In Appunti di Lettura

Postille alla Trilogia del nord di Louis-Ferdinad Céline (8-10)

di Demetrio Paolin

8. Ritorno sulle postille 3 e 3.1 e la sostituzione del verbo “scrivere” con il verbo “parlare”. Proseguendo la lettura di TdN (ora sono a pagina 450 e sto leggendo Nord) posso provare a fare una riflessione più ampia rispetto a una presenza letteraria, che mi pareva inizialmente estravagante, ma che ora si è fatta più distinta e chiara.

– Ci trovi la sua vena comica, Céline!… scriva dunque come parla! Che capolavoro!

– Sono più in condizione, andiamo!… mi casca la penna!

– Ma no Cèline!… lei è in gran forma, invece!… l’età più bella!… Cervantes! …le insegno niente!

– No, Gertrut! Lei m’insegna niente!… la stessa età di Achille!… 81 anni… Don Chisciotte!

Il trucco di tutti gli editori per spronare i loro ronzini… che Cervantes era uno sbarbatello!… 81 primavere!

– È più mutilato di lei!… Céline (TdN 35)

La prima notazione è legata alla tensione tra scrivere e parlare; l’interlocutore invita Céline a scrivere come parla; certificando in parte quello che avevamo già sostenuto e che l’autore aveva ben chiarito nell’incipit della Trilogia. Non è questo l’unico passaggio di poetica centrale in questo brano, che, appunto, indica nella vena comica il centro di TdN e istituisce un parallelo tra Céline e Cervantes, una vicinanza che potrebbe essere anche biografica, se pensiamo che entrambi vissero l’esperienza del carcere e della guerra. Il Chisciotte lo sappiamo bene è un romanzo che nasce in catene, a smentire clamorosamente dell’asserzione di Marino sulle Muse che non amano le prigioni. La musa di Cervantes e quella di Céline, invece, si nutrono di quella profonda umiliazione. La comicità céliniana, che qui in parte iniziamo ad affrontare (queste postille solo un lavoro di aggregazione, di cumulo), è come quella di Cervantes, figlia di una profonda vergogna, di un profondo sentimento di perdita di sé: il nodo comico del Chisciotte e, io penso anche, di TdN sta tutto nel sentire che qualcosa si è scomposto, rotto, e non può essere in nessun modo riannodato; si sbaglierebbe a vedere nella comicità di Céline una tensione semplicemente al basso e al crasso, una comicità da buccia di banana. Meglio anche tale comicità e presente in TdN, così come tale esito del comico è presente nel Chisciotte. Molte volte, infatti, l’hidalgo cade e finisce con il cavallo “culo all’aria”, ma ad ogni “scivolata sulla buccia”,  Cervantes fa seguire narrativamente con un altro e più complesso movimento, che mostri come il racconto delle avventure di Chisciotte sia ben più ambiguo. Prendete l’episodio dei mulini a vento, il quale ad esempio non si conclude con il cavaliere disarcionato, ma con l’asserzione dell’hidalgo che certamente quelli ora sono mulini a vento, solo perché il mago –  nemico giurato di Chisciotte – li ha trasformati con un incantesimo. Così, leggendo, con maggiore attenzione il racconto, comprendiamo come Chisciotte sia perfettamente cosciente della concreta realtà (dei mulini a vento), ma la sua consapevolezza è diversa da quella che noi ci aspettiamo, e lui riesce a raggiungerla tramite un cammino di umiliazione, che è il principio stesso della comicità.

Il comico, quindi, a cui il dialogo prima riportato si riferisce, assume la connotazione di una particolare rifrazione della realtà, è uno sguardo, è il modo con cui osserviamo. Potremmo definirlo come un fatto di prospettiva, di punto di vista. Se è vero che il romanzo nasce, almeno così come Kundera sostiene nel suo l’Arte del romanzo, con l’allargarsi di un orizzonte in cui il personaggio si avventura, un ampio orizzonte in cui può guardare e vivere tutto, il comico, presente in Cervantes e in TdN, è un “impaesarsi”, un abitare il paese, nell’immaginario del personaggio. Tale evidenza chiarisce meglio la logica compositiva delle prime cento pagine della TdN, in cui Céline “costringe” il lettore ad assumere su di sé il panorama della vita del protagonista, le sue ubbie, i suoi dubbi, le sue colpe, mancanze. L’effetto del comico è, perciò, un mezzo attraverso cui il lettore può trovare il suo posto nell’orizzonte “fittizio” del reale di cui ogni romanzo, compreso TdN, è esplorazione.

Basterebbe già questo ad ascrivere TdN hai grandi romanzi “anatomici”, come lo possono essere appunto il Chisciotte, Tristram Shandy o l’Ulisse, romanzi in cui si descrive non tanto un mondo in pezzi, ma il farsi a pezzi del mondo, lo sfilacciarsi del rapporto con il reale; in realtà ci sono ben altre tensioni tra TdN e Chisciotte, proprio perché il passaggio da cui siamo partiti esprime, se vogliamo con una elegante antifrasi, una idea di poetica.  In TdN il Chisciotte ritorna nel leggere un dialogo tra Laval, Céline e Bichelonne. Il primo a parlare è Laval

– Sì!… questo d’accordo! Ma lei come lei? …comunque, ha pure un piccolo desiderio? […]

– Lei potrebbe forse, signor Presidente, farmi nominare Governatore delle Isole di Saint-Pierre e Miquelon?

[…]

– Promesso! Concesso! D’accordo! Lei prenderà nota, vero, Bichelonne? […]

– Certamente, signor Presidente!

– Ma chi le ha dato l’idea, dottore?

– Oh così, signor presidente! Le bellezze di Saint-Pierre e Miquelon (TdN, 240)

Sembra una delle tante spacconate di Céline, una delle tante uscite enfatiche di questo io che straborda da ogni parte, eppure in realtà Céline cita il Chisciotte, o quanto meno ricorda piuttosto nitidamente il capitolo VII del Chisciotte nel quale Don Chisciotte promette a Sancio di nominarlo governatore di qualche isola, anzi lo invita a non sperare niente di meno. Alla luce di questo il dialogo possiamo fare alcune riflessioni riguardanti l’io narrante di TdN. 

L’equazione pare semplice, Céline (io narrante): governatore dell’isola = Sancio : governatore dell’isola, quindi Céline (io narrante) = Sancio. TdN è un romanzo particolare, lo sentiamo durante la lettura, procede sghembo come il suo narratore, che non a caso ha bisogno di bastoni per sostenersi. La Trilogia sceglie come punto di vista non il protagonista, ma la spalla, il personaggio “minore”, questo narrativamente produce un cambio, un diverso modo di muoversi, e da questa postura nascono una serie di domande: è possibile che il narratore sia Sancio? O, meglio, che abbia la funzione che ha Sancio nel Chisciotte, senza tra l’altro il bilanciamento nella presenza del cavaliere? E, infine,  quale sarebbe la funzione di Sancio nel Chisciotte? Per rispondere a queste domande si dovrebbe iniziare sostenendo che Sancio rappresenta il buon senso comune, quindi è colui che radica Don Chisciotte nel presente e che gli ricorda sempre come ciò che lui crede di vedere non sua vero. Eppure Sancio, infine, è sempre vicino al cavaliere della triste figura, non lo abbandona mai, fino alla fine della sua esistenza. Perché Sancio è così vicino a Chisciotte, perché gli crede quando gli promette la sua isola, perché lo segue? 

La risposta ai nostri interrogativi possiamo trovarla in Kafka e nel suo apologo La verità su Sancio Panza. In questo breve racconto Kafka sostiene che Sancio abbia ingannato il suo diavolo, il suo demone, facendogli leggere un mucchio di romanzi cavallereschi. Il diavolo che avrebbe dovuto avere ragione su Sancio «inscenò, scrive Kafka, le imprese più folli» che «non danneggiarono nessuno».  Per questo motivo Sancio «uomo libero, forse mosso da un certo senso di responsabilità, seguì l’imperturbabile destino di Don Chisciotte». In questa fatalità in questo seguire il demone che ha lui stesso creato c’è qualcosa di coincidente all’io narrante della TdN, al suo protagonista, che paradossalmente è causa, destino e scioglimento della sua storia. Céline come Sancio cammina tra i demoni, alcuni che ha suscitato e altri che ha conosciuto, e il suo compito e dialogare con loro, mostrarne la follia. 

Prendiamo un passo da Nord che in un certo senso segna l’apice di questa ricognizione su una possibile vicinanza tra Céline e Cervantes. Siamo a Berlino, la città è una serie di ordinatissime macerie (anche su questo ci torneremo in una delle future postille), e affacciandosi da uno finestra dello Zenit, l’albergo inquietante, dove hanno trovato alloggio, Céline, Lily, Lavigan e Bebert vedono uno strano balcone fiorito, una visione aerea di leggerezza: «La casa di fronte, come sospeso tra i pilastri dell’edificio… ad amaca… i piani sopra e sotto non esistono più… spazzati via!… per di più sti piano fa vetrina… vetrina di fioraio… fioraio, negozio pensile… rose, ortensie clematidi, sospeso tra i pilastri ad amaca… più niente esiste di sta casa se non questo aereo ammezzato» (TdN 340). Questa visione, quasi fiabesca, leggera, colorata (i nomi dei fiori ci portano alla mente i loro colori che si oppongono al grigio delle macerie), accende in tutti il desiderio di vedere quel balcone – non è questo in motore dell’avventura donchisciottesca? La visione di qualcosa che stride con la realtà che lo circonda? È più strano vedere dei giganti nell’assolata pianura della Mancia o una visione floreale paradisiaca nell’inferno di una città distrutta della guerra? La compagnia parte in avanscoperta e scopre come il negozio in realtà non sia altro che l’ufficio di un avvocato (non giganti ma mulini). La scena, però, non si conclude, e ha il suo vero culmine poche pagine dopo. Ecco che veniamo a fare la conoscenza di Pretorius, l’avvocato, personaggio strano, ambiguo, forse una spia o – peggio – in combutta con Ivan, che in realtà si chiama Petrov (notate come nessuno in questo spezzone di romanzo ha una ferma e precisa identità, vd. 9), per racimolare in qualche modo carne di dubbia provenienza, come quella che viene data a Bebert. 

Questo avvocato porta Céline e gli altri alla piazza della Cancelleria (TdN 343-344). La Berlino di Céline è una città spettrale, e l’aggettivo è da intendersi in senso letterale ovvero siamo di fronte a una città abitata da fantasmi. E infatti in una piazza completamente vuota – «siamo solo noi nella piazzetta» – Pretorius vede Hitler e lo vede sfilare con ali di folla intorno, ma in realtà non c’è nessuno. A fare da contraltare alle farneticazioni di Pretorius è appunto Céline/Sancio che oppone sua la sua visione concreta. Il protagonista continua a dire «vediamo niente, si sente niente noi», mentre l’uomo grida «heil!». Pretorius si tira sulle punte per vedere meglio, tanto che Céline sbotta: «c’è niente… niente, posso dire: niente!… ci prende per il culo! […] tutte le botteghe attorno chiuse… lui vede l’Hitler». Quando tutto è finito, Petroius continua a parlare con Céline e gli altri come se la sua visione fosse reale che «Hitler aveva proprio una buona cera… che la folla era così felice». Di fronte a questa lucida follia la scelta degli accompagnatori è di assecondarlo quasi fossero tutti Sanco Panza – «noi ben volentieri diciamo come lui».

Forse la TdN è la possibilità di scrivere il Chisciotte dopo la seconda guerra mondiale, sono gli stralci del lavoro che ha tentato di fare Pierre Menard, ma che non c’è riuscito. Nel racconto di Borges, dove assistiamo al tentativo di immaginare l’immaginaria vita di un immaginario scrittore che immagina di poter scrivere nuovamente il Chisciotte, parola per parola, simile all’originale eppur diverso, compare infine anche Céline insieme a Joyce, entrambi eletti a nuovi autori di quel libro memorabile che l’Imitazione di Cristo. Forse nell’intuizione di Borges c’è il riconoscimento della natura donchisciottesca della TdN, un’opera in cui assistiamo alla rottura nevrotica dell’uomo rispetto alla realtà: nella riscrittura moderna, così come aveva compreso Kafka, la nevrosi moderna fa a meno di Don Chisciotte, del demone solitario, che in queste pagine viene sostituito da una congerie di folli, di saltimbanchi, e pazzi. La Trilogia è, quindi, una dichiarazione d’amore (vd. 6) e di resa nei confronti del romanzo ottocentesco: la letteratura non è più per i protagonisti, ma è ormai sulle spalle dei comprimari, di quelli che s’arrangiano, che tentano di sopravvivere, che sanno la bugia, la smascherano, ma rimangono al loro posto, di coloro i quali hanno nutrito i loro stessi demoni, e li hanno portati ad impazzire e ora “con grande e utile diletto e fino alle fine” (Kafka) li seguono nelle loro scorrerie.

9. A un certo punto di Nord Harras, l’alto funzionario delle SS, dove i fuggiaschi hanno trovato riparo, chiede a Céline i documenti per poter fare le fotocopie necessarie i loro lascia passare. Céline non si separa mai dai suoi documenti perché appunto essi rappresentano ciò che lui è, sono la prova che lui è ciò che dice di essere. A questo punto nel racconto come spesso accade in TdN, fa una sorta di prolessi apocalittica e dal 1944 arriva direttamente al momento in cui lui nel suo presente sta scrivendo e da questo suo tempo presente si immagina ciò che sarà in un probabile futuro

da dove vi scrivo, qui dal mio locale, Bellevue, in prospettiva, vedo almeno centomila case, un milone di finestre… quanti là dentro, ipocriti, ci hanno carte non loro?… sono altri da quel che pare? … che hanno assunto altre vite, altri luoghi di nascita? … che moriranno con un altro nome? Metti ancora quattro, cinque disfatte, e una veramente bella, atomica, tutti si saran fregati le carte, nessuno saprà più se stesso ( TdN 385)

Il tema dell’identità diventa centrale con l’arrivo a Berlino, come se questa città che non ha più profondità, ma solo superficie, produca nei protagonisti una crisi dell’Io, una possibile e probabile, forse anche in parte pirandelliana (Céline lo conosceva come autore di teatro, e Berlino pare un immane palcoscenico ), crasi da personaggio, persona e maschera. Non è un caso che uno dei motori narrativi di questa parte del romanzo siano appunto le fotografie. Céline, Lili e Le Vigan devono rifarsi le foto perché quelle che hanno non corrispondo più alle facce che hanno, la guerra, le privazioni li ha così cambiati che nessuno di loro assomiglia più a se stesso. 

– Harras, caro collega! Un secondo! Permette!… vuole guardare le nostre foto?

Gliele passo…

– Lei ci riconosce?

Lui le guarda… ci guarda…

– Evidente che no!… io, be’ vi riconosco… ma uno straniero, specie un “polizei” farebbe fatica. ( TdN 363)

Le foto non rimandano ai visi che la persona ha davanti a sé, ovvero in questo breve dialogo si vede come chi guarda, in questo caso Harras, non possa stabilire un nesso certo tra immagine e persona: lo sguardo esterno e estraneo di una persona fatica a dire che la faccia ritratta e quella reale di Céline siano la stessa cosa. Abbiamo notato (vd 8) come alcuni personaggi nascondano la propria identità: Ivan l’uomo che dirige l’albergo si chiama Petrov, Petronius l’avvocato è in realtà quasi certamente una spia o un ladro (ha di certo frugato nelle sacche dei tre profughi). La foto e le carte, che dovrebbero sancire la precisa identità, in realtà alludono a una identità che è perduta, di cui ne è certo simbolo Le Vigan l’attore che spesso viene evocato come «l’uomo senza identità» (TdN 349), in quanto attore, teatrante, che quindi mette in scena sempre una maschera. 

L’identità è così compromessa, così flebile nella narrazione della TdN che gli stessi protagonisti stentano a conoscere se stessi. Infatti nel rifare le foto per i nuovi lasciapassare sono costretti a vedere come nessuno di loro è più se stesso: «lo sviluppo è nello sgabuzzino… due minuti! Ecco! …pago… fuori i nostri musi!… lì, abbiamo il tempo… ci guardiamo… e riguardiamo… Lili, io La Vigue abbiamo  cambiato ghigna!… […] niente più guance!… certe bocche flosce, come di annegati… tutti e tre!… siamo proprio diventati orrendi… tre mostri… innegabile… come siamo finiti mostri?» (TdN 338)

Questo breve excursus ci porta, infine, alla duplice domanda sulla propria identità, che Céline rilancia anche a conclusione della “tirata” sulle carte, quando rivolgendosi ad una immaginaria persona chiede: «Lei è proprio lei?» (TdN 385). 

Tale domanda è la domanda di senso, che permea ogni romanzo, potremmo forse dire che è la domanda iniziale che produce ogni narrazione: torniamo ancora una volta al Chisciotte, narrazione dove si affrontano temi come l’identità, la perdita della stessa e il tentativo di trovarne una nuova e diversa, dopo che ogni cosa, come dice John Donne, è «andata in pezzi». Don Chisciotte è convinto di essere se stesso, ma in ogni momento questa sua identità è messa in discussione da altri, che sostengono che lui non è quello che lui crede di essere. Questo moltiplicarsi di specchi e di identità fittizie, credute vere e/o presunte ci porta al capitolo XXXVII della prima parte del romanzo di Cervantes, in cui il protagonista fa questa annotazione: «Esiste al mondo qualcuno che nel vederci nella situazione in cui ci troviamo, sia capace di supporre e credere che noi siamo quelli che siamo?». Questa domanda abissale nel Chisciotte si riverbera lungo i secoli e arriva intatta nella TdN, è questa la domanda per eccellenza, che il romanzo pone a noi e che noi poniamo agli autori delle storie che leggiamo: la richiesta di comprendere chi siamo, il definire il nostro stato, la nostra identità, di intravedere nelle pagine che leggiamo ciò che abbiamo compiuto, e ciò che potremo compiere, di sezionare i sentimenti che siamo. Questa domanda non prevede nessuna concreta risposta, il romanzo odia la tautologia, quella della perfetta identificazione, nella quale A = A. Ortega y Gasset scriveva appunto nelle Meditazioni sul Chisciotte che «io sono io e la mia circostanza». Il romanzo non è una tautologia – “io sono io”, non è neppure un libro sacro – “io sono colui che sono”, il romanzo è una struttura proteiforme, in cui il nostro essere noi stessi si modifica a seconda della circostanza, sia essa un’avventura lungo la Mancia assolata, o l’attraversamento di una nazione disfatta dalla guerra. A seconda del paesaggio  geografico, fisico, culturale i personaggi cambiano se stessi e noi lettori cambiamo con loro. Il lettore insegue questa possibilità di capire chi è lui e chi sono gli altri: a tutto questo si oppone la struttura stessa della narrazione romanzesca, che cambia modifica, sfugge, recalcitra nel dire, che spinge a leggere ancora e a stupirsi, a vivere nuove avventure, spinge il lettore ad essere dalla parte del mostro, ovvero del “meraviglioso” che vira verso l’eccezionale, lo stravagante, il tremendo. In TdN, infatti, la ricerca di identità è anche una ricerca di comprendere non solo chi siamo, ma perché siamo diventati ciò che siamo ovvero “mostri”, proprio come fa Céline dopo aver visto la propria faccia. Céline comprende di essere mostruoso e in questo certifica, anche verso i più dubbiosi, che l’idea della Trilogia come narrazione volta ad auto-assolversi e a proclamarsi innocente, sia completamente errata e contraddica la struttura stessa e del romanzo e del personaggio narrante, perché TdN contiene dentro di sé una narrazione e ricerca di senso di questa trasformazione. 

Come siamo diventati mostri questo chiede Céline a se stesso, a Lili e a La Vigue, e lo chiede anche a ognuno di noi: Perché siamo diventati ciò che siamo? Siamo sicuri di esserlo? Neppure scattandoci una foto potremmo riconoscerci, tanta è la mostruosità che abbiamo compiuto. 

Céline spinge la nostra empatia nei confronti dei suoi personaggi fino ad un punto in cui dimentichiamo chi sono e cosa hanno fatto, siamo con lui presso la Cancelleria mentre un pazzo urla Heil Hitler, siamo con l’SS che apre lo sportello e trova il fagotto di un bambino che dorme; siamo con i mostri e camminiamo con i fantasmi, perché noi per primi come Don Chisciotte abbiamo voluto chiederci: “Perché noi siamo quello che siamo?”.

10. Durante l’incontro del gruppo, alcuni lettori che stanno leggendo TdN in lingua originale ravvisano e fanno notare una stortura grammaticale di Céline, il quale compone in maniera ortograficamente errata tutte le frasi negative. Ovvero invece di scrivere Je ne mange pas, egli scrive Je mange pas. Nella discussione, che è seguita questa notazione, è risultato come questo uso céliniano assecondi una certa evoluzione della struttura della negazione; in linguistica si situano tre fasi: 1) inizialmente per negare una frase si mette una particella che trasformi la frase da positiva a negativa (il “ne”), quindi 2) se ne aggiunge un’altra per rinforzare il senso della narrazione (“pas”), infine 3) soprattutto nell’uso orale cade la negazione più forte (“ne”) e le sopravvive quella più debole (“pas”). Questa notazione mi interessa, perché  mi permette di fare una serie di riflessioni, partendo dall’uso particolare della forma negativa, più afferenti al campo della scrittura. Io credo che questa scelta di Céline, oltre certo ad avere una ricaduta strettamente linguistica, abbia a che fare con una precisa decisione di stile. In primo luogo l’opzione praticata da Céline conferma appunto la preferenza accordata al parlare rispetto allo scrivere ( vd. postilla 3, 3.1, 9). Mi verrebbe da dire, però, che questa è la lectio facilior, abbiamo ormai compreso come le scelte stilistiche di Céline siano dovute a questo profondo choc della guerra e allo stile che abbiamo definito farneticante (vd. postilla 7). La punteggiatura, la sua assenza, o la sua presenza particolare, i tre puntini, i punti esclamativi (vd. 6) ci fanno comprendere come in TdN ogni parola abbia una profonda realtà sonora, sia una immagine che produce un suono e il mescolarsi dei suoni sia più importante dell’ordine esatto con cui le parole vengono messe su pagina per significare qualcosa. Questa idea del suono è così presente in Céline che, sin dai suoi esordi, l’autore parlò – rispetto alla lingua dei suoi scritti –  di petite musique, una musica minuta, fatta di piccoli accordi, leggere variazioni.

Credo che, forse, il modo reale per poter comprendere Céline sia abbandonare l’ideologia, di cui è sovraccarica la critica ai suoi romanzi, e concentrarsi sul dato stilistico e letterario (che è il compito che mi sono prefisso con queste postille). La forte impressione, che si ha nella lettura, anche di chi come me conosce poco il francese, e si affida al semplice orecchio che sente leggere la Trilogia, conferma come ogni scelta linguistica di Céline sia musicale; essa è una opzione così decisiva da arrivare ad forzare l’idea stessa di composizione della frase. Provo a spiegarmi: solitamente ognuno scrive una frase per farsi comprendere, si scelgono quindi le parole in base una sorta di vicinanza, alla idea di ciò che si vuol dire. Céline ha una idea della frase completamente diversa, segue una prosodia, un suono, un ritmo, una modificazione che avviene per lievi aggiustamenti. Ovvero mentre io scrivo una frase in base a parole che si equivalgono, cioè parole che esprimono ciò che voglio dire, Céline produce frasi con parole che si combinano tra di loro, in base a ciò che vogliono suonare. La prosa di Céline è una forma di rottura sintattica e compositiva vicina alla poesia, e nel leggere alcuni passaggi tornano alle mente alcune riflessioni di Jakobson sul linguaggio poetico: «la funzione poetica proietta il principio d’equivalenza dall’asse della selezione all’asse della combinazione». È il modo in cui le parole di Céline si combinano sulla pagina che deve interessare la nostra attenzione. Perché, quindi, mi interessa questa slabbratura della negazione? 

La prima risposta più semplice è appunto dovuta alla scelta parlata che Céline pratica in maniera totale nella TdN, ma c’è di più . Se avesse voluto semplicemente rompere con la lingua scritta del francese,  Céline avrebbe potuto scegliere di usare la negazione “ne” e non “pas”, e perché non lo fa? Quale significato associa lo scrittore a questa combinazione delle parole?

La particella “ne” davanti al verbo lo nega, nega ciò che si compie, è qualcosa di assoluto, è imperioso, preciso, indubitabile. Indica che l’azione descritta non accade, non accadrà, e non avrebbe potuto accadere. Faccio un esempio. Domanda: “Vieni alla festa?” . Risposta. “Non vengo”. Non ci sono dubbi sulla scelta del soggetto di chiudere il discorso, di non lasciare adito a dubbi. 

Proviamo, adesso, ad usare un modo di dire tipico di forme dialettali, ma che si adatta bene alla prosa di Céline. Domanda: “Vieni alla festa?”. Risposta: “Vengo più”. Il messaggio è chiaro: il soggetto non verrà alla festa, ma c’è in questa frase rispetto alla precedente qualcosa di diverso, c’è una esitazione, un dubbio, un leggero traballare della consapevolezza, c’è l’essere in bilico, il desiderio di venire e l’impossibilità, oppure il desiderio di essere pregati di venire etc etc, si adombra infine anche un desiderio impossibile da realizzare “vengo più = avrei voluto tanto venire”, possiamo, quindi, avere durante la lettura di una frase del genere mille diverse interpretazioni; ma dal punto di vita strettamente grammaticale entrambe sono due frasi che sono negative. 

Sin dalla mia prima lettura di Trilogia del Nord, ho sempre pensato che questo testo metta in scena il dubbio, l’intermittenza (in primo luogo l’intermittenza dell’io), l’insicurezza, il fare o non fare una cosa, il compiere o meno una determinata scelta, o l’essere costretti a una precisa parabola biografica dalle circostanze (vd 9); ora questa scelta di rendere meno netta la negazione, di assorbire nella negazione il dubbio (questo “pas” è come una forma avverbiale che modifica ogni assunto verbale, lo rende meno netto, meno preciso, più sfumato), il “non so”, il “forse” e di farlo diventare una precisa e reiterata scelta stilistica è conferma di questa tensione: l’io narrante di Céline è un personaggio che non riesce neppure a negare completamente, che non riesce a sentire nessuna forma di assoluto e di trascendente, è traballante e incerto, come lo sono le macerie che gli fanno da orizzonte, come lo sono i palazzi intorno a lui mentre cammina, come lo sono i personaggi che incontra, terribili e mascalzoni, mostri in alcuni casi, ma ritratti sempre sul precipizio e pronti a cadere. Tutto questo, però, non è tanto descritto, quanto “sentito” dentro la lingua e tramite la scrittura ed è ciò che fa di Céline un grande narratore e della Trilogia del Nord uno dei testi, essenziali per comprendere il secolo XX.