di Demetrio Paolin
L’appunto 10 riguarda i capitoli XVI e XVII che pur differenti stili e modi, rappresentano una sorta di dittico in cui dominano i personaggi di Leopold e Stephen. Per tali ragioni ho pensato che fosse necessario suddividere l’appunto in due puntate, la 10.1 su Stephen Dedalus in 10.1 e la 10.2 su Leopold Bloom.
FIGLIOL PRODIGO. Dopo la rocambolesca fuga con cui si chiude il capitolo XV, una delle vette più vertiginose dell’Ulisse e del romanzo novecentesco in genere, il capitolo successivo si apre all’insegna di un gesto tanto comune quanto centrale: «Tanto per cominciare il signor Bloom spazzolò via il grosso dei trucioli, prose a Stephen capello e bastoncello e lo rincuorò alla bell’e meglio in ortodossi modi samaritani, cosa di cui aveva un formidabile bisogno» [XVI, 831]. L’incontro tra Bloom e Stephen che abbiamo atteso, e di cui abbiamo avuto piccole e rapide attestazioni lungo lo svolgersi degli eventi, avviene nella sua completezza e accade nel segno nell’aiuto, ma anche della subordinazione. Bloom e Stephen non sono sullo stesso piano: uno aiuta l’altro, uno ha bisogno dell’altro per quanto Dedalus cerchi sempre di negare questo. Nello stesso tempo, proprio quando l’incontro avviene, quando i due sentieri del romanzo si incontrano, il romanzo volge alla sua conclusione. La coppia Bloom e Stephen nel corso del capitolo XVI e XVII si configura come una coppia padre/figlio: Bloom trova in Stephen il foglio maschio non può avere, lo spettro di Rudy aleggia nelle pagine, e Stephen trova in Bloom un padre diverso dal suo “di sangue”, che è morto simbolicamente con la scomparsa di sua madre. Molti hanno notato il comportamento di Bloom verso Stephen, una sorta di atteggiamento da samaritano, riprendendo anche l’immagine e l’aggettivo con cui si apre il capitolo; eppure se dobbiamo trovare un aggettivo evangelico per il rapporto Bloom/Dedalus allora io parlerei di “prodigo”, riecheggiando la parabola evangelica. Se dovessimo individuare il tema centrale di XVI e XVII, al di là degli schemi alcune volte depistanti dello stesso Joyce, potremmo dire che tutti i personaggi di queste pagine sono alle prese con un ritorno, descrivono un modo con cui si ritorna. E, infatti, la parabola di Luca verte proprio sul figlio che dopo essersi pentito torna alla casa del padre. Due sono le preoccupazioni, che Bloom nutre verso Stephen 1) il cibo: «Lei deve mangiare più cibo solido. Si sentirebbe un uomo diverso» [XVI, 862]; 2) l’alloggio: «Propongo […] che lei venga a casa con me a ragionarci sopra. Il mio alloggio è a quattro passi da qui» [XVI, 862]. Stephen è come il figlio che ritorna, dopo un lungo periodo di assenza e il padre è pronto a perdonargli tutto, perché infine si era perduto ed è tornato. Così forse il momento della cioccolata calda [XVII, 921] non è tanto una chiusura liturgica dell’immagine della messa blasfema [I, 25] , ma è proprio una sorta di banchetto che festeggia il ritorno a casa del figlio che non c’era più.
Il capitolo XVII nella prima parte appunto produce questo lento avvicinamento dei due, il diventare familiare l’uno all’altro: il culmine è rappresentato dall’atto comune della minzione, che – ricordiamo – accomunava Stephen e Bloom nelle loro prime apparizioni. L’urinare sotto un cielo stellato è come il sancire un nuovo patto, una nuova unione e amicizia: «Su suggerimento di Stephen, su istigazione di Bloom entrambi, prima Stephen, poi Bloom, urinarono nella penombra, i fianchi contigui, gli organi della minzione resi reciprocamente invisibili da circoimposizione manuale, gli sguardi, prima quello di Bloom, poi quello di Stephen, levati alla proietta ombra luminosa e semiluminosa» [XVII, 954]. Questo episodio è preparato da una serie di pagine in cui lentamente e con cura Bloom e Stephen si conoscono. La struttura domande e risposte, reminiscenza del catechismo cattolico o del metodo socratico, produce lentamente la conoscenza dell’uno dell’altro e che culmina con l’ennesima offerta di ospitare Stephen una casa: «Di trascorrere le ore intercorrenti tra il giovedì […] e il venerdì […] su un giaciglio improvvisato nel locale immediatamente sopra la cucina e immediatamente contiguo alla camera da notte dei due padroni di casa» [XVII; 944]. Stephen rifiuta la proposta e se ne va nella notte. Così il suo ritorno non è un vero ritorno, egli non trova pace, ma continua a muoversi nella notte, mentre Bloom rientra in casa e va da Molly.
Interessante è anche come il viene trattata la loro separazione. «Come preso congedo uno dall’altro nel separarsi? Rimanendo perpendicolari sulla stessa porta e su differenti lati della sua base, con le linee delle accomiatantisi braccia che si incontravano in un punto qualsiasi e formavano un angolo qualsiasi inferiore alla somma di due angoli retti». [XVII, 955]. I due personaggi, di cui Joyce non ci ha risparmiato niente della loro corporeità e della loro interiorità (liquidi, vomito, parole, pensieri, rabbie, crapule, masturbazione), di cui l’autore ha narrato cambiamenti trasformazioni e metamorfosi, diventano due linee, figure geometriche, che perdono tutta la loro profondità: nel momento di congedo dalla storia perdono la loro consistenza e divengono semplici idee.
STEPHEN DEDALUS. A dominare la scena dell’Ulisse è Bloom, ma non dobbiamo dimenticare una verità narratologica importantissima, che Harold Bloom enuncia in Rovinare le sacre verità riguardo l’Amleto di Shakespeare ovvero che non sia possibile leggere questa opera senza la presenza di Orazio, la sua assenza infatti ci metterebbe davanti agli occhi un’opera diversa. Così come Orazio è necessario ad Amleto, allo stesso modo Stephen è necessario a Bloom, anche se il loro incontro avviene solo negli ultimi due capitoli, perché in qualche modo sentiamo che le loro due vicende sono più profondamente intrecciate di quanto inizialmente vediamo. La figura di Stephen è il continuum tra le altre opere di Joyce e l’Ulisse; in lui l’autore irlandese rivede e descrive se stesso, eppure nel romanzo non è il personaggio principale. Stephen nella struttura del romanzo raffigura “il figlio”, è Telemaco, e non è causale che la prima parte del romanzo (I, III, III) sia totalmente dominata da lui; ma il romanzo, il vero “romanzo”, dell’Ulisse inizia successivamente con l’entrata in scena di Bloom: in questo Joyce rispetta la struttura dell’Odissea perché il protagonista non ci viene presentato subito, ma con una studiata attesa narrativa. In più Stephen agisce per tutte le pagine della storia per non essere riconosciuto come figlio, per non essere Telemaco, pensiamo al suo rapporto con il padre Simon, ma anche una certa scontrosità che ogni tanto trapela nei confronti di Bloom. Nei capitolo XVI e XVII tutti i tentativi di “accasare” Stephen falliscono, come ad esempio quando Bloom prospetta a Stephen di tornare a casa di suo padre e il ragazzo gli oppone un silenzio pieno di memorie e di ricordi «Stephen troppo laboriosamente impegnato a rievocare il suo focolare domestico l’ultima volta che lo aveva visto, con sua sorella Dilly seduta accanto al fuoco, i capelli sciolti» [XVI, 841], un rifiuto che come abbiamo visto viene ribadito nel capitolo XVII. Stephen non si sente figlio tanto da sconfessare la sua figliolanza: «[…] “Conosci Simon Dedalus” chiese finalmente. “Ne ho sentito parlare” risposte Stephen» [XVI, 845]. Stephen è, quindi, un Telemaco riluttante, non torna a Itaca, non riconosce suo padre, se ne va nella notte non sappiamo bene dove.
Forse dobbiamo andare più a fondo di questo personaggio, partendo dall’analisi del nome e cognome. Stephen/Stefano, il suo nome tiene in sé la memoria del primo martire, in greco la parola “martire” significa testimone: Di cosa è testimone Stephen? Dal punto di vista narratologico Stephen è testimone di Bloom, come abbiamo visto nel nel capitolo XV, quando Leolpold assume i tratti del messia rovesciato, del re del carnevale; infatti, quando avviene questa apoteosi regale, Stephen è intento a suonare il piano, lo stesso piano che nel capitolo XI era stato accordato da dal ragazzo cieco (Omero). Questo ci porta alla letterarietà che è il dato dominante in Stephen: «Quali due temperamenti rappresentavano essi individualmente? Quello scientifico [Bloom NdA]. Quello artistico [Stephen NdA]» [XVII, 929]. Stephen parla per citazioni, ha sempre sulle labbra le sacre scritture, o Shakespeare e spesso le sue riposte hanno un che di pensoso, ma sempre legato ai libri. La prima apparizione di Stephen nell’universo letterario di Joyce è sotto il cognome di Hero. Nei prodromi del mondo narrativo di Joyce, Stephen è l’eroe, il protagonista, colui di cui la storia narra e colui che fa muovere la storia, egli è anche il ritratto di James Joyce: Stephen è martire in quanto testimone, che scrive, produce una storia, quella di Joyce come “artista”.
L’Ulisse segna in certo senso la crisi dello Stephen [Hero], non è un caso che spesso nel romanzo Stephen sia descritto come “sconfitto” nella sua arte, come sia relitto del passato (forse anche la battuta che fa citando/parodiando Flaubert [III, 82] può essere vista come una affermazione di appartenenza di un tempo e stile letterario che non sono più), il tono denigratorio quando viene chiamato bardo, ma anche la presa in giro della sua cultura (medievaleggiante). Stephen è il ritratto dell’artista alle prese con una crisi di nervi (mi vengono in mente certi versi di Eliot in particolari quelli di Alfred Prufrock) e di identità: «I suoni sono imposture. […]. Come i nomi. Cicerone. Podmore. Napoleone, signor Goodbody, Gesù, signor Doyle. Gli Shakespeare erano comuni come i Murphy. Cosa significa un nome?» [XVI, 844]. Stephen mescola nomi e cognomi e questo ci porta a riflettere sulla scelta del cognome: Dedalus.
Chiaramente a prima lettura esso rinvia a Dedalo e al labirinto, e quindi per simbologia alla complessità e alla perdita di centro che abbiamo visto essere uno dei temi centrali dell’intero romanzo: pensiamo solo al capitolo VII ambientato nella redazione dei giornali, o al capitolo X con il tentativo di rendere simultanee le tante e diverse linee narrative. Dedalo, quindi, rimanda a quella grecità con cui si apre il romanzo e dichiarata da Buck: «Bisogna che andiamo ad Atene» [I, 27], ma è un mito che non è per nulla collegato all’Odissea. Dedalo è cantato e raccontato nell’Eneide di Virgilio e precisamente nel canto VI. Il poeta romano canta un momento particolare della vita di Dedalo, legato alla morte di Icaro. Dedalo cerca di dipingere la morte di Icaro, di cui è stato testimone, ma appunto lo strazio è stato così forte che l’artista è costretto ad abbandonare la impresa: «bis patriae cecidere manus» (per due volte caddero le mani del padre). E, quindi, non pare così casuale l’unica citazione dell’Eneide virgiliana stia in bocca a Stephen [XVI, 837]. Possiamo quindi dire che il passaggio da Hero a Dedalus possieda quattro significati principali che forse individuano meglio il ruolo e il valore di questo personaggio nel corso del romanzo: a) l’abbandono di una certo tipo di scrittura, di cultura; b) una dichiarazione di impotenza da parte della scrittura nel descrivere la vita; c) il fallimentare destino dell’intellettuale ai punti a e b; d) il lasciare lo spazio ad altro e a un altro modo di raccontare.
Torniamo al momento dell’addio. Stephen stringe la mano a Bloom, forse in quella stretta di mano possiamo adombrare un altro significato al termine martire/testimone. Forse nello stringersi la mano, simbolicamente Stephen passa il testimone a Bloom, dall’uomo vecchio all’uomo nuovo (san Paolo), perché è in Bloom che “fiorisce” qualcosa di nuovo. Paradossalmente nell’Ulisse il figlio rappresenta ciò che è vecchio e passato (l’arte, la scrittura, la cultura passata), e che ha perduto ragione di essere e, quindi il personaggio di Stephen esce dal romanzo in silenzio senza dire l’ultima parola. Un altro finale molto più complesso aspetta Bloom, come vedremo nel prossimo appunto, perché da Bloom fiorisce Molly (Poldy Bloom → Molly Bloom). Stephen, andandosene e lasciando Bloom nel «freddo spazio interstellare» [XVII, 956] si arresta prima di tutto questo, alle soglie di un mondo nuovo.