In La Seconda Repubblica delle Lettere

Settimana Pasolini – Fenomenologia di una morte annunciata. Qualcosa su Riccetto e gli altri

di Francesca Bellucci

Pasolini si è nutrito delle corse che fa assieme ai “paraguletti” lungo le strade dissestate delle borgate romane, le vie di quell’Eden che ha così tanto di terrestre da essere una sorta di diario in terza persona.

Della maggior parte dei personaggi non conosciamo i loro nomi anagrafici ma solo quei soprannomi che fungono da vere e proprie cicatrici. Ci fa strano ascoltare il nome del Riccetto e del Lenzetta, perché non ce l’aspettiamo, perché Claudio Mastracca e Alfredo di Marzi, per noi e per il loro contesto non sono nessuno. Potrebbero essere un Claudio e un Alfredo qualunque in tutta Roma e in tutta Italia, ma sono perfettamente riconoscibili a loro stessi e agli altri nel loro essere Riccetto e Lenzetta. E lì dove il nomignolo o il soprannome manca, ecco che il nome quasi si fa manifesto di una fine annunciata. Lo vediamo in Marcello, il primo dei ragazzi di vita costretto ad abbandonare la vita. Lo stesso Marcello che nella corsa al Ferrobedò scavalca il cadavere di una donna per riempire il sacco, Marcello che cerca il Riccetto poco prima della catastrofe del crollo della scuola elementare in cui abitano, che porta con sé un senso di amicizia infantile che difficilmente rivedremo nel romanzo.

Lo stesso avviene per Genesio, un biblico, che ha in sé il valore di nascita, di creazione e che muore nelle acque sporche del fiume attraverso una sorta di purificazione al contrario che non rigenera ma distrugge. L’ultimo capitolo sembra essere costruito per finestre su ognuna delle quali è scolpito un nome, non il nome anagrafico dei personaggi, ma il loro nome di vita; le finestre di uno stesso palazzo, quello che, correndo, inciampando e scappando, i ragazzi di vita hanno salito e sceso fino a questo momento. Quel palazzo diroccato, che poi sono le borgate romane, sempre in movimento e chiassoso, per quella caciara che vige dentro e fuori le sue mura che, ancora una volta, è fatta di grida, di corse, di caccie animalesche alla vita. Le storie dei ragazzi di vita si intrecciano, formano un insieme di nomi che racchiude, in un solo quadro, tutto quel che Pasolini racconta fino a quel momento.

Sin dal suo incipit Pasolini utilizza un termine specifico per descrivere il contesto narrato: la caciara. Ragazzi di vita è un romanzo in movimento e rumoroso, anzi è il romanzo del movimento e del rumore, proprio perché tutto è corsa e chiasso. La caciara delle borgate romane veste i ragazzi di vita, che investono, a loro volta, delle sue connotazioni tutti gli spazi che occupano. Nella caciara un urlo di gioia si sovrappone ai pianti,  nella caciara si perdono le urla delle bravate e quelle di un corpo, come quello del Piattoletta che sta per prendere fuoco e si configura come un rito della sopraffazione, un’esaltazione della bestialità e la distruzione di un tessuto nato lacerato, quello dell’umanità intesa come affiliazione e compartecipazione (totalmente inesistenti, oltre la linea dell’utilitarismo) all’interno di uno spaccato di vita che, pur essendo ontologicamente unificato, genera separazione. Se l’unione generata dalla fame è lo status quo della caciara, la sopraffazione generata da quella stessa fame è la condizione necessaria del ragazzo di borgata.

Tolte le indicazioni anagrafiche che dà Pasolini, i personaggi, che si materializzano al di fuori del romanzo assumendo una corporeità fisica, non rispettano la divisione della vita di stampo pedagogico tipica della borghesia, ma sin dai primi anni di vita son permeati dalla cifra dell’età adulta: la vita come problema. La loro vita è un problema, quello dei soldi, di un’abitazione precaria, della fuga dalle borgate pericolose, dagli strepiti delle madri; il problema della morte pende sulle loro teste. Si tratta di vite così scosse dai tremiti della sopravvivenza che la stasi della morte altro non è che un impiccio secondario, un corpo da scavalcare per guadagnarsi una mezza piotta. È in questa visione, a cui il ragazzo di vita è educato, che egli perde la sua età e ogni tempo è uguale all’altro; i problemi dell’adolescenza sono gli stessi dell’età adulta: non c’è alcuna ascesa, il ragazzo di vita è buttato nella vita, lotta tanto col coetaneo quanto con l’adulto.

Nella tramatura sociale dei ragazzi di vita il richiamo principale ed anche il più brutale è proprio il rapporto con la morte, che nell’ultimo capitolo si estende a macchia d’olio su Riccetto e sul lettore che corre con i personaggi, che entra nella caciara e poi si ritrova di fronte al più assordante dei silenzi.

Sin dal primo capitolo Pasolini ci fa vedere personaggi svezzati dalla morte proprio perché in bilico sull’asse di una sopravvivenza che assume tratti animali.

Quando nel secondo capitolo muore un amico del Riccetto, Pasolini ci dà un quadro chiarissimo della morte borgatara: il nulla totale. La morte, finché non ti investe, è solo una cosa che capita, meglio se agli altri: fortuna tua che oggi non è toccata a te.

La morte degrada l’amicizia, snatura il legame parentale (specie con la madre) e soprattutto ci dà una precisa visione di quel valore che è dato alle vite degli altri al di fuori della propria: in un contesto sociale in cui, se necessario, mors tua vita mea, l’uomo, a prescindere dalla sua età anagrafica, si fa compagno quando serve a sopravvivere. Nel ragazzo di vita due sono le influenze che la morte può avere su di lui, casualità a lui estranea o mezzo per giungere a un fine. A dimostrazione di quanto l’ultimo capitolo non chiuda, ma socchiuda le storie, si apre una finestra anche sul Lenzetta, uno dei personaggi cui i rapporti umani, specie quelli familiare, sono tra i più degradati e questa chiosa finale altro non è che perfettamente coerente con quella climax morale discendente che traccia i suoi contorni nel corso del romanzo.

La narrazione della morte di Genesio, per quanto coerente con le altre narrazioni presenti della morte, cioè narrate nel modo in cui sono percepite e quindi quasi buttate lì come se si stesse narrando qualsiasi altro evento vivifico, è una narrazione che crea disagio, che spacca la caciara. Con Riccetto che, come prima reazione, risponde all’istinto umano e morale del prestare soccorso ma scappa come aveva fatto alla bisca, scappa come aveva fatto durante il furto grosso, scappa anche questa volta, ma con le lacrime agli occhi, a lui che al suo primo funerale, proprio quello di Amerigo, veniva da ridere.