di Maila Cavaliere
Mi sono avvicinata alla scrittura di Tommaso Pincio leggendo il suo Diario di un’estate marziana, finalista al Campiello, pubblicato da Giulio Perrone editore. Ho amato molto quel libro. L’ho trovato un incontro diacronico e lievemente distopico tra due intellettuali poco irregimentati (Pincio, che lo ha scritto, e Flaiano a cui il libro è dedicato) in una Roma provvisoria, insidiosa e traballante. Poi, come mi succede non di rado, sono accadute strane coincidenze che sembravano proprio volermi accompagnare alla scoperta di questo autore. Rileggendo il libro di Emanuele Trevi, Senza verso. Un’estate a Roma, per esempio, e rileggere non è una pratica usuale, nel mio compulsivo esercizio della lettura come processo accumulativo, vi ho trovato con sorpresa dei riferimenti a Tommaso Pincio e alla minuscola casa che abitava, per esempio.
Quasi di fronte al civico 15 di via Tasso, oggi ingresso del Museo Storico della Liberazione di Roma, si affaccia la finestra della casa di un altro amico, una casa di piccolezza ormai leggendaria, tanto più che M.C., in arte Tommaso Pincio, non ama particolarmente le visite, e vivendo al primo piano può conversare facilmente alla finestra, sporgendosi un poco come il cucù di un orologio artigianale. Lo si può spesso incontrare mentre arranca verso casa in bicicletta su per via Boiardo_ sembra sempre sul punto di rimanerci stecchito, e invece ce la fa sempre. Nella sua minuscola casa M.C., in arte Tommaso Pincio, e Bart Simpson sul citofono, a ulteriore confusione dei suoi simili, ha composto un libro molto breve intitolato Lo spazio sfinito, una specie di romanzo i cui protagonisti si chiamano Jack Kerouac e Marilyn Monroe, ma non hanno niente a che vedere con il Kerouac e la Marilyn Monroe di cui tutti sanno, sono semplicemente omonimi.
E allora, a parte la curiosità che monta per la mini casa e per il libro di personaggi e universi paralleli, compresi i nomi d’arte e sui citofoni, nella mia continua ricerca di senso dico: -“È un segno.”
Di lì a poco vengo a sapere dell’uscita del nuovo numero della rivista LINKIESTA curata da Nadia Terranova. Contiene, tra gli altri, un racconto di Pincio. Lo compro. E leggo il racconto intitolato Una magia oscura e atroce. L’autore si propone, nel testo, di ricostruire anche il suo “lungo e irrisolto rapporto con la fotografia”.
E ci riporta al tempo apparentemente antico delle fotografie ignare, attese, immaginate che, tra lo scatto e la luce, attraversavano il giogo tremendo e lungo dello sviluppo del rullino, quella magia oscura e atroce, appunto, che fermava il tempo e imprimeva la vita o, forse, la predava.
La lettura di questo racconto e di un post precedente che lo aveva, in un certo senso, introdotto, in cui Pincio raccontava il fatale passaggio, nel mondo contemporaneo, dall’ incantato al magico, in una inesorabile traduzione semplificata in cui tutto sembra accadere facilmente e senza sforzo, mi ha fatto venire in mente numerose suggestioni letterarie dei miei anni di Università che sono tornate su come un reflusso notturno in un incontinente cardiale.
Lo dico con nostalgia, e non con amarezza, per ciò che ho abbandonato, per gli anni trascorsi a fare così tante altre cose collaterali. Così dopo la lettura in tarda serata di Una magia lunga e atroce, forse anche per i luccichii della K in copertina, ho sognato Michel Tournier, tra le mie letture per la tesi di laurea sul Doppio, la sua goccia d’oro e i suoi pastori berberi vampirizzati dalla fotografia ma anche Roland Barthes e il ruolo inquietante e divino che attribuiva al dagherrotipo.
Dico: -“ È un segno.”
Allora decido che è tempo di approfondire meglio la “questione Pincio” e mi metto a leggere con interesse ed entusiasmo Il dono di saper vivere,un libro diverso dal solito, dove, non in un racconto di sé, non in una biografia (del Caravaggio), non in un romanzo, non in un saggio, Tommaso Pincio fa raccontare la storia a un narratore che dal carcere si interroga se anche a lui, come al Gran Balordo,artista maledetto, e in fondo a tutti noi, difetti il dono di saper vivere.
E mentre mi viene in mente Gesualdo Bufalino de Le menzogne della notte e i suoi condannati, sospesi in un tempo immobile e bugiardo, voci di luoghi ipertestuali, a un certo punto leggo ne Il dono di saper vivere: Scopo dell’arte è vampirizzare il mondo. Gli artisti sono il suo esercito di succhia sangue e sognano tutti l’inestinzione.
Ho un sussulto. Mi torna in mente la fotografia, quella magia oscura e atroce di cui avevo letto e che aveva provocato il ritorno acido e incontrollato delle antiche (sic!) letture universitarie di Barthes e Tournier e il profilo armonico della scrittura di Bufalino che cuce con sapienza passati e presenti. E penso: _” Accidenti, è un segno”.
E mentre ormai sono persuasa che questo autore è proprio nelle mie corde e mi convinco che esista una trama sottilissima e invisibile che conduce inesorabilmente all’incontro con una certa letteratura in un determinato tempo e non in un altro qualsiasi, proprio quando serve a incidere quel solco nelle nostre vite, proprio quando serve entrare a gamba tesa nella fumosa idea di mondo che intendiamo rendere meno opaca, mi imbatto in un passaggio che mi lascia senza parole:
“Dio, quanto non sopporto la sciocca mania di vedere segni nelle cose. Una degenerazione tutta umana”.
E io continuo a vederne, degenerata che non sono altra. Ditemi se non è un segno, questo!
A questo punto il mio senso per i libri, acuito dall’eccitazione della singolare ricerca, opta, nel recupero à rebours dell’universo narrativo di Tommaso Pincio, per la lettura di Un amore dell’altro mondo,uscito per Einaudi nel 2002 e ripubblicato nel 2014 con una nota in postfazione dello stesso autore.
Occorre dire in premessa- e non per rendervi edotti dei fatti miei che immagino quanto poco possano interessarvi- che in questo particolare periodo della mia vita, mi sono avvicinata alle regole e alle deroghe della scrittura del sé in un percorso personale di metalessi e mise en abyme. Ne ho tratto un’idea meno ingenua e più ampia delle possibilità della scrittura autobiografica, dell’uso della voce e della persona, che non deve essere necessariamente la prima e che non racconta per forza la verità ma solamente la verità della storia.
Potete perciò comprendere quello che ho provato quando, dopo aver letto un libro singolare in cui Kurt Kobain, il suo amico immaginario, il suo amore, l’insonnia, le droghe e la disperazione si intrecciano magistralmente, a pag. 317 della nuova edizione, Tommaso Pincio scrive con una chiarezza e una sintesi di cristallina e disarmante bellezza che si fa vera e propria dichiarazione di poetica:
Molti dei fatti narrati in questo romanzo appartengono al dominio esclusivo della finzione o sono stati alterati in misura tale da non rappresentare alcuna verità biografica, semmai esiste qualcosa del genere. […] Per farla breve questa è una tipica opera di mescolamento di realtà e finzione, ovvero l’effetto di un’attitudine che ad alcuni potrà anche sembrare disdicevole ma che è comunque vecchia quanto la civiltà umana. […] Volevo cioè che il lettore sentisse che la sua storia, o meglio la storia che sente sua o perché crede di conoscerla o perché l’ha già letta altrove, fosse profanata, disturbata dalla presenza di un intruso.
Tutto ciò mi impone di non segnare un preciso confine tra la terra che ho inventato e quella a cui ho attinto […] Reale o fittizia che sia, la scrittura di un romanzo comporta sempre uno stato di allucinazione ed empatica esaltazione nel quale è molto facile perdersi e dove il confine che separa la realtà condivisa dal mondo da tutto il resto è un limite confuso e sdrucciolevole.
La formula della “non rappresentazione di una verità biografica” riverbera facilmente l’ “autobiografia di fatti non accaduti “ della scrittura di Walter Siti tesa a minare l’indifferenza del lettorema si collega chiaramente alla letteratura intesa come menzogna, secondo l’idea di Giorgio Manganelli e ancora a Gesualdo Bufalino che precettava animatamente :
“Siano le sentenze che scrivi categoriche e inattendibili a un tempo. Piuttosto soprusi di romanziere che presunzioni di verità”.
Nella scrittura di Tommaso Pincio, tra contaminazioni e suggestioni fantastiche, attriti di generi, originali rispecchiamenti, il fine intreccio tra ordito pittorico e trama letteraria, dove il primo “si ritrae” (nella doppia accezione del termine) e la seconda sopraggiunge a sostenere col segno grafico la parziale rinuncia a dipingere con i pennelli, tout se tient, avrebbe detto Ferdinand de Saussure (o forse, il suo allievo Meillet) che, ora che ci penso, ha indagato a fondo significante e significato e dunque, signori, il segno!
Bibliografia minima
Tommaso Pincio, Diario di un’estate marziana, Giulio Perrone editore, 2023
Tommaso Pincio, Il dono di saper vivere, Einaudi Stile Libero, 2018
Tommaso Pincio, Un amore dell’altro mondo, Einaudi Stile Libero, 2002 e 2014
Walter Siti, Troppi paradisi, Einaudi, 2008
Francesca Giglio, Una autobiografia di fatti non accaduti. La narrativa di Walter Siti,Stilo Editrice, 2008
Emanuele Trevi, Senza verso. Un’estate a Roma, Laterza, 2004
Giorgio Manganelli, La letteratura come menzogna, Adelphi, 2004
Gesualdo Bufalino, Le menzogne della notte, Bompiani, 1997
Roland Barthes, La camera chiara, (La chambre claire) Piccola biblioteca Einaudi, 2003 ( prima ed. 1997)
Michel Tournier, La goccia d’oro, (La goutte d’or) Garzanti, 2011 (prima ed. 1995)
Ferdinand de Saussure, Corso di linguistica generale, (prima ed. ital. ) Laterza, 1971 AA.VV (a cura di Nadia Terranova), Linkiesta vol. 6, 2023