimenti, così come offrire possibilità di successo inaspettate.

Enrico Macioci, L’estate breve, Alberobello, Terrarossa, 2024, pp. 125, € 15.00

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Le emozioni si azzuffano (rec. a Katia Ricci, “In penombra”, Les Flâneurs Edizioni, 2025)

di Anna Potito

Una sedia a dondolo, un pesante tendaggio che scherma la luce del giorno, una sagoma indistinta nella sedia di fronte, voci che bisbigliano: un uomo e una donna, il terapeuta e la sua paziente. Una conversazione che nasce guardinga, sospettosa, poi, pian piano la timidezza si stempera. Riaffiorano emozioni sopite, imbarazzo, malinconia, rabbia, tristezza. Difficile rivivere le proprie paure, le scelte non fatte, i sogni non realizzati, i desideri inespressi, gli istinti repressi. Tutto questo, nella cadenza degli incontri, ogni volta diventa più facile, scioglie la diffidenza, diventa piacere di essere ascoltata e compresa, apre alla gratitudine e allenta il timore del giudizio, squarcia spiragli inattesi. In penombra, nuovo romanzo di Katia Ricci, edito da Les Flâneurs, racconta una donna adulta, che ha vissuto una vita piena, che è madre di figlia e nipoti, che è studiosa e scrittrice di successo, che ha attraversato l’esperienza del femminismo, della conquista della libertà, che con altre donne ha condiviso passioni civili e che appare sempre sicura di sé, può abbandonarsi, nell’età in cui credeva di aver vissuto tutto, amore, maternità, disillusioni e successi, di nuovo a sensazioni e sentimenti che credeva dimenticati? «Mi sei venuto vicino e ho sentito una fitta di dolore, antico e nuovo, passato e presente». Cosa la turba? Quale dolore l’attraversa? Da quale oscura profondità affiora e viene respinto, questo dolore che l’accompagna, sotterraneo e malefico? Un dolore che talvolta l’amore riesce, temporaneamente, a placare ma non l’abbandona. Nemmeno le amiche, le compagne con cui condivide la ricerca di sé e di lettura del mondo, quelle con cui ha attraversato momenti di crescita e di lotta, riescono ad appagare questo dolore, forse un vuoto, una mancanza. Anzi, forse, di queste stesse donne, a volte, teme il giudizio. È per questo che ha scelto un terapeuta maschio? «Le emozioni si azzuffano e fanno a gara per primeggiare l’una sull’altra. Una gamma che va dal dispiacere al rammarico, dal piacere alla vergogna, dal timore all’amarezza. Il tutto impastato dal ricordo del desiderio che si era riacceso e mi dava vitalità». Ecco, il desiderio irrompe inatteso, imprevisto ma non sconvolge nonostante l’irregolarità della situazione. Il patto terapeuta-paziente si è rotto ma ha dato vita ad un amore nuovo, in cui l’attrazione fisica si accompagna alla dolcezza, all’attenzione, in una intimità di corpi e di parole che ha vinto paure e diffidenze e ha dato voce” ad un linguaggio più aderente ai pensieri, alle emozioni, alla realtà dei sentimenti”. La malattia irrompe improvvisa, dirada gli incontri, dà più forza alla voce che, nella telefonata o nel messaggio, fa risuonare tutta la fisicità e l’intensità del sentire. Poi i messaggi diventano sempre più brevi, sempre più teneri, sempre più flebili. D’un tratto il vuoto, l’assenza. La scrittura sembra restituire quei sentimenti, quei turbamenti, quelle emozioni che vanno avanti e indietro, come la risacca, l’onda che va avanti, poi torna indietro, si scontra con l’onda successiva poi ritorna in avanti e ti trascina con sé, un’onda a cui ci si affida, in cui la lettrice e, spero, il lettore, può riconoscere le proprie ansie, i propri timori, i propri desideri, le contraddizioni della propria vita. Una confessione? Un sogno? Un’invenzione? Forse.

Ma lasciarsi cullare dal dondolio della sedia e dalle voci che riempiono l’aria può essere un balsamo e aiuta a far rivivere quell’essere fragile che abbiamo accuratamente nascosto dentro di noi, come quella «bambina piccola, fragile, e desiderosa di tenerezza, che chiedeva di essere vista e possibilmente amata».

Testo citato:

Katia Ricci, In penombra, Bari, Les Flâneurs Edizioni, 2025 (pp. 116, € 13,00)

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“Dostoevskij” – Miniserie, 6 episodi, di Fabio e Damiano D’Innocenzo, 2024 – Sky

di Umberto Mentana

Quanto è difficile rincorrere un fantasma, soprattutto se poi si fa chiamare “Dostoevskij” e sulle sue vittime martoriate dai segni e dai colpi lascia solo parole, lunghe lettere autoriflessive sul making of dell’omicidio appena compiuto? La miniserie dei fratelli D’Innocenzo (La Terra dell’Abbastanza, Favolacce, America Latina) si apre infatti con altrettante parole impresse sulla carta, frasi disperate e di sofferenza, quelle di Enzo Vitello (Filippo Timi), capo della polizia depresso e affogato dai suoi “demoni”.

Vitello è a capo dell’indagine impossibile, i suoi metodi non sono ortodossi, anzi, e pare non preoccuparsi più di tanto di arrivare a capo e alla soluzione perché in Dostoevskij siamo immersi fino al collo di una fitta coltre di grigio: tutt’intorno è paranoico, claustrofobico e i D’Innocenzo ce lo fanno capire bene con il loro stile visivo, particolareggiato e denotato dalla scelta di immagini che restituiscono una grana di transitorietà, di ineffabile cattura: respiriamo su più canali lo sporco di quel mondo ritratto, dalle soggettive che si concentrano ad analizzare per un istante solo singoli oggetti e dettagli sfuggenti, a continue riprese con la macchina a mano ed un uso fotografico che sembra uscire — appositamente contestualizzato — dalle immagini di filmati casalinghi di un’era pre-smartphone (non è un caso l’utilizzo della pellicola 16 mm), perché siamo distanti, molto distanti dalla perfezione dei filtri social e dalle ottiche HD: non abbiamo e non esiste tutta quella luce quando la giustizia non solo brancola nel buio ma è parte di quella asfissiante oscurità. Forse il risultato di quell’immondo deserto a cui noi assistiamo per tutti i sei episodi della miniserie è innanzitutto la conseguenza del trauma che Vitello cerca di combattere nel suo presente, ossia l’ambiguo e travagliato rapporto con sua figlia Ambra (Carlotta Gamba), tossica apparentemente insalvabile che cerca di riprendersi con rabbia un tempo perduto che non ha mai vissuto in maniera spensierata, quello della sua infanzia, e una relazione sana con la sua famiglia: ricordiamo per tutte la sequenza del parco giochi nell’episodio due della serie, carica di un disagio e di una tristezza davvero pesante, a cui segue negli episodi successivi la confessione di Vitello, che disturba e disorienta nel profondo.

            Con questa miniserie, un vero e proprio film lungo circa duecentosettanta minuti siamo più dalle parti di un Zodiac di Fincher (2007) in salsa nostrana, dove l’orrore risiede in un passato che ha smarrito le sue tracce e a cui è impossibile risalire; bisogna scavare a fondo, considerare e riconsiderare piste ed indizi improbabili, oltre ad una buona dose di inventiva e caparbietà ed infine pensare come il mostro; e non è detto che questo poi non divenga parte del tuo mondo. Dostoevskij forse è la storia di una Genesi malata, che nasce dagli odori della melma e dalle cuciture della carne di cui è pregna la solitudine di certe vite.

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Recensione a “La frattura spontanea della simmetria”

di Matteo Caputo

C’è sempre un momento nella vita di ogni uomo in cui si è costretti a fare i conti con la propria mediocrità. Non una mediocrità assoluta, s’intende, perché nulla in un uomo, nemmeno il peggiore dei difetti, è assoluto. Ma semplicemente il senso inaccettato del limite. E questa sensazione non risparmia nemmeno Ulrich Borromini, protagonista di La frattura spontanea della simmetria.

Classe 1957, diplomato al conservatorio e laureato in filosofia, Borromini è un uomo di mezza età, sposato, depresso e, soprattutto, morto. Il che non sarebbe un problema, se non fosse per il fatto che è lui stesso a raccontarci la propria vita: ma la letteratura dà possibilità che la realtà non è in grado di offrire e giustamente Papagni ne approfitta per darci un esempio di ‘narrazione postuma’ (rubiamo l’etichetta a Riccardo Castellana), inserendosi in una lunga tradizione di autori che hanno dato voce a gente che non avrebbe più potuto averla.

Non a caso la prima parte si intitola Dopo che me ne fui andato. Siamo alla fine di aprile 2019 e il protagonista racconta di come lo abbiano raggiunto le tenebre abbaglianti della morte. Risaliamo lungo il suo albero genealogico, il nonno da parte di madre austriaco e nazista, la famiglia borghese, la moglie comunista, l’inutile scavo psicanalitico – almeno fino alla scoperta di Lacan. Scrittore di successo, dopo la pubblicazione dell’ennesimo libro gli si dischiude, grazie ad un invito come docente all’Università, il Giappone, che lo affascina e gli consegna un mondo alternativo al quale potersi aggrappare, un mondo che ritorna più volte a contrappeso delle manifestazioni dell’Occidente.

Con un vorticoso salto indietro nel tempo torniamo al 1986 – quando inizia la seconda parte, quella che più abbiamo apprezzato. Disarcionato dal cavallo delle illusioni della lotta politica degli anni ’70 e sordo al consiglio senecano che invita a cambiare sé stessi piuttosto che il cielo sotto al quale si vive, Borromini ci mostra come la propria depressione possieda radici lontane, dal fallimento politico e personale, all’inquietudine di una ricerca senza fine di sé e di un posto che questo Io possa accogliere, al difficile rapporto con le donne.

Sballottato tra il cinismo e l’elegia, per riprendere, come fa anche l’autore, Cioran, Ulrich guarda e costruisce (o distrugge?) la propria vita attraverso la filosofia, finendo per raccontarci «la vicenda di un erramento, di un autoinganno della coscienza, dell’essere dimenticato». E dunque forse faremmo bene a dar ragione al padre di Addie, la celebre narratrice postuma di Mentre morivo, secondo il quale «la ragione per cui si vive è per prepararsi a restare morti».

Quasi un romanzo del contemptus mundi, si tratta di un libro che, al netto di alcuni refusi e a dispetto del contenuto denso e della straordinaria ricchezza di citazioni e riferimenti, si fa leggere senza problemi, frutto di un Papagni alla ricerca del proprio stile narrativo e indagatore della crisi dell’uomo occidentale contemporaneo.

Antonio Papagni

La frattura spontanea della simmetria

CAPIRE Edizioni 2023

17,50 €

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“La notte della svastica” di Katharine Burdekin: cosa saremmo senza Memoria e senza Storia? Un libro proibito per scoprirlo

di Carmen Rampino

Murray Constantine, Katharine Burdekin, Daphne Patai: tre nomi, uno maschile e due femminili, legati da una storia incredibilmente affascinante che ha abbracciato diverse generazioni e che potrebbe non essere ancora finita.

È il 1937 quando l’editore socialista britannico Victor Gollancz pubblica il romanzo Swastika Night. Una copertina gialla su cui si staglia il nome dell’autore: Murray Constatine – il primo dei nomi citati -. Incontra un certo successo presso il pubblico, ma poi scoppia la guerra, gli eventi precipitano e di questo libro non se ne parlerà più, almeno così sembra.

Passano degli anni, precisamente 48. È il 1985, una accademica americana di nome Daphne Patai (terzo nome citato) cura una riedizione di quel libro per Feminist Press e svela al mondo che quel Murray Constantine non è altro che uno pseudonimo dietro il quale non si cela un uomo, bensì una scrittrice inglese poco conosciuta: Katharine Burdekin. Proprio a lei si deve il romanzo di fantascienza distopica, che in Italia fu tradotto per la prima volta nel 1993 per Editori Riuniti e curato da Carlo Pagetti, dal titolo La notte della svastica, «precursore non riconosciuto di tutte le successive distopie» (Gallo 2020, p. 316).

Due anni prima della Seconda Guerra Mondiale e ben dodici anni prima di 1984 di George Orwell, Burdekin ha immaginato un mondo in cui il nazismo ha trionfato e il pianeta è diviso in due tra l’impero tedesco e l’impero giapponese. Già solo l’idea di immaginare una situazione del genere addirittura prima dello scoppio della Seconda guerra mondiale e dell’alleanza tra Germania e Giappone (al 1940 risale il patto tripartito firmato a Berlino tra Germania, Giappone e Italia), mostra una lucidità e una lungimiranza uniche. Se Orwell in quei dodici anni intercorsi tra la sua pubblicazione e quella de La notte della svastica ha potuto vedere chiaramente gli orrori del nazismo, Burdekin «legge nel futuro come Cassandra l’oscura profezia di un universo in dissoluzione sotto il peso di una ideologia folle e disperata» (Pagetti 1993, p. XI). Eppure proprio Orwell, così attento nei confronti dei suoi predecessori, non menziona mai Burdekin, pur essendo 1984, come confermato da Gallo, un tributo non dichiarato a La notte della svastica di cui uno dei più espliciti legami è proprio l’analisi del rapporto intimo tra sesso e dittatura (cfr. Gallo 2020, p. 319).

Settecento anni dopo il nazismo, nella parte del mondo sottomessa alla Germania, si coltiva il culto per una strana religione che ha deificato Hitler e in cui non c’è più memoria. Si è ritornati ad un feudalesimo senza scampo in cui si crede nell’orgoglio, nel coraggio, nella violenza, nella brutalità, negli spargimenti di sangue, nella spietatezza, nelle virtù marziali ed eroiche (cfr. Burdekin 2020, p. 11). Al centro vi è una realtà brutale in cui non c’è più scrittura e non c’è più memoria e in cui le prime vittime sono le donne. Non esistono sentimenti, affetto o eros. Le donne sono bestie senza dignità, non considerate proprio esseri umani ma macchine per produrre soldati. La natura, però, silenziosamente si ribella non facendole praticamente più partorire femmine, ma solo maschi – «e se le donne avessero cessato di riprodurre se stesse, come poteva continuare ad esistere il Regno di Hitler?» (Burdekin 2020, p. 19) -.

In questa realtà si prova ribrezzo, repulsione, schifo per le donne, abbruttite, rasate, non istruite. Per un uomo è preferibile amare un altro uomo piuttosto che avere rapporti con le donne, che vengono stuprate unicamente per procreare. Una volta nati, i figli vengono strappati via dalle madri perché non considerate idonee all’occuparsi della crescita, dell’allevamento e dell’educazione degli uomini. Solo le bambine vengono lasciate alle madri per ripetere in eterno questo ciclo bestiale. Le donne non si possono amare, non hanno anima e quindi non sono proprio umane. Il mettere in discussione l’umanità delle donne potrebbe apparire un’esagerazione fantastica eppure basti pensare che nell’anonima Disputatio nova contra mulieres (Un nuovo argomento contro le donne) del 1595 si legge un argomento molto simile: «La paroletta homo deriva da humo, dalla terra, e perciò la donna [in quanto nata dalla costola di Adamo, n.d.r.] non può né essere né venire chiamata umana». La fantascienza distopica, dunque, non parte mai dalla fantasia, ma sempre e comunque dalla realtà, anzi la fantascienza è quanto più può farci avvicinare alla realtà. In questa modalità l’autrice rileva soprattutto il legame tra dittatura e sessualità come base del regime nazionalsocialista e il suo esoterismo strutturale. «Nessuno prima di Burdekin ne aveva colto l’intima relazione tra violenza e sessualità, l’insito disprezzo verso le donne che risiede alla base della funzione tecnica di “madre fertile”, la valenza sociale della violenza e il ruolo delle caste quali elementi costituenti dello Stato, la componente religiosa e irrazionale del fanatismo politico e l’uso della dimensione collettiva per indebolire le diversità individuali e favorire il controllo e l’omologazione» (Gallo 2020, p. 319).

E i libri che fine hanno fatto? Solo dei vuoti manuali tecnici e il Libro di Hitler sono sopravvissuti. Altre parole scritte non esistono. I cavalieri e i tecnici sono gli unici a poter accedere alla scrittura. Non si dimentichi che uno degli episodi più emblematici legati al nazismo è proprio il rogo dei libri del 10 maggio 1933. Burdekin aveva insomma ben chiaro che un sistema in cui la cultura è azzerata, dovuta alla totale eliminazione del libro, porta ad una dittatura infinita. Eppure, proprio in questo mondo privato di ogni umanità, brutale, alienato e folle, una piccola fiammella si accende: qualcuno è riuscito a salvare qualche brandello di memoria, ultimo riparo contro l’annichilimento totale dell’umano. Un giovane inglese di nome Alfred, un unico eccezionale libro salvato, una fotografia – la cui ragazza rappresentata rimanda ad un tempo in cui la bellezza della donna derivava proprio «dal sapere di disporre della possibilità di scegliere  e rifiutare; e in parte dal sapere di poter essere  amata» (Burdekin 2020, p. 114) -, un cavaliere un po’ eretico e un giovane tedesco che dovrà fare i conti con tante scomode e dolorose verità, ci porteranno a scoprire come certe convinzioni ritenute assolute su ciò che ci circonda possano crollare e su come una speranza, anche se piccola, possa accendersi. Che non sia proprio il nome della piccola bambina appena nata, Edith, il segno di un futuro cambio di passo che alla fine del libro il lettore può solo immaginare e intravedere?

Ma chi è Katherine Burdekin? Perché ha pubblicato il libro sotto pseudonimo? E perché ha proprio scelto la distopia? Katharine Burdekin, in realtà Katharine Penelope Cade, nacque nel 1896 da una famiglia benestante. Nonostante fosse una studiosa e appassionata di lettura, la sua famiglia non le permise di iscriversi ad Oxford, a differenza dei fratelli maschi. Si sposò e con il marito partì per l’Australia. Ebbe due figlie ma, impossibilitata a vivere quella vita che per lei era una prigione, lasciò il marito, tornando in Inghilterra con le figlie e unendosi finalmente alla donna di cui era innamorata e con la quale vivrà fino al 1963, anno della sua morte. Scrisse numerosi romanzi, ma non tutti vennero pubblicati durante la sua vita. Segnata dalla tragica esperienza della Prima Guerra Mondiale (il fratello andò in contro a gravi problemi psichici dopo aver combattuto) il pacifismo rappresenterà sempre un faro nella sua vita, così come la volontà di superare il più possibile quelle storture legate al genere che esistevano anche in una famiglia benestante come la sua.

Pubblicherà La notte della svastica con un editore marcatamente connotato a livello politico, ma sceglierà lo pseudonimo visto il clima pesante che anche in Inghilterra gli antifascisti dovevano subire in quel periodo. La scelta della distopia si spiega perché si tratta del genere letterario che maggiormente fornisce gli strumenti per percorrere la strada verso la libertà. Attraverso la fantasia l’autrice riesce ancor di più a fare denuncia, molto più di quanto avrebbe potuto comportare una scelta realista. Può sembrare assurdo e paradossale, ma un’opera di questo tipo, così cupa, buia, per certi versi terribile, serve proprio per alimentare la speranza, serve per il futuro, serve per continuare a tutelare, ad avere cura e a proteggere tutte quelle risorse che tante volte mettiamo in discussione. La distopia è utile proprio a questo scopo. Ci scuote, fa traballare le nostre certezze e ci fa amare ancor di più ciò che diamo spesso per scontato. In questo modo l’autrice ci conduce per mano e ci fa va vedere cosa saremmo se non avessimo più memoria, scrittura, scienza, poesia, arte, ricordandoci quanto siano importanti e quanto continui ad essere necessario aggrapparci ad essi.

A partire dal 2021 negli Stati Uniti sono cresciute enormemente le richieste di gruppi organizzati per censurare libri ritenuti osceni e immorali per i giovani. Queste richieste portano in molti casi all’esclusione dalle biblioteche e dalle aule scolastiche libri che hanno come temi la lotta al razzismo, le disuguaglianze, le malattie mentali, il bullismo, la sessualità, le minoranze etniche e sessuali. Tra i libri più osteggiati c’è anche The Handmaid’s Tale di Margaret Atwood, chiara epigona di Katherine Burdekin. Per situazioni come queste, frutto del nostro distorto presente e non della fantasia, dobbiamo tornare a leggere la fantascienza di queste autrici. Per farlo, però, bisogna innanzitutto tradurle. Non si dimentichi che di Katherine Burdekin in italiano è tradotto solo La notte della svastica. Ciò nonostante un libro come questo, pur non avendo uno stile così accattivante e pur non avendo una trama così ricca di azione visti i continui dialoghi, può considerarsi una lettura indispensabile e assolutamente consigliata.

«Ci sono due cose che le donne non hanno mai posseduto e gli uomini invece sì. Una è l’invulnerabilità sessuale e l’altra è un senso di orgoglio rispetto al proprio sesso, che è diritto di nascita anche per il maschietto di umilissimi natali. E tuttavia, finché le donne non disporranno di queste cose, che hanno perso nel momento in cui commisero il crimine di accettare l’idea tutta maschile dell’inferiorità della femmina, non potranno mai più rinfocolare la scintilla della propria identità e vitalità. Ma quella scintilla noi sappiamo che è ancora lì, altrimenti non sarebbero infelici» (Burdekin 2020, p. 172). Queste parole testimoniano l’attualità di un libro del genere, che ci porta a riflettere su noi stessi, sul presente rapporto tra condizione femminile e capitalismo e sulle nostre società contemporanee. Allora facciamola circolare questa letteratura che brucia, disubbidisce e disorienta, anzi diffondiamo soprattutto questa. Quale sarebbe altrimenti il senso di un libro? Scegliamo i libri eterodossi ed eretici. Burdekin ha scritto un libro radicale e atroce, con il precipuo scopo di spaventare, per questo di non facile lettura. Tuttavia leggere una descrizione del genere, così cruda, deprimente e talvolta ripugnante, può essere angosciante, ma tremendamente urgente. In questo senso La notte della svastica si rivela un romanzo più attuale che mai, un brandello di speranza cui aggrapparsi in un periodo di messa in discussione di poesia, dolcezza, umanità.

E sì, come si diceva all’inizio, questa storia così affascinante non è ancora conclusa, perché la storia di Katharine Burdekin e di tutte le autrici dimenticate è solo all’inizio e non certo si esaurisce con l’attribuzione di paternità, anzi maternità, di un’opera.

TESI CITATI.

Katharine Burdekin, 1993 (1° ed. 1937), La notte della svastica, Roma, Editori Riuniti.

Katharine Burdekin, 2020 (1° ed. 1937), La notte della svastica, Palermo, Sellerio Editore.

Domenico Gallo, 2020, Nota, in Katharine Burdekin, 2020 (1° ed. 1937), La notte della svastica, Palermo, Sellerio Editore.

Carlo Pagetti, 1993, Prefazione, in Katharine Burdekin, 1993 (1° ed. 1937), La notte della svastica, Roma, Editori Riuniti.

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L’ultimo Gabo. Recensione a “Ci vediamo in Agosto” – G. Garcia Marquez

di Matteo Caputo

Molti anni dopo la sua morte, di fronte al plotone di esecuzione dei critici militanti, lo scrittore Gabriel Garcia Marquez si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio del 1999 in cui aveva letto, lasciando a bocca aperta il pubblico della Casa de America di Madrid, il primo racconto di un libro che stava scrivendo…

Sono passati due lustri da quando “Gabo” ci ha lasciati un po’ più soli. E quest’anno, nel giorno del suo compleanno – il 6 marzo –, esce per Mondadori “Ci vediamo in agosto”, il suo ultimo romanzo, con la traduzione d’autore di uno che, con lo spagnolo, ha un lungo e curioso passato, raccontato in un articolo di qualche tempo fa su Le parole e le cose: Bruno Arpaia.

Sull’interessante avventura del testo e sulla sua ricostruzione – a volte le storie hanno una propria storia che è altrettanto affascinante – vi rimando alla nota finale del curatore, Cristobal Pera, allegata in traduzione alla fine del volume, assieme ad alcune stupende riproduzioni dei fogli che l’autore stesso correggeva o faceva correggere da Monica Alonso, la sua segretaria.

Il breve romanzo narra la storia di Ana Magdalena Bach, madre e moglie cinquantenne che vive un matrimonio tutto sommato felice con Domenico Amaris, direttore del Conservatorio Provinciale. La protagonista, assecondando la richiesta della madre morente di voler essere seppellita in un’isola caraibica, torna ogni 16 agosto a visitarne la tomba, ripetendo ossessivamente lo stesso rituale. Sullo sfondo di un mondo che cambia e si adatta sempre più alla modernità, Ana Magdalena si concede una sola notte di passione con uomini ogni volta diversi, per tornare infine dal marito – che ama e che a propria volta la ama, si legge nel romanzo. A differenza dei primi anni, quando gli incontri avvengono in maniera totalmente accidentale, ad un certo punto la casualità nel concedersi ad un uomo in quel preciso giorno di metà agosto finisce per tramutarsi in necessità, mostrando così quanto si affidi ad un ordine più il caso che le direttive della volontà. La frustrazione che la difficoltà nel reiterare questi incontri con il fascino delle prime volte causa alla protagonista finisce per perforare lo strato di un amore privo di sofferenze. Sarà a questo punto che, nel finale, la donna, che porta con sé lo stesso nome della seconda moglie di Bach, prende una decisione inaspettata e carica di risvolti, soprattutto emotivi.

In questo racconto fanno capolino tutti i temi che percorrono senza tregua l’opera di Garcia Marquez, a partire dalla solitudine: una solitudine che è, ancora una volta, incomunicabilità. Col marito, con la figlia che vuole monacarsi, con il primo uomo che, scambiandola per una prostituta, le lascia venti dollari tra le pagine di Dracula. E dunque, come già accaduto ad alcuni personaggi femminili precedenti dello stesso autore, c’è una volontà attiva, consapevole, quasi di una sensibilità contemporanea diremmo, di aggredire l’ineludibile disegno del destino, che l’aveva prima di tutto indotta a piangere di rabbia contro sé stessa per la disgrazia di essere donna in un mondo di uomini.

In ciò è la forza e la novità di un libro su cui pesa l’assenza di un imprimatur da parte del suo autore: una protagonista come solo centro della storia. Una donna che consapevolmente decide di tradire per nient’altro che un briciolo di vita più intensa del normale. Non ha alibi e non ne cerca: ogni 16 agosto è una diversa corda pizzicata sul proprio cuore per ascoltare il suono che ne viene fuori. Del resto, tutto il romanzo, percorso da incessanti richiami alla musica, è una partitura composta da tante variazioni sul tema. A caratterizzare il ritorno del quasi uguale, infatti, troviamo i numerosi elementi che fanno da contrappunto alla ciclicità della situazione: dall’uomo con cui la protagonista si ritrova a letto, al libro che in quel preciso giorno sta leggendo, per finire ai tanti richiami al mondo della musica.

Tuttavia, non a caso abbiamo parlato di ciclicità: è un termine – o, per meglio dire, un’idea – con il quale il lettore di Gabo ha parecchia familiarità. Il tempo, molto spesso, anche in una storia piuttosto lineare e priva di notevoli salti temporali nel futuro o nel passato come questa di cui stiamo parlando, non è lineare. Non c’è un termine verso cui il cronometro del mondo viaggia, non un termine realmente ultimo, né divino, né tantomeno personale, dato che la morte, come abbiamo visto, non è un impedimento al continuare ad agire in vita. Lo dice e lo pensa bene Ursula, la protagonista più grande di Cent’anni di solitudine:

“Cosa volete farci,” mormorò [José Arcadio Segundo], “il tempo passa.”

“È vero,” disse Ursula, “ma non così tanto.”

Appena Ursula l’ebbe detto, si rese conto di aver dato la stessa risposta che aveva ricevuto dal colonnello Aureliano Buendìa nella sua cella di condannato, e ancora una volta rabbrividì constatando che il tempo non passava, come lei aveva appena ammesso, ma girava in tondo.

Una presa di consapevolezza simile è quella di Ana Magdalena che, a un certo punto, illuminando con la mente i lati più oscuri della vita della madre, si rende conto che “non si sentì triste, ma animata dalla rivelazione che il miracolo della sua vita fosse aver continuato quella di sua madre morta.”

Ma il destino piega pure la volontà più granitica: ad Ana Magdalena, sempre più incapace di onorare con costanza e decenza il suo personale 16 di agosto, non resta che una soluzione, quella di portare con sé le ossa della madre per una nuova sepoltura, per spezzare la propria maledizione e polverizzare la propria immagine riflessa:

Allora Ana Magdalena vide sé stessa nella cassa aperta come in uno specchio a figura intera, con il sorriso gelato e le braccia incrociate sul petto. […] Non soltanto la vide com’era stata in vita, con la sua tristezza inconsolabile, ma si sentì vista da lei dalla morte, amata e pianta da lei.

Nelle crescenti recensioni si legge, con una certa sensazione di entusiasmo smorzato e di aspettative deluse, che questo non è certo il miglior romanzo di Gabo. Ma la domanda che qui sorge spontanea è: perché avrebbe dovuto esserlo? Perché un autore – soprattutto un Nobel – è costretto ogni volta, pure dal regno dei morti, a scrivere un capolavoro? È una cosa che cozza con la logica. E cozza anche con la volontà (tradita) dell’autore di non pubblicarlo, con la sua effettiva incapacità di rivederlo tenendo a mente il quadro completo, con la sua distanza – tutta da dimostrare per la verità – dalle sue opere più note. Del resto, c’era da aspettarselo: come dice lo stesso Arpaia, nella sua Introduzione al secondo volume di Opere narrative dei Meridiani, “bel problema, aver scritto appena quarantenne nientedimeno che Cent’anni di solitudine”. Che non sarebbe stata la sua opera migliore, in fondo, ce ne eravamo resi conto dal suo carattere di “scarto”. Ma ciò non toglie che stiamo parlando di uno scarto che vale la pena leggere col gusto con cui, dell’autore di Aracataca, si legge tutto il resto. Un ultimo incontro con un caro amico, un’ultima notte di passione con un vecchio amore: ecco come dovremmo accogliere questo gradito regalo consegnatoci, come fossimo in un romanzo di Gabriel, da un tempo e un mondo che non riusciamo ad afferrare.

Gabriel Garcia Marquez

Ci vediamo in agosto

trad. di Bruno Arpaia, Milano, Mondadori, 2024

€ 16,62

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“Dalla stessa parte mi troverai” di Valentina Mira: un puzzle di amore, lotta e tenerezza per chi ha «er còre grosso come ‘na Golia»

di Carmen Rampino

Roma, 13 aprile 2024. Fa caldo, davvero troppo caldo anche per la primavera romana. Potrebbe essere tranquillamente giugno. Il sole illumina le pareti sbiadite color pastello delle case del quartiere Garbatella, i murales sembrano rinati e tutto sembra avvolto dalla più dolce tranquillità, le persone sono gioviali, memori forse della recente vittoria della Roma contro il Milan. Partendo da viale di Villa Lucina giungere a Casetta Rossa, uno dei cuori pulsanti di questo colorato quartiere, è un’esperienza che ti ridà vita se un po’ di grigio ha invaso la tua anima.

Sono le 18.00, le sedie sono pronte, il pubblico è altrettanto pronto per ascoltare la voce di Valentina Mira, autrice di Dalla stessa parte mi troverai, in dialogo con Rossella Scarponi. Proposto da Franco Di Mare, il libro è stato incluso nella dozzina dei candidati al Premio Strega 2024. Anche l’aria che ha avvolto la pubblicazione del libro si è riscaldata troppo, e quindi l’eccessivo rumore delle polemiche ha sovrastato il valore dell’opera stessa. Cerchiamo allora di ripartire proprio da qui. Prima però è necessario fare una precisazione, un disclaimer doveroso: le parole che stanno per seguire sono del tutto inaffidabili, scritte di getto non appena è stata voltata l’ultima pagina del libro. Dunque, cari lettori, se ambite ad un giudizio lucido, rigoroso e razionale non fidatevi, ma se amate un libro proprio quando vi rende folli, vi scombussola e disorienta, allora fatevi questo regalo e non perdetevi questo viaggio.

La narrazione parte dalla leggenda della fondazione di Roma, da Acca Larentia che allattò Romolo e Remo:

Roma sorge dalla violenza. Da due parti inconciliabili, e dalla scelta di una delle due di prevalere sull’altra. Roma nasce dalla violenza. Inizia tutto con una lupa. Con il latte e con il sangue. E così continua. (Mira 2024, p. 11)

E di latte e sangue sarà intrisa tutta la storia delle pagine successive. I tempi che la compongono sono molteplici, come molteplici sono i binari narrativi che si incroceranno. Si parte dal 7 gennaio 1978, quando davanti alla sede del Movimento sociale italiano nel quartiere Appio Latino vengono uccisi due militanti di estrema destra. Dagli scontri con le forze dell’ordine successivi a questo evento morirà anche una terza persona appartenente al gruppo neofascista, ma il sangue che si porta dietro quel 7 gennaio non ha ancora finito di scorrere. Nove anni dopo, il 30 aprile 1987, la storia infatti ricomincia. Viene arrestato un militante di sinistra, Mario Scrocca, accusato di aver partecipato all’operazione che portò ai fatti di Acca Larentia. Il giorno dopo, il primo maggio 1987, Scrocca verrà trovato impiccato in una cella anti-impiccagione del carcere Regina Coeli: molti conti su questo triste epilogo però non tornano. Mira sceglie proprio di focalizzare l’attenzione su questo episodio correlato a quel 7 gennaio 1978 che la Storia sembra aver dimenticato. Accanto a questi primi due tempi se ne incrocia un terzo. Nel giugno 2021 Rossella Scarponi, vedova di Mario Scrocca, e Valentina Mira, l’autrice, si incontrano. Tra le due inizia un dialogo che porterà alla stesura di questo libro. Ma perché leggere un libro sugli anni ’70 raccontati da una giovane autrice poco più che trentenne che di certo non li ha vissuti? Perché decidere di fidarci? Perché si scoprirà pagina dopo pagina che ciò di cui parla incontra direttamente la sua vita personale e particolari episodi che l’hanno segnata. Infatti, i vari piani temporali e narrativi del racconto si alternano, per poi intrecciarsi e incontrare anche la vita di Valentina Mira, quella che l’ha portata a frequentare da vicino gli ambienti neofascisti, di cui soprattutto alcuni quartieri della capitale sono intrisi, vivendo una relazione sentimentale con un ragazzo di estrema destra. Allora perché scrivere di questo avvenimento? Di certo non per fare più luce su una vicenda che continua ad essere avvolta da troppe ombre. Infatti, non è un reportage o un’inchiesta. Il racconto, dichiara Mira, «ha a che fare con qualcosa di più difficile da esprimere. In parte con una sorta di colpa da espiare: il fascismo dentro e intorno a me» (Mira 2024, p. 191), e poi prosegue utilizzando una parola interessante «per provare a fornire anticorpi. Tentare di dare strumenti per salvarsi alle altre “te” che ci stanno in giro per il mondo» (Mira 2024, p. 191). Questa vicenda può riuscire a salvare altre persone e avrebbe potuto salvare lei stessa («Il punto è che, ne sono convinta, se avessi saputo tutta la realtà su Acca Larentia mi sarei salvata io stessa» – Mira 2024, p. 55). La storia che racconta intreccia quindi la sua biografia, i suoi sensi di colpa. Precisamente da pagina 46 l’autrice e la sua vita entrano a gamba tesa, prepotentemente, nella macrostoria: «La gente con i mocassini ha a che fare col motivo per cui ho scelto di raccontare questa storia. E a volte vorrei soffrire di vittimismo autoassolutorio come loro. Purtroppo non mi appartiene. Sono colpevole di averli frequentati: non una vittima ma una complice» (Mira 2024, p. 46). I due piani narrativi si intersecano fino a sovrapporsi e confondersi nel discorso sul vittimismo dei carnefici (Cfr. Mira 2024, pp. 212-214). Accanto a questo, l’altro grande motivo per cui ridare spazio pubblico alla vicenda, è quello più pratico e più pregno di speranza, la speranza che qualcuno si penta del suo silenzio e, anche dopo anni, contatti Rossella e le dica com’è morto il suo amato marito (Cfr. Mira 2024, pp. 243-244).

Dalla stessa parte mi troverai è prima di tutto la narrazione di un amore. Questo viene rivelato dall’autrice stessa: «questa storia è anche, e innanzitutto, una storia d’amore. E l’unico odio che la riguarda, è quello che da amore nasce. E di amore si alimenta. Per cui, piaccia o meno, è proprio da qui che partirò. Dall’amore» (Mira 2024, p. 18). Siamo nel 1978, Rossella vive alla Garbatella e fa parte del collettivo femminista del suo liceo. Mario, che vive alla borgata Alessandrina dove non c’erano (e non ci sono) marciapiedi, sceglie la via dell’impegno politico, ad esempio attraverso volantinaggi su argomenti semplici ma urgenti, come la mancanza di marciapiedi nel suo quartiere o il rincaro dei beni primari. Tutto inizia a San Valentino, il 14 febbraio 1978, a partire da un semplice sguardo. La sedicenne Rossella vede colui che poi scoprirà chiamarsi Mario e «le si forma in testa un pensiero strano. Un pensiero che non ha mai avuto prima. E che è come una giornata di sole, di quelle che ti mettono il buon umore, ma anche su cui non hai alcun controllo: cavolo, dice questo pensiero nuovo di zecca, io quello me lo sposo» (Mira 2024, p. 22). E così sarà. Una relazione intensa, tristemente breve, ma così ricca da permettere ai due protagonisti di vivere nel giro di pochi anni tutte quelle sfumature del sentimento d’amore che molti non provano mai, neppure nell’arco di una vita intera, neppure se la loro vita non viene prematuramente spezzata. Seguiamo da vicino il tempo dell’amore dei due adolescenti tra un motorino tonante, i molti maglioni oversize, le false Clarks ai piedi, le lotte dei compagni, gli appuntamenti presi tramite telefono fisso e i vivaci scambi di battute in vivo romanesco. 

La grande abilità di Mira nella narrazione si evince proprio dal modo in cui ci permette di accedere e vivere, attraverso le parole, questa dolce, malinconica e successivamente dolorosa relazione d’amore: per mezzo di una lente acuta e sensibile riesce a penetrare continuamente all’interno dei pensieri di Rossella, la vera protagonista, il focus attorno cui tutto si dispiega, quella che seguiamo per anni da quando è una ragazzina fino ad oggi.

Quando Mario, ormai infermiere professionale, verrà trovato morto a Regina Coeli, Rossella avrà solo venticinque anni e un bambino di due – il piccolo Tiziano – da crescere. Il bambino è in questo momento al centro di una scena tanto potente quanto struggente. Tiziano si trova dalla nonna e gli va di traverso del cibo, «nello stesso momento in cui succede che Tiziano sta soffocando, nel carcere di Regna Coeli suo padre muore impiccato. In una cella anti-impiccagione» (Mira 2024, p. 88). È come se tutto ciò che ci avevano insegnato i grandi autori del Novecento, tra cui Buzzati, su quella assurda e folle contemporaneità del tragico e del comico, del “mentre io piango tu ridi” che non permette mai pienamente di partecipare al dolore altrui, venisse meno di fronte al viso di un bambino, di un figlio privato di un padre.

Lattanzio, De Gregori, Catullo, Il muro del canto, Leonard Cohen, Andersen, Pink, Ovidio, Freud, Esopo, De André sono solo alcuni dei nomi che compongono il caleidoscopio, anzi il multiforme mosaico di tessere che in maniera perfetta si incastonano agilmente in un ricco pastiche di citazioni. Queste chiariscono come tutto è sfumato, non esiste più la netta separazione tra cultura alta e cultura bassa. Le citazioni sono sfaccettate come sfaccettati e sfumati siamo tutti noi. L’aspetto però più interessante è che l’esperienza della lettura va oltre la lettura stessa coinvolgendo, oltre alla vista, anche altri sensi, perché il lettore è stimolato continuamente e non appena verrà citato un video aprirà YouTube per vederlo, non appena verrà citata una canzone ascolterà la canzone. Ne viene fuori una fitta rete intertestuale, o meglio un universo narrativo esteso, che si allarga a dismisura coinvolgendo altri media e coinvolgendo integralmente il lettore. Lo si potrebbe chiamare libro transmediale, figlio del suo tempo, che straripa e vuole andare oltre i confini della carta stampata per colpire il lettore direttamente al cuore. Accanto a questo, utilizza una lingua composita, eterogenea e soprattutto sincera, piena di quella patina romanesca che solo una lingua così viva può dare: insomma una perfetta narrazione postmoderna che ha però ereditato anche la tradizione della scrittura breve e concisa del web e dei social tralasciando la loro frivolezza e accogliendo una grande profondità. La struttura dell’opera è poi gradevolissima: unità brevi, chiare, semplici, che diventano dei piccoli pezzi di un puzzle in cui tutto converge versol’emozione. Questo ritmo sostenuto crea nel lettore quell’effetto dipendenza tipico della serialità televisiva. I brevi capitoli con titoli accattivanti rendono tutto rapido, veloce. Il tono non cede mai.

Dalle citazioni alla lingua, dal desiderio di spiegare in poche parole questioni complesse agli argomenti scelti, fino alla struttura che, sebbene di sole parole, un po’ riprende quella del romanzo a fumetti, tutto (o quasi) ci riconduce ad un unico nome: Zerocalcare. La sua presenza ingombrante si percepisce chiaramente e non a caso è citato più di una volta, essendosi occupato anche lui in alcune tavole della stessa vicenda. D’altronde entrambi, pur in modo estremamente diverso, si sono nutriti dei simili orizzonti della controcultura della Capitale.

A questo libro si potrebbero fare tantissime critiche (tranne forse quelle che gli sono state rivolte da alcuni giornali molto orientati e da esponenti di alcuni partiti politici): dall’essere a volte troppo rapido e semplicistico su alcuni passaggi che meriterebbero un approfondimento maggiore, al rischio di sembrare molto manicheo; ma questi limiti nel complesso di tutta la narrazione perdono vigore. E poi ci sono dei luoghi in cui traspare chiaramente una certa onestà intellettuale. Si consideri ad esempio il capitolo Apri l’inchiesta, chiudi l’inchiesta. A pagina 115 si legge:

«dopo che sono uscite fuori le lettere da cui sembra che Mario si sia davvero suicidato, alcuni compagni si sono allontanati. Evidentemente, su un piano politico, stare vicino a una persona il cui marito si è suicidato viene reputato inutile e sconveniente. Serve solo se l’hanno sgobbato le guardie» (Mira 2024, pp. 114-115).

Al netto delle critiche, è sicuramente un’ottima prova narrativa per una giovane scrittrice come Valentina Mira. Un’opera che cattura l’attenzione dei lettori fin dal suo incipit che ti intrappola e ti irretisce fino all’ultima riga dell’ultima pagina senza alcun tipo di cedimento. Uno di quei libri che ti fanno soffrire di un’anticipata nostalgia perché, quando sei ancora a metà desideri che non finisca. Sarà che parla di Roma quando chi sta scrivendo si è appena trasferita in questa città un poco assurda, sarà la lingua utilizzata, saranno quelle imperfezioni formali che proprio rendono perfetto il risultato finale, fatto sta che questo libro è una scoperta, una vera rivelazione. Anche quando si rivela più retorico, dogmatico o semplicistico, questo libro ci fa innamorare, non lasciandoci indifferenti.

Ma ritorniamo al punto di partenza. È l’ora del tramonto quando la vivace presentazione finisce. L’autrice si intrattiene a firmare le copie e a fare due chiacchiere con gli ascoltatori. Il sole ormai sta morendo. Le case slavate del quartiere, che ricordano proprio quelle di carta di un presepe, si tingono di arancio e rimane la curiosità di leggere un libro che è necessario per ridestare la memoria antifascista e la cui tenerezza per certi aspetti «ti fa stringere il cuore fino a fartelo sentire piccolo come… io dico ‘na Golia» (Mira 2024, p. 220).

TESI CITATI.

Valentina Mira, 2024, Dalla stessa parte mi troverai, Milano, SEM.

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“Romanzo senza umani” o della soggettiva e provvisoria sensazione della fine

di Maila Cavaliere

È da parecchio che il romanzo di Paolo Di Paolo mi gira in testa, da quando l’ho letto qualche mese fa e ha fatto scattare nella mia memoria piccole serrature arrugginite.

È un libro intimo con un personaggio risentito, tenero e aspro, interlocutorio e spiazzante. E io non ho saputo a lungo da dove cominciare per parlarne, come accade a volte per i discorsi con cui vorresti davvero spiegare le tue ragioni alle persone a cui tieni ma ti sembrano sempre fatalmente inadeguati: ti riscaldi, prendi la rincorsa, ti alleni a essere perfetta e performante ed efficace e credibile ma poi ti viene l’ ansia da prestazione, ti chiedi se stai sbagliando, se manca qualcosa e nel tentennamento, il muscolo si raffredda, la rinuncia ti conquista o una reazione ostile ti gela, come in una sincope da idrocuzione.
Eh sì, perché, ora che ci penso, le prime domande su cui mi sono interrogata leggendo Romanzo senza Umani, appena entrato in dozzina al Premio Strega, hanno a che fare con il tempo, meteorologico e non.
Ma davvero il clima incide sul nostro modo di essere? Ma davvero alcune sensazioni, i brividi e il batticuore  che attribuiamo a stati emotivi sono influenzati dalla temperatura esterna o la modificano? Ma davvero noi e la Storia, il protagonista del libro e quella  piccola glaciazione del lago di Costanza avvenuta nel sedicesimo secolo siamo così intimamente e reciprocamente interdipendenti?

Il personaggio  del romanzo di Paolo Di Paolo è un uomo sulla quarantina, di professione storico, forse con qualche aspirazione frustrata, forse con qualche obiettivo non realizzato, forse non particolarmente empatico, né schiettamente comunicativo, che arranca come tanti nella vita, nelle relazioni, nella comune illusione che siano gli imprevisti e le cose che accadono a sottrarci a un successo o a una felicità per la quale crediamo ancora di avere i numeri.

Nel bel mezzo delle sue ricerche, il protagonista di Romanzo senza umani sente il bisogno di tornare sui suoi passi, sui luoghi dei suoi studi e, in una sorta di archeologia di sé stesso, il fiotto caldo di certi ricordi comincia a sciogliere gli anni del freddo dovere e delle abuliche occasioni perse, delle cose rimandate.

La memoria a quel punto si manifesta come una villana impostura e dimostra che ciò che gli altri ricordano di noi a volte non ci assomiglia per niente oppure ci disturba per la sua inconsistenza o stride, addirittura, con l’ idea che abbiamo di noi stessi.

La memoria degli altri mette in crisi le nostre certezze, è una crepa nel nostro fedele rispecchiamento, nel nostro ritratto ideale, quello che incorniciamo con tanto di passepartout vellutato.
Non sapevo da dove cominciare, dicevo. E allora ho cominciato da qui, da un’ ipotermia epifanica che cambia lo sguardo.

Romanzo senza umani che, a dispetto del titolo, invece pullula di figure e persone perdute, cercate, trattenute o lasciate andare, implorate, dimenticate, fraintese, è un libro che ti parla come uno che ti conosce bene, che sa che siamo sempre sul confine, in bilico tra lo sporgersi e il ritrarsi, in quel magico sospeso che fa parte di noi e dei nostri limiti.

Ti accorgi, leggendolo, che sono così tanti gli inganni della parola scritta, così tanti gli incanti, tante le suggestioni che attraversano il nostro sentire: portarsi dentro l’ elemento liquido, caldo, freddo, ghiacciato, perdersi volontariamente in posti dai nomi evocativi come segno della propria incoscienza e dell’ inesperienza dinanzi al mondo, del bisogno inestinguibile di conoscere il nuovo, di cercare il mistero, l’ inatteso, mettersi in tasca, per compagno di viaggio, il profumo amaro della separazione, accogliere l’ inganno dei sensi, usare la distrazione come strategia dell’ evitamento, svelare l’ inutilità della comunicazione che riempie solo uno spazio ma non sposta nessuna idea, accogliere il rischio di essere giovani o compresi e la fatale scoperta di non esserlo più, conoscere la condanna del restare, ricordare, confondersi e, soprattutto, dimenticare, dimenticarsi, facendo male, ferendo.

Romanzo senza umani mette in scena anche graficamente il senso incombente della fine, dentro la cui idea ci sentiamo stretti e costretti e che proviamo invano a eludere, lasciando aperti pertugi e vie di fuga.
Dalle pagine del romanzo arrivano echi di Landolfi e Casares, di Walser e Bufalino, libri e persone che accompagnano il nostro viaggio, ologrammi e pretesti che, all’ occorrenza, lo trasfigurano.
E si sente perfino il fischio del treno di Tabucchi che, attraverso una serie di piccole circostanze emotive, ci ricorda di essere così spesso in ritardo su noi stessi.

Paolo Di Paolo dopo Mandami tanta vita,  Lontano dagli occhi e Dove eravate tutti torna a indagare attraverso la letteratura il “sentimento del passato” e lo fa anche a costo di superare, per dirla con un verso di Leonardo Sinisgalli, “il confine oltre il quale le cose spariscono e non conviene più cercarle“.

Paolo di Paolo, Romanzo senza umani, Milano, Feltrinelli, 2023, pp. 224, € 16.15

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“Berggasse 19. Una donna di nome Anna Freud”: tra memoria, amore e psicoanalisi

di Carmen Rampino

Sono nata in una fredda mattina di dicembre in Berggasse 19, “la strada della psicoanalisi”, così la chiamavano a Vienna. Ultima di sei figli, sono sempre stata una bambina schiva, incapace di conciliare la timidezza con la presenza degli altri (Lombardo 2024, p. 15).

A parlare è Anna Freud in Bergasse 19. Una donna di nome Anna Freud (Lombardo 2024), ultimo parto letterario di Lucrezia Lombardo. Oggi sono tante le narrazioni che cercano di raccontare storie di donne rimaste nell’ombra per secoli. Pochi, però, ci riescono in una maniera così chiara, dolce e appassionante come Lombardo con il suo libro pubblicato dalla casa editrice Les Flâneurs. Il libro inaugura la collana Le innominate il cui precipuo scopo è proprio dare voce a quelle sorelle che la storia ha relegato ai margini, pur avendo svolto un ruolo determinante nella storia del pensiero, dando così giustizia alla memoria tradita e rivendicando il posto che spetterebbe loro nella memoria collettiva. Infatti queste donne sono state tradite due volte: la prima volta in vita, quando hanno lottato il triplo per farsi ascoltare; una seconda volta quando sono state depositate nell’oblio, quando è stato attribuito loro il ruolo di moglie di, figlia di – condizione che in alcuni casi le ha sicuramente aiutate: quante non hanno proprio potuto parlare perché non si sono ritrovate in questa fortunata condizione? -, quando a loro è stato dedicato sui manuali, sempre se glielo è stato dedicato, un piccolo paragrafo con una menzione del tipo letteratura femminile. Quando una scrittrice viene identificata non attraverso l’appartenenza ad un genere letterario, a una corrente o a un fenomeno culturale, ma attraverso il proprio genere biologico c’è un problema, dal momento che, se parliamo di Montale, Manzoni, Pavese, non certo usiamo l’espressione letteratura maschile: non riusciamo, quindi, ancora ad identificarle all’interno di un contesto più ampio, ma sentiamo il bisogno di ghettizzarle, di marginalizzarle.

Allora la memoria, pur essendo facilmente manipolabile, è pur sempre l’unico strumento che rappresenta la dimensione pubblica della storia, e anzi, proprio in virtù del fatto di essere un artefatto, un costrutto prodotto collettivamente, deve riappropriarsi della storia di quella che banalmente rappresenta almeno la metà della popolazione mondiale. Nello svolgere operazioni di questo tipo è senz’altro difficile non abbandonarsi a vuoti cliché e luoghi comuni che non aiutano e, forse, sviliscono la causa. È riuscita, però, efficacemente Lucrezia Lombardo nel far conoscere e amare la storia di Anna Freud, donna sempre e quasi unicamente accostata al nome del padre.

Uscito il primo marzo in libreria, Berggasse 19. Una donna di nome Anna Freud risulta un lavoro vincente fin dalla forma scelta: una lunga lettera che Anna scrive a una tale Dorothy, di cui, se non conosciamo la storia vera, solo a p. 95 scopriremo il cognome, iniziandola a inquadrare socialmente: si tratta Dorothy Tiffany Burlingham, proveniente da una delle famiglie più ricche e potenti degli Stati Uniti, giunta a Vienna tanti anni prima in cerca di una scuola per i suoi figli e, soprattutto, di aiuto (cfr. Lombardo 2024, p. 21 e p. 97).

È una lettera inventata, ma basata sulla storia vera, ricostruita a partire dai carteggi di Anna, di Sigmund e di tutto il materiale proveniente dal Sigmund Freud Museum di Vienna: un non fiction novel. Tutto parte da Berggasse 19, via in cui visse la famiglia Freud. La strada solitamente associata a Sigmund, qui viene legata ad Anna, perché la memoria va ricostruita, non certo annullando quella pregressa, ma integrandola e completandola.

Questa è, quindi, proprio la storia di Anna che, attraverso il potente strumento della scrittura, pone finalmente sé stessa sotto la lente di ingrandimento della psicoanalisi.

La lettera, ovvero il lungo monologo, dà concretamente voce ad Anna, che al centro della scena, illuminata da una luce finalmente puntata tutta su di lei, in modo discreto, delicato e mai morboso ci racconta la sua vita, anche quella più intima. Pagina dopo pagina, attraverso una scrittura semplice e piana, dolce e rassicurante, veniamo sempre più inclusi, all’interno degli spazi che attraversa, degli odori che annusa, delle persone che incontra, della vita che vive, e ci sembrerà di essere a fianco a lei. Vivremo la Vienna liberty di primo Novecento, l’arte di Klimt, il sapore dolce amaro di chi, in diretta, stava piano piano sempre più precipitando verso il male, e poi il Nazismo, le persecuzioni, la fuga, la condizione di essere apolidi. L’autrice è riuscita ad immergersi integralmente in questo contesto storico-culturale e, prendendoci per mano, ci conduce in modo profondo all’interno di esso.

Anna richiama, evocandoli, i vari episodi e le varie persone che hanno segnato la sua vita, in primis suo padre: Sigmund Freud. D’altronde come può aprirsi un libro sulla psicoanalisi se non sulla descrizione del rapporto con il padre? Ed è proprio lui a venirne fuori in maniera diversa da quella che ci si aspetterebbe. Viene de-monumentalizzato e umanizzato: scopriamo che, per assurdo, proprio il padre della psicoanalisi non si è certo sottratto al meccanismo più tipico e basilare analizzato dalla psicoanalisi stessa, cioè al malsano rapporto con la figlia e ai traumi che le ha causato. Nella finzione letteraria Anna scrive: «Ho trascorso buona parte della mia infanzia priva del calore di un abbraccio paterno» (Lombardo 2024, p. 27). L’Anna bambina va incontro alle disattenzioni e alla freddezza del padre, all’insofferenza verso la figura materna, al sentirsi una figlia non voluta. Eppure, finirà per ringraziare quelle disattenzioni: «Credo di dover ringraziare le disattenzioni iniziali dei miei genitori, perché hanno permesso alla mia pena di trasformarsi in opportunità» (Lombardo 2024, p. 29). L’essere stata una bambina infelice le darà, quindi, la forza e lo stimolo per portare avanti la sua grande rivoluzione elaborando un metodo psicoanalitico per l’infanzia. Da figlia non voluta, riuscirà a farsi strada, ma dovrà lottare prima di tutto all’interno della sua stessa famiglia per emergere. E sì, con il tempo creerà un legame fortissimo con il padre, ma a costo di duri sforzi. Ecco perché nel tentativo di emancipazione, il rapporto con la figura paterna, comunque, occupa tutto il libro, che è la storia di un progressivo affrancamento. Tutto parte dal padre e attraverso un percorso di formazione e ostacoli si finisce per superarlo. Ciò è suggellato dalle parole dello stesso Freud: «Tu, figlia mia, mi hai già superato» (Lombardo 2024, p. 120). E Anna è riuscita nell’impresa, nonostante fosse destinata dalla società e dalla famiglia ad una vita segnata dall’invisibilità e da quei rigidi schemi patriarcali che la volevano subalterna, che la volevano semplicemente una moglie o una figlia di qualcuno, priva di una identità. Questa condizione, però, Anna non l’avrebbe tollerata. Anna prova disprezzo e rabbia verso le donne come sua madre o come sua sorella, le sembra che, pur felici e serene in quella condizione, gettino via il tempo prezioso delle loro vite tra visite e convenevoli artificiosi (cfr. Lombardo 2024, p. 38). La curiosità le deriva, invece, dalla vita del padre, e sarà a quella che tenderà durante tutta la sua esistenza. E determinante in questo viaggio di liberazione, per il suo coraggio e per il suo essere refrattaria ad ogni autorità, sarà Dorothy.

Ma perché Anna scrive una lettera proprio a Dorothy? Quale legame le lega? Più volte viene sottolineato che si tratta di una lettera di ringraziamento, di gratitudine a quella persona che le ha permesso di ritrovare la speranza. Se approcciamo al libro con uno sguardo vergine e senza conoscerne la storia vera, progressivamente attraverso tante spie testuali e dettagli sparsi qua e là, veniamo a conoscenza del legame che lega Dorothy alla scrivente. Capiamo così che si tratta di una lunga, dolce, intensa lettera d’amore. Non a caso la lettera viene definita, a p. 30, un «ultimo gesto d’amore». Tra le due esiste quell’amore che mette a nudo e distrugge le maschere, che rende vulnerabili, ma anche potenti, infatti Anna le scriverà: «Tu sei stata la prima persona che si è accostata a me senza alcun pregiudizio» (Lombardo 2024, p. 28). Le due sono state compagne di vita, lotte e studio. Hanno lavorato insieme per trovare dei metodi in grado di aiutare bambini traumatizzati, orfani di guerra, vittime di maltrattamenti, bambini senza una casa, attraverso i “War Nurseries” a Londra, gli asili di guerra, che poi inizieranno ad ospitare anche bambini sopravvissuti ai campi di concentramento. Il loro è un amore che è anche dedizione, condivisione di intenti, slancio per una causa che si converte in ragione di vita. Il libro è dunque una storia di amore, lotta, emancipazione, volontà di autodeterminarsi. E se a p. 126 scopriamo che l’Eros è l’antidoto contro la guerra, tutta questa lettera che trasuda di Eros, è considerabile un disperato tentativo di argine alla guerra.

Anche Dorothy fugge da una famiglia opprimente, intenta sempre a salvare le forme e le apparenze a scapito della sostanza. Da qui si capisce, dunque, come le classi sociali sono tutte, indifferentemente, toccate da un’organizzazione patriarcale oppressiva, solo che con livelli di ipocrisia diversi e con possibilità di salvezza diverse (non dimentichiamo che pur con tutto il coraggio che la contraddistingue, Dorothy ha avuto la fortuna di poter fuggire in Europa per salvare sé stessa e i suoi figli da una situazione dolorosa).

Durante tutta la lettera, la nostra attenzione sarà attratta sempre da Anna che, con il suo frizzante temperamento, con le sue lacerazioni, in lei presenti fin da bambina, la sua malinconica insofferenza, non viene mai restituita come un personaggio piatto o privo di sfumature. Fin da subito è contraddistinta da insanabili lotte interiori. Anna si troverà a vivere il conflitto tra la sua femminilità e l’irrefrenabile istanza all’autonomia (cfr. Lombardo 2024, p. 41), tra il desiderio di aiutare i bambini sofferenti e il suo rifiuto della vita familiare tradizionale, scelta da lei considerata egoistica perché finalizzata al perseguimento dell’esclusivo benessere dei propri cari (cfr. Lombardo 2024, p. 41), tra la sua volontà di aiutare i poveri e i sofferenti e la fortuna e il senso di colpa per provenire da un mondo confortante, borghese (cfr. Lombardo 2024, p. 44). E Anna, si diceva, ci attrae proprio perché in queste fessure e conflitti ci riconosciamo, perché è rassicurante sapere che il nostro essere sfaccettati, il nostro dover imparare a convivere con tutte le varie contraddizioni insanabili, caratterizza tutti. Senza Dorothy, però, forse non ci sarebbe stata salvezza per Anna, e viceversa. Lo slancio per l’aiuto del prossimo le ha legate, il trovare un complice, però, ha salvato entrambe.

Perché leggere queste pagine? Innanzitutto, ognuno vi troverà un pezzettino di sé stesso, anche semplicemente in alcuni stati d’animo o atmosfere evocate e, se si lascerà travolgere dalla potenza delle parole, troverà in alcuni angoli anche un pezzetto del nostro presente. Si legga a titolo esemplare l’elogio della condizione degli apolidi:

Ci abituammo all’idea che l’Inghilterra sarebbe diventata la nostra nuova casa, non certo una patria, gli apolidi non hanno appartenenza, né una nazione di cui sentirsi parte ma questa, forse, è la condizione migliore per proteggersi dallo spirito del nostro tempo, assetato com’è d’identità violente e di prevaricazione. (Lombardo 2024, p. 124)

Questo, però, è solo uno dei molteplici spunti offerti da un libro che riesce a tenere insieme mitologia, arte, tragedie greche, scultura, amore, psicoanalisi. La lettura del libro conduce ad una nuova consapevolezza, e forse aggiunge anche quel briciolo di rabbia in più alle nostre vite che ci porta a chiedere: Quanto ci siamo persi? A quali vette sarebbe giunto il pensiero se una parte di umanità per secoli non fosse stata ammutolita? E con quest’acre sapore in bocca proseguiamo nelle nostre personali lotte quotidiane.

TESI CITATI.

Lucrezia Lombardo, 2024, Berggasse 19. Una donna di nome Anna Freud, Bari, Les Flâneurs.

In Schede

Il Meridione narrato da Angelo Rossi: “Il tempo di Liliana tra musica e impegno civile (1932-1956)”

di Carmen Rampino

Sul golfo di Manfredonia si affaccia il Tavoliere delle Puglie, una pianura che si estende per migliaia di chilometri.

Si tratta di una delle più vaste province della penisola, ma con una densità di popolazione tra le più basse d’Italia.

Chi è nato qui è abituato fin da subito ad avere un precario e fragile senso di appartenenza, una sorta di crisi dell’attaccamento dovuta a molteplici fattori, tra cui anche lo scarso peso, soprattutto politico, che i tanti piccoli paesi che circondano la pianura, collocati alle pendici della dorsale appenninica, assumono. E se un senso attaccamento c’è, lo si attribuisce sempre al fatto di essere l’ultima provincia d’Italia per qualità della vita e la prima per criminalità.

Allora, chi è nato qui si porta sempre dentro una ferita insanabile: la lacerazione di provenire da una terra sempre più abbandonata da tutti, senza riuscire però a recidere mai del tutto quel cordone ombelicale che ci lega indissolubilmente ad essa attraverso un amore profondissimo che ci riconduce alle braccia dei contadini, al sole, alla povera gente.

Eppure, senza cadere in un patriottismo per partito preso o in un cieco e retorico populismo, esistono delle storie che provengono da questo territorio di persone, che, pur non dimenticando la loro provenienza, con le loro vite hanno inciso sulla Storia, e che meriterebbero qualcosa di più dalla memoria collettiva. Sono storie concrete, e non astratti miti, che ci permettono di riconnetterci e ricostruire un senso di sana identità verso la nostra terra.  

È il caso di Liliana Rossi, una figura che in provincia di Foggia conoscono in pochi, ancor meno in Puglia e ancor meno nel Meridione e quasi nessuno tra «quelli di Roma», come avrebbero detto i contadini di Carlo Levi (Levi 2014, p. 67). Conoscere questa storia vuol dire scoprire tracce di antifascismo, femminismo, e lotta in luoghi da sempre considerati dormienti. Ed ecco che l’operazione della casa editrice Guida Editori di Napoli, di pubblicare nel dicembre 2023, il testo Il tempo di Liliana. Tra musica e impegno civile (1932-1956), scritto da Angelo Rossi, si rivela in questo senso assolutamente necessario. Al centro del libro vi è Liliana Rossi, la cui storia iniziò a diffondersi parzialmente a livello popolare grazie al film del 1998 di Michele Placido Del perduto amore. Questa giovane donna, nata nel 1932 a Bovino e morta nel 1956 ad Ascoli Satriano, a soli 23 anni, ha fuso il suo viscerale cristianesimo militante con un impegno politico attivo nel Partito Comunista. Da tempo si sentiva il bisogno di una sistematizzazione ordinata e attendibile che desse luce a questa personalità, varie volte citata ma poche volte davvero conosciuta. Tale pubblicazione, che comprende una sorta di biografia scritta dal fratello Angelo, la tesi di laurea di Liliana sull’appena nata Costituzione dell’Italia repubblicana, due saggi a cura rispettivamente di Francesca Izzo e Silvia Niccolai, dei documenti e un repertorio fotografico, rispondono proprio a quest’esigenza di unitarietà e ordine intorno a Liliana Rossi. La parte principale, quella redatta dal fratello Angelo, si configura come un testo a metà tra memoria, romanzo storico e biografia, in cui attraverso la micro-storia di Liliana e del suo contesto sociale e familiare, il lettore può entrare in contatto in modo diretto con l’atmosfera che doveva respirarsi a Bovino, Ascoli Satriano (luogo dove, dopo Bovino, la famiglia Rossi si trasferirà), Foggia e tutta la Capitanata, in quegli anni di storia fondamentali che dal fascismo alla Seconda Guerra Mondiale, passando per il difficile periodo del dopoguerra, arrivano alla nascita della Repubblica e della Costituzione. Il libro ci permetterà di accedere proprio a questo squarcio di storia in modo così piacevole che la lettura sembrerà trasformarsi in un racconto orale, che talvolta si perde seguendo il filo un po’ confuso dei ricordi, esposto dalla voce di un nonno colto che narra episodi imprescindibili, dal punto di vista di chi ne è stato un attivo protagonista, pur non dimenticando quel rigore storico che Rossi, già docente di storia e filosofia nonché senatore della Repubblica dal 1994 al 1996, non trascura mai. Cosa voleva dire andare a scuola durante il fascismo? Chi vi poteva accedere? Com’era lacerata la società del Meridione durante la Seconda Guerra Mondiale? Cosa voleva dire ascoltare Radio Londra per capire in maniera più attendibile cosa stava accadendo durante la guerra? E cosa ha significato il bombardamento su Foggia del ‘43? Leggendo questa narrazione accorata, si concretizzeranno davanti ai nostri occhi i vari episodi, i vari luoghi dilaniati dalla guerra, i vari volti raccontati.

Il libro procede su più tempi, quelli che hanno incrociato gli anni di Liliana. Descritta come una bambina prodigio, una studentessa modello, appassionata di violino, cinema e cultura, gli studi non l’hanno mai resa elitaria, non dimenticando mai quanto importante potesse essere insegnare a leggere e scrivere alle ragazze di un Meridione che iniziava a sembrare sempre più anacronistico in un dopoguerra di «grandi problemi ma anche enormi speranze di cambiamento» (Russo 2023, p. 5). Dopo gli studi liceali, compiuti in meno anni del previsto, e gli intensi anni di studio del violino presso l’allora Liceo Musicale Umberto Giordano di Foggia, Liliana si reca a Napoli, città impegnata, presente a intermittenza nella storia, che con i suoi circoli funge da volano per la passione politica dei giovani fratelli Rossi. Qui si laurea in Giurisprudenza e, in men che non si dica, diventa assistente dell’ordinario di Diritto Costituzionale all’Università di Napoli, Alfonso Tesauro. La sua tesi di laurea e i vari interventi in favore della giovane Costituzione rappresentano il segno di una lungimiranza e sensibilità uniche. Accanto a questo, rilevante è stato l’impegno politico all’interno del Partito Comunista. Nel ’56 fu candidata al Consiglio Comunale di Foggia e tenne il comizio di chiusura delle amministrative di Ascoli Satriano dove era candidato suo fratello Angelo. Come ci racconta Rossi, le donne di Ascoli, in modo particolare, si affezionarono a lei, al punto da affiggere, dopo la scomparsa, la foto di Liliana nelle case, come una figura sacra, che seguiva le famiglie anche durante le migrazioni all’estero. Nel libro c’è tutto questo e anche i risvolti più intimi della parabola esistenziale di Liliana, eppure anche i toni più elegiaci della storia d’amore, quella tra Liliana e Franco, novelli eroi romantici, cugini di primo grado che si amavano, diventano segni di una consapevolezza fuori dal comune, che sembrano dirci qualcosa ancora oggi: Liliana non rinunciò ai suoi sogni e ai suoi progetti, anche quando ricevette pressioni per adeguare la sua vita a quella del futuro marito Franco, magistrato, carica che in Italia fino al 1963, ben 15 anni dopo l’entrata in vigore della Costituzione, fu interdetta alle donne.

Insomma una intelligenza fuori dal comune, con una spiccata dote per lo studio, un costante impegno sociale, civile e politico, con il piglio di una instancabile studiosa, attiva su tanti fronti, come la delicata condizione femminile (si ricordi il discorso tenuto all’UDI l’8 marzo del ’56), la difesa della Costituzione, e poi, ancora, eccellente musicista, sincera cristiana. Eppure proprio la sua fede profonda non bastò. Quando nel ’56 Liliana morì, il parroco di Ascoli Satriano si rifiutò di celebrare in chiesa i funerali di una comunista, “scomunicata”. I funerali laici, pur senza rito religioso, furono molto partecipati e le donne del paese dauno si vestirono di bianco per manifestare il loro supporto, la loro vicinanza, la miopia di certe prese di posizione.

Non va dimenticato che Liliana ha avuto la fortuna di nascere in un contesto socio-familiare in cui si è potuta istruire, condizione rara al tempo, soprattutto per una donna, ma ciò che ha fatto con gli strumenti in suo possesso è stato rivoluzionario.

Che cosa sarebbe diventata Liliana? Sicuramente «una straordinaria intellettuale destinata, se la morte non l’avesse colta così presto, a diventare forse una affermata violinista oppure un’autorità nel campo del diritto costituzionale oppure una figura politica nutrita di solide competenze specialistiche. Chissà». (Izzo 2023, p. 202) Non lo sapremo mai, perché Liliana è stata un germoglio sbocciato a metà, ma forse questo cammino biografico si è interrotto così presto proprio perché doveva in qualche modo rappresentare il primo gesto di un direttore d’orchestra che segna l’inizio di una composizione musicale nuova, di una stagione nuova, di un percorso che doveva essere proseguito da tante altre donne, che avrebbero dovuto e dovrebbero percorrere la stessa strada da lei intrapresa per ricordare, soprattutto a tutte le ragazze del sud come lei, di dover indirizzare le proprie cure e la propria dedizione prima di tutto a difendere, come Liliana fece, ciò che le madri della Repubblica e della Costituzione hanno realizzato: tutti quei diritti che esistono, ma che per essere pienamente effettivi necessitano ancora di dure lotte. Per questo il libro di Rossi è un libro necessario, un faro in un momento storico come quello attuale, un modo per ricordare e guardare al futuro con una coscienza diversa. Per quanto non sia propriamente una trattazione storiografica, è l’unico strumento che al momento abbiamo – a parte il film, molto romanzato, di Michele Placido del 1998 – per conoscere la storia di Liliana e anche per sapere come la macro-storia, nota ai più, influì anche su questi territori. È una storia di non fiction che, pur con i limiti e le imperfezioni che un tipo di narrazione come questa può comportare, in tempi di smaccato revisionismo implica il riappropriarsi della nostra memoria collettiva. Oggi la giovane vita di Liliana continua a vivere grazie all’amore del fratello, che con dedizione non ha mai abdicato al suo ruolo di divulgatore di una storia che merita sempre più di essere conosciuta.

TESI CITATI.

Carlo Levi, 2014 (1° ed. 1945), Cristo si è fermato a Eboli, Torino, Giulio Einaudi editori.

Francesca Izzo, Una appassionata intelligenza meridionale, in Angelo Rossi, Il tempo di Liliana tra musica e impegno civile (1932-1956), Napoli, Guidaeditori.

Angelo Rossi, 2023, Il tempo di Liliana tra musica e impegno civile (1932-1956), Napoli, Guidaeditori. Stefania Russo, 2023, Prefazione. Liliana Rossi: l’impegno di una donna, in Angelo Rossi, Il tempo di Liliana tra musica e impegno civile (1932-1956), Napoli, Guidaeditori.