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Joyce, Ulisse, Appunto 3 [VI, VII, 166-237].

di Demetrio Paolin

CIMITERO. Il capitolo VI è il resoconto di un funerale. Se guardassimo all’Ulisse come ri-scrittura dell’Odiessea ci troveremo davanti a un episodio che parodizza il viaggio nel regno dei morti; in realtà   è se queste pagine si confrontano con Amleto, V scena 1 (https://shakespeare.folger.edu/shakespeares-works/hamlet/act-5-scene-1/). In quelle sequenze abbiamo davanti a noi la mescolanza di stile tragico e comico, di alto e basso, che è la cifra, secondo Auerbach, dell’opera di Shakespeare e del realismo creaturale alla base di tutte le opere prese in analisi in Mimesis. Il cap VI vive della medesima mescolanza tra riflessione sapienziale e la battuta più trita. Parlando del cap VI, mi piacerebbe ravvisare la centralità dell’Amleto come funzione narrativa in tutto lo sviluppo del romanzo di Joyce.  Proviamo a sondare un po’ il testo per vedere se le nostre impressioni sono suffragate dai testi. Bloom riflette nuovamente su Rudy: «Se il piccolo Rudy fosse vissuto. Vederlo crescere. Sentire la sua voce in casa. Lì a camminare al fianco di Molly in un completo tipo Eton» (VI, 152) . È un momento lirico e poetico, e Joyce di seguito racconta così il concepimento: «Dev’essere stata quella mattina in Raymond terrace che lei era alla finestra a guardare due cani che ci davano accanto al muro del gabbio. E il pulotto guardava ghignando. Indossava una gonna color crema con lo strappo che non ha mai rammendato. Dammi una botta, Poldy. Dio, sto morendo di voglia. Così comincia la vita» (VI, 152).  La mescolanza di stile, che è il sigillo della grandezza di Shakespeare, è quindi cercata e raggiunta più volte da Joyce: «Una bara scaraventata sulla strada. Si spalanca. Paddy Dignam sparato fuori, che rotola stecchito nella polvere in un abito marron troppo grande per lui. Faccia rossa: adesso grigia. Bocca che penzola aperta. Chiedendosi adesso cosa succede, Giustissimo chiudergliela. Aperta è orrenda da vedere. E poi le interiora si decompongono in fretta. Molto meglio tappare tutti gli orifizi. Sì, anche. Con cera. Lo sfintere rilasciato. Sigillare tutto» (VI, 166) . Si intravede nella citazione il ricordo delle riflessioni dei becchini, e il loro modo stralunato di interpretare l’ubi sunt?. Poche  pagine dopo leggiamo: «Ogni mortale giorno un’infornata nuova: uomini di mezza età, vecchie, bambini, donne morte di parto, uomini barbuti, professionisti calvi, ragazze tisiche con tettine da passero.» (VI, 174). La nostra fragilità si mostra nella contemplazione del corpo morto: «Il tuo cuore forse ma cosa non gliene frega al povero diavolo chiuso in quei sei piedi per due con i ditoni rivolti alle margherite? […] Ce n’è un fottio qui intorno: polmoni, cuori, fegati. Vecchie pompe arrugginite nient’altro. La resurrezione e la vita. Una volta che sei morto sei morto» (VI, 175). Tutta la scena del cimitero avviene all’interno di un «sbarrato, disabitato, incolto giardino» (VI,168 – citazione da Amleto),  un luogo poco salubre, che «sembra zeppo di gas malsano» (VI, 173). In questo ambiente compaiono ovviamente i becchini (VI, 174), nell’economia dell’Amleto i becchini svolgono una funzione comica,  ripresa nel Ulisse quando uno dei necrofori racconta la storia dei due ubriaconi alle persone presenti alla tumulazione dell’amico, sono poche righe dal sapore di aneddotico e di burla (VI, 177).

Altra prova dell’influenza prodotta dall’atto V scena 1 dell’Amleto è il tema del suicidio. I due becchini nell’Amleto parlano del suicidio di Ophelia, e riflettono se/quanto sia lecito o meno seppellire in terra consacrata una persona che si è tolta la vita. Il signor Power, durante il funerale, dice: «Ma peggio di tutto è colui che si toglie la vita» e rincara la dose: «La peggior disgrazia che possa capitare a una famiglia» (VI, 162 -163).  Tra le persone scende il gelo, il padre di Bloom si è suicidato, e sta a Cunningham portare un po’ di ragionevolezza, deviando la conversazione su lidi più sicuri, un gesto subito riconosciuto da Bloom: «I grandi occhi di Martin Cunningham. Che adesso guardava da un’altra parte. Di faccia assomiglia a Shakespeare. Sempre pronto a mettere una buona parola. Questa cosa non la perdonano, come l’infanticidio. Rifiutano l’esequie cristiane.[…] Trovato sul letto del fiume aggrappato a giunchi» (VI, 163). Nelle parole di Bloom, oltre alla menzione di Shakespeare,  la citazione dell’Amleto è duplice a) l’immagine dei giunchi, che unisce la morte per acqua (Ophelia) e il letto di morte (il padre di Bloom ), b) il suicidio come atto di riprovazione eterna. Le evidenze testuali, infine, sono tali che quando Bloom nomina “i becchini dell’Amleto” (VI, 180) nessuno pare stupirsi.

AMLETO. Ulisse allude continuamente all’Amleto: già nei primi capitoli era così, pensiamo all’immagine del marcio, del verde marcio, nella figura di Stephen è adombrato Amleto: «Così nei turni di guardia della luna io pattuglio la stradina sopra le rocce, in nero argentato, prestando orecchi alla tentatrice marea di Elsinore» (III,88). Stephen, come Amleto, è orfano, esule e al limite della follia: ad accomunare Ulisse, Amleto e Odissea è una struttura narrativa remota, che si perde all’inizio dei tempi: l’orfanità. Si inzia a scrivere perché si è orfani, in Stephen ritorna il tema del figlio che ha perduto i genitori (realmente: la madre; simbolicamente: il padre), anche Bloom è orfano di Rudy. Non esiste una parola che descriva la situazione di un genitore a cui muore il figlio e ciò indica un vuoto grammaticale, sintattico, concettuale per significare qualcosa fuori da ogni immaginazione. Bloom è come il fantasma del re, che morto o passato a un altro modo, si scopre privato del proprio figlio. Nel 1596 a Shakespeare muore il figlio Hamnet: è possibile che sia avvenuto qualcosa, che quella morte abbia prodotto nello scrittore inglese una incrinatura, una rottura dello svolgersi del tempo, un cambiamento nelle regole dell’universo, che ha creato un cosmo alla rovescia dove il brutto è bello e il bello brutto? Shakespeare è così enigmatico, così lontano da ognuno di noi – noi sappiamo cosa sentono i suoi personaggi, ma di lui ignoriamo ogni singolo sentimento – che potrebbe essere un’ipotesi percorribile, e Joyce è un così grande narratore che, incuriosito da quella zona d’ombra, in cui in nome del figlio assona con quel del protagonista, ha potuto immaginare in un tempo fuori di sesto, sotto un cielo marcescente, uno Shakespeare/Bloom straziato dal dolore, che osserva i becchini seppellire tra motti e battute la piccola bara di Hamnet/Rudy.

DUBLINO. Pound sostiene che Joyce «è un realista… dà la cosa come essa è». L’Ulisse può essere letto come romanzo realista? I grandi scrittori ottocenteschi accostano le proprie opere a uno specchio/finestra: la scrittura, come tentativo di chiudere in un modo finito un mondo infinito, trova il suo correlativo nello specchio, che che con il passare degli anni diventa sempre più “fedele”, ma come  aggiunge George Eliot altrettanto «difettoso; qualche volta i lineamenti appariranno offuscati, le immagini deboli e confuse; ma mi sento in dovere di narrarvi il più fedelmente possibile tutto quanto vi è stato impresso, come fossi in tribunale, sul banco dei testimoni, e dovessi riferire sotto giuramento tutta la storia alla quale ho assistito».  Lo specchio intravisto nelle prime pagine (I, 21) dell’Ulisse, quindi, è un rimando a questa funzione narrativa, ma in Joyce accade che lo specchio s’incrini e la realtà si disponga diversamente. Concentriamoci brevemente sul capitolo VII, esso è composto da una serie di frammenti con tanto di titoli; potremmo ipotizzare che siano come cartoline più o meno brevi dalla Dublino di inizio Novecento, potremmo pensare che queste prose come dei flash, dei lampi, dei frantumi o trucioli; insomma vedere in Joyce una deframmentazione della realtà, un suo scomporsi simile a ciò che accadeva con il cubismo in arte figurativa. Ci si potrebbe spingere più in là e dire che Joyce è antesignano di narrazioni contemporanee completamente parcellizzate. Lo specchio di Joyce, però, non è andato in frantumi, ma si è incrinato, ovvero la sottile lastra  è fessa da linee, sbucciature e piccoli difetti che rendono l’immagine scomposta ma in sé unitaria.  Joyce vuole raccontare questa molteplicità focale, è come se il suo specchio franto avesse più punti di vista, più luoghi, attraverso i quali la “cosa reale” può essere vista. Queste pagine sono anche le prime dove Dublino entra in scena in tutta la sua interezza, che non può essere simile alla rappresentazione della città nel romanzo dell’800, ma che deve dare il conto dei cambiamenti che sono avvenuti. C’è di certo una memoria balzachiana, penso a Illusioni perdute, ma in queste pagine, dove per la prima volta troviamo accostati i due filoni narrativi di Bloom e Stephen, Joyce inscena una modificazione profonda. Se nell’ottocentesca Parigi di Balzac i giornali erano il trampolino di lancio per giovani scrittori pronti a conquistare il mondo e metterselo sotto i piedi, nell’Ulisse vediamo Bloom che ragiona e litiga con direttori, compositori di pagine etc etc per strappare un quartino o mezza pagina di pubblicità, che spiega bozzetti di reclame, che tratta gli spazi a livello economico. Bloom è insomma il prototipo del pubblicitario, che costruisce pagine come se fossero articoli che vengono comprate dagli inserzionisti. La comparsa di Dedalus è invece interessante, perché in Stephen Joyce lasca viva una traccia dello scrittore squattrinato, scoria ulteriore di naturalismo nel romanzo. Infatti con Stephen il discorso vira da economico a letterario. Dedalus inizia a raccontare a voce alta una breve novella che vorrebbe pubblicare sul giornale (VII, 230 ). Il paragrafo, che si apre con le parole «Gente di Dublino»,  chiaro riferimento ai Dubliners,  non è un racconto dentro il romanzo, ma è l’esposizione orale del racconto da parte di Stephen, una storia, che avrebbe potuto far parte di quella raccolta, interrotta e inframmezzata da alcune apparizioni brevi di Bloom, ritratto mentre cerca di chiudere un contratto pubblicitario. Potremmo rubricare questo passaggio sotto il titolo l’arte nella epoca della reclame: mentre ancora Stephen sogna quel mondo che fu (non è un caso che citi il motto di Flaubert, in appunto 2), Bloom rappresenta la disgregazione di quella realtà. L’incrocio tra di due personaggi, che si sfiorano per ora, è presagito nel traiettorie dei tram di Dublino, che danno la reale dimensione della città: «In vari punti delle otto linee c’erano vetture tranviarie freme sui binari con trolley immobili, dirette a o provenienti da Rathmines, Rathfarnham, Kingstown, Blackrock….[…] tutte ferme, bloccate in un cortocircuito. Fiacre, carrozze, carri per consegne, furgoni postali, brum privati, carri scoperti di acqua minerale gasata pieni di sbatacchianti cestelli di bottiglie sferragliavano, rotolavano, trainati da cavalli, rapidamente.» (VII, 236). La molteplice unità (i nomi delle linee) e la moderna frenesia (l’avverbio “rapidamente”) della città sono il segno di un nuovo modo di guardare la realtà sempre attraverso uno specchio, a cui qualcuno ha tirato un pugno.