di Carolina Germini
Avete presente quelle conversazioni che si fanno davanti al camino? La scena la immagino più o meno così. Fuori piove e un signore anziano con gli stivali di gomma ancora sporchi di fango accarezza una gatta, mentre la moglie getta altra legna sul fuoco. A quel punto lui con la sua tazza di tè fumante tra le mani, sentendo la gatta miagolare compiaciuta, dirà alla moglie: «Chissà da dove viene, come ci è arrivata qui». Che poi è lo stesso che mi domando anch’io. Chissà dov’è finita, come si è salvata. Un giorno se n’è andata ma non ha più trovato la strada di casa. È successo alla mia gatta. Era appena entrata in calore. Non sapeva ancora controllare gli istinti, forse non sapeva neppure di averli, quando, come una lince, ha scavalcato il cancello e di lei si sono perse per sempre le tracce. E da quel giorno, ogni volta che incontro una gatta striata come lei, per un momento mi illudo che sia ancora viva. Penso: sì, è vero, non è più tornata ma qualcuno l’avrà ospitata, o forse lei una casa non l’ha mai voluta. Non si è mai lasciata addomesticare. È rimasta selvaggia e del resto ha fatto sempre di tutto per dimostrarmelo.
Dei gatti ho sempre avuto paura. Non mi fido del loro istinto, dei loro balzi improvvisi, dei loro salti che non posso controllare. Avevo preso quella gatta con me per cambiare idea, per affezionarmi a un animale che in tanti sembrano amare. Con la sua fuga notturna però mi ha ricordato di essere come lei: incapace di restare quando qualcosa di più forte mi chiama.
Un giorno mi piacerebbe rincontrarla, vedere se ancora scatta quando sente un rumore e se ogni cosa la sorprende e la spaventa come allora. Oggi avrebbe otto anni, che non sono poi così tanti per un gatto. Forse non mi riconoscerebbe né io riconoscerei lei. Dove finiscono gli animali che se ne vanno? E allora non è vera quella storia che sanno tornare a casa. Ma se non sono mai scappati prima, come fanno a riconoscere che quella è casa loro? Ma forse questi ragionamenti non valgono per i gatti. Per loro conta solo l’istinto.
Se decidessi una notte di imitarla e di scavalcare il cancello, dove me ne andrei? Vorrei essere ospitata da persone gentili, come quegli anziani davanti al camino. Vorrei che potessero dire di me lo stesso: chissà da dove viene, come ci è arrivata qui. E io non mi sentirei in dovere di rispondere. Potrei inventare qualsiasi storia, una storia raccontata così bene che anch’io finirei per credere vera.
Se mi chiedessero come mi chiamo non risponderei. Lascerei decidere a loro perché un nome già racconta troppo di noi. E per rinascere davvero abbiamo bisogno di cambiare anche quello. Sono stata ribattezzata una volta, in un bar di una città avvolta dalla nebbia. In quel bar, come in quella città, ci ero finita per caso, vagando, più come un cane però che come un gatto. La signora dietro il bancone mi aveva costretta a ripetere due volte l’ordinazione. Alla terza ero quasi tentata di non rispondere e andarmene via. Aveva l’aria di chi da troppo tempo sogna di essere altrove. Alla fine però mi ascoltò e finalmente potei ordinare il mio tè. Mi accorsi che nella vetrina c’erano alcune lingue di gatto. Presi anche quelle; magari la loro solitudine poteva sconfiggere la mia.
Mi domandai dove quella signora con i capelli rosso cobalto volesse andare, se fosse un posto raggiungibile o se l’avesse inventato lei, a forza di immaginarlo. Doveva avere in mente un uomo, un uomo che forse se ne era andato e lei continuava ad aspettare. Non tornerà, le avrei voluto dire, ma in fondo non la conoscevo e forse quell’uomo non era mai esistito.
Quella non è una città in cui si torna. Quella è una città di passaggio, dove al massimo si nasce. Deve essere capitato così anche a lui, come la mia gatta non ha ritrovato la strada di casa. Forse la nebbia non lo ha aiutato, ha oscurato anche l’ultimo ricordo che aveva. Ma lei è ancora lì che lo attende, che si innervosisce di fronte a ogni richiesta di un cliente. Il mio tè quel giorno non arrivava più ed ero tentata, sempre più tentata di andare via. Alla fine scappai. Non mi troveranno, non sapranno mai che che quel tè l’ho ordinato io, pensai. Eppure qualcosa mi trascinò di nuovo lì. Credo la paura di deluderla di nuovo, di comportarmi come lui. Quando rientrai mi disse: Sei tu la ragazza del tè?
Sì certo, sono io. Improvvisamente quella sua domanda mi suonò familiare. Improvvisamente ero la ragazza del tè. Immaginai quello che avrebbe potuto dire la gente. «Eccola lì che arriva la ragazza del tè». Pensai a quel momento come a un rituale. Come a Könisberg le persone regolavano l’orologio quando vedevano Kant uscire per la sua passeggiata, così lì tutti avrebbero saputo che erano le 18, vedendomi sedere a quel tavolo.
Forse anche la mia gatta da qualche parte nel mondo, in una casa di campagna o in un appartamento in città, ha una sua abitudine, qualcosa a cui non può rinunciare. Una volta, questo prima della sua fuga, era già sparita. Mia madre, che come me non ama i gatti ma alla fine si prende cura di tutti, mi telefonò per avvisarmi. Tornai subito a casa a cercarla. Sulla facciata del nostro palazzo avevano da poco montato delle impalcature. Pensai: si sarà arrampicata per infilarsi in qualche appartamento. Così cominciai a citofonare a tutti. Nessuno l’aveva vista. Ma c’è un particolare che ho dimenticato di aggiungere e che invece in questa storia è importante. La sentivo miagolare. Ovunque. Continuamente. Girai tutte le stanze di casa. Niente. Poi aprii il cassetto del mio letto, dove mia madre tiene le lenzuola e lei di colpo cominciò a soffiare con la coda tutta storta. Chissà da quanto tempo stava lì dentro in quello spazio stretto e soffocante. Quella sua prima sparizione mi aveva in qualche modo preparato alla sua fuga ma quel suo ritrovamento mi aveva anche fatto credere che non l’avrei mai persa davvero. Quando un animale, come la gatta, se ne va ti illudi sempre che possa tornare da un giorno all’altro. Anche dopo anni ti sorprendi ad attenderlo. Forse si prova lo stesso quando si aspetta il ritorno di qualcuno che abbiamo amato.