di Antonio R. Daniele
Qualche anno fa Pierpaolo Antonello, in un interessante volume che compendiava il fantascientifico italiano, citava con sicurezza Levi all’interno di una linea di scrittori che procedeva da Calvino a Volponi passando per Buzzati stesso. E questa collocazione è possibile non soltanto sul piano dei contenuti ma anche su quello della forma scritta, cioè del principio della scrittura. La variazione ironica, quasi sarcastica, è il metodo che consente a Buzzati di stanare il lettore e condurlo al disorientamento, allo smarrimento finale dei principi: una donna che dà alla luce un bambino dopo averlo concepito con l’uomo che ama è diventata una anomalia intollerabile e pericolosa. Levi procede lungo il medesimo sentiero: lo abbiamo già notato e se ne trova una conferma ulteriore quando tratta la materia legata al Mimete in Storie naturali, un caso di clonazione, qualcosa che riproduce un modello «dal caos, dal disordine assoluto. Ecco, questo fa il Mimete: crea ordine dal disordine», scrive Levi. Quella storia, nella quale il narratore il settimo giorno si riposò è talmente scoperta nei suoi contenuti e nei suoi significati che merita di essere valutata dal punto di vista della costruzione narrativa e, soprattutto, non può essere separata dal brano che compie il dittico del Mimete, quello col quale Levi comprende che per togliere il velo sulla questione che gli è cara – la nuova origine dei sintetici – non può agire solo sul contenuto della narrazione ma è necessario che si affidi al procedimento ironico, conducendolo fin oltre la soglia del grottesco e alle porte della farsa. Quando noi terminiamo la lettura di Alcune applicazioni del Mimete, ridiamo divertiti dalla trovata del protagonista: abbiamo goduto una spassosa pagina di narrativa. Sennonché dobbiamo risalire la corrente e renderci conto che in effetti il Mimete, in ultimo, ha creato ordine dal disordine (giacché l’uomo che aveva duplicato sua moglie, alle prime avvisaglie di criticità nel suo imprevedibile ménage à trois, risolve l’impasse duplicando se stesso e sistemando la faccenda con una doppia coppia), ma ha lasciato inalterato non tanto il problema etico quanto il disagio fra voluttà e possibilità. Inoltre, Levi conferma che questa scrittura discende da un tracciato culturale recente e preciso: riferisce che la donna clonata ha ventott’anni ed è nata nel 1936. Dunque, la vicenda è ambientata a metà degli anni Cinquanta, proprio quando «La Civiltà delle Macchine» favoriva gli studi e le pubblicazioni in materia di neurofisiologia artificiale. Non solo: non si può non notare una certa corrispondenza di temi tra questa scrittura e Il grande ritratto di Buzzati, romanzo la cui stesura cominciò nel 1959 e la cui pubblicazione venne un anno più tardi. In quel lavoro Buzzati narrava la storia di un uomo di genio che, mediante un complesso dispositivo, dava nuova origine alla moglie morta. La vicenda buzzatiana implica un intrico di questioni molto più fitto, ma non c’è dubbio che la linea di derivazione sia la medesima. E anche in quel caso “origine” e “distruzione” si incrociano, si sovrappongono, di fatto sono una cosa sola: il grande congegno attraverso cui il prof. Endriade aveva preteso di rifare sua moglie genera morte attorno a sé e non può che essere annientato.
Ho cominciato questo intervento rinvenendo una specie di dichiarazione di poetica leviana: ad ogni creazione corrisponde una volontà di distruzione. E mi pare che la conferma definitiva di questa dinamica fatale si trovi in uno dei brani più noti di Vizio di forma, ossia Verso occidente, quello dei lemming che paiono spostarsi in branco per andare a morire verso qualche confine. I lemming nascono per poi andare a suicidarsi. Poi il ricercatore del racconto nota lo stesso comportamento in una tribù del Sudamerica. «Perché un essere vivente dovrebbe voler morire? – E perché dovrebbe voler vivere? Perché dovrebbe sempre voler vivere?», domanda l’uomo. Conosciamo le curiose teorie che Levi elabora nel testo sul desiderio di morte dei roditori della storia; sappiamo anche – dalla testimonianza di Daniele Pugliese resaci ormai parecchi anni fa nella introduzione a un suo libro di racconti – che Levi si pentì di aver scritto il racconto e si scusò degli effetti che può aver provocato:
Lei ha preso molto (troppo!) sul serio un mio racconto di cui oggi mi vergogno un poco, perché l’ho scritto in un momento di angoscia e di debolezza, e perché, invece di essere d’aiuto all’eventuale lettore, rischia di estendere a lui il disagio dell’autore. Se così è avvenuto, accetti le mie scuse; oggi penso che spargere al vento le proprie angosce possa portare sollievo a chi lo fa, ma sia poco morale.
Ma, al di là della resipiscenza di Levi nei riguardi delle sue stesse inquietudini e sulla quale non è opportuno cavalcare nessuna congettura condotta a posteriori (ma, si badi: Levi non si pentì di ciò che aveva scritto, ma di averlo scritto; la qual cosa pare una sottigliezza ma non lo è), resta un dato fondamentale: per Levi l’impeto di distruzione o di autodistruzione non è una acquisizione successiva all’origine, ma ne fa parte. Fa parte del corredo genetico dell’essere vivente: «tutto ciò che è vivo, lotta per vivere e non sa perché» – scrive l’autore – «Il perché sta scritto in ogni cellula, ma in un linguaggio che non sappiamo leggere con la mente […]. Ma anche quelle in cui il messaggio è chiaro possono avere delle lacune. Possono nascere individui senza amore per la vita».
Il tentativo di alterare tutto questo può avere conseguenze imponderabili: per esempio, che lo scienziato impegnato a cercare la soluzione del male di vivere dei lemming trovi la morte proprio per aver arrestato questo processo e che la tribù di umani il cui raziocinio dovrebbe favorire la scelta per la vita resti attaccata alla propria volontà di morte, proprio come fosse qualcosa di vitale poiché naturale. Come la stella tranquilla di Lilìt che, «nel remoto atto originario in cui tutto è stato creato, le era toccata un’eredità troppo impegnativa. O forse conteneva nel suo cuore uno squilibrio o un’infezione, come accade a qualcuno di noi».