In Appunti di Lettura

Questo libro senza di te, lettore, non gira

di Luca Iori

Non ho ancora finito di leggere Ulisse, e un po’ me ne vergogno. Ho scoperto durante questa lettura collettiva che ci sono persone che addirittura si vantano di non averlo mai aperto. Mi è sembrato sciocco, non tanto per il posto che ha nella storia della letteratura, ma perché più di altri questo è un testo che chiede al lettore una collaborazione che può sconfinare nella devozione. Questo è un libro che senza di te lettore non gira, è una macchina i cui ingranaggi sono per terra smontati e se non funziona è perché non sei capace di rimetterli assieme. Com’è strano in un tempo in cui tutto compete per la nostra attenzione sbattere la faccia contro un testo che, al netto delle note e delle guide di lettura, rimane segreto, quasi ostile.

Prendiamo il capitolo terzo. Seguendo i rimandi all’Odissea, sappiamo che si può chiamare Proteo, e che il riferimento è alla storia di Menelao che riesce ad acchiappare il dio multiforme e a farsi predire il futuro. In Ulisse, Stephen passeggia sulla spiaggia di Sandymount assorto nei suoi pensieri, un turbine che va da Aristotele a una caccola secca attaccata su di una roccia. Questo spezzone di trama è insignificante, e la verità è che non sappiamo ancora niente, e va anche bene perché più avanti riassunti e schemi saranno ancora meno d’aiuto, tanto da far sospettare a un profano come me che Joyce si stia sbellicando dalle risate mentre manda il suo all’amico Linati.

Tocca quindi cominciare, come uno che vuol salire su una scala a cui mancano i primi tre pioli. Allora con Stephen chiudiamo gli occhi e sentiamo le conchiglie che crepitano sotto ai nostri piedi. Sto entrando nell’eternità lungo la spiaggia di Sandymount? Non lo so, ma ti sto dietro, anche se per farlo devo arrampicarmi per una teologia oscura e immaginare un giro da certi parenti ubriaconi che poi deciderai di non fare. Vai più piano, vorrei dirti. Ma tu sei già a Parigi, a rievocare il tuo periodo da studente morto di fame interrotto dal telegramma “Mamma morente torna a casa papà”. Non è necessario esserci stati per immaginare «Parigi all’aspro risveglio, crudo sole sopra le sue vie color limone» bastano i frammenti che si compongono leggendo, è come guardare in un caleidoscopio. Il getto di vapore di caffè, i mozziconi di dialogo in francese. La sabbia bagnata che riporta ancora una volta alla realtà, in modo ritmico, ondeggiante. La paura per un cane che ti viene incontro e a cui invece non interessi tu, ma la carcassa gonfia di un suo simile. Chissà se è per via di quel gonfiore che poi si arriva a San Tommaso, il pancione Aquinate. Amore e morte e poi infine pensieri sconnessi, gli stessi che potrei fare anche io, una persona qualunque. Preoccuparsi per i propri denti, per un fazzoletto che non si trova. Attaccare una caccola a una roccia.

Finisco su quella caccola abbastanza frastornato. Non sono sicuro di aver capito proprio tutto, eppure non mi sembra di aver perso tempo. È come in quella canzone dei Magnetic Fields che dice «Tu hai bisogno di me, come il vento ha bisogno degli alberi per soffiarci dentro, come la luna ha bisogno della poesia», e dalla voce con cui queste cose vengono dette si capisce benissimo che il cantante sa che non è vero, che il vento basta a sé stesso e che la luna delle nostre poesie non sa che farsene. Eppure è così bella l’illusione di un libro che ha bisogno di te per esistere.