In Narrature

Il mio letto

di Danilo Grasso

La voce di mia madre che urlava di alzarmi era il primo suono di ogni mattina. La luce del sole mi metteva sempre di buon umore, anche quando dalle prime luci si intuiva che la giornata sarebbe stata livida e scialba.

         Riuscire ad alzarsi era sempre un problema: mangiavo qualcosa al volo e correvo in stazione.

Il treno era stracolmo e il numero di passeggeri cresceva ad ogni fermata. Trovai uno scompartimento vuoto, sistemai la valigia e mi sedetti. Pochi istanti dopo tutti i posti furono occupati. Mi alzai, chiesi di uscire.

          Mi guardavano: «Qui c’è la vita e fuori non esisti». Mi aveva detto qualcuno poco lontano. Provai a parlare, ma ognuno pensava alle proprie cose, come se nulla fosse. Faticavo a respirare, come in preda a un attacco di panico. Spintonando arrivai al finestrino e provai ad aprirlo: era bloccato. All’improvviso un uomo dallo sguardo serio: «Vuoi scendere?», mi disse. In quel momento il treno arrestò la corsa. Scesero tutti e finalmente ripresi fiato. Uscii dallo scompartimento. Sul treno e in stazione non c’era più nessuno.

         La calma durò poco. Alcuni uomini, sbucati dal nulla, salirono sul treno e mi aggredirono: un colpo alla testa e non vidi più nulla. Ripresi i sensi all’interno di una cella. Mi guardai intorno cercando una via di fuga e non ne trovai. Mi sentivo il cervello stretto in una specie di morsa.

        Rimasi ad osservare le pareti della cella e una forte fitta alla testa mi costrinse a chiudere gli occhi. Quando li riaprii mi ritrovai coperto con un lenzuolo fin sulle spalle. Mi guardai intorno e mi accorsi di essere nel mio letto. Aprii la porta di casa e riconobbi il mio quartiere, i volti dei miei vicini. E non capivo.

        Rientrai. Sulla scrivania c’erano fogli sparsi dappertutto. Cercai ovunque nella speranza di qualche risposta che spiegasse quel che avevo vissuto. Io avevo visto, avevo udito. Avevo anche toccato. Non trovai alcuna prova. Di mia madre neanche l’ombra.

         Fuori era già buio. Un’improvvisa stanchezza mi assalì. Il turbamento e l’ansia erano scomparsi. Mi distesi sul letto, rinviando tutto all’indomani. Credo di essermi addormentato in un sonno profondissimo.

         Al risveglio ero di nuovo nella cella e fuori c’erano delle guardie. Io le chiamavo; provai a chiamarle davvero forte ma non mi rispondevano. Anzi, mi guardavano con una fissità ottusa. Dopo alcune ore spensero le luci e mi ordinarono di dormire. Cercai di restare vigile, benché il sonno mi prendesse. Volevo ottenere delle risposte.

         A un tratto l’interno della mia cella si riempì di qualcosa che prendeva tutta l’aria: non respiravo. Mi coprivo la bocca e il naso con la maglia ma alla fine persi i sensi. Mi svegliai e un curioso presagio mi balenò in testa. Ero di nuovo nella mia camera: mi trovai di fronte al computer che era acceso chissà da quanto. Aprii la schermata principale. C’era una mail di Roberto. Lessi: «Caro Giovanni, questo è un libro strano e quel mio amico editore vuole parlarti». Era allegato un file. Lo scaricai e lo aprii. Aveva un titolo che non capivo: Il mio letto. Non lo capivo ma mi piaceva. Stavo bene. Poi il titolo del primo capitolo: In treno.

         E da qualche parte della casa la voce di mia madre urlava di alzarmi.