di Matteo Caputo
Molti anni dopo la sua morte, di fronte al plotone di esecuzione dei critici militanti, lo scrittore Gabriel Garcia Marquez si sarebbe ricordato di quel remoto pomeriggio del 1999 in cui aveva letto, lasciando a bocca aperta il pubblico della Casa de America di Madrid, il primo racconto di un libro che stava scrivendo…
Sono passati due lustri da quando “Gabo” ci ha lasciati un po’ più soli. E quest’anno, nel giorno del suo compleanno – il 6 marzo –, esce per Mondadori “Ci vediamo in agosto”, il suo ultimo romanzo, con la traduzione d’autore di uno che, con lo spagnolo, ha un lungo e curioso passato, raccontato in un articolo di qualche tempo fa su Le parole e le cose: Bruno Arpaia.
Sull’interessante avventura del testo e sulla sua ricostruzione – a volte le storie hanno una propria storia che è altrettanto affascinante – vi rimando alla nota finale del curatore, Cristobal Pera, allegata in traduzione alla fine del volume, assieme ad alcune stupende riproduzioni dei fogli che l’autore stesso correggeva o faceva correggere da Monica Alonso, la sua segretaria.
Il breve romanzo narra la storia di Ana Magdalena Bach, madre e moglie cinquantenne che vive un matrimonio tutto sommato felice con Domenico Amaris, direttore del Conservatorio Provinciale. La protagonista, assecondando la richiesta della madre morente di voler essere seppellita in un’isola caraibica, torna ogni 16 agosto a visitarne la tomba, ripetendo ossessivamente lo stesso rituale. Sullo sfondo di un mondo che cambia e si adatta sempre più alla modernità, Ana Magdalena si concede una sola notte di passione con uomini ogni volta diversi, per tornare infine dal marito – che ama e che a propria volta la ama, si legge nel romanzo. A differenza dei primi anni, quando gli incontri avvengono in maniera totalmente accidentale, ad un certo punto la casualità nel concedersi ad un uomo in quel preciso giorno di metà agosto finisce per tramutarsi in necessità, mostrando così quanto si affidi ad un ordine più il caso che le direttive della volontà. La frustrazione che la difficoltà nel reiterare questi incontri con il fascino delle prime volte causa alla protagonista finisce per perforare lo strato di un amore privo di sofferenze. Sarà a questo punto che, nel finale, la donna, che porta con sé lo stesso nome della seconda moglie di Bach, prende una decisione inaspettata e carica di risvolti, soprattutto emotivi.
In questo racconto fanno capolino tutti i temi che percorrono senza tregua l’opera di Garcia Marquez, a partire dalla solitudine: una solitudine che è, ancora una volta, incomunicabilità. Col marito, con la figlia che vuole monacarsi, con il primo uomo che, scambiandola per una prostituta, le lascia venti dollari tra le pagine di Dracula. E dunque, come già accaduto ad alcuni personaggi femminili precedenti dello stesso autore, c’è una volontà attiva, consapevole, quasi di una sensibilità contemporanea diremmo, di aggredire l’ineludibile disegno del destino, che l’aveva prima di tutto indotta a piangere di rabbia contro sé stessa per la disgrazia di essere donna in un mondo di uomini.
In ciò è la forza e la novità di un libro su cui pesa l’assenza di un imprimatur da parte del suo autore: una protagonista come solo centro della storia. Una donna che consapevolmente decide di tradire per nient’altro che un briciolo di vita più intensa del normale. Non ha alibi e non ne cerca: ogni 16 agosto è una diversa corda pizzicata sul proprio cuore per ascoltare il suono che ne viene fuori. Del resto, tutto il romanzo, percorso da incessanti richiami alla musica, è una partitura composta da tante variazioni sul tema. A caratterizzare il ritorno del quasi uguale, infatti, troviamo i numerosi elementi che fanno da contrappunto alla ciclicità della situazione: dall’uomo con cui la protagonista si ritrova a letto, al libro che in quel preciso giorno sta leggendo, per finire ai tanti richiami al mondo della musica.
Tuttavia, non a caso abbiamo parlato di ciclicità: è un termine – o, per meglio dire, un’idea – con il quale il lettore di Gabo ha parecchia familiarità. Il tempo, molto spesso, anche in una storia piuttosto lineare e priva di notevoli salti temporali nel futuro o nel passato come questa di cui stiamo parlando, non è lineare. Non c’è un termine verso cui il cronometro del mondo viaggia, non un termine realmente ultimo, né divino, né tantomeno personale, dato che la morte, come abbiamo visto, non è un impedimento al continuare ad agire in vita. Lo dice e lo pensa bene Ursula, la protagonista più grande di Cent’anni di solitudine:
“Cosa volete farci,” mormorò [José Arcadio Segundo], “il tempo passa.”
“È vero,” disse Ursula, “ma non così tanto.”
Appena Ursula l’ebbe detto, si rese conto di aver dato la stessa risposta che aveva ricevuto dal colonnello Aureliano Buendìa nella sua cella di condannato, e ancora una volta rabbrividì constatando che il tempo non passava, come lei aveva appena ammesso, ma girava in tondo.
Una presa di consapevolezza simile è quella di Ana Magdalena che, a un certo punto, illuminando con la mente i lati più oscuri della vita della madre, si rende conto che “non si sentì triste, ma animata dalla rivelazione che il miracolo della sua vita fosse aver continuato quella di sua madre morta.”
Ma il destino piega pure la volontà più granitica: ad Ana Magdalena, sempre più incapace di onorare con costanza e decenza il suo personale 16 di agosto, non resta che una soluzione, quella di portare con sé le ossa della madre per una nuova sepoltura, per spezzare la propria maledizione e polverizzare la propria immagine riflessa:
Allora Ana Magdalena vide sé stessa nella cassa aperta come in uno specchio a figura intera, con il sorriso gelato e le braccia incrociate sul petto. […] Non soltanto la vide com’era stata in vita, con la sua tristezza inconsolabile, ma si sentì vista da lei dalla morte, amata e pianta da lei.
Nelle crescenti recensioni si legge, con una certa sensazione di entusiasmo smorzato e di aspettative deluse, che questo non è certo il miglior romanzo di Gabo. Ma la domanda che qui sorge spontanea è: perché avrebbe dovuto esserlo? Perché un autore – soprattutto un Nobel – è costretto ogni volta, pure dal regno dei morti, a scrivere un capolavoro? È una cosa che cozza con la logica. E cozza anche con la volontà (tradita) dell’autore di non pubblicarlo, con la sua effettiva incapacità di rivederlo tenendo a mente il quadro completo, con la sua distanza – tutta da dimostrare per la verità – dalle sue opere più note. Del resto, c’era da aspettarselo: come dice lo stesso Arpaia, nella sua Introduzione al secondo volume di Opere narrative dei Meridiani, “bel problema, aver scritto appena quarantenne nientedimeno che Cent’anni di solitudine”. Che non sarebbe stata la sua opera migliore, in fondo, ce ne eravamo resi conto dal suo carattere di “scarto”. Ma ciò non toglie che stiamo parlando di uno scarto che vale la pena leggere col gusto con cui, dell’autore di Aracataca, si legge tutto il resto. Un ultimo incontro con un caro amico, un’ultima notte di passione con un vecchio amore: ecco come dovremmo accogliere questo gradito regalo consegnatoci, come fossimo in un romanzo di Gabriel, da un tempo e un mondo che non riusciamo ad afferrare.
Gabriel Garcia Marquez
Ci vediamo in agosto
trad. di Bruno Arpaia, Milano, Mondadori, 2024
€ 16,62