di Demetrio Paolin
Sono seduto in commissione di maturità: un mio alunno, non il migliore né il peggiore, cerca di trovare una possibile via di fuga al testo che gli ho dato da leggere: è un brano da Fuoco di D’Annunzio. Lo ascolto distrattamente: è il quinto a parlare di una lunga mattinata di colloqui, quando percepisco tra le sue parole un concetto che mi colpisce: «L’autore ha eccelso e nell’arte della poesia e nell’arte del romanzo». È una breve frase, mezza rabberciata all’interno di innumerevoli “è quando”, “è tipo”, “è che succede”etc. etc., che mi colpisce, perché il mio alunno ha toccato un problema centrale del tema del romanzo, ovvero: il romanzo è un genere o un’arte?
Entrambe le distinzioni, verrebbe da dire qui, e semplificando molto, hanno la loro dose di verità, ovvero partecipano a fornire i confini ad un’opera o testo scritto che difficilmente pare porsi dei limiti. Se vogliamo, esistono due ipotesi:
- chi propende per il termine genere – ovvero il romanzo è un genere letterario (così come l’epica, o il poema cavalleresco, la tragedia, e la commedia) – si riconosce in una scia di ragionamenti che, ripercorrendola a ritroso, ci porta a Platone al suo dialogo Repubblica;
- chi invece propende per definire il romanzo un’arte – ovvero il romanzo è un’arte, sostenendo una differenza di sostanza e di concetto dalle altre forme della letteratura, e definendolo come arte a se stante (come il cinema o il teatro o la pittura) – ha il suo padre nobile in Aristotele.
Per eliminare ogni ambiguità in chi legge questo breve contributo, l’estensore si dichiara favorevole al concetto di romanzo come arte, e pur trovando sublime Platone come narratore, pensa che Aristotele, quando nella Metafisica afferma «Ogni potenza è impotenza dello stesso e rispetto allo stesso di cui è potenza» (ovvero che ogni cosa è tale perché può essere messa in atto come negazione di se medesima), avesse trovato una buona ipotesi speculativa di partenza per la definizione della “cosa-romanzo”. Aristotele dichiara che un artista è tale perché può decidere di non utilizzare la sua arte; un pianista è tale perché può smettere di suonare, uno scrittore di scrivere. Questo ragionamento può allargarsi alle opere: un romanzo è tale perché può non essere un romanzo, può in potenza rinunciare a esserlo. E come tale noi possiamo dire con più precisione cosa non è un romanzo, ma non esso cosa è.
L’esperienza razionale che abbiamo della forma romanzesca ci pone di fonte a una serie di problemi definitori non indifferenti. La dimestichezza che molti lettori, critici o meno, hanno nei confronti del romanzo è appunto quella di non sapere come definirlo; anche la riflessione sull’imitazione, pur con le dovute differenze tra Platone e Aristotele, ci porta in una sorta di vicolo cieco: l’idea che il romanzo sia il prodotto di un’arte che imiti la realtà non è completamente corretta, poiché l’arte non imita la vita, ma si oppone ad essa, crea un diaframma di percezioni ed esperienze diverse; la vita è quasi sempre alogica, ateleologica. Cosa che il romanzo non è. Anzi il romanzo, dal punto di vista delle strutture del racconto, possiede una logica interna (il montaggio dei capitoli) e un telos, una direzione, un fine, dovuto al solo fatto che esista un incipit e un explicit: Anche i testi che hanno scardinato più profondamente le strutture romanzesche, penso ad esempio all’Ulisse di Joyce, possiedono un capitolo in cui la storia inizia e un capitolo n+1 in cui la storia va a concludersi, che è il momento in cui concretamente il lettore chiude il libro, o anche solo perché il numero di pagine stampate dell’editore finisce.
Ora, la riduzione di qualcosa di irriducibile, come la vita, in una struttura coerente e organizzata potrebbe – e in parte lo fa – fornire una buona, e molto generale, definizione di cosa sia un romanzo. Nell’incipit de La città di vetro Paul Auster scrive, se non ricordo male, «tutto è reale tranne il caso». Il fatto stesso che questa frase venga scritta all’interno di un romanzo in cui c’è una fitta trama di “casi” che portano allo svilupparsi dell’azione ci fa comprendere come il romanzo propenda per sua natura ad organizzarsi e a far finta che il suo caso, il caso romanzesco, sia casuale, mentre è il prodotto preciso e predisposto di un’arte, quella del romanzo appunto. Eppure, nella finzione del romanzo il protagonista vive quegli episodi come se fossero dettati dalle causalità della vita: la telefonata, il quaderno rosso, gli incontri che avvengono via via sono il frutto o paiono il frutto di una casualità.
Se quindi provassimo a vedere il romanzo come il tentativo di fornire una descrizione di una esperienza, se fosse il romanzo una esperienza fenomenica, più che mimesi della vita; se fosse una sorta di ricomposizione di una realtà completamente immaginata, mai accaduta, che tipo di esperienza ognuno di noi può avere dell’albero che vediamo durante una passeggiata, del fiore all’interno di una serra, della psicosi dell’omicida, o della gioia dionisiaca di due ballerini? Nessuna. Siccome la vita vera ci è preclusa, il narratore crea dei personaggi che possano diversamente da lui/noi avere una esperienza, fittizia, della vita che lui/noi non ha/abbiamo.
Mentre concludevo questi pensieri mi sono ricordato di un passaggio, che durante questo ultimo anno ho letto e commentato parecchie volte a scuola. Leggiamolo ad alta voce:
Fermato così un poco l’animo a una deliberazione, potè finalmente chiuder occhio: ma che sonno! Che sogni! Bravi, Don Rodrgio, Renzo, viottole, rupi, fughe, inseguimenti, grida, schioppettate!
Siamo al principio del capitolo II dei Promessi Sposi. A fare questi sogni è Don Abbondio. In questi mesi, rileggendo per l’ennesima volta il romanzo, queste due frasi si sono impossessate della mia fantasia e dei miei ragionamenti.
Cosa mi colpisce di questo sogno? Intanto nei Promessi Sposi l’attività onirica dei personaggi è fondamentale: molti personaggi sognano. Ad esempio, sogna Renzo nella notte prima di attraversare l’Adda e sogna Don Rodrigo nei deliri della peste. Entrambi questi sogni, però, avvengono ex post,nel senso che i protagonisti sognano qualcosa che è già avvenuto. Il sogno, quindi, in questi casi è come una sorta di rimorso della coscienza.
Il sogno di Abbondio, invece, soprattutto quando parla di «rupi, fughe, inseguimenti, grida schioppettate» sembra fornirci il riassunto di ciò che noi come lettori leggeremo nel corso della storia; verrebbe da dire che il personaggio del romanzo sogna il romanzo stesso; questo sognare diventa ancora più importante, se lo mettiamo in relazione con la centralità di Abbondio per lo sviluppo della trama: una centralità narrativa a cui ovviamente si accompagna una centralità ideologica.
Narrativamente, senza Abbondio non avremmo il romanzo. È Abbondio che mette in moto la macchina romanzesca: la sua paura, la sua codardia e la sua mancanza di forza d’animo fanno sì che possa esistere l’antefatto, ovvero la scommessa di Don Rodrigo con il cugino. Se il curato avesse compiuto il proprio dovere non avremmo i Promessi Sposi. Abbondio, quindi, “contiene il romanzo”; il romanzo, che ci appare sulla pagina in tutta la sua finitezza e creaturalità, in potenza è in lui. Quando Don Abbondio – ma potremmo dirlo qualsiasi personaggio romanzesco – entra in scena, è un individuo coinvolto «in episodi con un senso ancora da costruire» (Proguidis, 2021, p. 160); nel preciso apparire del personaggio sulla pagina noi lettori pensiamo che esista un senso, ma le parole del romanzo ci restituiscono solo un individuo, una persona che cammina: l’apparizione in carne e ossa del personaggio precede il senso del personaggio. Per chiarire, si pensi a come è diverso l’apparire di Ulisse nell’Odissea: noi già sappiamo tutto di lui dall’invocazione posta all’inizio del poema – l’uomo dal multiforme ingegno – e quindi il suo apparire in lacrime non produce lo stesso effetto, perché noi conosciamo il suo “senso” nella storia. Abbiamo già avuto esperienza del senso del personaggio prima dell’apparire dello stesso; il romanzo inverte questa struttura cognitiva – da “prima il senso e poi il personaggio” a “prima il personaggio e poi il senso” – che per secoli ha dominato la narrazione.
È come se fossimo in un sogno in cui l’interpretazione del sogno stesso avviene al risveglio e proviamo a tirare i fili delle immagini suscitate nel sonno. Non stiamo imitando la vita, non c’è una mimesi nella vita in questo apparire di Abbondio, la sua natura umana; la sua singolarità ci sono precluse, non conosciamo il senso del suo venirci incontro, del suo camminare lungo le stradine del lago di Como. È l’apparire del romanzesco, del personaggio romanzesco.
Egli contiene in sé tutto quello che leggeremo nelle pagine seguenti; infatti e casualmente (nulla è reale tranne il caso!) lo osserviamo mettere un dito tra le pagine di un libro per ricordarsi il punto e non perdere segno della lettura. Così mi chiedo e vi chiedo: Siamo sicuri che quel gesto non sia compiuto a nostro favore? Per non farci perdere il segno di ciò che accadrà?
Solo continuando a leggere il romanzo lo scopriremo.