di Giulia De Vincenzo
Il cittadino si mette al riparo dal genio adorando le icone
Edward Dahlberg
Nell’antichità il genio era il nume al quale veniva attribuita la tutela di un luogo, di un’istituzione o di una persona, finché l’inevitabile processo di laicizzazione dei tempi moderni ha spostato il termine nell’ambito figurato, a designare l’entità astratta che si immaginava presiedesse ogni scelta compiuta dall’uomo e il suo corrispondente risultato: ingegno, indole o vocazione, stigmi individuali impressi allo spirito dei tempi. Ma nel passaggio dallo stato di natura al contratto sociale qualcosa deve essere andato storto se sulla volontà generale è tornata a prevalere quella particolare, affinando la forma d’arte forse più caratteristica della contemporaneità: la demagogia. E le icone, dalla dimostrazione sillogistica dell’esistenza di qualcosa di irraggiungibile, sono diventate gli ologrammi delle nostre misere aspettative. È l’era dei social network, baby: se non posti, non esisti. Il percorso di formazione è una strada lastricata di cattive intenzioni e pessime imitazioni e il traguardo lo raggiungi se diventi un meme. In un modo o nell’altro, molti ci riescono e ai pochi rimasti non resta che l’adorazione.
Le icone nascono come raffigurazioni di soggetti sacri su tavole in legno o bronzo. Eppure, nella cultura odierna che ha reificato qualunque cosa, sono riuscite a trascendere la propria oggettualità per farsi “persona”. Isn’t it iconic? Come siamo arrivati a questo punto, proverò a spiegarmelo ricorrendo a due guide, apparentemente lontane e inconciliabili, ma accomunate da un approccio metafisico sul cosiddetto “reale” e sull’agiografia dell’immagine a cui si è ridotta (o forse lo è sempre stata?) la storia dell’umanità. Comincerò con Pavel Florenskij, intellettuale ortodosso dalle mille sfaccettature che impartì i suoi insegnamenti all’università di Mosca sotto i soviet finché venne deportato e morì in un campo di concentramento nell’estremo nord della Russia intorno al 1943. Lui alle icone ha dedicato un saggio, fortunosamente riemerso solo in tempi recentissimi, come gli altri suoi scritti, una volta bruciate – almeno ufficialmente – tutte le scorie panslaviste. Si intitola Le porte regali e allude all’intrinseco valore di confine tra mondo visibile e mondo invisibile che le icone costituzionalmente hanno. Si pensava, addirittura, che fossero dipinte a seguito di visioni mistiche, secondo normative ben precise fissate dai Santi Padri alle quali il pittore, mero esecutore, doveva attenersi.
Guardiamo come i termini di questa definizione si sono ribaltati oggi: le icone sono un prodotto visibile, potenzialmente e transitoriamente emblematico, del mondo visibile, la cui origine non è da ricercarsi in una visione onirica ma in una strategia di marketing elaborata da loschi sobillatori, di solito molto più potenti dell’icona stessa, mero strumento (se non vittima) della popolarità alla quale tutti ambiscono. E qui introduco la mia seconda guida, che pure il mondo dei social lo aveva solo subdorato:
«LaMont, vuoi sentire un’osservazione su ciò che è vero? […] Tu hai fame di un cibo che non esiste. […] Essere invidiati, ammirati, non è un sentimento. E neanche la popolarità è un sentimento. Ci sono dei sentimenti associati alla popolarità, ma pochi di essi sono più gradevoli dei sentimenti associati all’invidia della popolarità». «Il bruciore non se ne va?» «Quale incendio si spegne se viene alimentato? Non è la popolarità che ti vogliono negare. Fidati di loro. C’è molta paura nella popolarità. Una paura terribile e pesante da portarsi dietro. Forse la vogliono solo tenere lontano da te fino a che non peserai abbastanza per tirarla verso di te». «Passerei da ingrato se dicessi che tutto questo non mi fa sentire per niente meglio?» «LaMont la verità è che il mondo è incredibilmente, incredibilmente, impossibilmente vecchio. Tu soffri per un misero desiderio causato da una delle sue bugie più vecchie. Non credere alle fotografie. La popolarità non è l’uscita dalla gabbia»[1].
LaMont e Lyle che discutono sulla popolarità in Infinite Jest, nella realtà aumentata della narrazione, sono due complementari alter ego di David Foster Wallace, lo scrittore che è morto, suo malgrado, da icona paventando i rischi della morte per canonizzazione e della ricerca della fama in tutti i suoi personaggi, summa contraddittoria di un’impareggiabile abilità in qualche campo specifico, di una straordinaria capacità oratoria e di un’inguaribile inettitudine a vivere in quel che resta del mondo reale dopo la grande glaciazione mediatica. Agli antipodi di Florenskij, ha scritto delle porte, certamente meno regali, che separano l’argento vivo dell’apparenza dalla zona morta della coscienza in ogni americano qualificabile come normale. Porte che si possono aprire ma che è impossibile varcare, a riprova di come nessuna normalità sia realmente perseguibile.
Secondo Florenskij, ogni icona evoca un archetipo, che per C. G. Jung è un modello innato e predeterminato, originato dall’inconscio collettivo, attorno al quale si tende ad organizzare la conoscenza. L’archetipo non è semplicemente un simbolo, ma accoglie i segnali multiformi e in continua evoluzione della cultura, costruendo nel tempo l’intelligenza condensata dell’umanità. Se si accetta l’idea di forma come necessaria all’interpretazione dei fenomeni della vita, non resta che risalire alla forma archetipica, all’idea eterna e sacra, diversa dalla materia vissuta e transitoria delle icone. Ma se l’icona rivendica un’eternità che non le appartiene, spezza il rapporto ontologico col sacro. L’inflazione della sacralità, che ricopre col suo mantello dell’invisibilità tanto Gesù Cristo quanto Jane Birkin, riduce il valore delle icone. Le porte regali non si aprono più, l’icona è diventata una cosa tra le altre cose e «il nesso vivente tra il celeste e il terreno, che è la religione, in questo luogo della vita si è sciolto, una macchia di lebbra mortalmente essendosi associata al luogo della vita, e allora deve sorgere l’angoscia, come se questa frattura non fosse già avvenuta»[2]. Florenskij formulava questo pensiero all’incirca cento anni fa.
La verità è che ci siamo stancati di chiederci cosa merita la nostra devozione e abbiamo cominciato a rivendicarla per noi stessi. Le vetrine dei social network, l’iconostasi digitale custodita nelle cattedrali della nostra pochezza, ci hanno insegnato che l’impressione di un momento vale quanto l’eternità, soprattutto se a suggellarla è un numero accettabile di pollici verso, cuoricini e baffi blu guadagnati alla svelta perché non abbiamo pazienza e soprattutto non abbiamo tempo. La prossima icona è già pronta a scalzarci e dobbiamo ricominciare tutto da capo, archiviando quel che è stato come sceneggiatura per un nuovo episodio di Black Mirror. Perché la morte per noi è solo temporanea, ce lo ha insegnato Cristo con la resurrezione, e sì che ci saremmo saliti anche noi sulla croce sapendo che dopo sei ore di dolore ci avrebbe attesi un’eternità di beatitudine alla destra del padre. Ma è comunque una gran rottura.
Tutto questo, David Foster Wallace non poteva immaginarlo. In un saggio su Dostoevskij[3] aveva adombrato gli effetti collaterali delle icone viventi, trasformate in astrazioni che, come tali, non sono in grado di avere una comunicazione vitale con i vivi. Aveva intuito che presentando da subito un grande autore come “classico” lo si condanna all’ingiallimento tra gli scaffali di una biblioteca, in attesa che dita indolenti si ricordino di sfogliarlo per la tesina di fine corso. Icone snaturate che innalzano barriere anziché abbatterle facendosi “porte regali”. L’utopia del precorrere i tempi fissando nella memoria qualcosa che non è ancora accaduto stava già generando mostri, primo fra tutti quello dell’incomunicabilità. Analfabeti di ritorno e anaffettivi anonimi, in effetti, non sappiamo più parlare e non vogliamo più farlo perché non ne vediamo l’utilità. Tutto ciò che ci occorre è un’immagine, quella giusta. Quella che batta tutte le altre, per ora. Il linguaggio ha perso la sua battaglia anni fa. È stato lo stesso Foster Wallace, suo malgrado, a darcene una chiara immagine. L’unica che dovremmo ricordare. La stessa che continuiamo a ignorare.
[1] David Foster Wallace, Infinite Jest, 1996
[2] Pavel Florenskij, Le porte regali, 1977
[3] Il saggio in questione è Il Dostoevskij di Joseph Frank, in Considera l’aragosta e altri saggi, 2005.