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Di’ il mio nome

di Giulia De Vincenzo

Gridalo, cantalo! Un nome è soltanto un nome: non può fare alcun male. Le persone, invece, possono.
Anche tu. Eppure non ho mai dimenticato la tua mano, stretta attorno alle mie dita sfuggenti di
bambina ribelle, ruvida, aperta in uno schiaffo sul mio viso incredulo, mentre con la lingua leccavo il
sangue che mi colava dal naso, come fanno certi animali ingenui, sentendovi il sapore di una
maledizione. La mano che un giorno ha sbattuto la porta di casa, iniziandomi a un suono fraterno. Ne
ho conservato il ricordo per sere come questa, quando permetto alla vita di scorrere e riavvolgersi come
la musica nel mangianastri, stesa sul letto in questa stanza a forma di cubo di cui abiterò sempre il
fondo.
Eccomi. Unica superstite di plurime disgrazie. Sono la bambina con il sogno sbagliato, la puttana che ha
osato dire: No! Sono il gatto nero che ti taglia la strada, il gatto nero di me stessa, sono il fottuto
specchio frantumato. Sono quella che porta sfiga. Ho cercato la tua mano su ogni tasto sfiorato, dentro
ogni carezza ricevuta, nel silenzio di ogni stanza vuotatasi al mio passaggio. Ho portato con me l’odore
acre e nauseabondo del tuo sangue maledetto. Ho preteso che altri lo sopportassero, ma era troppo
persino per me, che sono tua figlia. Sono mille volte tua. Per troppo tempo mi sei mancato. Per troppo
tempo mi sono mancata.
Ho riso e poi ho pianto. Ho provato a capire, a lottare. Ho cantato. Ho gridato. Ma senza la tua mano
mi ero persa. E la mano spietata del mondo mi ha strappato le corde vocali e le ha intrecciate per farne
il mio cappio. Ora è lì, che pende dal soffitto. Se tendo il braccio riesco a sfiorarne le fibre, ancora calde
e sanguinolente: è quel che rimane di me. Lo afferro e lo indosso con la solennità di un paramento
sacro. Trascino la treccia infame fino al mare. Ecco, sono già lì, a farmi accarezzare i capelli dal vento
salmastro, anestetizzata dallo sciabordio delle onde. Neanche il battere legnoso delle barche sui sassi mi
infastidisce più. I suoni acuti sono lontani.
Sono finalmente Mia. E rido a squarciagola digrignando i denti. Ma tu non piangere, e non aver paura.
Anche se non ci sono più, di’ il mio nome.


per Mia Martini

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Intervista postmoderna a Francesco Permunian

di Giulia De Vincenzo

Siamo in arrivo a: Peschiera del Garda. Prossima fermata: Peschiera del Garda.

La voce metallica proveniente dall’altoparlante mi risveglia da una specie di trance. A farlo è anche il trambusto di una quindicina di passeggeri arrivati a destinazione, che si alzano contemporaneamente.

“Hah sti maledeti turisti che ogni istà i vien sul lago e i fa un luamaro” borbotta spezzante una signora seduta accanto a me. Chissà se si riferisce alla stessa sporcizia lamentata da Francesco Permunian quando, assaltate da chiassose comitive turistiche in estate, le strade e le spiagge del Garda gli diventano insopportabili, portandolo a rifugiarsi in una terra di mezzo tra quell’angolo di provincia veneto-lombarda e le patrie terre del Polesine. Quelle terre basse e monotone che si stendono tra l’Adige e il Po che lo hanno visto nascere proprio nel 1951, anno della disastrosa alluvione, raccontata in Dalla stiva di una nave blasfema. E non sono certo bastate le bonifiche, i nuovi campi o le nuove case al posto dei tuguri per estirpare quel sentimento di solitudine e abbandono che alligna nel DNA di ogni suo abitante. Forse è stata questa la ragione che lo ha spinto a dire addio a quei luoghi. Forse ha preferito non ritrovarsi anche lui, un giorno, impaludato tra quelle nebbie, a consumare le sue speranze in attesa di una ridicola disperazione senile.

Siamo in arrivo a: Desenzano del Garda. Prossima fermata: Desenzano del Garda.

Ci siamo. Ho appuntamento con lui alle 9.30 al bar della stazione, dove ogni mattina va a fare colazione. E dove trasloca in piena notte, con un cuscino e una coperta sottobraccio, quando non riesce a chiudere occhio nel suo letto. Mi sembra quasi di vederlo, passare con nonchalance tra barboni e tassisti per dirigersi verso l’amato boudoir ferroviario, fregiato coi graffiti di Kafka e Sebald, dove ha imparato a dormire coi suoi fantasmi senza ricorrere a tranquillanti e sonniferi.

Scendo dal treno dando un rapido sguardo all’orologio. Le 9.15. Bene. Conoscendo il suo animo inquieto e nevrotico, non sarebbe il caso di farlo aspettare. Provo una certa emozione camminando tra i corridoi di quella che, pur non viaggiando mai, Permunian ha definito la sua seconda casa nel romanzo Il gabinetto del dottor Kafka. Ma, arrivata all’uscita, scorgo al di là della porta a vetri la sua figura emaciata e distinta, seduta a uno dei tavoli del bar. Indossa camicia e blazer scuri. A fine giugno. D’istinto, tiro fuori dallo zaino la mia giacca sfoderata, resa ancor meno elegante dalle pieghe del viaggio. Non senza imbarazzo, la indosso e gli vado incontro.

Lo saluto scusandomi per l’inesistente ritardo e cerco di sedermi nella maniera più disinvolta possibile mentre, sotto il suo sguardo indagatore, sul volto mi si dipinge un’espressione che vorrebbe essere serena e rilassata, ma non ci riesce.

– P…

– Non le sfugge nulla, proprio come mi aspettavo. Forse il modo migliore per stemperare la tensione è cominciare la nostra… Non chiamiamola intervista, se mi permette. Consideriamola, piuttosto, una conversazione. Uno scambio di vedute sui suoi libri. Sui suoi romanzi, principalmente. Anche se lei non ha mai scritto romanzi nel vero senso del genere, eccezion fatta forse per Nel Paese delle Ceneri. La sua è piuttosto – mi corregga se sbaglio – una narrativa frammentaria che registra, come lei stesso scriveva in Dalla stiva di una nave blasfema, “sogni e fantasmi scambiati un tempo per idee e progetti”.

– P …

E lo fa perché la scrittura, mi è parso di capire leggendola, è l’unico mezzo per resistere al nichilismo e destreggiarsi tra un passato sempre più sfuggente, un presente mefitico e un futuro incerto. In tutte le sue opere è palpabile il suo fare i conti con la realtà quotidiana e al tempo stesso con i fantasmi del passato. E questo la obbliga giocoforza a utilizzare due modalità narrative: quella realistica per descrivere la sua quotidianità sul Garda e quella fantastica per sublimare quella stessa realtà quando la opprime. Specialmente in questo periodo, credo, quando l’arrivo di festanti orde di turisti la trasforma in un orrendo lunapark a cielo aperto. Dico bene?

– P …

– Del resto, mi chiedo da un po’ cosa l’abbia spinta a un certo punto a virare verso la narrativa, dal momento che la sua attività di scrittore è cominciata nelle vesti di poeta. Immagino sia perché oggi la poesia non fa più mercato. La poesia rientra difficilmente nella sfera dell’utilità, giusto? E oggi il concetto di piacere corrisponde tristemente a quello di utilità. Come pure, l’attuale mercato editoriale somiglia sempre più a uno smisurato e caotico romanzificio nazional popolare che obbedisce al canone realistico perfino quando produce delle opere “distopiche”.

– P …

– No, non serve affatto che mi rammenti la sua profonda avversione per tutti i grandi festival letterari, equiparabili a degli squallidi supermarket. Nonché la sua predilezione per tutte le situazioni borderline e anche per la piccola editoria, alla quale ha affidato quasi tutta la sua produzione. È chiaro che a muoverla in questa direzione concorrano delle ragioni editoriali, poetiche, sì, ma anche caratteriali. Non vorrei metterla in imbarazzo, ma che lei abbia un carattere schivo e solitario si capisce già dalla sua penna, affilata e beffarda. Una penna a tratti anche un po’ astiosa nei confronti di quegli pseudo scrittori falliti che sempre più vanno profanando la sacralità della letteratura, l’unica religione della quale si professa credente.

– P …

– Ha ragione, a questo punto è opportuno chiederle qual è la sua posizione dinnanzi a quella che Sergio Quinzio ha definito “la sconfitta di Dio”, ovvero il suo venir meno alle promesse di felicità e giustizia di cui gronda il testo biblico. Sarei tentata di domandarle se il suo ateismo le procuri più un senso di perdita o di libertà. In fondo, però, ho imparato a conoscerla attraverso i suoi scritti e ho la sensazione che il nichilismo, piuttosto che spaventarla, quasi la rassereni. Se quello delle nostre vite – convengo con lei – è un teatrino dove ora si ride, ora si piange, l’idea di un dio che da grande capocomico osservi il tutto sbellicandosi dalle risate senza muovere un dito, beh, farebbe dubitare chiunque della propria fede religiosa.

– P …

– Di questo discuteremo magari un’altra volta. Ora torniamo ai suoi fantasmi, quelli che cerca di esorcizzare o di debellare attraverso la scrittura. Ripensavo, durante il viaggio, a un passaggio da L’anno del pensiero magico di Joan Didion in cui l’autrice scrive “se il serpente resta visibile non può morderti. È così che affronto il dolore: voglio sapere dov’è”. Ecco, credo che la stessa cosa possa valere per quelle ombre che la perseguitano. In fondo, il fatto di fissarle sulla carta, impedisce il concretizzarsi di quella che secondo me è la sua paura più grande, ossia la perdita definitiva del suo vagolabile passato. L’esercizio della scrittura, da parte sua, risponde all’ostinata volontà di mantenere in vita i suoi ricordi. E, forse, è proprio questo mondo fatto di carta e inchiostro quella terra di mezzo in cui ha dichiarato di vivere ne Il rapido lembo del ridicolo. Mi sbaglio?

– P…

– Ah già, non le ho ancora chiesto nulla sulla sua attività di bibliotecario, incarnata peraltro dal protagonista di una sua opera, La  Casa  del  Sollievo  Mentale. Mi dica una cosa: le ha permesso di conoscere meglio le “umane genti” oppure di defilarsi dalle relazioni col prossimo, magari facendole cosa gradita?

– P …

– Va bene, le lascio la facoltà di non rispondere. Si figuri. Ma almeno può dirmi se il lavoro da bibliotecario ha acuito il suo senso critico? Non solo nei confronti della società, ma anche della letteratura, s’intende. Glielo chiedo perché mi ha molto colpito la sua polemica contro i critici odierni, dediti soltanto a scrivere romanzi oppure a confezionare favori all’amico o all’editore di turno. E dal momento che lei considera oltre il novanta percento degli attuali romanzieri nient’altro che carne in scatola, cotta e stracotta, reputo anch’io inaccettabile una critica totalmente incapace di esercitare la nobile arte della stroncatura.

– P …

– Sì, è vero. È stato Harold Bloom a sostenere che la critica è morta da un pezzo. Lei, però, ha condiviso pienamente il suo pensiero, mi pare. Stando così le cose, del resto, capisco che qualsiasi interpretazione non richiesta della sua opera la lasci ormai abbastanza indifferente. D’altronde, abbiamo ampiamente chiarito che la scrittura è per lei un’operazione necessaria. Tuttavia, ci tengo a dirglielo, questo non le impedisce, nel frattempo, di costruire personaggi interessanti che riescono a imprimersi nell’immaginario di noi lettori. Sto pensando alla Carmen de Il gabinetto del dottor Kafka, che non ha nulla da invidiare a una delle donne di Almodovar. O comunque non la porta certo a rinunciare  all’invenzione che si sviluppa attraverso tutte le situazioni grottesche che animano le sue pagine.

– P …

– Ma allora, se il gusto letterario tende ad essere orchestrato da una critica prezzolata, perché pubblicare ancora? Vuol forse dirmi che nell’inarrestabile degrado della letteratura, la lettura, se fatta con criterio, può ancora essere un modo per salvarsi da “quel grandissimo mostro odierno che è la solitudine di massa”?

– P …

– Bene. È la risposta che mi aspettavo. Lo sente? È Frank Sinatra che passano in radio? Sì, mi sembra proprio lui. Sa, è buffo come in Giorni di collera e di annientamento lei si sia costruito come alter ego un crooner che ha rinunciato alla carriera musicale per aver vinto un Premio Strega. Io, invece, l’ho sempre immaginata seduto da solo in riva al lago a intonare melodie malinconiche con l’armonica. Esatto, come Neil Young. Solitario e nostalgico.

Riguardo l’orologio: sono le 9.20.

Thinking your mind, was my own in a dream / What would you wonder and how would it seem?/ Living in castles a bit at a time

Ma non c’è da sorprendersi. In fondo le mie, come quelle di Permunian, sono solo parole, parole tra le righe del tempo.

The king started laughing and talking in rhyme / Singing words, words between the lines of age.

TESTI CITATI:

Francesco Permunian, Dalla stiva di una nave blasfema, Reggio Emilia, Diabasis, 2009;

Francesco Permunian, Il gabinetto del dottor Kafka, Roma, Nutrimenti, 2013;

Francesco Permunian, Nel paese delle ceneri, Milano, Rizzoli, 2003;

Francesco Permunian, Una strana vocazione al suicidio, Brescia, Centro Iniziative Culturali P.P. Pasolini, 1980;

Francesco Permunian, Il rapido lembo del ridicolo, Trieste, Italo Svevo Edizioni, 2021;​

Francesco Permunian, Giorni di collera e di annientamento, Firenze, Ponte alle Grazie, 2021;

Sergio Quinzio,                 La sconfitta di Dio, Adelphi, Milano, 1992;

Joan  Didion, L’anno  del  pensiero  magico  (The  Year  of  Magical  Thinking,  2005),  traduzione  di  Vincenzo Mantovani, Collana Narrativa n.2, Milano, Il Saggiatore, 2006;

Giovanni Raboni, Meglio star zitti? Scritti militanti su letteratura cinema teatro , Milano, Mondadori, 2019;

Giovanni Bitetto, Il morbo della letteratura, intervista a Francesco Permunian sulla rivista online Singola, 2022;

Neil Young, Words (Between the lines of age),                Harvest, 1972.

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Robert Frost, “Betulle”, una lettura.

di Demetrio Paolin

In questi mesi Adelphi ha pubblicato Fuoco e Ghiaccio (trad. Silvia Bre) di Robert Frost, un libro che raccoglie la maggior parte della lirica del grande poeta americano. Frost è autore di una delle poesie che ho più amato e letto negli anni: Betulle.  Pur non essendo un esperto e un critico di poesia, ho provato a fare “alcune” riflessioni su questi versi. Non riuscendo a strutturare un vero e proprio saggio né su Frost (la postfazione di Ottavio Fatica è molto interessante ne consiglio la lettura prima di immergersi nei versi del libro) né sulla lirica in sé, ho pensato semplicemente di glossarne alcuni versi. Ho deciso di privilegiare l’originale, per evidenziare la musica del verso di Frost. Primariamente leggeremo la poesia, i numeri tra parentesi quadre indicano i punti dove sono intervenuto con le mie riflessioni.

When I see birches bend to left and right [1]

Across the lines of straighter darker trees,

I like to think some boy’s been swinging them.

But swinging doesn’t bend them down to stay

As ice-storms do. Often you must have seen them

Loaded with ice a sunny winter morning

After a rain. They click upon themselves

As the breeze rises, and turn many-colored

As the stir cracks and crazes their enamel.

Soon the sun’s warmth makes them shed crystal shells

Shattering and avalanching on the snow-crust—

Such heaps of broken glass to sweep away

You’d think the inner dome of heaven had fallen. [2]

They are dragged to the withered bracken by the load,

And they seem not to break; though once they are bowed

So low for long, they never right themselves:

You may see their trunks arching in the woods

Years afterwards, trailing their leaves on the ground

Like girls on hands and knees that throw their hair

Before them over their heads to dry in the sun. [3]

But I was going to say when Truth broke in [4]

With all her matter-of-fact about the ice-storm

I should prefer to have some boy bend them [5]

As he went out and in to fetch the cows—

Some boy too far from town to learn baseball,

Whose only play was what he found himself,

Summer or winter, and could play alone.[6]

One by one he subdued his father’s trees

By riding them down over and over again

Until he took the stiffness out of them,

And not one but hung limp, not one was left

For him to conquer. He learned all there was

To learn about not launching out too soon

And so not carrying the tree away

Clear to the ground. He always kept his poise

To the top branches, climbing carefully

With the same pains you use to fill a cup

Up to the brim, and even above the brim.

Then he flung outward, feet first, with a swish,

Kicking his way down through the air to the ground.[7]

So was I once myself a swinger of birches.

And so I dream of going back to be.

It’s when I’m weary of considerations,

And life is too much like a pathless wood

Where your face burns and tickles with the cobwebs

Broken across it, and one eye is weeping

From a twig’s having lashed across it open.

I’d like to get away from earth awhile

And then come back to it and begin over. [8]

May no fate willfully misunderstand me

And half grant what I wish and snatch me away

Not to return. Earth’s the right place for love: [9]

I don’t know where it’s likely to go better.

I’d like to go by climbing a birch tree,

And climb black branches up a snow-white trunk

Toward heaven, till the tree could bear no more,

But dipped its top and set me down again.

That would be good both going and coming back.

One could do worse than be a swinger of birches. [10]

[1] When I see birches bend to left and right.

La grandezza della lirica di Frost sta nel suo nitore di mezzi, di temi, di lingua. Di Frost a colpirmi è la chiarezza, una chiarezza vicina alla semplicità infantile. Il verso iniziale della poesia è elementare, la sua lingua è trasparente, non mi viene un aggettivo migliore; mostra quello che è per ciò che è.  La domanda di Holderlin, che è forse il poeta che io accosterei più volentieri a Frost, Perché i poeti in tempo di povertà, è risolta da Frost nell’idea di una lingua che si fa povera; anzi la linguaggio è una esperienza di penuria. Il primo verso descrive le betulle che si muovono: è una lingua, che nomina le cose. Perché parlo di povertà e non di semplicità? Perché Frost non è un poeta semplice, non sceglie queste parole per semplificare il dettato, ma vuole rendere il lettore partecipe della sua esperienza di impossibilità di produrre una comprensione più esatta del mondo e delle cose.

Nominare le cose non è dominare le cose; la parabola adamitica andrebbe riscritta: quando nominiamo le cose, loro ci possiedono e noi entriamo nel loro campo semantico e questo ci fa sentire la nostra pochezza, la pochezza del nostro strumento per accordarci con la natura.

[2] You’d think the inner dome of heaven had fallen

 You’d think the inner dome of heaven had fallen. Nel mezzo di una riflessione piana, una semplice contemplazione della natura così come è, appare questo verso, che risulta essere la chiave di volta del poema: Frost sta scrivendo una sorta di apocalisse; egli è uno scrittore che vede cieli nuovi e terra nuova, che vede consumarsi il tempo del mondo come le pagine di un libro che brucia. Il crollare della neve e del ghiaccio dai rami diviene un tutt’uno con il cielo che crolla, con il mondo che finisce, quasi che la trasparenza delle versi precedenti non fosse che un inganno per qualcosa di più profondo, che il poeta vede e che lampeggia alla nostra vista per un attimo, nel preciso istante in cui la neve e il ghiaccio cadono. Ai nostri occhi la cortina di nebbia che avvolge il mondo si apre e per il tempo infinitesimale della caduta mostra ciò che realmente è.

[3] Before them over their heads to dry in the sun

Questo passaggio, con i versi che lo precedono, mi colpisce sempre e mi è oscuro, ogni volta che mi soffermo su di essi mi pare indicare qualcosa come l’essere recalcitrante del mondo. Nel verso precedente abbiamo visto che il poeta è riuscito a mostrarci l’apocalisse, una idea di essa, per un attimo, come il brillare luminoso della luce che trapassa la neve, qui invece è come se la realtà si ribellasse a quel tentativo di svelare se stesso: il mondo fosse opaco alla rivelazione che il poeta presagisce e che cerca di raccontare; che esperienza abbiamo del mondo? Che esperienza abbiamo delle piante, dei ruscelli, dei sassi? Che esperienza degli animali, dei loro sogni, del loro sangue, della loro sofferenza, cosa è il Vivente? Cosa è vivo e cosa è morto? Le parole, che Frost usa, sono le parole che tentano la rivelazione, Betulle è una poesia – come ogni poesia di Frost – che prova a dipanare la rivelazione, ma la realtà è idiota, non produce in noi nessuna reale conoscenza, produce al più parole che producono una spiegazione misteriosa e oscura di un mondo che recalcitra, che resiste, che si piega senza spezzarsi che continua a esistere.

[4] But I was going to say when Truth broke in

Betulle è chiaramente un testo meta-poetico, non è la semplice descrizione di un bosco d’inverno, è il resoconto dell’apparire della verità, anzi della Verità, simile a un tempesta di ghiaccio: è interessante che parli di “verità” e non di “realtà”. A Frost preme la verità: verità e realtà non sono coincidenti, sono sposate su due piani diversi; paradossalmente meno facciamo esperienza della realtà (vd la povertà della lingua) più si apre il piano della verità.

[5] I should prefer to have some boy bend them

Il ragazzo è una creatura viva, reale che si muove, che dondola tra i rami. Il ragazzo si oppone alla verità, il poeta oppone il ragazzo alla verità, l’esistenza del ragazzo è in opposizione. La letteratura, il fare letteratura, lo scrivere è opporsi alla verità, opporsi al dato del reale così come è. La letteratura non nasce per descrivere il mondo, per cartografarlo, per renderne nitidi i contorni, la letteratura non è rappresentazione del reale dal vero, come una pittura, come una foto, ma è una bugia, una menzogna, una travisare la realtà, un velarla agli occhi, è – in una parola – finzione. Il poeta ha visto se stesso specchiato nella verità e ha avuto paura, crea una storia per allontanare chiunque dalla possibilità di specchiarsi.

[6] Summer or winter, and could play alone

Questo ragazzo è capace di giocare da solo – play alone -. Il termine play è ambiguo, vuol dire anche recitare, agire, fare: è lo scherzo tremendo che Nabokov racconta come origine della letteratura: “La letteratura non è nata il giorno in cui un ragazzino corse via dalla valle di Neanderthal inseguito da un grande lupo grigio, gridando ‘Al lupo, al lupo’; è nata il giorno in cui un ragazzino, correndo gridò ‘Al lupo, al lupo’ senza aver nessuno lupo alle calcagna”. Il bambino di Nabokov come il ragazzo di Frost sono soli, non hanno compagnia (scrivere è un atto di estrema solitudine, è l’eremo): sono loro che fanno da intermediari tra la realtà – avere veramente un lupo alle calcagna – e la finzione – immaginare di avere un lupo alle calcagna -; l’interstizio scintillante in cui il ragazzo di Frost ci invita a giocare è appunto la letteratura, che è sfugge alla nostra capacità informativa, che non riesce a essere tradotta in maniera piana; la letteratura in un testo è ciò che si oppone a ogni interpretazione, che recalcitra, proprio come la natura [3], e più recalcitra più noi cerchiamo di analizzarla.

[7] Kicking his way down through the air to the ground

Assistiamo a una descrizione di apprendimento, a come poter guardare la natura, alla scelta di povertà del linguaggio, perché la povertà del linguaggio è la cosa più vicina al silenzio, la ipotesi in cui possiamo realmente fare esperienza del mondo, e ci possiamo opporre al lui. Impoverire la sintassi, sempre più semplice, svuotare il soggetto, svuotare i verbi, i complementi, le proposizioni, i nessi causali e finali, provare a sentire la nudità delle termini. Provare a scrivere una parola in cui ogni funzione sintattica, grammaticale, retorica e di eloquenza sia una e soltanto quella, riuscire a dire “Io sono a casa” senza che questa frase suoni ambigua, senza che possa produrre interpretazione.

[8] And then come back to it and begin over

In questi versi compare la nostalgia, nel duplice senso di desiderio ciò che è perduto e di ritorno a ciò che era un tempo. Frost è stato il bambino che dondolava tra le betulle [6], era il bambino che gridava al lupo al lupo senza che nessuna fiera lo aggredisse o inseguisse. È interessante questa sequenza “andare via dal mondo: tornare indietro: ricominciare”, che descrive in maniera perfetta la nostalgia come un muoversi non tanto in uno spazio, ma in un tempo: ecco perché “ricominciare”. La nostalgia è legata a un inizio, a un principio, ovvero è legato al tempo. La nostalgia è il tempo del principio, è il momento esatto prima che la colonna del cielo crolli e la verità entri nel mondo, la nostalgia è quando non c’era bisogno della verità, della realtà, del linguaggio, semplicemente perché tutto questo non c’era, perché non c’era bisogno di gridare “Al lupo al lupo”, perché niente di tutto questo esisteva: la nostalgia è l’attimo esatto in cui l’universo fu in equilibro e l’equilibro fu l’angoscia. La nostalgia è il mondo libero, mentre cede all’angoscia.

[9] Earth’s the right place for love

La terra è il posto giusto per amare. Cosa è l’amore? Anzi cosa è amare, non tanto la sostanza, quando il verbo, cosa è il verbo amare? In Betulle questa azione è strettamente legata a una serie di verbi di movimento, li introduce, come se fosse il prodromo da cui entrare: andare, salire, ritornare. Durante la lettura tutti questi verbi hanno un’accezione di morte, di abbandono, brilla nascosto il suicidio. Amare porta con sé il dono della morte, l’ultimo dono del poeta: la sua vulnerabilità, la sua sconfitta, il suo tentativo di esprimere con poche parole il semplice dondolare dei rami delle betulle.

[10] One could do worse than be a swinger of birches

Così come si è aperta la lirica si chiude, alla fine quel che resta della poesia è l’immagine iniziale, il movimento a cercare un senso, c’è di peggio dice Frost che scrivere una poesia; gli scrittori, i poeti, i critici, gli intellettuali sono innocui come i bambini che gridano al lupo, come i ragazzi che giocano nel bosco, nessuno li sente, a nessuno importa di loro, di ciò che hanno – rapidamente e confusamente – per un attimo veduto.

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Joyce, Ulisse, Appunto 3 [VI, VII, 166-237].

di Demetrio Paolin

CIMITERO. Il capitolo VI è il resoconto di un funerale. Se guardassimo all’Ulisse come ri-scrittura dell’Odiessea ci troveremo davanti a un episodio che parodizza il viaggio nel regno dei morti; in realtà   è se queste pagine si confrontano con Amleto, V scena 1 (https://shakespeare.folger.edu/shakespeares-works/hamlet/act-5-scene-1/). In quelle sequenze abbiamo davanti a noi la mescolanza di stile tragico e comico, di alto e basso, che è la cifra, secondo Auerbach, dell’opera di Shakespeare e del realismo creaturale alla base di tutte le opere prese in analisi in Mimesis. Il cap VI vive della medesima mescolanza tra riflessione sapienziale e la battuta più trita. Parlando del cap VI, mi piacerebbe ravvisare la centralità dell’Amleto come funzione narrativa in tutto lo sviluppo del romanzo di Joyce.  Proviamo a sondare un po’ il testo per vedere se le nostre impressioni sono suffragate dai testi. Bloom riflette nuovamente su Rudy: «Se il piccolo Rudy fosse vissuto. Vederlo crescere. Sentire la sua voce in casa. Lì a camminare al fianco di Molly in un completo tipo Eton» (VI, 152) . È un momento lirico e poetico, e Joyce di seguito racconta così il concepimento: «Dev’essere stata quella mattina in Raymond terrace che lei era alla finestra a guardare due cani che ci davano accanto al muro del gabbio. E il pulotto guardava ghignando. Indossava una gonna color crema con lo strappo che non ha mai rammendato. Dammi una botta, Poldy. Dio, sto morendo di voglia. Così comincia la vita» (VI, 152).  La mescolanza di stile, che è il sigillo della grandezza di Shakespeare, è quindi cercata e raggiunta più volte da Joyce: «Una bara scaraventata sulla strada. Si spalanca. Paddy Dignam sparato fuori, che rotola stecchito nella polvere in un abito marron troppo grande per lui. Faccia rossa: adesso grigia. Bocca che penzola aperta. Chiedendosi adesso cosa succede, Giustissimo chiudergliela. Aperta è orrenda da vedere. E poi le interiora si decompongono in fretta. Molto meglio tappare tutti gli orifizi. Sì, anche. Con cera. Lo sfintere rilasciato. Sigillare tutto» (VI, 166) . Si intravede nella citazione il ricordo delle riflessioni dei becchini, e il loro modo stralunato di interpretare l’ubi sunt?. Poche  pagine dopo leggiamo: «Ogni mortale giorno un’infornata nuova: uomini di mezza età, vecchie, bambini, donne morte di parto, uomini barbuti, professionisti calvi, ragazze tisiche con tettine da passero.» (VI, 174). La nostra fragilità si mostra nella contemplazione del corpo morto: «Il tuo cuore forse ma cosa non gliene frega al povero diavolo chiuso in quei sei piedi per due con i ditoni rivolti alle margherite? […] Ce n’è un fottio qui intorno: polmoni, cuori, fegati. Vecchie pompe arrugginite nient’altro. La resurrezione e la vita. Una volta che sei morto sei morto» (VI, 175). Tutta la scena del cimitero avviene all’interno di un «sbarrato, disabitato, incolto giardino» (VI,168 – citazione da Amleto),  un luogo poco salubre, che «sembra zeppo di gas malsano» (VI, 173). In questo ambiente compaiono ovviamente i becchini (VI, 174), nell’economia dell’Amleto i becchini svolgono una funzione comica,  ripresa nel Ulisse quando uno dei necrofori racconta la storia dei due ubriaconi alle persone presenti alla tumulazione dell’amico, sono poche righe dal sapore di aneddotico e di burla (VI, 177).

Altra prova dell’influenza prodotta dall’atto V scena 1 dell’Amleto è il tema del suicidio. I due becchini nell’Amleto parlano del suicidio di Ophelia, e riflettono se/quanto sia lecito o meno seppellire in terra consacrata una persona che si è tolta la vita. Il signor Power, durante il funerale, dice: «Ma peggio di tutto è colui che si toglie la vita» e rincara la dose: «La peggior disgrazia che possa capitare a una famiglia» (VI, 162 -163).  Tra le persone scende il gelo, il padre di Bloom si è suicidato, e sta a Cunningham portare un po’ di ragionevolezza, deviando la conversazione su lidi più sicuri, un gesto subito riconosciuto da Bloom: «I grandi occhi di Martin Cunningham. Che adesso guardava da un’altra parte. Di faccia assomiglia a Shakespeare. Sempre pronto a mettere una buona parola. Questa cosa non la perdonano, come l’infanticidio. Rifiutano l’esequie cristiane.[…] Trovato sul letto del fiume aggrappato a giunchi» (VI, 163). Nelle parole di Bloom, oltre alla menzione di Shakespeare,  la citazione dell’Amleto è duplice a) l’immagine dei giunchi, che unisce la morte per acqua (Ophelia) e il letto di morte (il padre di Bloom ), b) il suicidio come atto di riprovazione eterna. Le evidenze testuali, infine, sono tali che quando Bloom nomina “i becchini dell’Amleto” (VI, 180) nessuno pare stupirsi.

AMLETO. Ulisse allude continuamente all’Amleto: già nei primi capitoli era così, pensiamo all’immagine del marcio, del verde marcio, nella figura di Stephen è adombrato Amleto: «Così nei turni di guardia della luna io pattuglio la stradina sopra le rocce, in nero argentato, prestando orecchi alla tentatrice marea di Elsinore» (III,88). Stephen, come Amleto, è orfano, esule e al limite della follia: ad accomunare Ulisse, Amleto e Odissea è una struttura narrativa remota, che si perde all’inizio dei tempi: l’orfanità. Si inzia a scrivere perché si è orfani, in Stephen ritorna il tema del figlio che ha perduto i genitori (realmente: la madre; simbolicamente: il padre), anche Bloom è orfano di Rudy. Non esiste una parola che descriva la situazione di un genitore a cui muore il figlio e ciò indica un vuoto grammaticale, sintattico, concettuale per significare qualcosa fuori da ogni immaginazione. Bloom è come il fantasma del re, che morto o passato a un altro modo, si scopre privato del proprio figlio. Nel 1596 a Shakespeare muore il figlio Hamnet: è possibile che sia avvenuto qualcosa, che quella morte abbia prodotto nello scrittore inglese una incrinatura, una rottura dello svolgersi del tempo, un cambiamento nelle regole dell’universo, che ha creato un cosmo alla rovescia dove il brutto è bello e il bello brutto? Shakespeare è così enigmatico, così lontano da ognuno di noi – noi sappiamo cosa sentono i suoi personaggi, ma di lui ignoriamo ogni singolo sentimento – che potrebbe essere un’ipotesi percorribile, e Joyce è un così grande narratore che, incuriosito da quella zona d’ombra, in cui in nome del figlio assona con quel del protagonista, ha potuto immaginare in un tempo fuori di sesto, sotto un cielo marcescente, uno Shakespeare/Bloom straziato dal dolore, che osserva i becchini seppellire tra motti e battute la piccola bara di Hamnet/Rudy.

DUBLINO. Pound sostiene che Joyce «è un realista… dà la cosa come essa è». L’Ulisse può essere letto come romanzo realista? I grandi scrittori ottocenteschi accostano le proprie opere a uno specchio/finestra: la scrittura, come tentativo di chiudere in un modo finito un mondo infinito, trova il suo correlativo nello specchio, che che con il passare degli anni diventa sempre più “fedele”, ma come  aggiunge George Eliot altrettanto «difettoso; qualche volta i lineamenti appariranno offuscati, le immagini deboli e confuse; ma mi sento in dovere di narrarvi il più fedelmente possibile tutto quanto vi è stato impresso, come fossi in tribunale, sul banco dei testimoni, e dovessi riferire sotto giuramento tutta la storia alla quale ho assistito».  Lo specchio intravisto nelle prime pagine (I, 21) dell’Ulisse, quindi, è un rimando a questa funzione narrativa, ma in Joyce accade che lo specchio s’incrini e la realtà si disponga diversamente. Concentriamoci brevemente sul capitolo VII, esso è composto da una serie di frammenti con tanto di titoli; potremmo ipotizzare che siano come cartoline più o meno brevi dalla Dublino di inizio Novecento, potremmo pensare che queste prose come dei flash, dei lampi, dei frantumi o trucioli; insomma vedere in Joyce una deframmentazione della realtà, un suo scomporsi simile a ciò che accadeva con il cubismo in arte figurativa. Ci si potrebbe spingere più in là e dire che Joyce è antesignano di narrazioni contemporanee completamente parcellizzate. Lo specchio di Joyce, però, non è andato in frantumi, ma si è incrinato, ovvero la sottile lastra  è fessa da linee, sbucciature e piccoli difetti che rendono l’immagine scomposta ma in sé unitaria.  Joyce vuole raccontare questa molteplicità focale, è come se il suo specchio franto avesse più punti di vista, più luoghi, attraverso i quali la “cosa reale” può essere vista. Queste pagine sono anche le prime dove Dublino entra in scena in tutta la sua interezza, che non può essere simile alla rappresentazione della città nel romanzo dell’800, ma che deve dare il conto dei cambiamenti che sono avvenuti. C’è di certo una memoria balzachiana, penso a Illusioni perdute, ma in queste pagine, dove per la prima volta troviamo accostati i due filoni narrativi di Bloom e Stephen, Joyce inscena una modificazione profonda. Se nell’ottocentesca Parigi di Balzac i giornali erano il trampolino di lancio per giovani scrittori pronti a conquistare il mondo e metterselo sotto i piedi, nell’Ulisse vediamo Bloom che ragiona e litiga con direttori, compositori di pagine etc etc per strappare un quartino o mezza pagina di pubblicità, che spiega bozzetti di reclame, che tratta gli spazi a livello economico. Bloom è insomma il prototipo del pubblicitario, che costruisce pagine come se fossero articoli che vengono comprate dagli inserzionisti. La comparsa di Dedalus è invece interessante, perché in Stephen Joyce lasca viva una traccia dello scrittore squattrinato, scoria ulteriore di naturalismo nel romanzo. Infatti con Stephen il discorso vira da economico a letterario. Dedalus inizia a raccontare a voce alta una breve novella che vorrebbe pubblicare sul giornale (VII, 230 ). Il paragrafo, che si apre con le parole «Gente di Dublino»,  chiaro riferimento ai Dubliners,  non è un racconto dentro il romanzo, ma è l’esposizione orale del racconto da parte di Stephen, una storia, che avrebbe potuto far parte di quella raccolta, interrotta e inframmezzata da alcune apparizioni brevi di Bloom, ritratto mentre cerca di chiudere un contratto pubblicitario. Potremmo rubricare questo passaggio sotto il titolo l’arte nella epoca della reclame: mentre ancora Stephen sogna quel mondo che fu (non è un caso che citi il motto di Flaubert, in appunto 2), Bloom rappresenta la disgregazione di quella realtà. L’incrocio tra di due personaggi, che si sfiorano per ora, è presagito nel traiettorie dei tram di Dublino, che danno la reale dimensione della città: «In vari punti delle otto linee c’erano vetture tranviarie freme sui binari con trolley immobili, dirette a o provenienti da Rathmines, Rathfarnham, Kingstown, Blackrock….[…] tutte ferme, bloccate in un cortocircuito. Fiacre, carrozze, carri per consegne, furgoni postali, brum privati, carri scoperti di acqua minerale gasata pieni di sbatacchianti cestelli di bottiglie sferragliavano, rotolavano, trainati da cavalli, rapidamente.» (VII, 236). La molteplice unità (i nomi delle linee) e la moderna frenesia (l’avverbio “rapidamente”) della città sono il segno di un nuovo modo di guardare la realtà sempre attraverso uno specchio, a cui qualcuno ha tirato un pugno.