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The Viewing Booth, genealogia di un’illusione: sul cinema di Ra’anan Alexandrowicz

di Noemi Narducci

In un mondo polarizzato come quello attuale non è facile imbattersi in una pellicola in grado di smuovere le coscienze, far cambiare un’opinione, modificare un’idea o una percezione. Eppure è esattamente ciò che accade guardando The Viewing Booth, documentario diretto da Ra’anan Alexandrowicz presentato nella categoria Berlinale Forum 2020.

Classe 1969, Alexandrowicz è un regista, sceneggiatore e montatore israeliano giunto alla ribalta internazionale col successo repentino di due documentari: The Inner Tour (2001), in cui il regista scorta un gruppo di palestinesi che torna in patria per la prima volta dalla Nakba del 1948, e The Law in These Parts (2011), un documentario molto provocatorio che ripercorre la stesura delle leggi israeliane redatte per le popolazioni di Gaza e della Cisgiordania dopo la guerra arabo-israeliana nel 1967. Con The Viewing Booth Alexandrowicz cerca di comprendere il dualismo esistente tra apparenza e realtà e per farlo propone una riflessione sull’uso che possiamo fare degli strumenti di informazione e delle testimonianze documentarie.

Siamo sul finire del 2017 quando alla Temple University di Philadelphia il regista accoglie un gruppo di studenti americani in una piccola sala di regia (da cui il titolo) per proporre loro una serie di video. Si tratta di materiale in parte reperito online e in parte raccolto e fornito dalla ONG B’Tselem, un’organizzazione israeliana non governativa impegnata nella documentazione dei soprusi da parte di civili e militari israeliani ai danni dei palestinesi.

Molto presto, tuttavia, l’attenzione del regista si concentra soltanto su una studentessa. L’imperturbabilità e l’esplicito scetticismo della giovane Maia Levy colpiscono così tanto Alexandrowicz da fargli decidere di abbandonare le interviste parallele già previste, per canalizzare esclusivamente la sua attenzione sulle reazioni della giovane. In un’intervista rilasciata al Middle East Eye, Alexandrowicz afferma: «La politica di Maia è radicalmente diversa dalla mia. Allo stesso tempo, è una spettatrice curiosa e critica. Non evita mai le immagini che la mettono a disagio. Rappresenta esattamente il mio spettatore ideale».

Ciò che ne viene fuori è una profonda riflessione su come il contesto sia in grado di determinare e condizionare l’interpretazione del singolo. La particolare struttura del film evoca l’idea di un esperimento sebbene si tratti in realtà di un interscambio dialogico tra due soggetti: una giovane studentessa statunitense di ideologia dichiaratamente filo-israeliana e il regista del film, che ha dedicato tutta la sua carriera al conflitto israelo-palestinese.

Mentre la giovane donna osserva i video all’interno della sala di regia (il viewing booth, appunto), una telecamera montata in corrispondenza dello schermo cattura tutte le sue reazioni facciali. In fin dei conti il regista vuole comprendere in che modo vengono percepite le immagini proposte e per questa ragione sprona la giovane studentessa a verbalizzare contestualmente i suoi pensieri e le sue sensazioni. Fin dai primi momenti le immagini non impressionano Maia. La giovane donna non si scompone quando le milizie israeliane fanno irruzione nel cuore della notte in un’abitazione privata, né quando un ragazzino palestinese viene picchiato e bistrattato da due agenti di polizia. Maia è davvero persuasa che i video siano falsi. È convinta si tratti di falsa propaganda, di video manipolati con lo scopo di produrre un’alterazione sistematica della realtà. Tali reazioni rendono ben chiaro il suo punto di vista e, a differenza degli altri partecipanti, lei osserva con attenzione anche i video più spiacevoli che giudica interessanti e persino “intriganti”.

Per il regista l’obiettivo principale diventa quello di provare a cambiare i convincimenti della giovane, sfaldare le false verità e sviluppare una maggiore consapevolezza nella spettatrice ora divenuta testimone indiretta del conflitto. Tutto questo comporterebbe però l’abbandono di un sistema di valori per lungo tempo condiviso. Per la giovane Maia infatti accettare la veridicità dei video significherebbe mettere in dubbio la sua identità.

È proprio in questa fase del documentario che il tema dei rapporti tra israeliani e palestinesi finisce quasi in secondo piano per lasciare invece spazio a un discorso ben più ampio e universale, incentrato sulle caratteristiche della fruizione di un evento in una prospettiva postmoderna.

Per il regista siamo al culmine del photoshopping e a decine di anni luce da quando lo scopo dei film era quello di creare una verità indelebile. La veridicità dell’immagine è diventata quindi sfuggente: «La narrazione inquina le immagini – dice il regista – costringendo spettatori come Maia a dubitare di qualcosa di così semplice e puro come i video di B’Tselem. La vera sfida che dobbiamo affrontare ora è quella di riappropriarci della verità nascosta dietro le immagini grezze e non manipolate».

È probabile che alla base della disinformazione e delle false verità di Maia risieda un particolare meccanismo cognitivo chiamato pregiudizio di conferma (confirmation bias): gli esseri umani ricercano e selezionano solo le informazioni che confermano le proprie convinzioni e ignorano deliberatamente quelle che le contraddicono.

A tal proposito, lo psicologo Daniel Kahneman nel suo Pensieri lenti e veloci scrive: «Contrariamente alle regole di filosofi della scienza, i quali consigliano di verificare un’ipotesi provando a confutarla, le persone (e molto spesso anche gli scienziati) cercano dati che siano compatibili con le loro credenze del momento. L’inclinazione alla conferma induce la gente ad accettare acriticamente ipotesi e a esagerare le probabilità che si verifichino eventi estremi e improbabili».

Queste parole sembrano confermare perfettamente ciò che accade nel documentario. La giovane Maia, inconsapevole dell’ipocrisia della sua filosofia, trova di volta in volta il modo per giustificare ciò che sta guardando affinché tutto sia conforme ai suoi preconcetti fortemente radicati. Nell’ambiente sociale il pregiudizio di conferma tende quindi ad ostacolare la valutazione pubblica di opinioni e argomenti, a favorire la scarsa credibilità dei mass media, ad agevolare il disprezzo per l’opinione degli esperti e per la polarizzazione e la manipolazione delle opinioni.

Perchè cerchiamo di confermare le nostre credenze? Un’ipotesi di risposta è stata proposta dagli psicologi Hugo Mercier e Dan Sperber: la tendenza alla conferma risiede proprio nel cuore del ragionamento umano. Essa sarebbe dovuta alla necessità di argomentare per comunicare con altri, e dunque alla volontà di affermare se stessi in un confronto dialettico.

In questo contesto il documentario proposto da Ra’anan Alexandrowicz appare frustrante ma al tempo stesso profondamente rilevatore, soprattutto perché è in grado di suscitare molte domande: «Le immagini, come l’arte, sono destinate alla nostra interpretazione personale? In una cultura così abituata alla rappresentazione visiva, può mai essere concesso a qualcuno un momento di distrazione? La politica influenza il modo in cui guardiamo la realtà? Conoscere il retroscena delle persone colpite ha un ruolo nell’interpretazione di un video o una foto?».         

Nel suo documentario Alexandrowicz è riuscito a rappresentare una realtà non binaria nella quale lo spettatore è indotto a porsi domande a cui non sempre corrispondono risposte univoche. Lo spettatore è quindi costretto a confrontarsi con i propri pregiudizi: quelli inerenti alla complessità del conflitto israelo-palestinese e, più in generale, quelli che riguardano tutte le possibili interpretazioni del reale nel nostro quotidiano.