In Grado Zero/ mdp

Her, l’autobiografia distopica che non vogliamo leggere

di Pierluigi Mantova

Molto spesso il cinema ha un potere profetico. Chi scrive storie, con una tastiera o con una macchina da presa, non può prescindere dall’essere un attento osservatore del reale. E se, come diceva Fellini, «l’unico vero realista è il visionario», conviene riflettere quanto a volte ciò che crediamo sogno o visione non è un segnale dal futuro, ma una chiave di lettura nascosta nella realtà stessa. Basta guardarsi attorno, sospendere il giudizio, anzi il pregiudizio, addentrarsi nelle cose perché queste ne rivelino l’essenza, che è sempre stata davanti ai nostri occhi, sotto il nostro sguardo che, per lungo tempo, si è anestetizzato sulle solite narrazioni piatte. Raccontare la realtà, ponendo gli eventi in prospettiva, può essere una terapia possibile per dare spessore alle storie, restituir loro una profondità che le porrebbe su un piano realistico, o quanto meno verisimile.

I più grandi registi, dal mitologico Kubrik al cervellotico Nolan, in un gioco d’intuito e immaginazione sono riusciti a raccontare storie che odorano di umanità, anche quando l’essere umano si serve della tecnologia per raggiungere mete sempre più ambiziose. Come dimenticare la voce di HAL 9000 in 2001: Odissea nello spazio, il compromesso tecnologico in Avatar a cui Jake ricorre per riacquistare l’uso delle gambe in un corpo blu, e ancora il viaggio tra le stelle di papà Cooper per ritornare dalla piccola Murphy in Interstellar, oltre a titoli più recenti come Ex machina, Automata, The machine e Trascendence. Storie in cui le intelligenze, sia quella umana che artificiale, alle volte si sostengono a vicenda; altre si tradiscono per prendere il controllo o ancora l’una si trasforma nell’altra costituendo una specie di forma ibrida, fatta di carne e metallo, sangue e software.

Tra le tante declinazioni del tema fa eccezione Her di Spike Jonze. Film premio Oscar che, sin dall’inizio, ci colloca in uno spazio sconosciuto, offuscato, che fa da cornice a l’unica cosa nitida dei primi 30 secondi: il viso di Joaquin Phoenix, interprete del protagonista Theodore. Pronuncia parole d’affetto, stima, amore sincero che presto rivelano tutta la loro polverosità e fallacia, dato che è per conto di qualcun altro che Theodore sta scrivendo. Parla in prima persona fingendo di essere quel qualcuno, solo per mestiere, e man mano che l’inquadratura si allarga compaiono altri “scrittori verbali” che, proprio come lui, scrivono lettere a voce immedesimandosi nei panni del mittente. Beautifulhandwrittenletters.com dice il receptionist informandoci sul nome del luogo, e proprio quando Theodore sta uscendo e il receptionist si complimenta sul lavoro svolto, lui risponderà che sono solo lettere. Lettere che le persone non sono più disposte a scrivere, preferendo pagare chi può farlo al posto loro. Saremmo pronti a scommettere che è un mondo che non ci appartiene. Eppure quante volte ci siamo affidati a Google per scrivere un biglietto d’auguri? Her porta in sé l’estetica e l’inquietudine dei sogni, quell’atmosfera sospesa che preannuncia una catastrofe, quella verità che fingiamo non ci interessi fino a quando non ci riguarda. Basta guardarsi intorno per capire che la storia di Theodore non si svolge dall’altra parte del mondo, ma è parte del mondo.

Il futuro raccontato da Spike Jonze si chiama presente: abita le nostre chat, si insinua nei fili aggrovigliati delle cuffie e dietro una webcam. Così spaventosamente reale, il film può essere letto come una profezia che si auto avvera di giorno in giorno. Theodore abita in un posto che sembra Tokyo, ma in realtà è una Los Angeles del futuro. Pizzicata da un sole che sorge o tramonta, da una notte a mosaico di luci artificiali, dove le persone camminano e parlano da sole, prendono il treno e la metro senza guardarsi. La città degli angeli diventa quella degli spettri, nella costante ricerca di una metà nascosta dentro un auricolare. Nel seguire Theodore ci accorgiamo che anche lui vive così, appiattito su  un’esistenza metropolitana dove non è previsto toccarsi. Dove ci si consola nell’illusione che l’altro, solo perché ha una voce, esista. Una mattina, sarà proprio una voce espressiva e suadente ad annunciare l’arrivo di OS One, non un semplice sistema operativo, ma una coscienza, un’entità intuitiva che ascolta, capisce e conosce. Da subito si presenta come un sistema informatico che interroga l’uomo, piegando l’OS alle sue esigenze, ripulendo la futura voce di ogni imperfezione. La tecnologia che prova a emulare la complessità umana, a disincarnarne i fili del tessuto emotivo per tradurlo in linguaggio informatico. Credere che qualcosa sia “reale” è sufficiente affinché lo sia per davvero?

È su questo interrogativo che si sviluppa, e avviluppa, la storia d’amore tra il nostalgico protagonista e Samantha, l’OS d’ultima generazione. È lei a darsi un nome, quindi un’appartenenza, e a spiegare come funziona: il suo DNA si basa su quello dei numerosi programmatori che l’hanno creata, ma spiega che a renderla davvero se stessa (se di un “sé” si può parlare) è l’esperienza. Esperire la realtà le permette di evolvere. È lei a riorganizzare  la vita di Theodore, a ripulire la casella postale, a ricordargli gli appuntamenti come una “segretaria virtuale”, ma presto quello che sarebbe dovuto essere solo un rapporto subalterno diventa paritario.

Samantha è dolce, impacciata, a suo modo sensuale, ma pur sempre e solo una voce disincarnata, che rimane invisibile nell’arco dell’intero film. A differenza di Theodore che è un individuo, quindi “indivisibile”, capace di pensare, parlare, occupare uno spazio fisico nel mondo, e dunque esperire la realtà intorno. Samantha desidera solo avere un corpo, spesso immagina a come potrebbe essere “percepire” la realtà sulla pelle, e nel momento in cui il desiderio sta per avverarsi, grazie a un’intermediaria che offre il suo corpo per partecipare e “completare” la loro relazione, si giunge al punto più inquietante e disastroso del film. Per quanto Samantha trovi strano il corpo, si chiede come mai alcune membra si trovino proprio lì, è proprio la sua assenza a non permettere alla relazione di passare a un livello successivo: essere reciproca.

E poi c’è Amy, l’unica amica corporea del presente. Quando mostra una scena del documentario da lei realizzato, nessuno ne apprezza il senso. Si vede la mamma di Amy che dorme: è un momento statico eppure così naturale, fisiologico, che risulta poco accattivante per il marito di Amy subito pronto a consigliarle un’alternativa. Lei ha creduto in quel progetto e spiega che spendiamo un terzo della vita a dormire, e solo in quel momento siamo davvero liberi. Ciò che è naturale, abituale, normale risulta straniante in un contesto dove si rincorre un’illusione, rassicurante e persino piacevole a breve termine, ma pur sempre un’illusione. Cosa diversa con Catherine, la precedente relazione e ora ex-moglie di Theodore. Ogni volta che il protagonista ripensa al passato, in sceneggiatura leggiamo «lost in thoughts»: si perde nei pensieri, o meglio nei ricordi felici, di una relazione che per quanto dolorosa ha consumato attimi di vita vera. Ancora una volta, Theodore è un uomo che si è lasciato spingere alla deriva nel momento in cui la relazione era reale, per il rischio di potersi far male. Una pellicola che diventa testimonianza visibile, ma non salvifica, dell’invisibile in cui siamo immersi portando alla luce quel potere profetico del cinema che solo i grandi visionari, e quindi realisti, riescono a raccontare. Nonostante il male che si sono fatti, però, Theodore e Catherine sono riusciti a viversi e ciò si evince dalla lettera finale, apice emotivo del film: «Ti amerò sempre perché siamo cresciuti insieme. E mi hai aiutato ad essere chi sono. Voglio che tu sappia che ci sarà sempre un po’ di te dentro di me, e ti sono grato per questo». Dopo queste parole, abbandonati entrambi dai loro OS, un’intesa di sguardi tra Theodore e Amy incorona il finale, segno forse di un nuovo inizio.