di Demetrio Paolin
FLUSSO. «Così scrivono i poeti, assonanza di suoni. Però in Shakespeare non ci sono rime: versi sciolti. Flusso del linguaggio, è. I pensieri. Solenni» [VIII, 242]. Troviamo queste parole nel capitolo VIII. Osserviamo Bloom camminare per la città, impegnato in futili conversazioni, alla ricerca di un posto dove mangiare: l’ottavo è un capitolo dove domina la materialità del cibo e l’atto della masticazione: tutti gli uomini che Bloom incontra durante il suo peregrinare sono descritti con precisa e ironica cura nell’atto di mangiare. La nota fondamentale è la materialità, i bisogni primari del corpo, ma a questa esteriorità si unisce una interiorità che proprio il gesto del cibarsi ci invita a non dimenticare: il cibo è prendere qualcosa di esterno (ed estraneo) e portarlo all’interno (renderlo intimo), è un movimento da fuori a dentro, ma può essere benissimo anche un movimento da dentro a fuori:«Fammi vedere come mangi e ti dirò chi sei» [VIII, 274]. In questo caso, noi lettori ci facciamo cibo e entriamo nell’intimo dei pensieri di Bloom, ne sentiamo il flusso. L’immagine del fluire torna in tre occorrenze la prima nella citazione con cui si apre questo appunto (sottolineo l’ennesimo, errato, riferimento a Shakespeare), e di seguito: «Come si può essere proprietari dell’acqua? Scorre sempre in un flusso, mai la stessa, ciò che nel flusso della vita inseguiamo» [VIII, 243], e infine «Proseguì sul marciapiede principale./ Flusso di vita» [VIII, 246].
La parola flusso è legata a per due volte al termine vita e una volta al termine linguaggio. Potremmo elaborare una sorta di equazione matematica flusso + vita = flusso + linguaggio e, risolvendola, notare una uguaglianza, vita = linguaggio. La vita è il linguaggio, il modo di dire la vita sta nelle strutture del linguaggio che Joyce usa, e queste strutture grammaticali attengono ancora una volta al dentro e al fuori e vengono risolte con una sapiente uso della prima e della terza persona, un’alternanza che proprio in questo capitolo diviene centrale e fondamentale.
PRIMA/TERZA. Parlando di flusso il pensiero corre al “flusso di coscienza”, il monologo interiore di Molly, che conclude il romanzo. Ora il monologo di Molly è posto a fine dell’Ulisse non solo per una logica di trama, ma perché rappresenta l’approdo definitivo di quella lenta, costante e decisa rottura dei legami sintattici e grammaticali, che è il cuore dell’Ulisse come opera letteraria.
Se dovessimo definire il narratore dell’Ulisse potremmo rubricarlo come un classico narratore in terza persona, che per almeno i primi due capitoli ci guida nel racconto; nel cap. III accade qualcosa: con una sempre maggiore frequenza alla terza persona si affianca una prima. Senza una mediazione sintattico-grammaticale di alcun genere, la narrazione passa da una all’altra: «Il suo passo rallentò. Dunque. Vado da Zia Sara o no?» [III, 78]. In questo caso la terza persona si occupa di raccontarci che Stephen sta camminando e il suo passo rallenta, mentre la prima persona, senza mediazioni (forse il “dunque” ci prepara che qualcosa sta succedendo) ci fa entrare nella testa del protagonista. L’intero capitolo III è una soglia, il passaggio, a una forma di indiretto libero privo tutto “l’armamentario” di deiettici, proposizioni, segni e interpunzioni. La scelta di Joyce di riprodurre l’interiorità dei personaggi passa appunto dallo strumento che l’800 aveva privilegiato come medium per raccontare l’anima; infatti l’indiretto libero – con una serie di abili movimenti grammaticali – ci comunicava il sentire di Bovary, di Nanà, di Lucia o di Renzo o di Raskolnikov. Joyce prende questo mezzo e lo trasforma: il cap. III è dominato da Stephen e dai suoi pensieri, Stephen è un personaggio, uno scrittore, e rappresenta – in maniera obliqua – Joyce e il suo modo di vedersi scrittore. Lo statuto narrativo di Stephen è complesso nel suo duplice essere personaggio e proiezione dell’autore. Non credo allora che sia casuale come l’uso l’indiretto libero (Io) si alterni a una seconda persona (Tu): «Il mio cappello da quartiere latino. Dio, si tratta semplicemente di vestirsi come richiede il ruolo. […]. Eri studente no? Di cosa, in nome dell’altro diavolo?» [III, 83]. Il Tu soliloquiale, vecchio armento dell’interiorità delle letteratura occidentale da Petrarca in poi, è un altro modo per far rendere il lettore edotto dell’animo del protagonista (una sua variante settecentesca furono i romanzi epistolari). Il Tu suona alle orecchie di noi lettori come una intermittenza, un piccolo brillio grammaticale, una movimento della narrazione, in cui si passa da Egli a Io, attraverso il TU. La struttura monologante di Stephen è quindi tripartita (la sua passione per le eresia trinitarie potrebbe essere un indizio?), in cui il Tu media tra i dati materiali raccontati in terza e i pensieri espressi in prima. In Leopold Bloom questo non avviene, nel capitolo VIII, salta completamente il Tu: il capitolo, in soggettiva su Bloom e suoi movimenti per le vie, è un continuo passaggio tra terza e prima. Solitamente questo movimento è segnato da una frase costruita con “Il signor Bloom + verbo”. Vediamone due esempi: «Il signor Bloom scoccò un sorridente Oh, cacchio a due finestre dell’autorità portuale. Ha ragione in definitiva [si riferisce a Molly]. Paroloni per cose ordinarie soltanto perché suonano bene. Lei non è esattamente spiritosa. E può anche essere greve. Sbotta papale papale quello che stavo pensando. Però, non so. Diceva che Ben Dollard ha una voce da basso baritono. Be’, ha due gambe come barili e sembra che stia cantando dentro un barile» [VIII, 244]; «Il signor Bloom, respiro accelerato, passo rallentato, superò Adam Court. […]Sì. Come pensavo. Vita dentro l’Empire. Sparito. Gli farebbe bene una gazzosa lisca. Dove Pat Kinsella aveva il suo Harp theatre prime che Whitbred prendesse in gestione il Queen’s. La quintessenza del ragazzino.» [VIII, 263]. Ciò che si può notare dalle diverse letture di questi indiretti liberi è la loro trasformazione in un flusso, in una sorta di nastro su cui sono registrati i pensieri, l’indiretto monologante di Bloom ha a che fare con una interiorità spicciola (la sua vita coniugale, i tradimenti, cosa mangiare, dove mangiare) in Dedalus a parlare è l’esule, lo scrittore. Altro dato essenziale, sempre in vista del finale flusso di coscienza di Molly, è la frammentazione in piccole frasi, alcune volte, nominali intervallate da punti fermi: «Funzionerebbe: uno si sente sempre lusingato. Adulazione dove meno te l’aspetti. Nobile fiero di discendere da un’amante del re. La sua progenitrice. E giù a palettate. Cappello in mano si va lontano.» [VIII, 262]. Con lentezza, ma con metodo, Joyce affranca i suoi personaggi dalla sintassi e dalla grammatica, come se alla esplosione della trama seguisse una esplosione del discorso; a questo punto della nostra lettura possiamo registrare: la scomparsa della mediazione del soliloquio (Tu) e la frantumazione del periodo (frasi nominali) e la scomparsa progressiva della sintassi (esempio la punteggiatura).
OMERO. Durante il suo girovagare, siamo quasi a conclusione del capitolo, Bloom incontra un ragazzo cieco [VIII, 281-282]. Questo giovanotto che il protagonista aiuta nell’atto di attraversare la strada è così descritto: «Il signor Bloom si avviò dietro a piedi privi di occhi, un completo di taglio ordinario in tweed a spina di pesce. Povero giovane! Come diavolo faceva a sapere che là c’era il furgone? Deve averlo sentito. Vedono cose nella fronte magiari; una sorta di senso del volume. Peso (o forma, qualcosa di più nero del buio. Chissà se lo avvertirebbe se qualcosa fosse tolto di mezzo. Sentire un vuoto. Un’idea bizzarra di Dublino deve avere, a orientarsi in quel modo picchiettando sulle pietre» [VIII, 282]. Questo personaggio cieco, che sente il vuoto, che si aggira per la città picchiettando le pietre potrebbe essere Omero? Non riesco a togliermi dalla fantasia che Joyce voglia rappresentare Omero a Dublino; il cieco ha una visione (vedono cose nella fronte), si muove nel buio, sente il vuoto.
NO ONE/ANYTHING. Il capitolo VIII inizia con un annuncio di rivelazione e con un esplicito gioco di parole tra Bloom e blood: «Bloo… Io? No./ Blood. Il sangue dell’Agnello» [VIII, 239], come abbiamo visto in precedenza questo capitolo è dominato dal cibo, come strumento privilegiato per vedere nel cuore di Bloom: «Tutti sono lavati nel sangue dell’agnello. Dio vuole sacrifici cruenti. Nascita, imene, martirio, guerra, fondazione di un edificio, sacrificio, bruciata offerta di rognone, altari druidici» [ivi]. Così il cibo, l’agnello scritto in minuscolo, diventa figura della storia dell’uomo, di ogni uomo, anzi di ogni essere vivente. Bloom in queste pagine, proprio come l’agnello dell’Apocalisse, assume su di se tutti peccati, i dolori del mondo – «Ho un dolore.» [VIII, 259] -, assume su di sé il mondo e la sua sofferenza: «Ne nasce uno ogni secondo qua o là. Un altro muore ogni secondo. Cinque minuti da quando ho dato da mangiare agli uccelli. Trecento hanno tirato le cuoia. Altri trecento nati e gli hanno lavato via il sangue, tutti sono lavati nel sangue dell’agnello, strillando beeee» [VIII, 258]. La sofferenza dell’uomo si tramuta in queste righe in qualcosa basilare, primordiale: una sofferenza animale: «Il dolore degli animali, inoltre. Spiumare e tirare il collo ai polli. Quegli sventurati animali al mercato del bestiame in attesa che la mannaia gli apra il cranio in due. Muuu. Poveri vitelli tremanti. Meee. Zampino tremolino. Manzo e cavolo. Polmone che sballonzola nei secchi dei macellai» [VIII, 268]. C’è in Bloom uno sguardo sul creato colmo di pietà – «il signor Bloom tiro avanti alzando gli occhi afflitti» [VIII, 243] – per ciò che vede nel suo peregrinare: «Uomini, uomini, uomini. […]. Appollaiati su sgabelli alti al bancone, […] o ai tavoli che berciano per chiedere altri pane compreso nel prezzo» [VIII, 265]. Una visione così potente che lo costringere a chiedersi: «Sono così io?» [ivi]. Cosa è un uomo? È questa la domanda che nasce leggendo questo capitolo e Bloom sembra rispondere quando in uno dei suoi monologhi dice: «Nessuno è niente» [VIII, 259]. La parola “nessuno” ci riporta a Ulisse Odissea, IX, 366. Nell’originale leggiamo «No one is anything». Grammaticalmente è corretto tradurre e risolvere come fa Biondi, ma anche Terrinoni, “nessuno è niente”, ma si perde una certa sfumatura. Celati traduce con «Nessuno è qualcosa» [Celati, 226], che, forse meno corretta, condensa in sé il tema del capitolo. Se la risolvessimo letteralmente dovremmo scrivere: No-uno è quache-cosa. Quindi nessuno è qualche cosa, anche l’essere nessuno, il chiamarsi nessuno, è qualcosa. Nella traduzioni di Biondi e Terrinoni tutto scivola in un nichilismo, lontanissimo dalla visione joyciana. C’è, invece, nel VIII il tentativo profondo e complesso di descrivere la materialità degli esseri umani (partendo loro modo di mangiare) e il loro vivere e morire (presentandoceli come animali morenti). Bisogna interrogarsi su cosa significhi la parola nessuno: nessuno è l’uomo da nulla, l’uomo che è solo se stesso, che non ha altro da sé, proprio come Ulisse quando mette piede a Itaca mendico, Ulisse è così “nessuno”, è così povero di sé, da non riconoscere neppure la sua isola; nessuno indica l’uomo che non ha altro che il suo essere sé; la nuda vita, che si espleta nelle funzioni basilari e fisiologiche; ma allora questo “nessuno” è qualcosa, è qualcuno, è chiunque. Diventa ogni umano, si trasforma da “no one” a “everyman”, diviene ognuno di noi. Così nelle pagine di questo capitolo assistiamo alla trasformazione di Bloom in un personaggio universale, che – alla pari di Ulisse o Amleto – travalica le pagine del romanzo, per diventare patrimonio comune del nostro immaginario.