di Umberto Mentana
Quanto è difficile rincorrere un fantasma, soprattutto se poi si fa chiamare “Dostoevskij” e sulle sue vittime martoriate dai segni e dai colpi lascia solo parole, lunghe lettere autoriflessive sul making of dell’omicidio appena compiuto? La miniserie dei fratelli D’Innocenzo (La Terra dell’Abbastanza, Favolacce, America Latina) si apre infatti con altrettante parole impresse sulla carta, frasi disperate e di sofferenza, quelle di Enzo Vitello (Filippo Timi), capo della polizia depresso e affogato dai suoi “demoni”.
Vitello è a capo dell’indagine impossibile, i suoi metodi non sono ortodossi, anzi, e pare non preoccuparsi più di tanto di arrivare a capo e alla soluzione perché in Dostoevskij siamo immersi fino al collo di una fitta coltre di grigio: tutt’intorno è paranoico, claustrofobico e i D’Innocenzo ce lo fanno capire bene con il loro stile visivo, particolareggiato e denotato dalla scelta di immagini che restituiscono una grana di transitorietà, di ineffabile cattura: respiriamo su più canali lo sporco di quel mondo ritratto, dalle soggettive che si concentrano ad analizzare per un istante solo singoli oggetti e dettagli sfuggenti, a continue riprese con la macchina a mano ed un uso fotografico che sembra uscire — appositamente contestualizzato — dalle immagini di filmati casalinghi di un’era pre-smartphone (non è un caso l’utilizzo della pellicola 16 mm), perché siamo distanti, molto distanti dalla perfezione dei filtri social e dalle ottiche HD: non abbiamo e non esiste tutta quella luce quando la giustizia non solo brancola nel buio ma è parte di quella asfissiante oscurità. Forse il risultato di quell’immondo deserto a cui noi assistiamo per tutti i sei episodi della miniserie è innanzitutto la conseguenza del trauma che Vitello cerca di combattere nel suo presente, ossia l’ambiguo e travagliato rapporto con sua figlia Ambra (Carlotta Gamba), tossica apparentemente insalvabile che cerca di riprendersi con rabbia un tempo perduto che non ha mai vissuto in maniera spensierata, quello della sua infanzia, e una relazione sana con la sua famiglia: ricordiamo per tutte la sequenza del parco giochi nell’episodio due della serie, carica di un disagio e di una tristezza davvero pesante, a cui segue negli episodi successivi la confessione di Vitello, che disturba e disorienta nel profondo.
Con questa miniserie, un vero e proprio film lungo circa duecentosettanta minuti siamo più dalle parti di un Zodiac di Fincher (2007) in salsa nostrana, dove l’orrore risiede in un passato che ha smarrito le sue tracce e a cui è impossibile risalire; bisogna scavare a fondo, considerare e riconsiderare piste ed indizi improbabili, oltre ad una buona dose di inventiva e caparbietà ed infine pensare come il mostro; e non è detto che questo poi non divenga parte del tuo mondo. Dostoevskij forse è la storia di una Genesi malata, che nasce dagli odori della melma e dalle cuciture della carne di cui è pregna la solitudine di certe vite.