di Andrea Veglio
Supponete di essere laureati in Fisica teorica e di aver fatto una tesi di dottorato sulle simmetrie in alcuni fenomeni naturali, poi supponete di esservi interessati al rapporto fra meccanica statistica e la funzione ζ di Riemann e di esservi giocoforza trovati di fronte all’immenso lavoro di uno dei maggiori matematici del ‘900, André Weil. Supponete di esservi incuriositi alla sua vita e di avere molto apprezzato alcune lettere scambiate con la sorella Simone (L’arte della matematica, Adelphi). Supponete a questo punto di aver voluto approfondire la biografia e il pensiero di Simone Weil, – anarchica, filosofa, mistica. Supponete, una volta finito di leggere La pesanteur et la grâce – raccolta di riflessioni scritte fra 1940 e il 1942 e pubblicata postuma in Francia nel 1947, – di aver compreso con chiarezza di esservi innamorati del libro e dell’autrice. Un’autrice, tanto per dire, che Albert Camus definì “il solo grande spirito del nostro tempo”. Supponete di esservi procurati la bella e autorevole versione italiana di La pesanteur et la grâce, tradotta da Franco Fortini nel 1951, ma di aver avuto la sensazione che di tanto in tanto non trasmettesse quella sorta di delicata ferocia che avevate sentito rimbombare nell’originale.
Supponete inoltre che siano trascorsi più di settanta anni dalla morte dell’autrice e che le sue opere siano di dominio pubblico. Supponete infine di padroneggiare bene il francese, ma che il vostro sia un francese bastardo e popolare, imparato nei laboratori di un istituto di ricerca di Parigi e nelle taverne di Nizza, non propriamente quello che si insegna nelle aule universitarie dissezionando i libri di Proust o Céline.
Supponete tutto ciò e ditemi, che cosa avreste fatto al mio posto? Per quanto mi riguarda – dati tutti questi presupposti – probabilmente non avrei fatto nulla. Al massimo avrei scritto un paio di righe su Facebook per consigliare la lettura, possibilmente in lingua originale, di La pesanteur et la grâce, magari lamentando il fatto che l’unica traduzione italiana esistesse solo – maledetto immobilismo della nostra editoria – in versione cartacea. L’idea – contemplata per un istante – di scriverne una nuova traduzione e di autoprodurla in versione elettronica l’avrei rubricata come temeraria e archiviata nella popolosa categoria mentale del non legittimato all’impresa. A chi mi avesse fatto notare che Primo Levi – con la sua laurea in chimica e il suo tedesco “da caserma” – aveva tradotto Il processo di Kafka, avrei obiettato un laconico e inoppugnabile “Primo Levi è Primo Levi”.
Se non avessi ricevuto una telefonata di cui dirò più avanti, una telefonata in cui si parlò principalmente dello stato di salute di alcuni vitelli, non mi sarei reso conto di come questo progetto di traduzione sottendesse al contrario un principio di necessità (termine tanto caro alla Weil) cui non potevo sottrarmi.
Un po’ come se tutti i presupposti elencati sopra costituissero un insieme di ipotesi contraddittorie che impediscono di arrivare alla dimostrazione di un teorema e quella telefonata, eliminando (in gergo matematico, rilassando) una delle ipotesi, avesse risolto la contraddizione e lasciato emergere la necessità della tesi. (In matematica, se un insieme di ipotesi P implica una tesi Q, si dice che Q è necessaria a P).
A questo punto permettetemi però di abbandonare il linguaggio matematico in modo da poterci addentrare un minimo nel merito della traduzione.
In primis, il problema del titolo.
Franco Fortini ebbe l’audacia di intitolare L’ombra e la grazia la propria versione, motivando così la scelta: “Quando tradussi questo libro, pubblicato in italiano nel 1951, fui a lungo perplesso per la resa del titolo. In italiano, la pesantezza pesa più della pesanteur; è semmai gravezza, lourdeur. Sarebbe stato meglio Il peso e la grazia? Certo è un peso di origine greca, più che il pondo o la soma dell’italiano letterario. Somiglia a quello che pende nel memorabile inizio di La persuasione e la retorica di Michelstaedter. Ombra, senza dubbio, tradisce la corporeità del sostantivo; spiritualizza, disincarna, è poeticistico. Ma è anche associato al contrasto luce-buio, rivelazione-tenebra. L’ombra è un portato della carne, dice Dante”.
Come intitolare la nuova traduzione?
Mantenere L’ombra e la grazia? Modificare il titolo di un’opera a settant’anni dalla prima pubblicazione non significherebbe snaturarla? Ad esempio, una nuova traduzione di Of mice and men che si intitolasse Di topi e uomini porrebbe più di qualche problema (e infatti la nuova versione di Mari mantiene il titolo di Pavese). D’altro canto, però, La montagna incantata di Mann, tradotta nei Meridiani, è diventata La montagna magica.
Legittimo quindi abbandonare il “poeticistico” ombra per rimanere fedeli alla “corporeità del sostantivo”, magari scegliendo un letterale La pesantezza e la grazia? Oppure meglio optare per un più fisico Il peso e la grazia? Gli anglosassoni accentuano ulteriormente la fisicità del termine e traducono Gravity and grace, infischiandosene peraltro della poco simpatica allitterazione gr-gr. (Strada difficilmente percorribile in italiano: La gravità e la grazia risulterebbe quantomeno ambiguo, La grevità e la grazia terribile). Inoltre, nel panorama letterario italiano è presente dal 2012 un romanzo di Christian Raimo il cui titolo, Il peso della grazia, “di una celebre dicotomia di Simone Weil, […] fa un’endiadi” (Andrea Cortellessa, La Stampa). Ma un romanzo è un’opera creativa che non soggiace ai vincoli filologici che devono invece essere rispettati dalla traduzione di un classico.
Dopo essermi a lungo chiesto quale potesse essere la scelta migliore (un grazie sincero a coloro che mi hanno ascoltato e consigliato), mi sono infine deciso per La pesantezza e la grazia, titolo certo non bello, ma coerente con la resa di pesanteur con pesantezza cui sempre mi sono attenuto nel testo (come Fortini, d’altra parte).
A differenza di pesanteur, c’è stato un sostantivo piuttosto rilevante – con le sue settanta e più occorrenze (derivati compresi) – che non ho potuto rendere sempre con il medesimo traducente. Si tratta di malheur, che in italiano può significare, semplificando, sia infelicità che sventura. Nella scelta di tradurlo con l’uno o con l’altro termine si pone necessariamente l’accento su una dimensione interiore o esteriore. Esiste forse un sostantivo italiano che raccoglie entrambe le accezioni, afflizione, ma appartiene a un registro così distante da quello di malheur che ho preferito evitarlo. A ogni occorrenza di malheur ho quindi dovuto fare una scelta, dolorosa, fra infelicità e sventura (e non disgrazia, perché malheur non è inteso da Simone Weil come assenza di grazia, dis-grazia). A differenza di Fortini, che traduce malheur prevalentemente con infelicità (43 volte contro le 29 di sventura), nella mia versione ho privilegiato sventura (53 volte contro le 19 di infelicità), perché mi è sembrato più aderente ai vari contesti proposti dall’autrice – un’autrice che rifugge qualsiasi concessione intimista o esistenzialista.
Un’autrice, peraltro, che ha un’idea severamente occamistica tanto dello scrivere (il suo è uno stile diretto e asciutto, che mira all’essenziale) quanto del tradurre, al punto che ebbe a dichiarare: “Il vero modo di scrivere è scrivere come si traduce. Quando si traduce un testo scritto in una lingua straniera, non si cerca di fargli delle aggiunte: si usa al contrario uno scrupolo religioso per nulla aggiungere. È così che bisogna cercare di tradurre un testo non scritto”.
Ho quindi cercato di attenermi il più possibile a questo principio, senza però cedere alla tentazione di una resa pigramente letterale, così da rispettare in ogni passo sia l’autrice che il lettore contemporaneo.
Ad esempio, la Weil indica il Dio degli Ebrei con il nome di Geova, nome che Fortini mantiene invariato nella propria versione. Scelta ineccepibile, dal momento che Fortini si rivolge al pubblico dell’immediato dopoguerra, quando i Testimoni di Geova – silenziosamente perseguitati dal regime fascista a partire dalla fine degli anni ’20 – erano in Italia una piccola minoranza poco conosciuta ai più. Il lettore del 2021, al contrario, associa immediatamente la parola Geova al Dio di quella religione. Ho quindi preferito tradurre Geova con il termine Yahweh che, oltre a mantenere una certa coerenza lessicale (Geova non è altro che una latinizzazione di Yahweh), rimanda subito l’attenzione del lettore contemporaneo al contesto della religione ebraica.
Una religione, quella ebraica, con cui la Weil ebbe fin da piccola un rapporto quantomeno dialettico (ad esempio sostenne di aver scoperto di essere ebrea soltanto all’età undici anni). Molto si è scritto – anche a sproposito – sul rapporto di Simone Weil con l’ebraismo, e non ritengo sia questa la sede per tentare una nuova analisi. Mi limito a riportare un fatto singolare che ho riscontrato durante la traduzione. Nel capitolo intitolato Israël (Israele), uno dei più difficili da apprezzare in un’epoca come la nostra in cui si ha piena consapevolezza della tragedia della Shoah, l’autrice (che, per la cronaca, morì nel ’43 a Londra dopo aver lasciato gli Stati Uniti nella speranza di potersi paracadutare in Francia per unirsi alla resistenza e combattere i nazifascisti) scrive: “La malédiction d’Israël pèse sur la chrétienté. Les atrocités, l’Inquisition, les exterminations d’hérétiques et d’infidèles, c’était Israël. Le capitalisme, c’était Israël, notamment chez ses pires ennemis.” Queste le parole che appaiono nell’edizione che ho utilizzato dapprima per la lettura e poi per la traduzione del testo originale, La pesanteur et la grâce, Pocket (© 1947 e 1988 Librairie Plon). Parole che coincidono esattamente (com’è normale che sia, del resto) con quelle riportate nel testo a fronte della traduzione di Franco Fortini, L’ombra e la grazia, Bompiani (© 2017 Giunti Editore).
La mia traduzione recita: “La maledizione di Israele grava sulla cristianità. Le atrocità, l’Inquisizione, lo sterminio di eretici e di infedeli, questo era Israele. Il capitalismo, questo era Israele, specialmente fra i suoi peggiori nemici.”
Sorprendentemente, Fortini traduce: “La maledizione di Israele pesa sulla cristianità. Le atrocità, l’Inquisizione, gli stermini di eretici e di infedeli, erano Israele. Il capitalismo, era Israele (lo è ancora, in una certa misura…). Il totalitarismo è Israele, soprattutto nei suoi peggiori nemici.”
Più che una traduzione, sembra un’interpolazione con la bieca aggiunta di una dozzina di parole, peraltro parole che nella travagliata cartografia dell’immediato dopoguerra dovevano avere un certo rilievo.
La mia ipotesi è che Fortini, sempre così preciso, sempre così attento a trovare soluzioni stilistiche oggi forse datate ma di incontrovertibile correttezza, non abbia aggiunto di propria sponte quelle parole (perché avrebbe dovuto?). Sospetto piuttosto che il testo originale su cui Fortini lavorò includesse quelle parole che poi, chissà per quale errore o convinzione, sono state omesse nelle successive edizioni in lingua francese, e di riflesso nell’attuale testo a fronte dell’edizione Bompiani. Ma questa appunto è solo una mia ipotesi, da non letterato.
E da non letterato difficilmente avrei ritenuto legittimo avventurarmi in una nuova traduzione di La pesanteur et la grâce se la scorsa primavera, mentre leggevo la versione di Fortini, non avessi ricevuto una telefonata da mio padre, zootecnico, che mi comunicava, pour parler, di aver visitato un allevamento di bovini in cui alcuni capi “andavano giù con le gambe davanti”. Deforme madeleine proustiana, quell’espressione che non sentivo da decenni, più che rimandarmi alla pesanteur descritta dalla Weil, mi riportò in mente un episodio della mia infanzia, quando mio padre si assentò da casa alcuni giorni per seguire un corso di formazione per zootecnici. Al termine di una conferenza su patologie animali e alimentazione, nello spazio riservato agli interventi del pubblico, mio padre avrebbe voluto porre una domanda che gli era rimbalzata in testa per tutta la lezione, “perché i vitelli vanno giù con le gambe davanti”. Ma non lo fece. Lui, con la sua licenzia media, non osò porre quella domanda del tutto appropriata ai professori universitari che tenevano la conferenza in quanto – raccontò una volta rincasato – l’unico modo in cui avrebbe saputo formularla, “perché i vitelli vanno giù con le gambe davanti”, lo avrebbe fatto sentire ridicolo. Scoraggiato dal linguaggio pieno di latinismi e tecnicamente ineccepibile dei relatori, non si era sentito legittimato a interloquire con loro. Sbagliando, credo.
Un errore che ho cercato di non commettere.
Nel particolare momento della mia vita in cui sono approdato a La pesanteur et la grâce (momento che ha coinciso con il periodo della Pasqua 2021 e il relativo lockdown), la telefonata di mio padre ha eliminato il presupposto (rilassato l’ipotesi, in gergo matematico) della non legittimazione, facendomi percepire chiara la necessità di superare le mie paure e di mettermi a tradurre. Alla necessità, secondo Simone Weil, bisogna “accettare di essere sottomessi […] e non agire se non attraverso di essa.” A quella necessità sono grato, in quanto mi ha consentito di dare, spero, un piccolo ma concreto contributo nel mantenere viva e contemporanea – anche grazie al mezzo elettronico – la voce di un testo e di un’autrice che tanto amo.