In Narrature

Lo spioncino

di Danilo Grasso

“Un gruppo di ragazzi, tra i quindici e i diciotto anni, fa irruzione in un appartamento e accoltella il ragazzo che vi abitava. Si indaga sull’accaduto”.

Una brutta figura. È così che ricordavo quella giornata. Non mi era mai successo di addormentarmi durante una lezione. Tornai a casa frastornato, non so se più dallo strano sogno o dal rimprovero del professore. Salutai rapidamente mia madre e andai in camera, evitando ogni domanda. Volevo stare solo. Poco dopo sentii pesanti passi avvicinarsi alla porta. Era mio padre, che come ogni sera mi avvisava della cena. «Cinque minuti e arrivo». Non avevo voglia di sedermi a tavola e sottopormi al solito interrogatorio.

Dopo un po’ il mio stomaco cominciò a brontolare. Non riuscii a resistere e andai a cenare. Durante la cena ci fu uno strano silenzio, quasi innaturale. Può darsi che i miei fossero sconvolti per la notizia di quel ragazzo del nostro quartiere che aveva subito un’aggressione e forse sarebbe morto.

La cena terminò senza domande, così ne approfittai e tornai nella mia stanza. Guardai la tv fino a tarda ora, certo di un rimbrotto. E invece non mi fu detto nulla.

In piena notte sentii suonare il campanello. Mi spaventai. Mi recai in soggiorno, ms non c’era nessuno. Non sapevo cosa fare. Bussarono una seconda volta. Il suono era più prolungato. Mi avvicinai alla porta. Guardai dallo spioncino per vedere chi fosse. Non c’era nessuno nemmeno stavolta. Mi allontanai pensando che qualcuno avesse bussato alla porta sbagliata.

Poco dopo suonarono sempre più forte e con insistenza. Riguardai dallo spioncino e intravidi un individuo. Era buio, non riuscii a vederlo chiaramente, così accesi la luce del pianerottolo. Era un uomo anziano, indossava un abito scuro e aveva un foglio in mano. Cominciai a spaventarmi. Doveva esserci una buona ragione  per cui un uomo anziano bussava alla porta in piena notte e con una certa insistenza.Non sapevo chi fosse, ma di certo non avrei aperto.Feci per allontanarmiquando riconobbi la voce: «Anastasio, sono tuo nonno».

Tremai. Era impossibile. Mi riavvicinai allo spioncino, era di nuovo tutto buio. Riaccesi la luce e lo vidi. In preda all’emozione, gli urlai dall’altra parte della porta: «Mio nonno è morto dieci anni fa. È impossibile che tu sia lui»; «Sono io Anastasio, sono davvero io – mi disse – . Sono qui solo per parlarti». Aprii la porta ed era lui: lo strinsi forte.

«Non ho molto tempo e ora posso parlarti. La scorsa notte un gruppo di ragazzi è entrato in casa tua. Hanno cominciato a rubare. In casa c’eri solo tu. Non appena li hai visti li hai affrontati, ma ti hanno colpito. Il ragazzo che si trova in ospedale e sta lottando per la sua vita sei tu. Io sono qui per chiederti se vuoi vivere o venire via con me». Ero sconvolto e pensai alla mia vita fino a quel momento, poi guardai mio nonno: «Voglio vivere. Il mio unico desiderio è vivere per le persone che amo. Come mi hai sempre insegnato, se c’è anche solo una persona al mondo che ti ama, allora vale la pena continuare a vivere». Mi sorrise: «Sei diventato un uomo». Lo abbracciai e svanì.

Di colpo ricordavo ogni cosa: dovevo salvare la mia famiglia. Non era stato un furto mancato: avevano ucciso delle persone e io sono l’unico testimone.

Si sentirono degli spari, passi veloci nei corridoi. «Sono arrivati». Provai a camminare, ma ero troppo debole. Mio padre mi fece sedere su una sedia a rotelle e cominciò a correre. Arrivammo all’uscita d’emergenza. Fuggimmo con un’ambulanza. Un camion ci travolse. Il tempo sembrava si fosse fermato. Mi passò davanti il mio tempo. Non era quello il mio momento.