di Demetrio Paolin
L’appunto 10 riguarda i capitoli XVI e XVII che pur differenti stili e modi, rappresentano una sorta di dittico in cui dominano i personaggi di Leopold e Stephen. Per tali ragioni ho pensato che fosse necessario suddividere l’appunto in due puntate, la 10.1 su Stephen Dedalus in 10.1 e la 10.2 su Leopold Bloom.
ULISSE-MOSÉ-ULISSI. Nel capitolo XVI c’è una rapidissima notazione che mi ha colpito, nella quale si registra il disagio di Stephen nell’avvertire vicino a sé Bloom: Dedalus è infastidito dal «sentirsi accostare [da] una strana sorta di cane di uomo diverso, molliccia e ballonzolante eccetera» [XVI, 899]. Questa reazione di Stephen, che per alcuni è simbolica della omofobia del personaggio e di Joyce, è da leggersi in realtà come una contrapposizione narratologica: Stephen sente disagio al tocco di Bloom, perché quest’ultimo rappresenta qualcosa di alieno, nuovo e strano. I capitoli XVI e XVII funzionano, o dovrebbero essere letti, come un gioco di contrapposizioni: in cui Stephen illumina Bloom e viceversa. In cosa Leopold Bloom è un “uomo diverso”? Il tema fondamentale, che caratterizza Bloom, è quello della identità. Lo abbiamo visto nel capitolo XV quando, al pari di Tiresia, l’indovino, vive sulla sua pelle la doppia condizione di essere maschio e femmina, ma il tema della identità lo avevamo affrontato anche ne capitolo VIII quando Bloom dice “No-one is anything” (No-uno è alcuna-cosa) o nel capitolo XII quando la sua condizione di ebreo e senza patria viene più volte ridicolizzata dal Cittadino. Il culmine di questa riflessione è visibile nel capitolo XIII quando, dopo la lunghissima scena della masturbazione, Bloom scrive l’indovinello sulla sabbia “I AM A…”, legato alla indeterminatezza. “Io sono un”: “un” cosa? Che cosa è questo “un”, cosa regge questa copula del verbo essere? In che mondo si può definire “io sono”: è una citazione biblica? Sappiamo che nell’Esodo (libro di viaggio, di ritorno, e di identità al pari dell’Odissea) la definizione di Dio è una tautologia “Io sono colui che sono”. Se Dio rappresenta, almeno in logica linguistica, una perfetta identità, Bloom segna il qualche modo il venir meno di questa identità, perché cade un pezzo della definizione, o meglio la definizione si sposta su ciò che è realmente problematico. Se diciamo “Dio è alto, basso, brutto, bello, medio, cattivo, buono, onnipotente, assassino, padre, madre etc etc”, il predicato nominale non ci pone particolari problemi: abbiamo una idea chiara di cosa sia alto, basso, nello, brutto etc etc; paradossalmente pure la parola “Dio” non ci dà molto problemi in sé, ma l’unione “Dio+è” diventa problematica: perché sancisce la perdita della funzione copulativa del verbo essere. Il problema sta nella frase “X + è”, quale che sia X. Modifichiamo la frase precedente con “Marco è buono/alto/brutto/assassino/giovane etc etc”, eliminiamo il predicato nominale e ci ritroviamo con “Marco è”: cosa è l’essere di Marco? In che modo Marco “è”? Dio/Marco sono intercambiabili, è il verbo “essere” ha produrre i problemi di logica grammaticale e di logica filosofica.
Bloom sulla spiaggia compie un gesto molto simile; cancella o volutamente non scrive “cosa” “chi” lui è. In che modo Bloom è? Cosa significa essere Bloom? Così quando Bloom scrive “I am a” e lascia cadere la sua definizione si consegna completamente all’essere. Figlia dello sregolamento grammaticale di Rimbuad e del suo Je est en autre, l’azione di Bloom (e di Joyce) risulta addirittura più radicale: rinuncia a una qualsiasi definizione di sé; carica tutto il peso sull’essere, sul verbo, sull’azione dell’esistere: concentra la nostra attenzione di lettori sul suo “essere” e non tanto sul suo “essere qualcosa”. C’è un altro dato che dobbiamo segnalare nell’episodio ovvero che Bloom scriva il tuo “tetragramma” sulla sabbia, un gesto che ci ricorda Gesù che scrive sulla sabbia aspettando che la gente decida se lapidare o meno l’adultera. Questo atto di scrittura assume un significato di fragilità, di passaggio, di labilità: la scrittura sulla sabbia è simbolo di qualcosa di non dura, è un gesto che si oppone alla ragion d’essere di Stephen, che – come abbiamo visto nell’altro appunto – ha sempre nel suo orizzonte la scrittura: scrivere la propria identità, o la presa d’atto della propria mancanza della stessa, sulla sabbia è il risultato finale di questo lungo e tortuoso cammino del romanzo, che solo all’altezza degli ultimi capitoli riusciamo a comprendere completamente; il gesto della scrittura, il lasciare in sospeso il predicato nominale che delimita e definisce, acquista significato, perché in queste pagine viene da chiedersi se l’affermazione, che è stata fatta più volte, sulla identità (da intendersi come coincidenza di topoi letterari) tra Bloom/Ulisse sia corretta.
Nel capitolo XVI assistiamo a un evento interessante, Bloom e Stephen entrano in una losca locanda gestita da un uomo che si è macchiato alcuni atti criminosi e tra gli avventori a tenere banco e raccontare c’è un marinaio. Questo marinaio insieme ad altri è seduto ad un tavolo e racconta le sue storie: «“Mi chiamo Murphy” continuò il marinaio. “W.B. Murphy di Carrigaloe. Sapete dov’è?”» [XVI, 846]. Non solo è un marinaio ma dopo molti anni di assenza sta per tornare a casa dalla sua mogliettina: «È da lì così che io vengo. […]. La mia mogliettina è lì. Mi sta aspettando, lo so. […]. È la mia legittima moglie che non vedo ormai da sette anni, sempre in giro per mare» [ibidem]. Bloom lo guarda ed è proprio lui a dichiarare come questo uomo, che fa racconti stravaganti, a limite del credibile – come le donne di Beni in Bolivia, che «quando non possono più aver figli si tagliano via le tette. Eccole lì sedute popponi al vento a mangiare fegato di cavallo morto» [XVI, 849] – possa essere il “vero” Ulisse e così se lo immagina: «Tu non mi aspettavi più ma io sono tornato per sempre e per ricominciare da capo. […] Lei tiene l’ultimo arrivato sulle ginocchia, il figlio post mortem. […] Inchinati all’inevitabile. Sorridi e becca su. Rimango con molto affetto il tuo marito cuore infranto W.B. Murphy» [XVI, 847]. Sappiamo, inoltre, che Odisseo è il re delle imposture, dell’inganno e non credo sfugga che proprio nella tirata di Stephen sulla impostura dei suoni, che abbiamo citato nel precedente appunto, venga citato il cognome Murphy e avvicinato al cognome Shakespeare: «Gli Shakespeare erano comuni come i Murphy. Cosa significa un nome?» [XVI, 845]. La diade Murphy/Ulisse è, di certo, più credibile di quella Bloom/Ulisse, come abbiamo visto Murphy è narratore avvincente e sostanzialmente inaffidabile (ricordiamo che le avventure di Odisseo le conosciamo solo dal suo punto di vista): «“Ho visto un cinese, una volta […] con certe pilloline come di stucco che metteva nell’acqua, dove si aprivano, e ogni pillola era una cosa diversa. Una era una nave, un’altra una casa, un’altra ancora un fiore”» [XVI, 853]. Murphy racconta anche del «naufragio allo scoglio di Daunt» [XVI, 867].
Il capitolo XVI è disseminato di questi dati che ci portano a dubitare ad esempio della identità Bloom/Ulisse, proprio perché Murphy pare un candidato più convincente. Certamente si potrebbe obiettare come nei suoi schemi Joyce abbia volutamente legato il percorso del romanzo e il percorso del poema omerico; eppure abbiamo sottolineato come nel testo queste evidenze – come gli schemi joyciani vorrebbero farci credere – non sono così lampanti. Ad esempio, il capitolo famoso dedicato a Polifemo brilla per l’assenza delle citazione famosa de “Il mio nome è nessuno”, abbiamo visto anche come il capitolo XV, che negli schemi dovrebbe rappresentare Circe, acquista un significato più centrale e comprensibile se letto sì come episodio omerico, ma quello della discesa nell’Ade. Riguardo al legame Bloom/Ulisse, già indebolito dopo la lettura del capitolo XVI, il capitolo successivo ci consegna un ulteriore tassello: Stephen se ne è andato via e Leopold torna a casa, e ripensa alla giornata appena trascorsa. Nel ripercorrere gli eventi Bloom usa una diversa chiave di lettura, che non ha nulla a che vedere con l’epica omerica, ma è legata alle Sacre Scritture; così prima di coricarsi, elenca succintamente le azioni, che abbiamo visto nei capitoli che vanno dal IV al XVI, legandole a un dato religioso (afferente alla religione ebraica): «La preparazione della prima colazione (offerta arsa); ingorgo intestinale e defecazione premeditata (sancta sanctorum); il bagno (il rito di Giovanni); il funerale (rito di Samuele), l’annuncio pubblicitario di Alexander Keyes (Urim e Tummin); l’inconsistente spuntino (rito di Melchisedek); […] l’erotismo prodotto da esibizionismo (rito di Onan); […]camminata notturna per raggiungere il e allontanarsi dal rifugio del vetturino, Butt Bridge (espiazione)» [XVII, 988]. Potremmo giocare e dire che Bloom non è Ulisse, ma Mosè, personaggio che ci conduce al limite di una terra nuova ma che non può entrarvi, e questo spiegherebbe in maniera decisiva “il” perché le pagine conclusive non siano focalizzate su di lui, ma su Molly.
In realtà Mosè e Ulisse rispondono a qualcosa di più antico ovvero questo bisogno dell’uomo di muoversi e tornare, di partire per avere un posto in cui fare ritorno. Mosè Ulisse e Bloom hanno in comune questa irrequietezza, che non è quella del nomade, ma è quella che in qualche modo del sedentario costretto a muoversi e che immagina un luogo del ritorno, a cui si appartiene. Joyce, con questo nuovo schema interpretativo, ci pone un riflessione più ampia, che non riguarda se Bloom sia Odisseo o Mosè o Donchisciotte (nel capitolo IX l’immagine del cavaliere della triste figura viene avvicinato a Leopold), ma quale sia la segreta funzione narrativa che questi personaggi possiedono; essi in momenti diversi della storia della letteratura e in modi diversi rappresentassero una esigenza più profonda dell’umano, una struttura narrativa che è anche filosofica e antropologica, legata alla nostalgia al tornare da dove si è partiti: nei secoli Odisseo più che un personaggio ha rappresentato una sorta di funzione dell’immaginazione, precedente alla stessa letteratura, che rappresenta quel sentimento di nostalgia, di desiderio di tornare e impossibilità di tornare; l’uomo da sempre è e ha come habitus la nostalgia, abita la nostalgia, vive nella nostalgia, fa di tutto per tornare e di tutto per non tornare più; è inquieto e complicato, sogna e desidera: «Riposa. Ha viaggiato» [XVII, 998]. Bloom ha viaggiato e ora riposa e, quasi camminando a ritroso negli anni, si mette a letto vicino a Molly – «Gea-tellus appagata, sdraiata, gonfia di seme» [ibidem] – come «l’uomo-bimbo stanco, il bimbo-uomo nel grembo» [ibidem]. Sembra che il viaggio sia finito, il viaggio di Bloom, il viaggio di Ulisse, il viaggio dell’homo sapiens da quando ha iniziato a esistere volge al termine, ma proprio nel chiudersi del capitolo ecco l’ultima domanda che l’oscuro narratore del capitolo XVII (Chi è questo narratore? E se fosse lo stesso anonimo Io del capitolo XIII?) pone: «Dove?» [XVII, 999]. La risposta come sempre in Ulisse è un enigma: «■» [ibidem]. Cosa significa questo quadrato nero? Per alcuni è il simbolo del “Come volevasi dimostrare” (ad indicare l’andamento logico-matematico del capitolo), per altri il quadrato nero ricorda le note nel canto gregoriano e starebbe ad significare l’intonazione – il “dare il la” – al monologo di Molly. Entrambe queste ipotesi, per quanto suggestive e centrate, dimenticano il dato costitutivo della narrazione del capitolo ovvero l’alternarsi di domande e risposte. Quel quadrato o punto nero è la risposta alla domanda “dove?” Quindi il segno grafico indica un punto, un luogo in cui andare o da cui ri-tornare. La mia ipotesi è che il quadrato nero, di cui sappiamo che Joyce desiderasse dimensioni tipografiche sempre maggiori, sia una reminiscenza del romanzo, sicuramente fondativo per l’Ulisse, Vita e opinioni di Tristram Shandy di Sterne, in cui una pagina è totalmente nera per significare il lutto e il dolore del narratore per la morte di un personaggio; il nero rappresenta la lingua ammutolisce, il luogo in cui la scrittura si riduce a puro segno grafico, senza suono o significato.
Da dove è arrivato Bloom e per dove riparte Bloom? Torna da un lutto, e si muove verso una zona di lutto, da intendersi non tanto come morte, ma come privazione, di luce, di vita, di esistenza. Nell’Odissea, canto XI, sappiamo che Tiresia, durante la discesa negli inferi di Odisseo, gli profetizza un ulteriore viaggio: il ritorno a Itaca è momentaneo, Ulisse non si fermerà, ma ripartirà. Che viaggio sarà quello di Ulisse? Non ci è dato saperlo, ma la letteratura ne ha immaginato moltissimi: Dante Cervantes Risalire Burton Sterne Joyce, ognuno di questi costruito un viaggio in cui il fantasma di Ulisse, la sua figura, è presente. Immagino che Joyce sia arrivato alla fine del suo romanzo convinto che alla domanda “dove?” non si possa più rispondere con delle parole. Le letteratura è ammutolita, fa una esperienza di lutto. Così come Sterne per significare il massimo dolore proponeva ai suoi lettori una pagina completamente nera per affermare l’esistenza di qualcosa che la letteratura, la parola, non è in grado di riprodurre, altrettanto fa Joyce con il suo quadrato: esiste una esperienza della vita in cui la parola non è priva di senso, non ha nessuna forza o possibilità; il quadrato nero è il momento dell’indicibile e della resa: se l’Ulisse è il romanzo che tenta la nuova lingua, non è a Bloom che dobbiamo rivolgerci. La sua esperienza lo ha portato a ritornare a uno stato prenatale, precedente il linguaggio, allo stato di chi vive senza interiorità, di chi si consegna alla essere (ecco tornare la centralità del verbo essere nell’indovinello “I AM A”). Bloom e Stephen in modi diversi, con atteggiamenti diversi, arrivano e subiscono lo stesso smacco: le loro lingue, quella che uno ha coltivato (Stephen) e quella con cui l’altro è stato scritto (Bloom), sono destinate al mutismo. Sarà compito di Molly riprendere in mano le fila della storia e produrre la nuova parola che, infine, affermi.