In Sesto Potere

Siamo ancora nazionalpopolari (ma Gramsci non c’entra: c’entra Pippo Baudo) – I parte –

di Antonio R. Daniele

Mentre al cospetto di un emiro sbalordito non più che compiaciuto Emiliano Martínez compiva le sue prodezze priapee (Mérimée diceva che “la storia, come un idiota, meccanicamente si ripete”: ecco, se Messi è il predestinato come Maradona, di questa massima il portiere argentino è solo l’idiota), pensavo che quasi trent’anni di tentata rivoluzione mediatica, di sconvolgimenti televisivi, di albe di nuovi giorni, in Italia non sono serviti a nulla: dalle nostre parti è ancora la terna poltrona-pantofola-telecomando a dettare legge. E il telecomando che va per la maggiore è ancora quello cantato da Arbore molti anni fa. Il “popolare” sta ancora lì: tra il telegiornale e il quiz. E tutto quello che prova a mettersi in mezzo finisce come nelle crisi di rigetto di una operazione chirurgica mal riuscita. I recenti mondiali televisivi Rai ne sono stati l’ultima e, forse, definitiva conferma (per inciso, avrete notato che, quando l’Italia non si qualifica, Mamma Rai ci offre il pacchetto intero; altrimenti un malloppetto di partite scelte, chiaramente le più noiose, tra le quali quelle della Nazionale. Tuttavia, c’è di buono che, con questi chiari di luna, possiamo legittimamente sperare nella All Inclusive anche per il 2026). Siamo televisivamente conservativi, anzi retrogradi. E lo siamo con un certo grado di orgogliosa fierezza. Quando nella primavera del 2012 il Digitale Terrestre si spalmò su tutto il territorio nazionale, completammo il celebre “switch-off” con soddisfatto slancio tecnologico: mai più interferenze, una offerta molto più ampia, un palinsesto infinito. Soprattutto, giungeva la grande novità del canale tematico: chi ama il cinema avrà i suoi canali, chi ha bimbi in casa (anche di 40 anni) ne avrà altri e i fanatici dello sport potranno passare 24 ore al giorno su spazi televisivi appositamente dedicati. E così la Rai, che misurava il polso del Paese e sapeva che siamo un popolo di poeti, di navigatori, di santi, di eroi ma anche di lettori della Gazzetta dello Sport che fingono di leggere Proust, aprì non uno ma due canali per lo sport, al 57 e al 58 del Digitale Terrestre. E sembrò a tutti l’inizio di un’altra era: finalmente coloro che consideravano una seccatura dover aspettare un film, un varietà, un quiz, le previsioni del tempo e il telegiornale prima di vedere il grande evento sportivo avevano non uno ma addirittura due canali sui quali la nostra tv di Stato ci avrebbe garantito tutto lo sport in diretta e in chiaro. Quello che vedevamo a spizzichi e bocconi tra un canale e l’altro, quello che intercettavamo tra le pieghe del palinsesto stantio della vecchia tv generalista sarebbe stato spazzato via dalla mirabolante offerta televisiva del 57 e del 58. Ebbene, a dieci anni di distanza si può dire che la rivoluzione è stata mancata. Del tutto. E non soltanto perché coloro che ingenuamente credevano che il 57 e il 58 sarebbero stati il faro di fatti sportivi destinati ad entrare nella storia hanno ben presto capito che la maggior parte del palinsesto sarebbe stato occupato dal curling, dal biliardo (nelle funamboliche varianti della carambola o del pool o dello snooker) e dalle repliche della Domenica Sportiva dei tempi di Alfredo Pigna, ma anche perché gli eventi di maggior richiamo avrebbero riguardato al massimo il calcio della serie C e, quando andava di lusso, un po’ di pallavolo e di pallacanestro. E soprattutto, perché i dati Auditel dicevano che gli italiani non si abituavano e non si volevano abituare al criterio del canale tematico, che riscuoteva un successo modesto, tanto che un paio di anni fa Rai Storia, Rai Movie e Rai Premium hanno rischiato il taglio. Quanto allo sport, lo scarso appeal dei nuovi canali ha riguardato non soltanto il tempo, diciamo così, “ordinario”, ma anche le occasioni dei grandi appuntamenti sportivi. Da quando esiste il DT, abbiamo avuto – solo per restare al calcio – tre campionati del mondo e tre campionati europei: nessuno di essi è stato trasmesso sui canali tematici. La Rai ha preferito offrirli sulle reti ammiraglie/generaliste. O, forse, col tempo ha compreso che i suoi utenti più fedeli, quelli che garantiscono gli ascolti e, quindi, gli inserzionisti che pagano meglio, non stanno sul 57 e sul 58, ma ancora sul “primo” e sul “secondo”. E anche un po’ sul “terzo”. Col risultato, però, che con gli anni Rai Sport 2 è diventato il canale SD rispetto all’altro, passato in alta definizione, fin quando è servito soltanto come riempitivo, per repliche di repliche o per il freestyle e il ciclocross (con tutto il rispetto che si deve, non proprio eventi di portata mondiale) e ora non esiste più: nel piano di riorganizzazione, l’azienda ha dovuto alzare bandiera bianca e riconoscere che quei due canali tematici per lo sport, nati dal convincimento di poter sollecitare la passionaccia degli italiani, creduti esperti di pallone come di polo e di cricket, erano troppi ed erano una spesa inutile. Per cui ora ne abbiamo uno solo che, nel momento in cui scrivo (e da stamattina), sta trasmettendo in esclusiva le repliche del mondiale senza soluzione di continuità. Naturalmente in tutto questo hanno pesato trent’anni di pay tv, da Tele+ a Sky a Dazn, che hanno inciso sia sulle dinamiche di fruizione dello sport più popolare sia sulla sua narrazione. Hanno inciso anche su alcune abitudini degli italiani che parevano eterne: se oggi un ventenne non sa e non è in grado nemmeno di immaginare cosa sia stato il Totocalcio e la “schedina”, cosa volesse dire “montepremi” e fare un “tredici”, lo si deve al fatto che i diritti televisivi ci hanno privato di uno dei cardini della storia mediatica del nostro calcio, ossia la simultaneità dell’intera giornata di campionato. Il 29 agosto del 1993 il primo posticipo ci parve un po’ una bestemmia, un po’ un fenomeno destinato a non durare e al massimo la concessione fatta dalla intoccabile domenica pomeriggio. Fu, invece, uno scisma. Perché a quel primo dogma infranto seguirono molti altri fino alla situazione attuale in cui praticamente si gioca tutti i giorni e a tutti gli orari tranne la domenica pomeriggio. Così il Totocalcio, che fondava la sua fortuna sulla possibilità di incolonnare 13 pronostici esatti fino al sabato sera e all’ultima ricevitoria aperta, è affogato nello spezzatino delle piattaforme. E sono sparite (o sono in forte declino o si sono dovute “ripensare” se non proprio rivoluzionare) anche storiche trasmissioni. “Quelli che il calcio” ha resistito finché ha potuto: già molto cambiata rispetto alla rutilante versione di Fazio (indubbiamente la migliore) e passata a essere un varietà in cui il calcio era un pretesto (ma in cui il calcio esisteva ancora), è diventato un programma non più collocabile nel palinsesto perché anche quel minimo pretesto (almeno tre o quattro partite in programma la domenica pomeriggio) è venuto meno. “90° minuto” da tempo non è più il programma che dava le prime immagini e le prime trepidazioni agli italiani. Anche Mediaset ha dovuto rinunciare alla simpatica “corrida” di Piccinini e Mughini perché ben presto non ha avuto più senso allestire un salotto per parlare di partite giocate tre giorni prima e sulle quali avevano già detto tutto Caressa e i suoi accoliti, con giacca e senza giacca. E poi Mangiante, Trevisani, Marchegiani, Adani. E tutta la corte dei miracoli dei “Dilettanti” Dazn (intesi come Diletta e i suoi colleghi, ça va sans dire…), tra una storia e un reel.

(qui la II parte: https://www.letterazero.it/siamo-ancora-nazionalpopolari-ma-gramsci-non-centra-centra-pippo-baudo-ii-e-ultima-parte/)