di Carmen Rampino
Murray Constantine, Katharine Burdekin, Daphne Patai: tre nomi, uno maschile e due femminili, legati da una storia incredibilmente affascinante che ha abbracciato diverse generazioni e che potrebbe non essere ancora finita.
È il 1937 quando l’editore socialista britannico Victor Gollancz pubblica il romanzo Swastika Night. Una copertina gialla su cui si staglia il nome dell’autore: Murray Constatine – il primo dei nomi citati -. Incontra un certo successo presso il pubblico, ma poi scoppia la guerra, gli eventi precipitano e di questo libro non se ne parlerà più, almeno così sembra.
Passano degli anni, precisamente 48. È il 1985, una accademica americana di nome Daphne Patai (terzo nome citato) cura una riedizione di quel libro per Feminist Press e svela al mondo che quel Murray Constantine non è altro che uno pseudonimo dietro il quale non si cela un uomo, bensì una scrittrice inglese poco conosciuta: Katharine Burdekin. Proprio a lei si deve il romanzo di fantascienza distopica, che in Italia fu tradotto per la prima volta nel 1993 per Editori Riuniti e curato da Carlo Pagetti, dal titolo La notte della svastica, «precursore non riconosciuto di tutte le successive distopie» (Gallo 2020, p. 316).
Due anni prima della Seconda Guerra Mondiale e ben dodici anni prima di 1984 di George Orwell, Burdekin ha immaginato un mondo in cui il nazismo ha trionfato e il pianeta è diviso in due tra l’impero tedesco e l’impero giapponese. Già solo l’idea di immaginare una situazione del genere addirittura prima dello scoppio della Seconda guerra mondiale e dell’alleanza tra Germania e Giappone (al 1940 risale il patto tripartito firmato a Berlino tra Germania, Giappone e Italia), mostra una lucidità e una lungimiranza uniche. Se Orwell in quei dodici anni intercorsi tra la sua pubblicazione e quella de La notte della svastica ha potuto vedere chiaramente gli orrori del nazismo, Burdekin «legge nel futuro come Cassandra l’oscura profezia di un universo in dissoluzione sotto il peso di una ideologia folle e disperata» (Pagetti 1993, p. XI). Eppure proprio Orwell, così attento nei confronti dei suoi predecessori, non menziona mai Burdekin, pur essendo 1984, come confermato da Gallo, un tributo non dichiarato a La notte della svastica di cui uno dei più espliciti legami è proprio l’analisi del rapporto intimo tra sesso e dittatura (cfr. Gallo 2020, p. 319).
Settecento anni dopo il nazismo, nella parte del mondo sottomessa alla Germania, si coltiva il culto per una strana religione che ha deificato Hitler e in cui non c’è più memoria. Si è ritornati ad un feudalesimo senza scampo in cui si crede nell’orgoglio, nel coraggio, nella violenza, nella brutalità, negli spargimenti di sangue, nella spietatezza, nelle virtù marziali ed eroiche (cfr. Burdekin 2020, p. 11). Al centro vi è una realtà brutale in cui non c’è più scrittura e non c’è più memoria e in cui le prime vittime sono le donne. Non esistono sentimenti, affetto o eros. Le donne sono bestie senza dignità, non considerate proprio esseri umani ma macchine per produrre soldati. La natura, però, silenziosamente si ribella non facendole praticamente più partorire femmine, ma solo maschi – «e se le donne avessero cessato di riprodurre se stesse, come poteva continuare ad esistere il Regno di Hitler?» (Burdekin 2020, p. 19) -.
In questa realtà si prova ribrezzo, repulsione, schifo per le donne, abbruttite, rasate, non istruite. Per un uomo è preferibile amare un altro uomo piuttosto che avere rapporti con le donne, che vengono stuprate unicamente per procreare. Una volta nati, i figli vengono strappati via dalle madri perché non considerate idonee all’occuparsi della crescita, dell’allevamento e dell’educazione degli uomini. Solo le bambine vengono lasciate alle madri per ripetere in eterno questo ciclo bestiale. Le donne non si possono amare, non hanno anima e quindi non sono proprio umane. Il mettere in discussione l’umanità delle donne potrebbe apparire un’esagerazione fantastica eppure basti pensare che nell’anonima Disputatio nova contra mulieres (Un nuovo argomento contro le donne) del 1595 si legge un argomento molto simile: «La paroletta homo deriva da humo, dalla terra, e perciò la donna [in quanto nata dalla costola di Adamo, n.d.r.] non può né essere né venire chiamata umana». La fantascienza distopica, dunque, non parte mai dalla fantasia, ma sempre e comunque dalla realtà, anzi la fantascienza è quanto più può farci avvicinare alla realtà. In questa modalità l’autrice rileva soprattutto il legame tra dittatura e sessualità come base del regime nazionalsocialista e il suo esoterismo strutturale. «Nessuno prima di Burdekin ne aveva colto l’intima relazione tra violenza e sessualità, l’insito disprezzo verso le donne che risiede alla base della funzione tecnica di “madre fertile”, la valenza sociale della violenza e il ruolo delle caste quali elementi costituenti dello Stato, la componente religiosa e irrazionale del fanatismo politico e l’uso della dimensione collettiva per indebolire le diversità individuali e favorire il controllo e l’omologazione» (Gallo 2020, p. 319).
E i libri che fine hanno fatto? Solo dei vuoti manuali tecnici e il Libro di Hitler sono sopravvissuti. Altre parole scritte non esistono. I cavalieri e i tecnici sono gli unici a poter accedere alla scrittura. Non si dimentichi che uno degli episodi più emblematici legati al nazismo è proprio il rogo dei libri del 10 maggio 1933. Burdekin aveva insomma ben chiaro che un sistema in cui la cultura è azzerata, dovuta alla totale eliminazione del libro, porta ad una dittatura infinita. Eppure, proprio in questo mondo privato di ogni umanità, brutale, alienato e folle, una piccola fiammella si accende: qualcuno è riuscito a salvare qualche brandello di memoria, ultimo riparo contro l’annichilimento totale dell’umano. Un giovane inglese di nome Alfred, un unico eccezionale libro salvato, una fotografia – la cui ragazza rappresentata rimanda ad un tempo in cui la bellezza della donna derivava proprio «dal sapere di disporre della possibilità di scegliere e rifiutare; e in parte dal sapere di poter essere amata» (Burdekin 2020, p. 114) -, un cavaliere un po’ eretico e un giovane tedesco che dovrà fare i conti con tante scomode e dolorose verità, ci porteranno a scoprire come certe convinzioni ritenute assolute su ciò che ci circonda possano crollare e su come una speranza, anche se piccola, possa accendersi. Che non sia proprio il nome della piccola bambina appena nata, Edith, il segno di un futuro cambio di passo che alla fine del libro il lettore può solo immaginare e intravedere?
Ma chi è Katherine Burdekin? Perché ha pubblicato il libro sotto pseudonimo? E perché ha proprio scelto la distopia? Katharine Burdekin, in realtà Katharine Penelope Cade, nacque nel 1896 da una famiglia benestante. Nonostante fosse una studiosa e appassionata di lettura, la sua famiglia non le permise di iscriversi ad Oxford, a differenza dei fratelli maschi. Si sposò e con il marito partì per l’Australia. Ebbe due figlie ma, impossibilitata a vivere quella vita che per lei era una prigione, lasciò il marito, tornando in Inghilterra con le figlie e unendosi finalmente alla donna di cui era innamorata e con la quale vivrà fino al 1963, anno della sua morte. Scrisse numerosi romanzi, ma non tutti vennero pubblicati durante la sua vita. Segnata dalla tragica esperienza della Prima Guerra Mondiale (il fratello andò in contro a gravi problemi psichici dopo aver combattuto) il pacifismo rappresenterà sempre un faro nella sua vita, così come la volontà di superare il più possibile quelle storture legate al genere che esistevano anche in una famiglia benestante come la sua.
Pubblicherà La notte della svastica con un editore marcatamente connotato a livello politico, ma sceglierà lo pseudonimo visto il clima pesante che anche in Inghilterra gli antifascisti dovevano subire in quel periodo. La scelta della distopia si spiega perché si tratta del genere letterario che maggiormente fornisce gli strumenti per percorrere la strada verso la libertà. Attraverso la fantasia l’autrice riesce ancor di più a fare denuncia, molto più di quanto avrebbe potuto comportare una scelta realista. Può sembrare assurdo e paradossale, ma un’opera di questo tipo, così cupa, buia, per certi versi terribile, serve proprio per alimentare la speranza, serve per il futuro, serve per continuare a tutelare, ad avere cura e a proteggere tutte quelle risorse che tante volte mettiamo in discussione. La distopia è utile proprio a questo scopo. Ci scuote, fa traballare le nostre certezze e ci fa amare ancor di più ciò che diamo spesso per scontato. In questo modo l’autrice ci conduce per mano e ci fa va vedere cosa saremmo se non avessimo più memoria, scrittura, scienza, poesia, arte, ricordandoci quanto siano importanti e quanto continui ad essere necessario aggrapparci ad essi.
A partire dal 2021 negli Stati Uniti sono cresciute enormemente le richieste di gruppi organizzati per censurare libri ritenuti osceni e immorali per i giovani. Queste richieste portano in molti casi all’esclusione dalle biblioteche e dalle aule scolastiche libri che hanno come temi la lotta al razzismo, le disuguaglianze, le malattie mentali, il bullismo, la sessualità, le minoranze etniche e sessuali. Tra i libri più osteggiati c’è anche The Handmaid’s Tale di Margaret Atwood, chiara epigona di Katherine Burdekin. Per situazioni come queste, frutto del nostro distorto presente e non della fantasia, dobbiamo tornare a leggere la fantascienza di queste autrici. Per farlo, però, bisogna innanzitutto tradurle. Non si dimentichi che di Katherine Burdekin in italiano è tradotto solo La notte della svastica. Ciò nonostante un libro come questo, pur non avendo uno stile così accattivante e pur non avendo una trama così ricca di azione visti i continui dialoghi, può considerarsi una lettura indispensabile e assolutamente consigliata.
«Ci sono due cose che le donne non hanno mai posseduto e gli uomini invece sì. Una è l’invulnerabilità sessuale e l’altra è un senso di orgoglio rispetto al proprio sesso, che è diritto di nascita anche per il maschietto di umilissimi natali. E tuttavia, finché le donne non disporranno di queste cose, che hanno perso nel momento in cui commisero il crimine di accettare l’idea tutta maschile dell’inferiorità della femmina, non potranno mai più rinfocolare la scintilla della propria identità e vitalità. Ma quella scintilla noi sappiamo che è ancora lì, altrimenti non sarebbero infelici» (Burdekin 2020, p. 172). Queste parole testimoniano l’attualità di un libro del genere, che ci porta a riflettere su noi stessi, sul presente rapporto tra condizione femminile e capitalismo e sulle nostre società contemporanee. Allora facciamola circolare questa letteratura che brucia, disubbidisce e disorienta, anzi diffondiamo soprattutto questa. Quale sarebbe altrimenti il senso di un libro? Scegliamo i libri eterodossi ed eretici. Burdekin ha scritto un libro radicale e atroce, con il precipuo scopo di spaventare, per questo di non facile lettura. Tuttavia leggere una descrizione del genere, così cruda, deprimente e talvolta ripugnante, può essere angosciante, ma tremendamente urgente. In questo senso La notte della svastica si rivela un romanzo più attuale che mai, un brandello di speranza cui aggrapparsi in un periodo di messa in discussione di poesia, dolcezza, umanità.
E sì, come si diceva all’inizio, questa storia così affascinante non è ancora conclusa, perché la storia di Katharine Burdekin e di tutte le autrici dimenticate è solo all’inizio e non certo si esaurisce con l’attribuzione di paternità, anzi maternità, di un’opera.
TESI CITATI.
Katharine Burdekin, 1993 (1° ed. 1937), La notte della svastica, Roma, Editori Riuniti.
Katharine Burdekin, 2020 (1° ed. 1937), La notte della svastica, Palermo, Sellerio Editore.
Domenico Gallo, 2020, Nota, in Katharine Burdekin, 2020 (1° ed. 1937), La notte della svastica, Palermo, Sellerio Editore.
Carlo Pagetti, 1993, Prefazione, in Katharine Burdekin, 1993 (1° ed. 1937), La notte della svastica, Roma, Editori Riuniti.