In Narrature

La spilla

di Anna Chiari

Le campane della chiesa di St. Clement suonavano le sei sopra i tetti azzurro polvere della vecchia Oxford. Era Aprile inoltrato. Gli odori freschi della primavera inglese salivano dai prati intorno ai college e si insinuavano nelle anguste stradine gremite agli angoli dai chiassosi avventori dei pub, affollati nel tardo pomeriggio. La luce ancora tiepida si dipingeva sui palazzi color crosta di pane rifrangendosi nell’aria tutt’attorno.

Le giornate erano più lunghe, pensò, smontando dalla sua Mark 2, chiudendo nervoso lo sportello dietro di sé. Due studenti in bicicletta lo scansarono veloci, ridendo tra loro, mentre attraversava la strada. Si sarebbe gustato una buona pinta, si disse, entrando nel pub The Wolf’s Head, già a quell’ora piuttosto pieno di gente. Il semestre stava volgendo al termine e dentro molti accademici e studenti assaporavano la certezza di un prossimo periodo di libertà. Paludati nelle ampie toghe nere, quasi a volersi distinguere, somigliavano ai dottori della peste del settecento veneziano. Mancava loro solo la maschera a becco lungo, dentro la quale non avrebbero però sentito l’aroma della birra e dello scotch.

Pensò a quanto dovesse apparire fuori luogo, con quei suoi abiti scuri, l’impermeabile lungo e il volto tirato. Non si faceva illusioni sul suo aspetto, mala cosa non gli dispiaceva. Non provava alcun desiderio di unirsi a loro. Una volta l’aveva assaporata quella vita, una volta era stato uno di loro… ma che stava dicendo?! Non era  mai stato uno di loro, forse proprio per questo aveva lasciato, a un passo dalla laurea. Con un sorriso amaro pensò fosse quella la sua condanna: restare  un eterno escluso, costretto a osservare sempre dal di fuori e  notare sempre, sì sempre, quei piccoli dettagli che agli altri sfuggono. Gli venne in mente come lo aveva definito quella ragazzina, un uomo dagli occhi di luna, qualcuno che, secondo un antico mito cherokee, è cieco alla luce del giorno, ma è in grado di vedere chiaramente nell’oscurità. Forse era davvero così. Egli piaceva, sì, gli piaceva. Era bravo in quel che faceva e, per quanto ne provasse un certo disgusto, non avrebbe potuto fare nient’altro nella sua vita.

Si avvicinò al bancone e chiese la solita lager, scura, torbida… non si era mai soffermato su quel colore, ma si accorse che si abbinava perfettamente alla sua vita. La giovane barista gli sorrise mentre lo serviva e gli chiese cortesemente come andava. “Come sempre”, fu la sua risposta elusiva. Le sorrise, quasi per scusarsi, mentre afferrava l’Oxford Mail e si metteva seduto, aprendolo, come suo solito, alla pagina dei cruciverba per ingannare l’attesa.

Dalla tasca estrasse carta e penna e cominciò a scrivere, un elenco, una serie di ipotesi, di possibilità. Lo avrebbe aiutato quel suo senso logico, l’analisi fredda, quelle sue capacità che lo avevano reso un buon poliziotto. Anche gli altri, i colleghi, lo dicevano, a volte a denti stretti, bisbigliando tra loro.

Erano anni che non tornava a Oxford, da quando si era arruolato con i Royal Corps e aveva lasciato gli studi. La sua era stata una decisione improvvisa, frutto di un impulso a cui lui stesso non aveva saputo dare un senso preciso. Era sempre stato primo del suo corso, aveva ottimi risultati in metrica latina e letteratura inglese, eppure sentiva che qualcosa di quell’ambiente fatto di privilegi e ineguaglianze non gli apparteneva. Se avesse continuato sarebbe sicuramente divenuto un accademico, tutti lo sapevano. Poteva quasi immaginare quella vita, vederla da fuori, distinguerne la divisione in atti, l’inevitabile colpo di scena a metà del secondo e la distensione del terzo, ne conosceva i toni drammatici e le note pacate alla fine. Una cattedra, una toga, poi una moglie, quella moglie, e eventualmente dei figli, una rappresentazione piccolo borghese di gustosa e piacevole esecuzione.

Amava l’opera, Puccini in particolare, ma solo a teatro gli piacevasospendere la sua incredulità. Nella vita di tutti i giorni preferiva restare vigile, stimolato, come quando si metteva a fare i cruciverba. Era così che voleva vivere, lettera dopo lettera, rompicapo dopo rompicapo, senza sapere dove lo avrebbe portato il prossimo enigma.Voleva esercitare il suo ingegno, non sprecarlo sulle pagine ingiallite di libri che ormai avevano esaurito tutti i loro più profondisignificati.Qualcos’altro lo aveva richiamato, qualcosa di oscuro,di nascosto che non avrebbe trovato tra i banchidi legno antico dell’università. Gli piaceva fingere, almeno con se stesso, di essere al di sopra di quello per cui gli altri lottavano, quelle velleità, le piccole emeschine ambizioni, le passioni esasperate che assalgono la natura umana e  portano a farsi fuori l’un l’altro. Lo aveva visto fin troppe volte.Fin troppe volte aveva visto la morte in faccia, l’accanimento estremo nel ferire l’altro, la brutalità rimasta impressa negli occhi sbarrati delle vittime come immagini sulla pellicola.

Non poteva sopportare la vista dei corpi massacrati, la violenza trovava una sua giustificazione solo nella finzione,  sul palcoscenico, stemperata dalle grandi passioni e dal bel canto degli interpreti.Nella vita reale restavasolo un abominio che doveva ripulire, cancellare, fin dove gli sarebbe stato possibile. Forse per questo gli piaceva il ruolo di spettatore, nelle strade come all’opera. Non voleva mischiarsi a quei drammi, gli piacevano solo purificati nell’arte o riflessi negli occhi degli altri.

Così se n’era andato. Era scappato, forse?Anche da lei? Per anni se lo era ripetuto, no, non era così. Ma restava ancora qualcosa di insoluto, qualcosa che  la sua mente lucida non era riuscita ad afferrare, un enigma non ancora  risolto. Quindi era tornato. Non per lei, si diceva. Lo aveva detto a suo padre, a letto morente, quando ormai a tratti delirante parlava solo di corse, cavalli e puntate. Gliel’aveva detto, lui non era il tipo da commettere due volte gli stessi errori. Se lo era ripetuto per tutti quegli anni, ma restava quell’immagine che lo inseguiva, che non riusciva a scacciare, lei, il biondo scuro di quei capelli, quell’aureola che le circondava il viso, illuminato dalla luce naturale dalla finestra impolverata. Lo aveva riconosciutoimmediatamente quel colore,la sera prima. Spiccava tra tutti quelli ammassati nella stanza.

Era difficile non notarla,in quelle aule cupe, tra quelle vecchie boiseries, tutti scuri nelle toghe nere. La testa di capelli, quella figura slanciata, la voce a tratti squillante,chiunque l’avrebbe notata. In particolare in quell’ occasione. Stavano commemorando un morto, con quello stile dignitoso e un po’ distaccato tipico delle cerimonie formali.

Il Professor Bradbury era morto. Caduto rovinosamente dalla scala grande del college il suo cuore si era fermato. Di colpo, a quanto pareva. Ovviamente c’era stata un’inchiesta, una formalità necessaria in quei casi. Lui si era offerto di aiutare. Conosceva il Professor Bradbury, era stato il suo insegnante per il breve periodo trascorso a Oxford, quando era solo un allievo magro e silenzioso e, a detta del Professore, promettente. Un tipo particolare il Professore, riservato, schivo, molto preparato nella sua materia, sapeva rispondere con acume a tutte domande degli allievi.

Era scapolo eancora piuttosto attraente. Non poche ragazze del suo corso gli facevano gli occhi languidi, se lo ricordava bene. Ma lei no. Lei non si curava di nessuno, passava disinvolta per i corridoi, lo sguardo lontano, che la rendevaancora più intrigante. Un enigma. Era un semplice atteggiamento o un tratto autentico del suo carattere? Fu così che cominciarono a frequentarsi, di nascosto, a dispetto delle alte aspirazioni della famiglia di lei. Quello era stato forse il periodo più spensierato della sua vita, qualcosache non si era mai più ripetuto. Ma i loro incontri segreti furono  presto sostituiti da lunghi silenzi e assenze prolungate. Lei divenne più sfuggente, riservata. Passava sempre più tempo nell’ufficio del Professor Bradbury in incontri sempre più lunghi a discutere di un possibile dottorato. Le cose cambiarono, lentamente, inesorabilmente.

Ora Bradbury era morto, a seguito di quella rovinosa caduta, senza grossi traumi, solo il cuore si era fermato. La polizia aveva già archiviato il caso, niente suggeriva qualcosa di sospetto. Poteva capitare, si disse, era già successo che a seguito di una brutta caduta qualcuno avesse avuto un arresto cardiaco. Certo da una scala si poteva sempre cadere, in un modo o nell’altro, le scale erano sempre insidiose. Eppure qualcosa non lo convinceva. Un ricordo, uno strano presentimentosi era affacciato. Per questo era tornato al college un paio di giorni prima.

Era entrato, verso sera, quando ancora ci si vedeva senza luci accese per osservare attentamente quella scala. L’aveva risalita più volte e più volte l’aveva discesa, a passi regolari. Non era una scala particolarmente ripida, o pericolosa, questo gli parve al primo esame. Aveva anche accelerato il passo, salendo e scendendo. Niente di particolare.Aveva guardato attentamente sotto la scala, nelle fessure tra le assi, negli gli incavi sotto gli scalini. Niente, davvero niente. Aveva provato per scrupolo a infilare la mano, sempre sotto, tra un interstizio e l’altro e, dietro una piccola rientranza, una parte nascosta di cornice che sporgeva appena,aveva sentito qualcosa, appoggiato di taglio.Si era ritrovato nel palmo della mano una spilla, non troppo grande, di pietre dure,agate e granate, di fattura ottocentesca, vittoriana.

Niente di strano, aveva pensato, piccoli oggetti possono sparire e intanarsi un po’ dappertutto. La riguardò bene, da vicino, a poca distanza dai suoi occhi. L’ago richiuso nella sua sicurezza teneva ancora un pezzodi tessuto, non tanto piccolo, di color verde, piuttosto scuro, rimastopreso nella sua anima d’argento.Sembrava che la spilla fosse stata strappata dal vestito con forza.

Quella spilla. Gli era sembratodi averla già vista, ma non ne aveva la certezza. Eppure quello stile, le pietre dure, semi preziose, incastonate in quel modo particolare a ricreare uno stemma gli ricordavano qualcosa. Non era un oggetto da poco e chiunque l’avesse persa doveva averne notata la mancanza, sicuramente la stava cercando, con ansia, se sapeva che poteva ricollegarlo a quel fatto. Gli riaffiorava un ricordo. Un ricordo di quegli anni. Lei, i capelli biondi  sciolti su un vestito verde scuro e quella spilla. Continuava ad allontanare quell’immagine, con la speranza che fosse solo quello, un’immagine e niente più.

 Lei  sembrava nervosa quando si erano rivisti, continuava a passarsi le dita affusolate tra i capelli, irrequieta. Sapeva che lui era nella polizia, aveva forse maggiori informazioni su quella morte improvvisa? Bradbury era il suo tutor, tutta la faccenda l’aveva alquanto scossa. Era naturale. Lui voleva a tutti i costi andare a fondo della cosa. Così aveva lanciato un’esca, le aveva telefonato mascherando la sua voce.Se voleva riavere la spilla, avrebbe dovuto  pagare una giusta cifra.L’appuntamento sarebbe stato al pub, il giorno dopo, alle otto. Lui avrebbe aspettato fino alle otto, poi se ne sarebbe andato.

La porta continuava ad aprirsi,entravano gli impiegati dalla faccia pallida che si erano scrollati di dosso quella giornata di lavoro, i soliti affezionati che salutavano tutti, le ragazze agghindate che, due alla volta, lanciavano occhiate ammiccanti ai giovani seduti in gruppo, stretti attorno a quei tavoli. Niente di strano, niente di diversoda una normale serata al pub. Sperava che quella porta non venisse aperta alle otto, non per fare entrare una testa di capelli biondo scuro. Guardava l’orologio grande dietro il bancone. Le otto meno un quarto. Cercò di distrarsi tornando al suo cruciverba, ma continuava a tratti a spiare la porta massiccia. Le otto meno cinque.Le otto, altri avventori entrarono, più d’uno, nessuno per fortuna coi capelli biondi. Le otto e un quarto, poi le otto e venticinque. Con un sorriso andò a prendere un’altra birra. Si sedette e alzò lo sguardo. La porta si stava aprendo, proprio in quell’attimo.Rimase immobile, fermo a guardare quel vestito elegante un po’ lungo e quella testa di capelli biondo scuro.