In Per il giusto verso

Lettera n. 2. Qualcosa che resta sullo stomaco. Brevissime su Patrizia Cavalli

di Antonio R. Daniele

Di un romanzo si può parlare in contumacia; di un racconto anche. Non dei versi, specie quando i versi hanno tutta l’aria di essere poesia. E Patrizia Cavalli è stata spesso poesia, diciamo pure sempre: lo percepisci quando ti stana, quando ti tende l’agguato. I versi vanno letti, sempre. A voce alta. Se se ne parla, se se ne scrive, vanno mostrati: il lettore deve vedere di cosa parli. Il verso non è una storia da raccontare: è un punto di incontro che svigna come l’anguilla.


La mia prima volta con Cavalli fu con Adesso che il tempo è tutto mio e fu una specie di imprinting genomico, come nascere di nuovo dal ventre di una madre. E sentire, perciò, quanto forte e decisiva sia la condizione nella quale Cavalli mi faceva stare, la condizione di tanti uomini, l’ambizione a gestire le proprie cose, ad esserne padrone, a non rendere conto: “Adesso che il tempo sembra tutto mio / e nessuno mi chiama per il pranzo e per la cena”. È in quel contraccolpo che avverti il vuoto, la voracità di uno spazio come quello del Cielo, la raccolta che teneva dentro quei versi agli inizi degli anni Ottanta, quando in Italia scrivere versi pareva più facile, dopo una generazione che aveva scarnificato molto, provato vie assai scivolose e parecchio nascoste: Bellezza, Zeichen, Scalise, Conte, Frabotta, Lamarque. Fra questi c’era anche Cavalli, la quale però sembrava aggirarsi con un secchio d’acqua in mano per lanciarlo contro una parete di colori incrostati. Ecco: se dovessi scegliere un’immagine che dica la poesia di Cavalli sarebbe proprio questa: una secchiata d’acqua contro una crosta di colori a tempera sopra una parete: dilavare avvitamenti verbali, nettare protagonismi sperimentali. E tornare a una parola più nuda, semanticamente più leggera, colorata solo del viraggio dell’ironia, l’unico che la scrittura d’arte si possa davvero concedere.
Tutto questo mi parve di leggere in quei versi molti anni fa, negli anni in cui molto leggevo degli anni Settanta. E fu davvero come buttarsi in acqua e lavarsi. E risalirne cristallino:


                                 adesso
che ogni giorno mi aspetta

la sconfinata lunghezza di una notte

dove non c’è richiamo e non c’è più ragione

di spogliarsi in fretta per riposare dentro

l’accecante dolcezza di un corpo che mi aspetta,

adesso che il mattino non ha mai principio

e silenzioso mi lascia ai miei progetti

a tutte le cadenze della voce, adesso

vorrei improvvisamente la prigione.



Dunque, vivere è stare con gli altri. E stare con gli altri è una prigione. Se lo è, si tratta di una condizione non più eludibile, specie per gli uomini e le donne di questo tempo, un tempo che dura almeno da cinquant’anni, da quando abbiamo bisogno di una confessione in più, di un solipsismo più marcato. Ma tutto questo viaggia nel treno dondolante di questi versi, ti porta davanti al vero con l’insolenza di chi sa usare la parola, fresca e bianca come il corpo di chi vuole spogliarsi in fretta per la felicità – o forse solo la comodità – della notte, delle ore in comune con qualcuno.


Mi piace Cavalli perché gioca coi tuoi oggetti e pare parlarne come se ne parla dal bottegaio sotto casa o a una cena in piedi tra amici. Magari anche con quelle battute che poi capisci nelle ore notturne: un po’ ti fanno ridere, un po’ ti lasciano pensare. In tutti e due i casi ti svegli e ti resta qualcosa sullo stomaco:

Quante tentazioni attraverso

nel percorso tra la camera

e la cucina, tra la cucina

e il cesso



“Incremento della tensione analogica”, scrisse Maurizio Cucchi per i versi cavallini di questa fase. Io dico che è un problema di lettore, di tempo e di spazi. Propri, intimi: “Per riposarmi / mi pettino i capelli, / chi ha fatto ha fatto / e chi non ha fatto farà”. Non c’è bisogno d’essere donna per percepire il calco sulla vita di queste parole. Più che analogia. E questa è Cavalli primissima maniera.
Poi resta la propria biologia, non c’è dubbio. E il rischio, la voluttà, la volontà stessa di aderire ai suoni in un certo modo: “un guardar dalla finestra, / ciao alla vicina, / una carezza alla gattina”. La ridda delle cose, la materia adesiva, quel che sei, insomma. Senti bramare: c’è poco da fare.
In fondo Cavalli questo ci insegna: è proprio quando la denotazione si prende la scena che il lettore deve connotare la parola. Non è poi così difficile:



E’ tutto così semplice,

sì, era così semplice,

è tale l’evidenza

che quasi non ci credo.

A questo serve il corpo:

mi tocchi o non mi tocchi,

mi abbracci o mi allontani.

Il resto è per i pazzi.