In La Seconda Repubblica delle Lettere/ Narrazioni

Come un ascensore che sale, si rompe e precipita: “Borgo sud” di Donatella Di Pietrantonio

di Antonio R. Daniele

Borgo sud è il seguito dell’Arminuta, libro di tre anni fa. Questo dato ci libererebbe facilmente dal compito di introdurre i personaggi e anche parte della storia. Ma siccome ogni narrazione e ogni libro, per quanto strettamente legati a un’altra narrazione e a un altro libro, hanno di per se stessi un loro spazio di autonomia, scriveremo qualche riga su questo nuovo romanzo di Donatella Di Pietrantonio, senza ricordarci troppo che si tratta del sequel del precedente. Va detto, tuttavia, che la scrittrice non ha fatto molto per tenerci lontani da questa categoria, non tanto per ciò che è ma perché sequel vuol dire soprattutto audiovisivo.

         Sembra che oggi non si possa scrivere un romanzo degno di considerazione presso la critica senza che esso sia strutturato come una certa maniera di fare cinema e, soprattutto, di fare serie televisive. Il vecchio “montaggio in alternato” di impianto cinematografico, rinnovato e portato a evoluzioni estreme dalle piattaforme televisive a pagamento,  è diventato il segno di riconoscimento dei narratori di questo tempo, una specie di “Green Pass” del bravo romanziere: se non ce l’hai e se non puoi esibirlo, non vieni ammesso al salotto buono. Guai, oggi, a scrivere una storia che abbia un tempo di narrazione lineare; nella quale la lettura segua i fatti secondo causa ed effetto: il lettore si annoia, dicono; quel tipo di romanzo è morto, ammoniscono.

         Pertanto, anche Borgo sud, come molti altri romanzi italiani degli ultimi quindici anni almeno, aderisce in pieno a questa modalità, ma vorremmo dire “moda”: l’inizio della vicenda al tempo presente è un pretesto per avviare il motore della macchina narrativa che in alcuni casi si avvita in pannelli sovrapposti a ritmo incalzante. Non so se tutto questo possa scansare nel lettore il tanto paventato rischio della noia, ma di certo lo costringe ad andirivieni temporali a volte virtuosistici, a volte anche febbrili, secondo la maniera di certe serie tv d’oltreoceano evidentemente, ormai, del tutto parte della nostra struttura mentale.

         Detto questo, Borgo sud è un ottimo romanzo: possiede una scrittura potente che rende importante la storia stessa. Dopotutto, questa – lo sappiamo già da L’arminuta – non è che la storia di due sorelle in perenne conflitto con la propria famiglia; ora è anche la storia di una ragazza che disobbedisce come respira e di una donna che lascia il paese per la città; la storia di una ragazza che si ritrova a crescere un figlio senza suo padre e di una ricercatrice il cui matrimonio va in malora perché il marito scopre la propria omosessualità. Visto così, è un romanzo come migliaia di altri. Naturalmente è molto di più. È la storia di un borgo abruzzese. Ma anche questo elemento non è nuovo nel romanzo italiano sulla linea adriatica: dal veneto di Matteo Righetto al salento di Mario Desiati, la narrazione della terra avita come discolpa non richiesta della nostra vocazione globalizzante è un’altra delle pratiche più o meno fortunate degli odierni narratori italiani o in lingua italiana. Di Pietrantonio ha, però il merito di portare questa pratica alla superficie delle cose senza assilli e soprattutto senza compiacimenti di sorta. È una scrittura di sofferenza quella di Di Pietrantonio ed è – ci pare – la sofferenza di una donna costretta suo malgrado a fare i conti con una terra che non vuole lasciare i propri figli. L’Abruzzo della scrittrice è una delle cerniere d’Italia, va detto. È una terra screziata, un territorio che ancora oggi non ha risolto il conflitto che di fatto tutto il Mezzogiorno si porta dietro: fuori o dentro l’area rurale; fuori o dentro il territorio di pesca. E in che modo. È il problema della protagonista, della narratrice, il cui nome non c’è. Ma ci sono giorno dopo giorno, e negli strati giustapposti e impilati delle tante tessere del romanzo, i segni del passato, come una forza della natura che si riprende il suo posto. La narratrice ha provato a scappare verso nord, anno per anno: alla fine è stata tirata giù a sud, nel borgo. E più ha provato a risalire lo stivale, da Pescara a Macerata, fino a scavalcarlo in Francia, più la discesa è stata vertiginosa. Come un ascensore che, salito un edificio altissimo, si rompe e precipita. E chi vi è dentro si fa male, si “rompe la coccia”, come accade ad Adriana, la sorella giovane, la scapestrata. Ma la maggiore non si fa meno male, perché porta il fardello della coscienza delle cose. Soffre il male di molti: il proprio, di donna che si credeva affrancata dall’abbruttimento del borgo e si è dovuta scoprire frodata; quello della sorella che sfida lo sconcio della vita restandovi sempre in credito e sempre incapace di passare all’incasso; quello di una madre e di un padre tenuti “a parte”, nel borgo. Come una cosa brutta.

         Abbiamo detto che la prosa di Di Pietrantonio è potente. Lo è nonostante qualche volta vi si infili la lusinga della tenerezza in frangenti che paiono preludere a qualcosa di decisivo. In Di Pietrantonio sul più bello c’è qualcosa che cola:

– Lascialo sta’ a mio cugino – ha detto Adriana e si è messa tra i due, di faccia a Rafael, pronta a sventare la rissa ma in fondo orgogliosa di essere lei il motivo. Ci guardavano tutti e io ero ammutolita dallo stupore, da un imbarazzo giustificato.

Vieni, usciamo, – ho detto poi a Vittorio toccandogli la schiena.

Le creme del cono che non aveva leccato colavano lungo la cialda e fino al polso. (p. 44)

Mia sorella, che a dieci anni non aveva mai visto i pesci, li ha puliti con abilità, e una grazia selvaggia nei gesti. Alla sogliola ha intaccato la pelle in un punto esatto e l’ha spogliata con uno strappo rabbioso. Uno schizzo l’ha raggiunta alla guancia mentre tagliava una seppia, le è colato come una lacrima nera. (p. 83)

Insomma, c’è una traiettoria verticale a scendere, a cascare, cercata e quasi desiderata. Qualcosa cola, scende e precipita come se non fosse possibile altro. Qualcosa torna a valle: le arminute permanenti di Donatella Di Pietrantonio sono una dannazione che le pieghe stesse della parola rivelano come un soffitto che trasuda sulla nostra testa sino, forse, a crollare.