In Tu con Zero - Le interviste

Gli incontri di Lettera Zero: Carmen Barbieri – “Cercando il mio nome”

(trascrizione della videointervista del 27 marzo 2021)

Vito Santoro: Scrivere del proprio padre è un po’ come raccontare sé stessi, guardarsi dentro, specie quando la vita del genitore è giunta al capolinea e con lui è esistito un rapporto molto forte, quasi simbiotico, paragonabile ai «pupi mossi dalla stessa coppia di aste di metallo».Nel suo convincente romanzo d’esordio, Cercando il mio nome (Feltrinelli, pp. 224, € 16.50), la scrittrice e attrice Carmen Barbieri dà appunto voce al gorgo emotivo in cui precipita la giovane Anna, napoletana, studentessa fuori sede alla Sapienza, in seguito alla morte, sia pure annunciata e prevista, del padre amatissimo, Giosuè. Quel Giosuè, che era solito rivolgersi affettuosamente alla figlia con un apapà, parola di origine latina, entrata nel vocabolario napoletano, a indicare «una dolcezza, una positiva disponibilità d’animo del padre nei confronti del figlio». È «crasi di un moto a luogo»: a come ‘ad’, perciò “vieni da/verso papà”». Però a causa di uno spietato melanoma quell’apapà si è trasformato in «a-papà, senza padre»: alfa privativo.

Il lutto ha destrutturato la vita della ragazza, spingendola verso un travagliato percorso alla ricerca dell’essenza più intima e misteriosa della propria individualità. Anna elegge il padre a tu dialogico, quasi a renderlo concreto e riavvolge il nastro della sua esistenza. Per mantenersi agli studi a Roma, dove Giosuè l’aveva convinta a trasferirsi per allontanarla dalla sua malattia, Anna lavora come ballerina dilap dancein un night, dietro la spinta di un laido e innominabile sacerdote, un anti-padre, da lei ribattezzato il Prete Nero. Nel locale si trasforma in Bube, nome d’arte cassoliano, anche se lei, in verità, avrebbe preferito farsi chiamare Carla, come la ‘ragazza’ del poemetto di Elio Pagliarani, di cui viene citato il celebre ultimo verso: «Pietà di noi e orgoglio con dolore». Anna-Bube non si vende ai clienti, rifugge dai privé. Si fa solo «scimmia e uccello» intorno al palo della lap dance. Lascia solo rendere il suo corpo oggetto di sguardo. Forse solo qui, in questo luogo purgatoriale, Anna può distruggere definitivamente il proprio legame con il padre. «E l’incubo mi diceva: crescerai», recita il verso di Roberto Bolaño, tratto dalla silloge I cani romantici, posto in esergo.

Mentre volteggia intorno al palo, Anna rivede come in un film, sé stessa bambina ai Quartieri Spagnoli, dove è nata e cresciuta in un palazzo del Cinquecento, una icona sacra in ogni piano. Un passato che la vede gironzolare nei viottoli con i compagni di classe, i gemelli Alfredo e Cristina o con papà Giosuè. La passione per il teatro maturata dalle suore. E poi la varia umanità dei vicoli e dei bassi e soprattutto la nonna dai «ragionamenti cristianamente sovversivi», che la educa al culto dei morti. Fin dalla prima veglia funebre la bambina si abitua alla realtà della finitezza e riconosce nei corpi processi vitalistici: «i morti scorreggiano; oppure emettono dei rumori intestinali; il più delle volte rilassano troppo la mandibola».

Anna ha fede. Una fede autentica, ben diversa da quella finta e strumentalmente esibita del Prete Nero e del suo fidanzato, giovane arrivista professore universitario, legato agli ambienti ecclesiastici romani. Non a caso, fa ricorso a similitudini bibliche nel raccontare la malattia del padre, la cui fede, confessa, «mi interroga più di ogni altro aspetto della tua vita». Anna crede in Cristo, cioè nel Dio fatto uomo. Si immedesima nella «grande ostia consacrata, una persona viva, che mi guardava, offrendomi la sua presenza per fare memoria della mia». «Se sia stato solo un uomo o se sia Dio, non cambia la sostanza della sua presenza alla mia coscienza. È esistito perché esistono le sue parole, che ha detta di molti sono sue, soltanto sue». È la lezione di Dio che pervade l’intero romanzo: «un Dio che dice, che chiami le cose per nome e queste esistano, che l’esistenza passi attraverso le parole». Le parole sono dunque vive. Da qui nasce il bisogno da parte di Anna di recitare (per lei l’attore non è altro che colui che «sa ascoltare ciò che la terra bianca, la polvere bianca dell’anima, seguita a dire»), nonché l’attrazione verso il loro etimo: «amore viene daa-mors, senza morte. Del perché voglio bene a Gesù sta forse tutto in questa parola. Lui è quella parola che crocifissa non muore. Perché amore non conosce morte».

Carmen Barbieri: Oltre che raccontare l’elaborazione di un lutto, Cercando il mio nome ha come tema principale l’amore, in particolare, sopravvivere alla fine del grandissimo amore vissuto con il padre. Penso che qualcuno tra i lettori potrebbe aver provato questo tipo di smarrimento esistenziale non necessariamente dopo la perdita della figura paterna o materna ma anche, magari, alla fine di una storia d’amore costitutiva dell’esistenza di una persona. Quando perdiamo qualcuno che costituisce la nostra esperienza d’amore, questa cosa ci procura uno smarrimento molto forte. Da qui la necessità di rispondere alla domanda: “Chi siamo senza la presenza dell’unica persona che dava senso alla nostra vita?”.

Il grande problema dell’amore è il vincolo che si crea tra persone che si amano e quando quel legame subisce un mutamento, ciò provoca molto dolore. Nel caso di Anna e del padre si tratta di un mutamento abbastanza definitivo con il quale bisogna fare i conti in modo importante. Inoltre credo sia vero che questo romanzo non racconti e non presenti tanti “maschili luminosi”, fatta eccezione per una “paternità luminosa”. Mi vengono in mente tanti libri nei quali è presente una “maternità luminosa” ma raramente ho letto libri sulla paternità e quindi mi fa molto piacere che questo libro, se tratta il maschile, lo fa attraverso un padre e la sua amorevolezza.

         Un’altra questione interessante è quella della lingua e dei riferimenti culturali. Anna è una ragazza di diciannove anni che si è da poco trasferita a Roma, da studentessa fuorisede, e per affrontare questo dolore ha solo strumenti culturali. Si tratta di una ragazza educata dal padre ad amare i libri, a vivere in mezzo ai libri. Fin da bambina condivideva con il padre una serie di letture e lo faceva semplicemente per assecondare la sua voglia di stare sulle stesse pagine del padre, allo scopo di condividere con lui il più possibile.

         Nel romanzo Anna ammette di aver letto in tenerissima età libri di cui non aveva capito niente. La cosa importante era passare sulle stesse pagine, leggere le stesse parole che stava leggendo il padre in quel momento. Èdifficile smarcarsi da tutto questo, proprio perché è una relazione che coinvolge tutto e che per certi versi potrebbe ricordare un rapporto uterino, più legato ad una maternità. In questo libro invece è presente una ferita che accomuna madre, figlia e nonna,una donna quest’ultima con la quale Anna impara ad aver rispetto dei morti, a non aver paura della morte e a non considerarla la fine.

Vito Santoro: Un’altra figura molto importante è il Prete Nero, un vero e proprio anti-padre. Solitamente i preti di questo tipo hanno una connotazione omosessuale. Questo prete no.

Carmen Barbieri: Mi piacerebbe partire dal fatto che il Prete Nero non ha un nome, cosa sulla quale ho riflettuto lungamente. Il nome in questo libro è tutto, infatti il problema di Anna è quello: attraverso il nome cercare di capire chi è. Questo perché il nome anche da un punto di vista biblico dice la missione di quella persona nella sua vita, il senso della propria esistenza e dunque è una cosa importantissima.  Privare del nome una figura come Prete Nero è un’operazione che anch’io, come scrittrice, ho voluto per togliere qualcosa di sostanziale al personaggio più negativo di tutta la faccenda, quello che poi è l’artefice principale di tutta una serie di tormenti che Anna si troverà ad affrontare. Prete Nero è senza nome anche perché non volevo che questo personaggio fosse chiuso all’interno di un nome specifico e volevo al contrario che rappresentasse una categoria che in realtà esiste e della quale non si parla tanto. Credo non se ne parli tanto dal momento che molto spesso ci ritroviamo di fronte a qualche pruriginoso articolo di cronaca locale che invita a puntare il dito contro le relazioni omosessuali. Noi continuiamo a stare su argomenti di genere che patologizzano delle categorie ma, al di là di quello, il problema è che ci sono molte situazioni nell’ordinarietà nella quale ci sono persone consacrate che attivano dei rapporti abusanti con delle donne. Semplicemente non se ne parla perché l’impressione che ho io è che ancora adesso tutto quel che riguarda l’abuso nei confronti del femminile tende a non essere al centro dell’attenzione come dovrebbe, soprattutto in determinati contesti. E in una realtà come quella italiana e meridionale, come nel mio caso, è vulgata popolare che il diocesano della parrocchia possa avere una relazione con la cosiddetta perpetua, come se non facesse scalpore. Possiamo inoltre citare anche più recentemente tutta una serie di donne consacrate, suore abusate da uomini consacrati. C’è un mondo che realmente facciamo finta di non vedere. Cosa che a me personalmente dà molto fastidio, da persona credente e da donna.

Vito Santoro: Cercando il mio nome è un romanzo dal fortissimo afflato religioso, sviluppato fin dall’inizio. Nelle pagine dedicate ad Anna giovane vi è una serie di icone sacre. Siamo di fronte ad un sacro che si respira, un sacro dalla dimensione fortemente visionaria che si traduce in sogno o anche il contrario: sogni che si traducono in visioni.

Carmen Barbieri: La dimensione religiosa è proprio la chiave del romanzo. L’elaborazione del lutto porta la protagonista a mettersi in discussione, ad attraversare più profondamente la sua relazione con il divino e a capire quanto e se fa parte del divino ella stessa, così come le è sembrato di intuire attraverso la religiosità popolare nella quale è cresciuta e tramite le esperienze che ha maturato nel corso dell’infanzia. Rileggendomi una volta terminato il libro, ho potuto constatare con stupore che l’intera storia si sviluppa seguendo un percorso inverso all’interno della cristianità, cominciando dall’infanzia di Anna, raccontando delle scuole cattoliche che ha frequentato, delle icone che, come detto, caratterizzano il palazzo nel quale è cresciuta e di questo crocifisso che la incuriosisce e che fin dall’infanzia la interpella. Per quest’ultimo fin dall’adolescenza, ha una forte affascinazione per cui ad un certo punto arriva ad innamorarsi di un ragazzino semplicemente per l’aspetto vagamente simile all’iconografia cristologica. Questa prima fase della vita di Anna è incentrata sul Nuovo Testamento e sulla relazione con Gesù. Anna infatti racconta di un commento scritto in occasione della Prima Comunione su di una parabola che le era particolarmente piaciuta. Tuttavia, il lavoro che deve fare per andare alla ricerca del suo nome è come se la portasse a fare un salto dal Nuovo all’Antico Testamento, perché ciò che Anna deve ritrovare è innanzitutto la sua relazione con Dio e poi con Dio che si fa uomo. In questo senso c’è un percorso inverso. La dimensione onirica è la dimensione attraverso la quale Dio, la Madonna e Gesù le parlano. Questi sogni possono esser visti dal lettore da un lato come una forma di elaborazione del lutto, considerandoli dal punto di vista psicologico come dei passaggi che l’inconscio utilizza per elaborare ciò che sta succedendo. Ma, distaccandosi da questo aspetto, possono esser visti come dei momenti nei quali Dio cerca di comunicarle qualcosa: lei non è orfana così come si sente, ma appartiene al divino, appartiene ad una dimensione di paternità che nessuno potrà mai toglierle, per quanto ella cerchi di oltraggiare e distruggere attraverso la relazione (dai riferimenti paterni) con Prete Nero, per esempio. In questo libro non ho voluto che Anna incontrasse un fidanzato positivo ma ho preferito un prete bianco, quindi non una relazione sentimentalmente vincolante, perché, se Anna fosse passata dal dolore per la morte del padre, all’innamoramento nei confronti di un ragazzo, avrebbe creato ancora una volta un legame affettivo di dipendenza.Riuscire invece ad elaborare la propria relazione con il Divino, ti mette in una condizione liberante, piuttosto che creare ulteriori legami dipendenti sul piano affettivo-relazionale. 

Vito Santoro: Mi ha molto colpito anche il legame tra la sfera religiosa e l’attività di attrice. La definizione di attore appunto è: ‘colui che sa ascoltare ciò che la terra bianca, la polvere bianca dell’anima seguita a dire’. Tra le altre cose nel romanzo si parla anche di una passione per la recitazione, maturata già a scuola dalle suore. Dal momento che il romanzo è parzialmente autobiografico, volevo chiederti se sia maturata fin da piccola in te la passione per il teatro. Inoltre, vorrei chiederti di parlare anche di questo legame tra la recitazione e la sfera religiosa, dove la parola teatrale diventa anche una parola religiosa, se facciamo riferimento alla storia del teatro a partire dall’antica Grecia in poi.

Carmen Barbieri: Sì esatto, anche per me è stato così. La prima volta che salii su un palcoscenico avevo tre anni e mezzo e ricordo di esserne rimasta affascinata, ricordo di aver fissato a lungo il nevischio che si creava attorno ai fari accesi. Tra l’altro frequentavo proprio la scuola ‘Giovanna D’Arco’ menzionata nel libro, in cui c’era un meraviglioso teatro all’italiana fornito di buca dell’orchestra e tutto. La suora prima di portarci a teatro ci impose silenzio così come faceva prima di portarci in cappella per andare a messa. Questa cosa mi pose subito in una condizione di sacralità. Dunque, per me il teatro è uno spazio sacro dove l’uomo, a prescindere da qualsiasi orientamento religioso, sperimenta la relazione col divino. Nella relazione tra l’uomo e la divinità e nella possibilità di comprendere l’esistenza c’è qualcosa che accade quando in scena si torna a dire una parola, sempre perché la parola può contenere il mistero dell’essere al mondo. Allora lì, nell’atto teatrale puro e crudo, possono succedere delle cose che hanno a che fare con la possibilità di comprendere di più sull’esistenza umana attraverso la rievocazione di qualcuno che certamente, nella maggior parte dei casi, viene fuori dalla fantasia di un altro uomo; ma, nella dimensione scenica acquista una verità tale che hai la sensazione di riportare dei morti in vita, perché quello che fa l’arte è dare vita a delle esserità che sopravvivono al passare del tempo. Se portassi in scena l’Amleto, per esempio, non starei pensando di portare in scena un personaggio immaginario, bensì alla capacità dell’uomo di creare qualcosa, così come Dio, ma su un piano meno divino, mettendolo in condizione di dare vita a dei personaggi che possono “ripresentificarsi”. Questa dimensione “misto-magica è chiaramente influenzata dalla mia cultura d’origine che è quella napoletana, dove il cattolicesimo nella sua dimensione popolare non ha mai abbandonato le proprie origini greche, oltre anche al modo di percepire il rapporto tra i vivi e i morti e l’esistenza più in generale. Per questo quando un napoletano cattolico crede che la morte non esiste, non solo ci crede per via di Gesù che ha sconfitto la morte, ma ci crede anche perché Cristo mette una firma sotto una percezione della relazione tra vivi e morti che è più antica di Cristo stesso. In questa relazione in cui i morti non possono definirsi tali ma, anzi, continuano a parlare con i vivi – cosa che magari alcune persone sperimentano nella loro quotidianità – a teatro diventa uno spazio sacro nel quale io, legittimamente, apro il sipario e dico “adesso facciamo tornare in vita qualcuno”.

Il gioco del teatro è quello che permette ad Anna sin dall’infanzia di convivere con questa educazione alla morte alla quale è esposta fin da bambina, prendendo parte a numerose veglie funebri e alle esumazioni dei corpi. È proprio questo meccanismo che fa innamorare Anna, la paura di quello che vede. Per resistere a queste esperienze, Anna tende a crearsi delle situazioni cuscinetto in modo da accogliere ed accettare il trauma. È proprio questo meccanismo che fa innamorare Anna, “la paura di quello che vede”.

Vito Santoro: In questo romanzo c’è anche un vero e proprio plurilinguismo, anzi, un vero e proprio tour de force lessicale molto raro nel panorama narrativo attuale, dove lo scrittore tende più che altro a raccontare delle storie. Tu però, oltre a raccontare storie, lavori molto sulla forma. Tra le altre cose, in questo romanzo c’è un tu dialogico che è il padre, alternato talvolta anche al monologo. Altre volte, invece, abbiamo il racconto breve incentrato sui singoli personaggi dei quartieri spagnoli. Mi piacerebbe entrare nella tua officina letterale di scrittrice, caratterizzata da una vera e propria ricchezza lessicale stilistica. Come hai proceduto?

Carmen Barbieri: Innanzitutto questo libro ha avuto una lunga gestazione, nel senso che ho cominciato a scrivere qualcosa quindici anni fa, due anni e mezzo dopo che mio padre era morto di melanoma. Inizialmente quindi era una sorta di “diario del dolore” scritto in prima persona. Ho sempre desiderato scrivere nella mia vita ma, per via di una serie di eventi avversi, questa cosa si è realizzata soltanto adesso, nel 2021. Questa storia era, però, quella dalla quale sentivo necessariamente di dover partire per portare a compimento la scrittura di un romanzo.

Il lavoro sulla lingua per me è un aspetto centrale. Uno scrittore è la lingua, poiché ciò che definisce uno scrittore è il linguaggio che utilizza, l’aspetto che lo distingue da un altro. In tutti questi anni ho fatto un lavoro su me stessa per capire che cosa volessi tenere dentro rispetto anche alla mia napoletanità e cosa invece volevo tagliare fuori e a cosa non volevo assomigliare. Quindi, da una parte la presenza del napoletano non solo per l’utilizzo di alcune parole in dialetto, ma anche come struttura ritmica che c’è sotto il fraseggio. È un qualcosa che mi viene spontaneo semplicemente per il fatto che ho vissuto nei quartieri spagnoli, ho vissuto in un contesto sociale dialettale e di conseguenza anche il mio pensiero si muove su quel ritmo. D’altra parte c’è la lingua italiana che ho scoperto andando a scuola, della quale mi sono innamorata grazie alla letteratura e ai numerosi scrittori e che è poi divenuta la lingua alla quale desideravo appartenere. Quello che più mi interessa fare quando scrivo è quindi creare un matrimonio tra il napoletano e l’italiano, perché è lì che esisto io come scrittrice, piuttosto che assomigliare ad altre scritture o filoni narrativi, anche perché ci ho messo tanto per esordire proprio perché volevo uscire con una voce che fosse la mia voce e non rischiare di assomigliare a qualcos’altro. Per fare questo ci è voluto inevitabilmente del tempo, perché inizialmente ci si muove cercando di imitare i modelli Anna Maria Ortese stessa, non perché si ambisca a diventarlo ma semplicemente per un movimento di ammirazione. Smarcarsi, quindi, dai propri modelli così come staccarsi dalla figura paterna quando la perdiamo, per acquistare la propria autonomia esistenziale, identitaria ed artistica, è stato un intervento che mi ha richiesto tutto questo tempo. In tutti questi anni ho fatto tantissimi tagli perché inizialmente scrivevo in prima persona, poi ho cominciato a scrivere le storie delle ragazze del night, successivamente ho cominciato a scrivere dei pezzi in terza persona, come se ogni volta volessi sperimentare da che parte andare. Fino a che ad un certo punto mi sono visualizzata al posto di Anna e ho immaginato che lei parlasse col padre, in una situazione molto teatralizzante, e che ci fosse una quarta parete aperta che, nel gergo teatrale, significa che l’attore si rivolge e coinvolge il pubblico. La quarta parete è aperta nei momenti in cui Anna ripercorre alcuni passaggi della sua vita rivolgendosi al padre che, in realtà, non è l’unico a cui si sta rivolgendo. Queste ricognizioni esistenziali, infatti, le sta facendo al lettore. Da qui emerge quindi il desiderio di Anna – in comune poi con chi scrive – di essere vista per mostrare di non sentirsi più privata della presenza del padre. Nei passaggi in terza persona si consumano per me i passaggi più difficili dell’accettazione, della malattia del padre e della sopravvivenza alla morte del padre. Scrivere quei passaggi in terza persona, come se fosse un racconto che prescinde da lei e dal padre, era l’unica maniera per poterlo raccontare.

Vito Santoro: Leggendo il tuo romanzo e conoscendo il tuo percorso artistico, mi è venuta in mente un’eventuale riduzione teatrale, visto anche il ritmo delle parole e l’idea fortemente performativa che è alla base del testo. Ci hai già pensato a renderlo un monologo?

Carmen Barbieri: Sì, ci sto pensando ma non vorrei metterci quindici anni come per il romanzo. Ci penso con una certa prudenza, utilizzando lo stesso meccanismo che ho usato per il romanzo: scartare le prime idee che mi vengono. Tutte le prime ipotesi, impostazioni e bozze di drammaturgia le sto scrivendo per buttarle via, sia perché vorrei che lo spettacolo avesse una sua autonomia ed una dignità completamente diverse rispetto al romanzo, sia perché lo trovo molto più interessante come lavoro di ricerca teatrale.Credo che sarebbe più interessante per gli spettatori che hanno già letto il romanzo mostrare qualcosa di inedito ed imprevedibile. Io stessa da spettatrice, per esempio, non amo quando al cinema o a teatro vedo qualcosa che tenta di imitare ciò che è contenuto nel libro. Per questo motivo bisogna trovare un’altra chiave per raccontare, una chiave che ancora non ho definito bene, ma che sicuramente posso dire vorrei avesse un’identità propria, pur partendo del romanzo.    

Vito Santoro: Nel romanzo ci sono anche due citazioni in esergo: una tratta dall’Apocalisse– che unisce visione e scrittura – ed una che è un riferimento ad una silloge poetica meravigliosa di Bolaño, “nell’incubo, crescerai”, anche se nell’ottica dello scrittore cileno, quest’incubo, questo inferno, ha naturalmente più una dimensione politica che esistenziale. In queste due epigrafi è dunque racchiuso un po’ tutto, perché Anna, alla fine, è un corpo che ha bisogno di essere visto, anche se poi ha una forma di disprezzo nei confronti degli avventori del night, sotto certi aspetti.

Carmen Barberi: Sì, questo doppio esergo presenta una doppia natura nel senso che il primo esergo, quello dell’Apocalisse, è nato come un esergo pensato per me poiché vissuto da me quando ad un certo punto, in un momento di preghiera, mi sono trovata di fronte a questo versetto e ho sentito proprio che fosse la risposta alla mia domanda di senso esistenziale. Sai, scegliere di aderire a questa vocazione artistica non è semplice perché comporta tutta una serie di precarietà e di fragilità. Dunque, quando ho letto questo versetto l’ho percepito proprio come una chiamata, come un “quello che vedi scrivilo, non dubitare di questa cosa, fallo, scrivi questo libro fino in fondo”. Metterlo in esergo è stato per me importante per ricordare il momento in cui ho definitivamente deciso di scrivere questo libro e di portarlo a compimento. Per quanto riguarda Bolaño, invece, al di là del fatto che si tratta di uno dei miei autori preferiti, è uno di quelli che mi ha dato più coraggio per scrivere. Ciò può sembrare paradossale, in quanto da una parte quando ci si ritrova a leggere questi giganti della letteratura, la prima reazione che si ha è quella di pensare di non poter mai fare altrettanto, di non poterci neanche provare, però dall’altra la libertà espressiva che l’autore ha avuto la capacità di sperimentare ti dona il coraggio di fare la stessa cosa. In quanto per me è impressionante come lui ed altri scrittori riescano a dire le cose in una maniera molto vicina a come magari le percepisco io in certi momenti della mia vita, questo mi fa credere quantomeno di poter provare a raccontare come sento e come vedo determinate cose e, di conseguenza, a scriverle. Nel caso di Anna e nel caso mio, io Carmen quando incontro quella poesia di Bolaño mi rivedo dalla prima all’ultima riga, anche se nel caso dello scrittore si trattava di una sorta di manifesto politico-poetico.Nel mio caso, quando avevo vent’anni ero folle e reagivo esattamente come raccontano i versi di quella silloge perché mentre ero nell’incubo e sentivo che quest’ultimo mi diceva “crescerai, attraverserai il labirinto e dimenticherai” e, prima di dimenticare, avevo la necessità di lasciare qualcosa di iscritto.

Vito Santoro: E la ragione dei riferimenti a La ragazza di Bube di Cassola, invece?

Carmen Barbieri: Bube perché è uno dei libri che ho letto da ragazzina durante un’estate rovente a Procida, e non era di certo uno dei romanzi consigliati per l’estate – poi dopo ho capito perché– però in realtà mi ispirava tantissimo anche solo per il titolo che mi aveva molto incuriosito ed è secondo me bellissimo perché, ad esempio, quando Cassola racconta di quel romanzo, in un’intervista dichiara che la letteratura è il luogo in cui comprendere maggiormente qualcosa sulla verità dell’esistenza, sulla verità umana. Questa cosa mi folgorò dopo aver letto il libro perché effettivamente la letteratura, come giustamente aveva detto lui in occasione dell’uscita di quel romanzo, offre questa possibilità. Del romanzo di Cassola mi è piaciuta la malizia innocente dei due protagonisti (Bube e la ragazza) perché è il bisogno di rinascita dopo lo scatafascio della guerra, è l’istinto animale, anche sessuale, che fa avvicinare questi due ragazzi, il voler sopravvivere comunque alla miseria e alla povertà trovando delle strategie legate alla dimensione affettiva e questo elemento emerge con impatto fin dall’inizio perché, appunto, i ragazzi si incontrano subito e si crea subito questo feeling ed esigenza di tornare a nascere facendo forza inizialmente sul bisogno sessuale e rispondendo fin da subito ad un richiamo fisico superficialmente malizioso ma che cela dell’innocenza, la stessa innocenza che mi andava di restituire un po’ ad Anna nel momento in cui diventa Bube.

Vito Santoro: L’Anna personaggio preferiva, invece, La ragazza Carla di Pagliarani…

Carmen Barbieri: Sì, sono tutti femminili di cui mi sono innamorata crescendo e nei quali ho ammirato la capacità femminile di resistere nel silenzio, all’interno di esistenze non roboanti. La storia della Ragazza Carla è devastante da diversi punti di vista, eppure lei non si lamenta mai, ha una resistenza veramente eroica e quel verso finale, “pietà di noi, orgoglio con dolore”, chiaramente è meraviglioso e mi piace perché presenta un doppio movimento.Se “pietà di noi” è quasi una preghiera rivolta agli altri ed è, in quel momento, una preghiera che Anna rivolge a Gabriela che è la donna del night che la addestrerà a ballare nel locale ma che, in realtà, sta rivolgendo anche al padre, al lettore e a chiunque la incontri, “pietà di noi”nel senso di tutta quest’umanità che sto soffrendo, con “orgoglio con dolore” si rivolge invece a se stessa, indicando lo stare nel dolore ma con orgoglio, che è poi quello che molte volte ci fa commettere degli sbagli, come nel caso di Anna. Ho utilizzato queste parole perché mi piaceva questo andare dagli altri per poi tornare a se stessi, fulcro dell’intero romanzo.

Vito Santoro: La canonica ultima domanda: in questo periodo cosa stai facendo, dato che non puoi calcare il palcoscenico? Quali sono i tuoi progetti futuri anche da “scrivente”, come ti definisci sul tuo profilo Instagram?

Carmen Barbieri: Sto soprattutto scrivendo, in effetti. Sto cercando di lavorare al mio secondo romanzo perché ho delle idee abbastanza insistenti e quando arrivano delle cose che stanno lì tutti i giorni a girarti in testa, evidentemente vogliono trovare uno spazio diverso dal chiuso della testa e del cuore. Oltre a questo, sto scrivendo anche altre cose. Per quanto riguarda il teatro, avrei avuto delle date a maggio ma devo mettermi in contatto con gli organizzatori perché non so davvero se si riuscirà o meno. Purtroppo è tutto molto fragilizzato da questa situazione pandemica e quindi in quell’ambito le cose si muovono molto più a rilento, mentre la scrittura fortunatamente no, prosegue. Ho impiegato molto tempo a scrivere questo romanzo perché coinvolgeva anche autobiograficamente il mio stesso congedo dalla figura di mio padre. Quando ho iniziato a scrivere il libro, i personaggi si chiamavano come me e mio padre, Carmine e Carmen e anche in quel senso, dal punto di vista dell’identità, capire chi è Carmen senza Carmine è stato molto faticoso perché condividevamo tutto, perfino il nome. Quando, però, ho cominciato a valutare la possibilità di inserire, invece, elementi di pura invenzione e abbandonarmi al desiderio di essere una scrittrice e ad inventare cose, la prima operazione da fare era quella di cambiare il nome dei protagonisti e, visto che non riuscivo ad individuare quale potesse essere il nome da dare a me, aprii un file scrivendo “cercando il mio nome”.Il che era un modo per dire “nel frattempo che cerco di capire il nome che mi devo dare, comincio a scrivere altre cose”. E quando poi ho mandato questo file con questo titolo (che non voleva essere un titolo) ai primi editori, da subito è piaciuto, nonostante non fosse assolutamente un titolo a cui avevo pensato in maniera cosciente e strutturata in termini di marketing. Questo per dire che è stato molto difficile per me scrivere questo libro da un punto di vista personale ed emotivo, ma ho sempre voluto scrivere e la cosa per cui dico grazie ad Anna è che adesso mi sento molto più libera di raccontare. Quindi, spero che il prossimo libro non esca tra quindici anni ma molto, molto prima.