di Giulia De Vincenzo
Dicembre: tempo di riletture e bilanci. Di cerchi da chiudere, di conti da far quadrare. Ma i cerchi somigliano ad anelli metallici le cui estremità non combaciano. E i conti… quelli sono famosi per restare in sospeso. Le accise sulla benzina la dicono lunga. Forse ci siamo liberati di quelle della guerra d’Etiopia, ma ne paghiamo altre. Qualche giorno fa ne scorrevo la lista, così, per divertimento: 0,106 euro per la missione dell’ONU durante la guerra del Libano del 1982; 0,0114 euro per la missione dell’ONU durante la guerra in Bosnia del 1995. Le cosiddette guerre umanitarie: agghiacciante ossimoro. E guardando a est mi è tornata in mente una Rizzoli del 2007, un libro coraggioso, difficile, scomodo, di cui non parla più nessuno: Sappiano le mie parole di sangue. L’autrice, Babsi Jones (pseudonimo), è scomparsa nel nulla, dissanguata da fatti che probabilmente ha vissuto prima di riversarli in un reportage quasiromanzo sporco e poetico, come ogni forma di scrittura autentica dovrebbe essere. Un oggetto letterario difficile da identificare, come la Verità in quei Balcani limacciosi e ingannevoli, faticosamente tenuto assieme dai rimandi intertestuali all’Amleto, un Virgilio luterano in rilegatura termosaldata che guida Babsi attraverso l’Inferno della guerra, del pogrom, della morte. E della scrittura.
Quando Babsi si faceva di dexedrina nel condominio di Yu Prog a Mitrovica, quando si aggirava a Niš tra i muri crepati dalle esplosioni delle bombe a grappolo, mentre Babsi toccava il fondo di ogni notte e ne grattava la crosta, indecisa se affondare nella melma o strisciare per risalire ed evitarla, io guardavo la guerra in televisione: negli occhi un orrore distratto e in mano una birra fresca. Una ragazza occidentale, dal suo osservatorio privilegiato che pensava: «C’è del marcio in Serbia». E beveva un altro sorso. Pochi mesi dopo il Kosovo si autoproclamava indipendente, e metà dei Paesi dell’ONU annuiva. Belgrado non ha mai approvato e continua a emettere le proprie targhe per gli automobilisti dello Stato ormai adolescente, a controllarne le scuole e gli ospedali. C’è un ponte a Mitrovica, che passa sul fiume Ibar, un muro che scorre, e divide la popolazione serba da quella albanese, le campane ortodosse dai canti del muezzin. Il ponte è chiuso al traffico dei veicoli in entrambe le direzioni, pattugliato dalla polizia e percorso da pochissimi pedoni per motivi di lavoro o familiari, attenti a non farsi sfuggire un Hvala vam![1] nel quartiere albanese o un Je e mirepritur![2] nella zona serba. Una conflittualità interetnica strisciante, a testimoniare che la guerra, qui, non è finita con gli Accordi di Kumanovo del 1999. Perché la guerra non finisce: cambia forma, germina, conglomera.
Evoca somiglianze che poi si rivelano legami di sangue. La zona nord del Kosovo, dove sorge la Berlino balcanica, grande all’incirca quanto il comune di Roma e ricca di risorse idriche e minerarie, è abitata da una larga maggioranza serba che si sente legata alla madrepatria. Così Pristina accusa Belgrado di fomentare le tensioni al nord per controllarlo tramite gang criminali, mentre i serbi kosovari ribattono denunciando discriminazioni e maltrattamenti dalle forze dell’ordine. Questo basterebbe a richiamare le vicende del Donbass dal 2014 fino all’invasione da parte della Russia, che tra l’altro considera la Serbia un lasciapassare per i Balcani. Ma se non accade nulla che ecciti la cronaca, l’Europa se ne sta a guardare come una battona assopita che si gode la sua pace parziale, e intanto conta teschi. Paul Valery scriveva: “l’Europa è Amleto”, ma è un Amleto intellettuale che guardando migliaia di spettri “medita sulla vita e sulla morte delle verità. Ha per fantasma tutti gli oggetti delle nostre controversie; per rimorso tutti i titoli della nostra gloria (…). Se tocca un teschio, è un teschio illustre” e anche se non sa cosa farsene di tutti questi teschi, “se li abbandona, smetterà di essere se stesso”[3].
Questa è l’Europa. Il suo stigma non sta nella scelta tra essere e non essere, ma nell’essere e non essere contemporaneamente. L’Europa, quel mastodontico fossile che sorveglia e stritola il taccuino di Babsi, facendola sentire un ratto da laboratorio, ha la sua personificazione nella figura del Direttore, destinatario particolare e universale delle missive ibride (tra email e diario) che strutturano il libro. Il sommelier dell’opinione pubblica, che simboleggia tutto il marcio trasmesso dall’informazione, la Storia mercificata e le manipolazioni del mainstream geopolitico, vaghe enumerazioni di innocenti e infami, di sommersi e salvati infiorettate di aggettivi macabri, con l’ebbrezza di fottere il lettore entro la quarta riga. Il finto paternalista che ti regala la Nikon e ti spedisce al fronte – biglietto di sola andata – e intanto brinda, ospite alle cene dell’intelligencija, per festeggiare le bombe che potrebbero ucciderti. Babsi: vittima sacrificale di un cincin. Il Direttore è colui che demanda e attende, attende una e una sola verità, attende invano. Perché Babsi ha capito che esiste solo la guerra. Che siamo tutti sempre e solo guerra, ognuno con la sua verità, nessuna più credibile di altre. Tutti tragicamente uguali: in questo, il solo barlume di speranza. Che in guerra non ci sono vincitori e sconfitti, ma solo carnefici e martiri che si scambiano troppo spesso di posto. Che la Pace è una penosa pantomima, vernice bianca stesa su un mondo che ammuffisce e in cui ci agitiamo, civili per diletto. Soprattutto, Babsi ha capito che la guerra è inesprimibile con lo strumento narrativo.
E ha ingaggiato, in quell’arcipelago precario di patrie sconquassate, lingue e bandiere antitetiche, una guerra intrapersonale per enucleare il senso della sua esperienza, la ragione intrinseca della sua posizione filoserba e antioccidentale, e chiudere il cerchio delle sue contraddizioni. Pungolo e nemesi: la scrittura. Protagonista già nel titolo, che rimanda al monologo di Amleto sull’incapacità di agire (“D’ora in avanti i miei pensieri siano di sangue, o non valgano niente”[4]), la scrittura non serve, non risolve e non basta, non separa la realtà dalla finzione, non estrapola l’essenza di fatti su cui si è scritto tutto, di cui si è detto troppo. Eppure fluisce, inutile e fisiologica come sangue mestruale, e a un certo punto smette. Somiglia a un parto che fallisce sempre. A un bisogno patologico che trova soddisfazione attraverso la fatica e il dolore. Le parole di Babsi sgorgano da piaghe verbali sempre aperte che spurgano secondo modi e tempi imprevedibili, guizzano sfuggenti per poi sclerotizzarsi in gusci vuoti: “Se queste pagine fossero un reportage, un romanzo o un saggio, se fossero un libro, Direttore, tu potresti pescare una pagina a caso, perché tutte le parole che trovo, che conosco, che ho il potere di usare si ripetono, si rifanno a se stesse, si riformano. Non sono che un guscio, e al centro non c’è che la notte che mi afferra e mi sfianca”[5]. Babsi ha provato a spiegarglielo, ma “un discorso furbo dorme in un orecchio stupido”[6]. Ha provato a fargli esercitare la facoltà del dubbio, dell’indagine che sfida il giudizio altrui con una parvenza di follia, a fargli sentire l’ululato spettrale di un ricordo paterno che chiede vendetta, a fargli sentire il sapore del sangue, ma…
“Morire…dormire…nient’altro. E con un sonno porre fine agli strazi del cuore e alle mille naturali battaglie che eredita la carne. È una fine da desiderarsi devotamente. Morire, dormire; dormire, sognare forse”[7].
Babsi è stanca. Dorme. Forse è morta. E io raccolgo la sua eredità, scrivendo in sua vece un’ultima lettera. Nella stanza, Thelonious Monk echeggia, rimbomba, rimbalza. Sulle note di Round Midnight immagino di tediarlo mentre organizza le vacanze di Natale. E traccio poche parole su un foglio immacolato: “Si fotta, Direttore. Felice anno nuovo”.
[1] “Grazie!” in serbo.
[2] “Prego!” in albanese.
[3] P. Valéry, La Crisi della coscienza europea, 1919
[4] W. Shakespeare, Amleto, atto IV, scena IV
[5] Babsi Jones, Sappiano le mie parole di sangue, pag. 102
[6] W. Shakespeare, Amleto, atto IV, scena II
[7] W. Shakespeare, Amleto, atto III, scena I