In Appunti di Lettura

Parodia nell’Ulisse di Joyce

di Maria Luisa Mozzi

Leopold Bloom è personaggio parodico. Cerca il bon ton o almeno di non apparire fuori dalle righe, è bonaccione, permissivo con sé e con gli altri, evita gli eccessi e di incrociare per strada le persone no. Vuole, se possibile, salvare, in ogni diatriba, capre e cavoli. Desidera essere all’altezza di una vita da adulto, ma è un ragazzone che nel lavoro ottiene da qui fin là e con sua moglie tollera ipocrisia nasconderella e concorde. Tiene in tasca una patata contro i dolori come faceva la sua mamma e si dimentica di mettere in tasca le chiavi di casa. Ci tiene al cibo, se lo va a comperare e prova a cucinarselo. Si concede il tempo che serve a fare la cacca nello sgabuzzino in giardino e a pulirsi per bene prima di uscirne. Bagna le mutande guardando una bambina. Deve andare a un funerale ma si ferma a comperare per la moglie una saponetta profumata e poi un romanzo osé, anche se sa che alle 16.00 lei lo tradirà. Va a ritirare in posta una sua lettera clandestina. Con la figlia grande ha un atteggiamento che crea gelosia in Molly, e ha continua nostalgia per il figlio morto piccolo. Accudisce Stephen, alla fine, e lo vorrebbe a casa per affidargli Molly e accontentarla, anche, se necessario, perché, con Stephen, gli sembrerebbe di avere indietro suo figlio.

Raccontato così Leopold può apparire personaggio volgare e sciocco.

Non lo è. Non del tutto, almeno.

I suoi flussi di coscienza sono dei capolavori. La sua mente passa velocemente da un pensiero all’altro, da Molly ai figli alle persone che non vuole incrociare al fastidio che gli dà la saponetta che ha comperato e cha ha ficcato in tasca. Sono pensieri da vecchia casalinga, che deve badare al suo ménage, che controlla pignola ogni momento con un’occhiatina che sia tutto al suo posto, e se non lo è interviene, sposta magari di un millimetro perché lo sia.

Ristagna, Bloom, tiene il suo paesaggio in ordine, vuole avere sotto controllo tutte le sue cosine, Molly compresa. A costa di nasconderle o di nascondere a sé stesso la sua sofferenza o il suo imbarazzo.

Si muove sempre nel concreto, nel qui ed ora, nello spazio e nel tempo della lunga giornata e della nottata. Lui e Molly sono fatti della stessa pasta, amano loro stessi, non inseguono altro da sé.

Anche Stephen Dedalus è personaggio parodico, ma lui no, non si ama. Schizza continuamente fuori da sé, i suoi flussi di coscienza e i suoi discorsi sono fatti di citazioni, o usano strumenti di argomentazioni stabiliti da altri, da Aristotele, da San Tommaso. Stephen si addolora per il suo passato, di non essersi inginocchiato per sua madre morente, di non essere riuscito a diventare un poeta. Non crede più nel cattolicesimo gesuita ma non ha perso l’abitudine al trascendente. Ha una terza dimensione, oltre al tempo e allo spazio, l’altezza, il superamento, l’al di là da sé.

In comune, Leopold e Stephen hanno l’approccio infantile alla vita: di Leopold si è detto e lui, Stephen, non vede la realtà e teorizza una realtà astratta e parallela, che alla fine lo fa stare male e lo fa sentire inadeguato.

Ho detto che la parodia è costruita soprattutto, per i due personaggi, nei flussi di coscienza e nel trascinamento all’estremo, al punto di rottura. Questo trascinamento all’estremo avviene attraverso la reiterazione di azioni e pensieri, riflessioni e ossessioni, simboli dei due personaggi.

Però nell’Ulisse Joyce fa anche parodia con la letteratura.

Situazioni prese dalla letteratura alta, Omero, Virgilio, Shakespeare, soprattutto, o anche dalle canzoni popolari, dalle filastrocche, vengono portate fuori, anche linguisticamente, dal loro contesto e messe al servizio dei personaggi, specialmente dei due co-protagonisti, per marcarne in modo ridicolo i tratti di cui si è detto, già di per sé parodici.

Nell’Ulisse c’è poi anche parodia della letteratura. Stili e timbri narrativi vengono in ogni capitolo variati, come se Joyce dicesse: siamo al capolinea, ho un dominio tale degli stili usati in passato o possibili, di mia invenzione, da poterli usare come voglio e da poterli tirare fino a che diventino burla, presa in giro, messa in ridicolo degli stili stessi.

Prende in giro il lettore, in questo, l’Ulisse, e lo tormenta, lo stressa, perché gli fa leggere ogni paragrafo, ogni riga, ogni parola.

Invece magari in quel pezzo lì, vale capire che cosa Joyce abbia combinato, in che modo abbia usato lo stile per enfatizzare, portare a rottura. Trasformare il dramma in ridicola parodia.

Io non ho letto tutte le parole del monologo di Molly.

Credo di averne capito lo stesso il senso.

Che cosa c’è di non parodico nell’Ulisse?

Quello che si dice dell’Irlanda e della sua “schiavitù”.

Il dolore per i lutti familiari.

La coerenza del testo, i particolari che compaiono e poi ricompaiono e un po’ alla volta si disvelano, lasciano capire il loro significato.

I simboli, che a volte sono anche le ossessioni dei personaggi, come il coltello per Stephen o l’ombelico. La volontà di mettere in un romanzo epico un funerale e di dirci che anche un funerale può essere una cosa da ridere se per raccontarlo si fa la parodia di Shakespeare e si osservano da vicino le cose buffe che si fanno e si dicono nelle carrozze che lo seguono.