In Lavoro Critico

Le conversazioni di Franco Buffoni.

Recensione a Franco Buffoni, Maestri e amici. Da Dante a Seamus Heaney, Montecassiano, Vydia edizioni d’Arte, 2020, pp. 425, € 18

di Gandolfo Cascio

C’è davvero chi è certo che in una scuola di scrittura (massimamente in quelle con intitolazione in inglese), si possa imparare un mestiere, o almeno quelle astuzie adatte a fabbricare la storia che “merita di essere raccontata”, cioè smerciata. E c’è poi chi, al contrario, ma con la medesima testardaggine d’un mulo, avverte che la poesia sia un lampo senza macula che cala nelle testoline dei suoi beniamini come le lucide monetine del dio furbo e burlone s’insinuano tra le cosce della calda signorina. Tra queste alternative estreme non si può che restare perplessi; eppure, proprio per quella sua puerile inverosimiglianza, mi appare più attendibile la seconda, dacché i talenti – come il fascino, del resto – sono dispersi, da chi sa chi, secondo il più fanciullesco e perfido capriccio che non tiene in conto razza, sesso, età, diplomi, ecc. Nondimeno, e anche questo si sa, il genio non basta all’arte, ché per risolversi abbisogna di circostanze favorevoli, di ininterrotte e pressoché incontentabili attenzioni; e, sull’altra costa, dovrà ritrovarsi qualcuno che sia non soltanto ben disposto verso le seduzioni di quelle invenzioni, ma che sia pignolo, addirittura fiscale nei suoi scrutini. Chi non sa o non può essere schizzinoso si accontenti di ruminare del foraggio secco e per niente sostanzioso. A scansare tale insidia, all’artista, che qui coincide con lo scrittore, giovano l’esercizio (cancellare cestinare riscrivere) e, sopra ogni cosa, la lettura: non però per provare a intascare un liso album di figure e peripezie altrui: tanto le miserande quanto le invidiate avventure umane da tremila anni si assomigliano tutte. Difatti, che differenza si può ravvisare fra l’infame verme che sciupò Catullo e il sospetto ordinario di qualche ragazzaccio meridionale, fra il timido corteggiamento d’un bocchan orientale e le sbandate dei mariti della provincia, tra l’ambizione di Julien Sorel e quella d’un nero newyorkese, l’orrido precipizio in cui casca Raskol’nikov o d’una bestia pariolina? Qual è la qualità che distingue una vicenda dall’altra? Anche qui le poste non si contano, e sembra si abbia a che fare con una faccenda che non si sappia sbrogliare; viceversa, anche stavolta la soluzione sta davanti a tutti, nuda e raggiante: è lo stile. Così, da una parte rimane, melmoso e stracco, quello della cronaca, della denuncia, della confessione, del pettegolezzo e, dall’altra, inafferrabile come una biscia, si compiace di sé stesso e si lascia apprezzare quello dell’arte. Questo stile perciò, che è il talento di sopra, è, deve essere, inequivocabilmente personale, unico, egoista, irriproducibile: inalienabile proprietà di chi, per giunta, l’ha ricevuto per grazia, facendo morire d’invidia chi altro non sa fare che restarsene a guardarlo a bocca aperta.

           Allora, a che conviene leggere se quel benedetto stile non si può acciuffare e, perdipiù, molesta l’intelligenza, svilisce l’orgoglio dei volenterosi apprendisti? Ebbene, potrei apparecchiare in modo spedito parecchie giudiziose argomentazioni, epperò la meno corrotta, anzi, la più tersa e incantevole ragione che mi sento di condividere è quella della compagnia, della balsamica chiacchiera. Insomma, per trovarsi a tu per tu con degli sconosciuti: il contino Leopardi assieme a quel fanatico e simpaticissimo Foscolo, la cara Natalia Ginzburg accanto al viperino Waugh. Si tratta, e anche questo è vero, di colloqui che a volte possono riuscire faticosi, spinosi, umilianti; altre, però, saranno leggeri, soavi, fraterni, segreti: e sia gli uni sia gli altri consegnaranno alle nostre esistenze – così poco altolocate e uggiose – la smania, la felicità e il terrore che prova il pastore quando è lasciato libero a girare in tondo tra le siepi d’oro di Versailles.

A dare conto di alcune delle proprie conversazioni è ora Franco Buffoni, che raccoglie in un bel volume, Maestri e amici. Da Dante a Seamus Heaney, una parte dei suoi saggi letterari. In questi testi, scritti con chiarezza narrativa e chiari intenti, Buffoni racconta alcuni incontri, ragionando, di volta in volta, su alcuni aspetti che lo interessano. Non si tratta, dunque, di papers con intenti divulgativi ma, piuttosto, di meditazioni extravaganti, si potrebbe dire, visto che a scriverle non è l’accademico ma il critico-poeta, e questa precisazione è proprio ciò che c’interessa e ci titilla. Questa che nomino, d’altronde, non è neppure una categoria a sé, dato che si contano sulle dita quei poeti che prima o poi non si siano accostati al genere, tant’è che per Baudelaire addirittura «tous les grands poëtes deviennent naturellement, fatalement, critiques» (Œuvres complètes de Charles Baudelaire, 1885, 229). È probabilmente banale affermarlo, ma non risulterà del tutto inutile ripetere che la differenza tra il critico-critico e il critico-poeta non sta certo nella “qualità” delle riflessioni, ma nella loro “efficienza”, dato che testi del genere possono agevolare a conoscere qualcosa di più dell’autore o del libro discusso ma anche (soprattutto?) molto del poeta-critico, perché quando costui «critica gli altri, generalmente tiene a mente il proprio lavoro, e presume che il loro processo creativo è stato, o avrebbe dovuto essere, simile al proprio» (Forster, 2008, 98), così almeno afferma Forster. Se il lettore avrà dunque l’accortezza di rammentarlo in questo carnet de voyage avrà modo di mettersi ad ascoltare le confidenze di Buffoni-critico su questi amati poeti e, se è vispo, ad apparentarle all’opera di Buffoni-poeta

Il libro esclude quegli autori cui sono state dedicate cure più costanti e estese, come i Poeti romantici inglesi (1990 e 1997) e Auden (L’ipotesi di Malin. Studio su Auden critico-poeta, 1997) ed è ordinato cronologicamente, come una galleria di ritratti di antenati e di compagni; quasi dei medaglioni, composti tra il 1971 e ieri l’altro, riposti in tre sezioni. Si sofferma fondamentalmente sulla poesia in lingua italiana e quella in lingua inglese, ma si spinge pure a partecipare delle attente osservazioni sul dialetto in Edoardo Zuccato e la questione della lingua. Sovente l’approccio è comparativo, com’e il caso per i saggi Chaucer tra Boccaccio e Petrarca, Leopardi e Keats, Sereni ed Elitis sottotenenti, Gasparov e Gadamer, Pasolini Olmi Tondelli Coccioli, Con Emilio Mattioli tra Anceschi e Apel, e altri.

La prima parte, «Sulle spalle dei giganti» (pp. 9-111), accoglie, tra gli altri, gli interventi su Alfieri, Leopardi, Rabelais, Chaucer, Shakespeare e Milton, Emily Dickinson e, quelli che a me sono parsi i più interessanti, ovvero quello su Dante e l’altro su Hopkins. In questo capitolo dantesco Buffoni analizza la relazione tra l’autore della Commedia e il proprio maestro, Brunetto Latini, protagonista del canto XV dell’Inferno, in cui Dante, nonostante la condanna eterna si mostra profondamente rispettoso e perfino affezionato. L’obiettivo «è di mostrare come entrambi questi assunti possano essere messi in discussione, e persino radicalmente contraddetti» (p. 11). Per soddisfare il suo proposito si evidenzia come Brunetto, nella finzione del poema, non riconosca Virgilio perché «Brunetto non è degno, non è all’altezza di riconoscere Virgilio. Brunetto pensa solo al suo Trésor» (p. 12); e poi si afferma che «Dante vuole far fare brutta figura a Brunetto Latini non perché “sodomita”, ma perché mediocre letterato» (ibid.). A mio parere questa proposta – simile, per impostazione, a quella di André Pézard (Pézard, 1950) – va considerata con impegno. Se il francese pensò che Brunetto fosse stato condannato perché “bestemmiatore” contro l’italiano cui preferì il francese («Et se aucuns demandoit por quoi cist livres est escriz en romans, selonc le langage des François, puisque nos somes Ytaliens, je diroie que ce est por II raisons: l’une, car nos somes en France; et l’autre porce que la parleure est plus deli table et plus commune à toutes gens»: Latini, 1863, 3), Buffoni propone che l’errore sia da ricercare nella sua “ignoranza” di Virgilio: «perché questi è troppo grande per lui. E nemmeno cammin facendo Dante ritiene sia il caso di rivelare a Brunetto l’identità del suo nuovo maestro Virgilio» (ibid.). Questa ipotesi, aggiungo,va valutata, e può invigorirsi, se messa accanto alla lettura del canto degli eretici, e a quel «cui» rinfacciato a Cavalcante in cui naufraga ogni critico:

E io a lui: “Da me stesso non vegno:

colui ch’attende là, per qui mi mena

forse cui Guido vostro ebbe a disdegno”

(Inferno X 61-63)

Allora, seguendo la lectio facilior che fa riferire quel celebre e tormentato pronome a Virgilio, si può supporre che Dante segua una coerente strategia pro Virgilio disposta su più canti: a partire dal primo, dove il poeta latino è acclamato come unico modello da imitare (If, I, 85-87), passando per questo decimo e, appunto, il XV.

         Gerard Manley Hopkins, eccentrico rispetto alle “scuole” è una voce lirica di distinta raffinatezza stilistica edi intensità filosofica, impegnato a riflettere sui concetti dell’inscape e instress (ripresi da Duns Scotus), cioè sulla forma intrinseca, naturale e distintiva dell’individuo e di ogni cosa. È rammentato prevalentamente per la mostruosa ode Il naufragio del Deutschland (1876), mentre alcune poesie vennero tradotte ancheda Montale e da Croce, chelo valutò benevolmente perché «squisito nel ritmo e nel verso e nell’impasto della lingua» (Croce, 1966, 434). A Buffoni interessa principalmente per le invenzioni, o recupero, della prosodia e del ritmo, tema che conosce a menadito (cfr. almeno Ritmologia, 2002), e illustra come «tecnicamente, Hopkins adotta la misura del cosiddetto “sprung rhythm”, basato sui ritmi musicali accentati, ricchi di assonanze e allitterazioni, tipici dell’antica poesia anglosassone, e li annega – violentandoli – in una serie vertiginosa di sconvolgimenti semantici e lessicali» (p. 102).

        La seconda sezione, «Il Novecento» (pp. 113-312), intavola delle riunioni con autori che, nel loro insieme, rappresentano gli interlocutori più prossimi di Buffoni. Il primo confronto, perciò, non poteva che essere, “nonostante” tutto, con Montale e il rapporto agonistico (suo e della critica) con i propri contemporanei: Ungaretti e Quasimodo in primis. Il testo risulta stimolante perché mette in luce alcuni fattori, artistici e non, che contribuiscono alla catalogazione di un canone, termine fragile e pericolosissimo. Mi permetto di consigliare pure il paragrafo su Emanuel Carnevali, che fa parte di quella categoria di scrittori – come Brunetto! – che hanno scritto in una lingua diversa dalla materna, e nello specifico in inglese. Stimato da William Carlos Williams, Ezra Pound, Sherwood Anderson, ormai è quasi dimenticato e negletto. Carnevali, come succede ad altri autori che hanno avuto la medesima esperienza, scrive, sì, con i caratteri della nuova lingua, ma lo stile, per quanto personale, rimane attaccato alla tradizione cui ci si è avvicinato da giovane. Per questo «Carnevali acquista maggiore fascino se letto in traduzione italiana rispetto all’originale inglese» (p. 168). È tuttavia altrettanto veroaffermare che ad avvantaggiarsi è stata pure la letteratura inglese che, in qualche modo, si è “italianizzata”, si è arrichita, come avveniva nel Rinascimento, di qualcosa che non le appartiene.

         L’ultima sezione, «Tra due secoli» (pp. 313-408), indaga poeti contemporanei: da De Angelis a quei giovanissimi cui Buffoni, attraverso il suo benemerito lavoro di editore non solo ha sostenuto, ma da cui prova a instaurare un rapporto alla pari, consapevole che in poesia gli amici possono essere anche maestri e che anche un guru può e deve imparare dal proprio allievo, giacché, come ripete Leonardo, «Tristo è quel discepolo che non avanza il suo maestro».

Gandolfo Cascio insegna Letteratura italiana e Traduzione all’Università di Utrecht. Tra i suoi libri segnaliamo Michelangelo in Parnaso. La ricezione delle «Rime» tra gli scrittori(Marsilio 2019, in traduzione in inglese), Le ore del meriggio. Saggi critici (Il Convivio 2020, Premio Giuseppe Antonio Borgese) e Dolci detti. Dante, la letteratura e i poeti (Marsilio 2021).

Testi citati:

Œuvres complètes de Charles Baudelaire,III: L’Art romantique, Parigi, Lévy, 1885;

Edward M. Forster, The Creator as Critic and Other Writings, a cura di J.M. Heat, Toronto, Dundurn, 2008;

André Pézard, Dante sous la pluie de feu, Parigi, Yrin, 1950;

Brunetto Latini, Li livres dou Trésor, a cura di F. Chabaille, Parigi, s.e., 1863; Benedetto Croce, Un gesuita poeta. Gerard Manley Hopkins (1937), in Poesia antica e moderna. Interpretazioni, Bari, Laterza, 1966.