di Michele Scarpelli
“Chi è?” domandava il nonno.
“Non lo so, è per te”, rispondevo.
Lui sospirava, poi, tenendo la cornetta in mano, di modo che potesse sentirlo anche la persona che lo aveva chiamato, aggiungeva:
“Sarà qualche rompicoglioni”.
E in effetti era quasi sempre così.
I miei sabati mattina cominciavano quando venivo accompagnavano a casa dei nonni, quando cercavo inutilmente di fare i compiti. Il loro appartamento era al primo piano, proprio sopra un rumoroso supermercato aperto ventiquattr’ore su ventiquattro. La casa invece era piccola, ma ben arredata. La cucina comunicava con lo studio del nonno attraverso una piccola finestrella, ed era da lì che la nonna mi controllava mentre cercavo di risolvere problemi o di svolgere un tema. Mio zio invece arrivava verso le undici e si chiudeva in salotto, per dare ripetizioni private di violoncello.
Perché le facesse lì anziché a casa sua è rimasto sempre un mistero. Oltretutto i suoi allievi sembrava non non progredire mai. Ricordo una signora cinese sui trent’anni che prendeva lezioni da più di cinque, la quale, invece di migliorare da un sabato all’altro, a ogni lezione sembrava andare indietro. Per tutta la casa risuonavano stridii sgraziati e note stonate, ma data la determinazione della donna, per mio zio si trattava certamente della sua allieva migliore. Senza speranza, ma piena di soldi.
Tra l’altro, ci siamo sempre domandati come comunicassero, dal momento che mio zio è una persona estremamente taciturna e che lei non spiccicava una parola di italiano.
Studiare dunque durante quelle lezioni strazianti, quelle agonie di un’ora e mezzo, era piuttosto difficile e lo era ancor di più quando i miei nonni litigavano. Succedeva sempre per un qualche futile motivo e la cosa incredibile era che mentre il nonno gridava, visto che non poteva farne a meno quando si arrabbiava, restava alla sua scrivania, disegnando con un’attenzione e una precisione degna di chi ha raggiunto la calma interiore. Alzava la voce a livelli talmente alti che quasi non si sentiva lo squillo del telefono, il quale puntualmente cominciava a suonare ogni volta che c’era una discussione, finché non andavo a rispondere. Non oso immaginare cosa potesse sentire dall’altro capo del telefono il povero malcapitato che aveva deciso di chiamare quel sabato mattina, dovendo oltretutto sopportare il fatto di essere additato come un rompicoglioni.
Aspettavo il pomeriggio sempre con grande ansia, perché io e i nonni avremmo fatto sicuramente qualcosa di divertente, a parte le volte in cui ero costretto ad andare a messa con la nonna. In quei casi mi sentivo davvero fregato. Solitamente, se restavamo a casa, disegnavamo oppure cercavamo di realizzare dei pupazzetti di cartapesta. A volte mi mettevo a scrivere una delle “Avventure di Ciccio” su un grosso quaderno. Erano storie che raccontavano la vita di un bambino, Ciccio appunto. Non ricordo di cosa parlassero, ma ricordo che alle illustrazioni ci pensava il nonno.
Erano molto belle, l’unica cosa che valesse veramente la pena guardare in quel quaderno. Se uscivamo andavamo invece a Piazza di Spagna a tirare quattro calci a un pallone, oppure, sotto Natale, alle bancarelle di Piazza Navona a comprare i personaggi del Presepe. L’atmosfera lì, in quel periodo, era incredibile. L’odore della porchetta, dello zucchero filato e delle mandorle caramellate si mischiava insieme in una sorta di odore paradisiaco. Salivo sulla giostra e poi guardavo Pulcinella prendere a mazzate e farsi prendere a mazzate allo spettacolo delle marionette. Infine, mentre tornavo a casa, con un sacchetto pieno di marzapane, torroni, duri di menta e mele stregate, mi mangiavo felice la mia merenda: rosetta con la porchetta, ovviamente.
La sera, le volte che cenavamo a casa, mangiavamo sempre riso allo zafferano, sogliola, patatine fritte e pan di Spagna. Mia nonna cucinava benissimo, eppure al nonno gli era presa la fissazione di prepararsi le cose da solo. Passava ore a cucinare degli strani intrugli, solitamente zuppe dall’aspetto molto poco invitante. Prendeva le ricette da vecchi libri, ma non di cucina, bensì da alcuni romanzi che aveva letto e cercava di rivisitarle. “Volete assaggiare? Guardate che è buonissima”, insisteva, cercando inutilmente di convincere me e la nonna. Poi, dopo qualche cucchiaiata, le lasciava lì. “Stasera ho poca fame, la metto in frigo e me la riscaldo domani”, diceva, come se il giorno dopo l’avrebbe davvero mangiata. Solo alla fine, quando ormai ero steso sul divano, pieno di cibo e vicino all’abbiocco, ammetteva amaramente: “Stasera ho mangiato malissimo”.
Quando invece si cenava fuori, andavamo da Otello alla Concordia, a pochi metri da casa. Io ci andavo molto volentieri perché mi piaceva l’atmosfera di quel posto. Lì, infatti, i miei nonni conoscevano tutti, dai proprietari agli avventori più affezionati. E del resto sarebbe stato strano il contrario, dal momento che erano tutti grandi amici. Mentre cenavamo, spesso gente come Monicelli, Scola o De Bernardi sbucava fuori da un’altra stanza e veniva a salutarci al tavolo. Discutevano affettuosamente col nonno, la maggior parte delle volte sparlando degli altri. Il piacere del pettegolezzo era per loro un elemento fondamentale, quasi una necessità, sebbene non avvenisse mai con malizia, al contrario. Ho un vago ricordo di questa conversazione, anche se non so con chi avvenne, forse con De Bernardi.
“L’altro giorno ho incontrato Mario per strada, l’ho salutato e lui ha fatto finta di nulla…”.
“Ora che ha compiuto novant’anni si è montato la testa, è diventato un fanatico”, rispose mio nonno. Poi succedeva che il sabato successivo incontrassimo Monicelli e che i due sparlassero dell’altro. Era il loro modo di sentirsi tutti amici, tutti allo stesso livello, senza mai prendersi troppo sul serio. In un certo senso erano delle piccole lezioni che assorbivo senza neanche rendermene conto. Solitamente, infatti, non è che mi si prestasse particolare attenzione in quei momenti, ma sapevo che i nonni non vedevano l’ora di chiudere quelle conversazioni per tornare a godersi la cena con me e tanto mi bastava. Il problema di Otello però era che ogni volta che ci andavamo, il giorno seguente uno tra me e il nonno stava male. La nonna si salvava sempre miracolosamente, ma doveva passare tutta la mattina a pulire il vomito dal pavimento. Ogni volta il nonno diceva:
“Mai più. Non ci torniamo mai più”.
“Sono amici, non possiamo smettere di andarci!” rispondeva la nonna.
“E allora che dobbiamo fare, sentirci male ogni volta tutti quanti?”. Evidentemente sì, visto che continuammo a cenare lì. Il record fu di quattro fine settimana di seguito in cui stemmo male tre volte io e una il nonno. Ora la cucina del ristorante è molto migliorata, ma evidentemente in quel periodo c’era proprio qualcosa che non andava.
La notte dormivo su una brandina in salone e la domenica mi svegliavo verso le otto. Facevo colazione e poi guardavo i cartoni alla TV, cosa proibitissima a casa mia e che mi sembrava essere chissà quale privilegio. Verso mezzogiorno e mezzo i miei passavano a prenderci e tutti insieme andavamo a pranzo fuori, solitamente in qualche pizzeria, di certo non da Otello. Il tutto doveva avvenire però entro le due e mezzo perché alle tre bisognava essere a casa. C’era la Roma e non potevo assolutamente perdermela. Era però verso la fine della partita, quando ormai d’inverno cominciava a fare buio, che una certa malinconia mi assaliva. Il giorno dopo sarebbe stato lunedì e tutto sarebbe ricominciato da capo, un’altra dura settimana di scuola, fatiche e impegni non richiesti mi attendeva. Ed è questa la stessa malinconia che ora mi assale, ricordando nostalgicamente quei tempi, senza poter però più vivere quella trepidante impazienza che mi prendeva all’idea che presto un nuovo sabato sarebbe arrivato e che potessi stare ancora con i miei nonni.