In Schede

Il museo del dolore. Su “Il valore affettivo” di Nicoletta Verna (Einaudi, 2021)

di Valentina di Corcia

Questo è un romanzo diretto, pulito. Anche le nostre cose peggiori tra le sue pagine paiono normali.

Il valore affettivo è il romanzo di una disgrazia che preme sulle vite di tutti: preme anche sulle nostre che leggiamo comodi in poltrona, perché le vite di persone che sembrano comuni e non lo sono ci piacciono tanto. Lo sappiamo: c’è quel piacevole sentimento del sentirci migliori di loro a farcele leggere, perché “tanto a noi non accadrà”.

La vita di Bianca si divide in due fasi, prima e dopo “la disgrazia”: da una parte l’esistenza serena di una famiglia operosa, di quelle da “nocciolo duro” della provincia, dall’altra la morte. Di colpo la famiglia si sfalda: la casa diventa un museo del dolore in cui si sopravvive e ogni giorno è uguale all’altro. Anche Bianca sopravvive, con tutta la forza dei suoi sette anni. Ci sono un padre spaesato e una madre inebetita da tivvù e psicofarmaci. La sofferenza stratifica e, nella memoria collettiva, il ricordo di Stella sfuma nel mito.

Quanti gradi conosce il dolore? Ce lo siamo mai chiesto? Quanto bisogna scavare a fondo per arrivarci dentro? Bianca li ha provati tutti i gradi del dolore, e sicuramente ha scavato così a fondo da arrivarci mani e piedi. Ha grattato talmente tanto a fondo da raschiare tutto il resto e starsene lontana da sentimenti e sensazioni, belle o brutte che siano. Al loro posto ha imparato a coltivare l’ossessione: se la tiene stretta come il desiderio di quel giocattolo mai avuto in dono.

Bianca sviluppa una versione pubblica e una privata, la Bianca bambina. Nel mezzo c’è la adolescente, che indossa gli abiti eccessivi dello show televisivo anni Novanta, tutto cruciverboni e canzoni in playback, la Bianca adulta si corazza in eleganti abiti griffati, non ammicca più dallo schermo ma continua a interpretare un ruolo. Ha costruito con determinazione e una certa dose di lungimiranza una vita che sembra la sceneggiatura di una fiction da prima serata, sulla rete ammiraglia della televisione di Stato. È la protagonista di una storia che passo dopo passo rimaneggia a suo piacimento, conducendo il lettore in una lenta calata agli abissi.

La cosa più facile di tutte sarebbe far discendere una certa maniera di scrivere, di comporre i pezzi della storia (anzi, di scomporli e di assemblarli in vertiginose scene retrospettive) dal profilo professionale di Nicoletta Verna, dal suo lavoro nel campo della comunicazione. Non si può negare che la familiarità della scrittrice con i meccanismi dei media ne abbia favorito richiami espliciti a momenti-chiave della storia della televisione italiana appena dopo la fine della Prima Repubblica; ma qui c’è dell’altro: siamo di fronte addirittura a dinamiche che le hanno suggerito – in una specie di infusione mentale – di aderire alla diffusa modalità del nostro narrare in grado di alterare di continuo il piano temporale. In questo caso la ricerca insistita di una simile soluzione si combina agli assilli dei personaggi e questa ossessività dona la terza dimensione a personaggi e ambienti, ponendo lo scellerato piano ideato dalla protagonista a nesso che collega eventi e attori, dall’inizio alla fine. Attorno all’evento principale gravitano fatti-satellite, forse meno importanti ma necessari ad alzare il livello di gradimento e a garantire l’attenzione del lettore lungo il romanzo.

I rifiuti sostituiscono i sentimenti che non prova più da anni, dalla disgrazia; riempiono il vuoto della sua anima. Le giornate sono scandite da rituali recisi e collaudati: fare una stima di quanta spazzatura ha prodotto  le consente di ricreare un ordine, seppur effimero. Il controllo dei rifiuti è un ordine apparente, provvisorio. Proprio per questo non la appaga mai.

Mentre leggevo di questo assillante rapporto con i rifiuti, mi è tornato alla mente Pezzetti di spago assolutamente inutilizzabili di Camilleri, la storia di quel ragioniere che conservava e poi con scrupolo catalogava tutti i suoi rifiuti, finanche quelli organici, arrivando a trasformare la sua casa in un grottesco mausoleo col quale consegnare alla memoria di qualcuno la sua personalissima eredità. Non si tratta di semplice accumulo compulsivo bensì di un’interpretazione scellerata e distorta del principio di autoconservazione: conservando rifiuti si illude di cristallizzare nel tempo ogni giorno della propria vita.

Tuttavia, la sensazione di disagio che provai tra quelle pagine mi pare diversa dalla pena che suscita questa storia perché, se il ragioniere di Camilleri sembra voler lasciare memoria di sé attraverso i suoi stessi rifiuti, Bianca instaura con la spazzatura un rapporto altrettanto morboso ma investito di un potere purificatorio. Il suo maniacale attaccamento agli scarti, la sua ansia di procurarsene nuovi fino a “rubare” quelli altrui, le donano l’illusione di regolare l’andamento degli eventi, di riportare ordine lì dove regna il caos. Bianca attua dei rituali coi quali mortifica se stessa ed espia la colpa della quale crede di essersi macchiata. Sviluppa un “doppio”, una proiezione di sé che punisce attraverso tutto ciò che è rifiuto, fino a rendere spazzatura essa stessa. Il valore affettivo narra una specie di dr. Jekyll che non riesce ad opporsi ad Hyde. Vi è, anzi, un rapporto talmente simbiotico da innescare in Bianca una vera e propria dipendenza, in uno sviluppo di situazioni grottesche e al limite del surreale